Cassazione Penale, Sez. 6, 19 settembre 2023, n. 38306 - Maltrattamenti fisici e morali all'interno del negozio di parrucchiera. Mobbing verticale


 

 


 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente -

Dott. APRILE Ercole - Consigliere -

Dott. GALLUCCI Enrico - Consigliere -

Dott. PACILLI Anna G.R. - Consigliere -

Dott. DI NICOLA T. Paola - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da:

A.A., nata a (Omissis);

avverso la sentenza del 24 giugno 2022 della Corte di appello di Perugia;

letti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

sentita la relazione svolta dalla Consigliera Paola Di Nicola Travaglini;

sentita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Tomaso Epidendio, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; sentite le conclusioni dell'avvocato Filippo Castellaneta, difensore della parte civile A.A., che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata relativamente alla revoca delle statuizioni civili disposte dal Tribunale con ripristino delle stesse o rinvio al giudice civile, depositando anche nota spese;

sentite le conclusioni dell'avvocato Andrea Valentini, difensore di B.B., che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata, stante l'inammissibilità o l'infondatezza del ricorso, con condanna di A.A. al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.
 

Fatto


1. Il Tribunale di Perugia con sentenza del 17 febbraio 2021 ha condannato B.B., titolare di un negozio di parrucchiera, per il reato di maltrattamenti fisici e morali, aggravati dalla condizione di gravidanza della dipendente, A.A., commessi nel corso del rapporto di lavoro intrattenuto dal 2011 al luglio 2015, data del licenziamento della persona offesa, costituitasi parte civile.

Il giudice di primo grado ha fondato la propria decisione innanzitutto sulla testimonianza di A.A. che aveva riferito che B.B. le si rivolgeva con gratuiti insulti sul suo aspetto fisico, la minacciava di licenziamento se fosse rimasta incinta, le imponeva lavori gravosi ed umilianti, la ingiuriava anche con bestemmie alla presenza delle clienti e delle colleghe. La testimone aveva rappresentato gli effetti traumatici conseguenti alle condotte vessatorie, sopportate per la sua condizione di fragilità economica (era l'unica a lavorare in famiglia, anche con un figlio a carico), conclusesi con il suo licenziamento nel luglio del 2015, dopo che un investigatore privato, appositamente assunto dalla sua datrice di lavoro che le aveva intimato di non tornare nel negozio perchè incinta, aveva rivelato che fosse in prova presso un'altra parrucchiera. Le dichiarazioni di A.A., valutata testimone credibile ed attendibile, erano state confermate dai numerosi testimoni esaminati tra i quali il marito, l'ex compagno ed il padre della persona offesa ma, soprattutto, due clienti abituali del negozio, C.C. e D.D.. La sentenza, invece, aveva ritenuto le testimonianze del marito e del padre dell'imputata del tutto generiche; quelle delle colleghe di lavoro della persona offesa, E.E. e F.F., inattendibili perchè fortemente condizionate dall'essere tuttora dipendenti di B.B.. Infine, la pronuncia del Tribunale del lavoro di Perugia, che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa di A.A., era stata considerata dalla sentenza di primo grado non solo non vincolante nel giudizio penale - non trattandosi di questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ex art. 3, comma 4, c.p.p. - ma utile a riscontrare le dichiarazioni della persona offesa in ordine al mancato pagamento del lavoro straordinario cui era stata costretta.

2. I giudici di appello, con la sentenza impugnata, emessa in base al medesimo materiale probatorio, hanno assolto l'imputata per insussistenza del fatto ritenendo le dichiarazioni della persona offesa incongruenti, sia intrinsecamente che rispetto alle testimonianze assunte, in quanto: A.A. aveva inammissibilmente chiesto a B.B. di lavorare anche durante il periodo di astensione per maternità; il licenziamento era stato ritenuto legittimo dal Tribunale del lavoro visto che dalle investigazioni commissionate dall'imputata era risultato che A.A. nel periodo di astensione lavorava presso un negozio concorrente; la denuncia della persona offesa era avvenuta non solo con ritardo, ma strumentalmente proprio dopo il licenziamento; il mancato versamento degli assegni familiari, che aveva generato conflitti, non era addebitabile alla datrice di lavoro ma all'Inps.

Con riferimento ai testimoni, la Corte di appello ha ritenuto, contrariamente da quanto sostenuto dal Tribunale, che questi non avessero affatto confermato le dichiarazioni della persona offesa, in quanto, da un lato, le due dipendenti, il marito e il padre di B.B. e le clienti dell'attività, G.G. e H.H., avevano riferito di rapporti del tutto normali tra la datrice di lavoro e A.A.; mentre i testimoni dell'accusa avevano rappresentato come il negozio di parrucchiera fosse "assimilabile ad un salotto", in cui ci si recava per stare in compagnia, così apprezzandosi la disponibilità ed il rispetto delle esigenze familiari e relazionali della dipendente.

Anche il messaggio sms del 13 settembre 2017, in cui la persona offesa, peraltro, si scusava con B.B., evidenziava solo una crisi tra A.A. e il marito, causa della sua sindrome ansiosa.

3. A.A., quale parte civile nel procedimento, con atto sottoscritto dal difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, ai soli effetti civili, ai sensi dell'art. 576 c.p.p., deducendo i motivi di seguito indicati.

3.1. Con il primo denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata per il reiterato erroneo riferimento al delitto di atti persecutori e non a quello di maltrattamenti, tanto da travisare il risultato probatorio anche con riferimento ai differenti elementi costitutivi delle due fattispecie, visto che l'art. 612-bis c.p. è un reato di evento, mentre l'art. 572 c.p. è un reato di pura condotta.

3.2. Con il secondo motivo denuncia vizio di motivazione per l'omesso esame degli argomenti contenuti nella memoria difensiva depositata dalla parte civile con pec del 6 giugno 2022 a seguito dell'atto di appello dell'imputata.

3.3. Con il terzo motivo denuncia contraddittorietà della motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni testimoniali rese dalla persona offesa in quanto la sentenza impugnata ha disatteso, enunciandoli, i principi posti a fondamento del giudizio di attendibilità e credibilità spettante al giudice di merito.

Infatti, la Corte di merito ha escluso il movente dei maltrattamenti ritenendo che l'astensione obbligatoria per maternità fosse retribuita, mentre è noto che lo sia solo in parte e che la condizione economica della persona offesa le imponesse di averne una piena tanto da cercare lavoro altrove.

Inoltre, la sentenza, facendo propri gli argomenti dell'atto di appello, ha valutato inattendibile la testimone in quanto la sua denuncia era stata presentata con profondo ritardo ed era strumentale perchè successiva al licenziamento per giusta causa, sebbene A.A. avesse denunciato qualche giorno dopo il licenziamento e nell'immediatezza della contestazione disciplinare del 25 giugno 2015 e non lo avesse fatto in costanza del rapporto di lavoro temendo di perderlo, ciononostante era stata mandata via perchè incinta e, infine, licenziata per giusta causa a seguito delle indagini di un investigatore privato assunto dalla sua datrice di lavoro.

3.4. Con il quarto motivo denuncia vizio di motivazione per travisamento della prova testimoniale stante la valorizzazione delle sole dichiarazioni delle dipendenti F.F. e E.E., del marito e del padre dell'imputata, con sostanziale omissione dell'esame di testimoni disinteressati come C.C. che aveva assistito personalmente alle condotte maltrattanti di B.B. e spiegato che le altre dipendenti non reagivano per evitare conflitti con la titolare.

3.5. Con il quinto motivo deduce vizio di motivazione per travisamento delle dichiarazioni della teste F.F. che aveva riferito sia di avere sentito l'imputata rivolgersi alla A.A. con frasi ingiuriose e umilianti, anche davanti alle altre dipendenti ed alle clienti, sia che la B.B. poteva "perdere il lume", ciononostante la Corte di merito aveva riportato solo la parte della testimonianza in cui F.F. aveva sostenuto di non avere sentito la datrice di lavoro minacciare la A.A. di licenziamento se avesse portato a termine la gravidanza.

3.6. Con il sesto motivo deduce vizio di motivazione per travisamento delle dichiarazioni della teste D.D., cliente del negozio, che aveva riferito delle umiliazioni, degli spintoni e delle bestemmie con cui B.B. si rivolgeva alla sua dipendente, tanto da averle chiesto perchè sopportasse in silenzio ricevendo come risposta la necessità di lavorare per mantenere il figlio. A fronte di questo, la sentenza si era limitata a descrivere il negozio di parrucchiera come "un salotto" in cui i clienti "si recavano per intrattenersi senza fruire dei servizi".

3.7. Con il settimo motivo deduce vizio di motivazione per travisamento della prova costituita dal messaggio sms, inviato dalla ricorrente a B.B., da cui risultava che A.A. protestasse per essere stata licenziata ingiustamente ("ciò non vuol dire che hai fatto bene a licenziare me"), mentre la sentenza aveva valorizzato solo la parte descrittiva dei problemi della dipendente con il marito, a cui aveva attribuito i pregiudizi psicologici descritti, e le scuse a B.B..

I travisamenti probatori avevano determinato l'omissione dei riscontri alle dichiarazioni della A.A., per come argomentati dalla sentenza di primo grado.
 

Diritto


1.II ricorso è fondato.

2. La decisione assolutoria, oggetto di ricorso, concerne il delitto di maltrattamenti nella declinazione del cosiddetto mobbing verticale ovverosia le condotte vessatorie e prevaricatorie poste in essere dal datore di lavoro (o da soggetto gerarchicamente sovraordinato) nei confronti del dipendente-persona offesa.

2.1.Secondo la giurisprudenza di questa Corte, valida anche per le parti civili ai fini delle domande risarcitorie, allorchè venga ribaltata, come nella specie, la condanna di primo grado, in forza del medesimo compendio probatorio, la Corte di appello è tenuta a rispettare il principio di diritto, sancito da Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 secondo cui il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva. In sostanza, il giudice di appello deve spiegare, in modo idoneo e coerente, l'insostenibilità logica della ricostruzione e delle valutazioni effettuate nel precedente grado di merito. Ciò deve avvenire, da un lato, fornendo una compiuta giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado; dall'altro lato, dando conto degli specifici passaggi logici idonei a conferire alla decisione una forza persuasiva superiore rispetto a quella riformata (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 6, n. 14586 del 02/02/2021, Pozza, non mass.; Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056).

A fronte di una sentenza che ribalti la condanna di primo grado l'operazione ermeneutica richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte è data dalla confutazione delle emergenze istruttorie poste dal Tribunale a fondamento dell'opposto assunto, non bastando una parcellizzata lettura del materiale istruttorio che non specifichi le evidenze ritenute decisive.

Applicando questi principi al delitto oggetto di esame, fondato essenzialmente sulle dichiarazioni della persona offesa, il giudice di secondo grado deve concentrare la propria valutazione sui fatti posti a base del contenuto narrativo di questa, vagliandone in modo puntuale la credibilità e l'attendibilità, per poi incrociarli con altre prove di riscontro, ove ve ne siano, e tenendo in doveroso conto di tutte le circostanze concrete della relazione maltrattante e della condizione di supremazia (economica, affettiva, psicologica, ecc.) dell'autore.

2.2. Alla luce di tali principi di diritto devono ritenersi esistenti, nella sentenza impugnata, i profili di illegittimità addotti dalla ricorrente che, comunque, prescindono dalla pur ripetuta confusione tra il delitto di atti persecutori e quello di maltrattamenti.

2.2.1. Sotto il profilo dell'attendibilità, intrinseca ed estrinseca, della persona offesa la Corte di appello conclude per la sussistenza di gravi. incongruenze nelle sue dichiarazioni (pagg. 10-11) senza richiamarne il contenuto, esaminandole in modo generico e frammentario e non ponendole in alcuna relazione con i puntuali riscontri, di carattere sia testimoniale che documentale, esaminati dal giudice di primo grado.

Infatti, la sentenza impugnata, nel ritenere contraddittoria la testimonianza della persona offesa, parte dalla fine e colloca la rottura della relazione fiduciaria tra datrice di lavoro e lavoratrice nel giugno-luglio 2015 quando B.B. aveva rifiutato la proposta della dipendente di potere svolgere la propria attività nel negozio anche durante il periodo di astensione per maternità, così smentendo la "negatività asseritamente esitata in franche condotte di stalking, quali descritte dalla A.A." (pag. 10).

Al di là della poco chiara e criptica relazione tra azione (richiesta della dipendente di continuare a lavorare nonostante la gravidanza) e reazione (rifiuto e licenziamento della datrice di lavoro), oltre che della arbitraria delimitazione dei maltrattamenti denunciati alla sola fase finale del rapporto lavorativo, la sentenza impugnata non prende in alcuna considerazione, nè richiama, la coerente e ampia ricostruzione fattuale, fornita dalla sentenza di primo grado, circa il contenuto delle condotte vessatorie, protrattesi per anni (dal 2011), riferite dalla persona offesa e consistite in umiliazioni ed insulti di B.B. alla presenza di clienti del negozio e colleghe di lavoro della vittima; nell'obbligo di lavorare gratuitamente oltre l'orario previsto; nell'ostacolare in tutti i modi la dipendente a restare incinta e portare a termine la gravidanza minacciandola di licenziamento se questo fosse avvenuto (pagg. 5-6).

2.2.2. La Corte di appello ha omesso l'esame della prova principale, ammettendo di ricercare "una spiegazione alternativa dei fatti" (pag. 11), in assenza, però, del previo accertamento di questi ultimi e del loro essere o meno avvenuti.

Questa erronea impostazione emerge in modo ancor più evidente, come correttamente sostenuto nel terzo motivo di ricorso, nella parte della sentenza in cui viene ritenuta inattendibile la persona offesa sia per il ritardo nella presentazione della denuncia, sia per la ritenuta strumentalità di questa in ragione dell'intimato licenziamento (pag. 10).

Si tratta di questioni tra loro connesse.

Con riferimento al ritardo è opportuno ricordare che solo l'ordinamento stabilisce i termini entro i quali un diritto può essere esercitato davanti all'autorità giudiziaria. Per proporre querela il termine è fissato dall'art. 124 c.p., mentre per la denuncia esso non è stabilito. Ne consegue che il momento in cui detti atti sono presentati - momento peraltro non indicato nella sentenza - non può essere, di per sè, dimostrativo dell'attendibilità o meno di chi adisce le vie legali nei confronti di qualcuno, in quanto delinea solo la finestra temporale riconosciuta per la ponderazione dell'esercizio di un diritto che, specie a fronte di un delitto abituale procedibile di ufficio, quale è quello denunciato da A.A., non prevede termini per richiederne la tutela. Allorchè, invece, il giudice di merito intenda valorizzare il tempo decorso dal reato, rispetto alla presentazione della denuncia o della querela, deve offrire puntuale e specifica motivazione sugli elementi di fatto in forza dei quali giunge alla propria decisione, previo esame della relazione asimmetrica e fiduciaria (o affettiva) tra imputato e persona offesa; delle eventuali ragioni addotte da quest'ultima per pervenire alla propria decisione, e, in ogni caso, della specificità del delitto denunciato quando per esso sia necessario un tempo di elaborazione della scelta in considerazione delle conseguenze che ne potrebbero derivare per la stessa vittima come, nella specie, il licenziamento.

In ordine al secondo profilo di ritenuta inattendibilità della persona offesa, fondato sulla legittimità del licenziamento per giusta causa pronunciato dal Tribunale del lavoro, tale da rendere per ciò solo strumentale la denuncia per i maltrattamenti subiti dalla datrice di lavoro, è opportuno richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati" (Sez. 6. n. 28553 del 18/03/2009, Onori, Rv. 246637; Sez. 6, n. 31413 del 08/03/2006, Riva, Rv. 234855).

Infatti, il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private; mentre il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d'ufficio, che si consuma con l'abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell'accertamento della consumazione del delitto (Sez. 6, n. 8729 del 18/01/2023, A., non mass.; Sez. 6, n. 11733 del 26/01/2023, F., non mass.; Sez. 6, n. 9187 del 15/09/2022, dep. 2023, C., non mass.; Sez. 6, n. 809 del 17/10/2022, dep. 2023, V., Rv. 284107; Sez. 6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M., non mass.).

Peraltro, come sostenuto con puntuali argomenti dalla sentenza di primo grado, nel caso di specie il Tribunale del lavoro per dichiarare legittimo il licenziamento di A.A. aveva svolto una limitata attività istruttoria - diversamente da quella penale - all'esito della quale B.B. era stata condannata a pagare la somma di Euro 2.442,11 a favore della dipendente per l'attività di lavoro straordinario svolto e non retribuito, a riprova proprio dell'attendibilità della persona offesa che aveva indicato l'obbligo, cui era sottoposta, di lavorare gratuitamente oltre l'orario come una delle modalità delle condotte maltrattanti.

La qualificazione della denuncia di A.A. come strumentale, tale da minarne la credibilità, non solo è disancorata dai fatti emersi, visto che B.B. è stata condannata in primo grado alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e al risarcimento del danno; ma ciò che rileva in questa sede è che propone persino un concetto estraneo all'ambito giuridico.

Infatti, una denuncia (o una querela) può essere fondata o infondata, in base in base ad accertamenti giudiziari spettanti soltanto all'autorità giudiziaria e secondo una regola di giudizio indicata dallo stesso legislatore.

Fino alla riforma contenuta nel D.Lgs. n. 150 del 2022 essa era delineata nell'art. 125 disp. att. c.p.p. e disponeva che la notizia di reato era infondata quando "gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio". Oggi il discrimina tra fondatezza ed infondatezza è stato collocato nel codice di procedura penale che all'art. 408 ha modificato la regola di valutazione stabilendo che l'infondatezza, di cui viene fortemente ampliato l'ambito, sussiste "quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di fornire una ragionevole previsione di condanna o di applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca".

Alla luce di questo inequivoco dato legislativo, con cui la sentenza impugnata non si confronta, limitandosi a riportare testualmente, condividendolo, il contenuto dell'atto di appello dell'imputata secondo cui "la lavoratrice decideva... di denunciare strumentalmente la datrice di lavoro", deve concludersi per la grave erroneità dell'enunciazione.

Infine, l'ultimo argomento utilizzato dalla Corte di appello per valutare non credibile la persona offesa concerne la riferita aggressione di B.B. a A.A. come reazione alla richiesta della lavoratrice di ricevere il versamento degli assegni familiari che, secondo la sentenza impugnata, costituisce un movente inattendibile essendo "notorio...che detti assegni avrebbero dovuto essere richiesti all'ente preposto" (pag. 10). Con detto argomento, generico ed errato tanto da non consentire di screditare il contenuto della testimonianza di A.A., il giudice di secondo grado mostra di non conoscere le modalità di corresponsione degli assegni familiari: I ‘INPS li versa al datore di lavoro che a sua volta è obbligato a darli al lavoratore beneficiario che, evidentemente, nella specie non li ha ricevuti come dovuto. Al contrario, e correttamente, la sentenza di primo grado ha ritenuto, in base ad elementi di fatto non contestati dall'imputata, che l'aggressione ed il suo movente costituissero l'ulteriore riprova non solo dell'attendibilità e credibilità della persona offesa, ma anche della stessa condotta di mobbing denunciata.

2.2.3. Il ricorso ha puntualmente censurato la sentenza impugnata anche sotto altri profili: avere obliterato del tutto il contenuto della memoria difensiva depositata dalla parte civile, e, soprattutto, avere riportato in modo gravemente incompleto i dati oggettivi emersi dalle testimonianze assunte in dibattimento, per come evincibili dalla sentenza di primo grado (da pag. 8 a 12), testimonianze che avevano confermato, ed ulteriormente delineato, il contenuto delle accuse di A.A. nei confronti della sua datrice di lavoro.

Senza ritenere le censure riversate in fatto, risulta con evidenza come la Corte di appello abbia fondato, in diversi e decisivi passaggi della motivazione, il proprio convincimento su una parte limitata ed insufficiente del narrato dei testimoni escussi, evidentemente funzionale alla ricerca di "una spiegazione alternativa dei fatti" rispetto a quella riferita dalla persona offesa, tale da disarticolare la coerenza logica dell'intera motivazione per assenza di compatibilità tra le prove e la valutazione di esse.

In particolare, come sostenuto nel ricorso, sono state pretermesse o riportate in modo non completo le testimonianze del marito (pagg. 8-9), dell'ex compagno e del padre della persona offesa (pagg. 10-11), ma anche di due clienti del negozio, C.C. e D.D., prive di relazioni amicali attuali con le parti coinvolte, che avevano riferito nel dettaglio: i frequenti maltrattamenti subiti dalla donna da parte della titolare, alla presenza sia delle colleghe che delle clienti; le espressioni volgari, le bestemmie e le denigrazioni cui era continuamente soggetta anche per il suo aspetto fisico; l'obbligo di lavare i pavimenti in ginocchio nonostante fosse in stato interessante (pag. 8); le minacce di licenziamento o di farla abortire qualora fosse rimasta incinta (pagg. 11-12). Si tratta di testimonianze ritenute attendibili dal Tribunale di Perugia e reciprocamente riscontrate, comunque idonee a fornire "descrizioni puntuali e precise degli episodi di maltrattamento denunciati dalla A.A." (pag. 12).

Al contrario, con riferimento ai testi della difesa, la sentenza di primo grado aveva ritenuto, da un lato, come si fossero limitati a negare, in modo del tutto generico, attriti tra le due donne (in questi termini le dichiarazioni rese dal marito e dal padre dell'imputata, oltre che dalla cliente del negozio I.I.) e, dall'altro lato, avessero riferito circostanze estranee al capo di imputazione (G.G. e H.H.).

A fronte di una così puntuale disamina e valutazione operata dal primo giudice, la Corte di appello, senza offrire una spiegazione dettagliata ed esauriente del contenuto delle testimonianze, sia a carico che a discarico, e in assenza di una rigorosa lettura delle emergenze processuali, ha ritenuto genericamente che le prime avessero descritto il negozio dell'imputata come "un salotto" in cui ci si intratteneva senza fruire di servizi e per andare a trovare A.A., così da dimostrare una disponibilità di B.B. rispetto alla dipendente (pag. 12); mentre le seconde avessero confermato che le relazioni all'interno dell'esercizio commerciale fossero del tutto normali (pag.11).

Infine, con specifico riguardo alle due colleghe della parte civile, la sentenza di primo grado ha dato atto che F.F. avesse riferito di frasi o atteggiamenti duri di B.B., pur ridimensionandoli a battute di poco conto, mentre E.E., anche amica d'infanzia dell'imputata e del fratello, avesse negato radicalmente quanto denunciato da A.A., peraltro esprimendo commenti volgari e gratuiti nei confronti di quest'ultima, tali da confermare, per il giudice di primo grado, il condizionamento derivante dal vincolo di subordinazione che tuttora lega le due testimoni alla datrice di lavoro e la compatibilità delle loro dichiarazioni con il clima di sopraffazione e abusi descritto dalla parte civile valorizzato (pag. 14).

Questo elemento obiettivo, che non ha affatto una valenza marginale nella logica della sentenza del Tribunale proprio in ragione del delitto contestato, da collocare nei rapporti di forza dello specifico ambito lavorativo, non è stato minimamente preso in considerazione dalla sentenza impugnata che, al contrario, ha fondato proprio su dette testimonianze la valutazione di "contraddittorietà" delle dichiarazioni rese dalla persona offesa. Infatti, la Corte di appello si è limitata a rappresentare come le colleghe di A.A. avessero escluso di aver sentito parole offensive o minacce di licenziamento per la sua gravidanza, omettendo il richiamo a quanto dichiarato da F.F. che, pur con portata ridimensionante per le ragioni sopra indicate, aveva comunque ammesso che la datrice di lavoro avesse assunto con la persona offesa un "atteggiamento un pò troppo duro".

5. Gli altri motivi si ritengono assorbiti.

6. In conclusione, la fondatezza dei motivi di ricorso, di per sè idonei ad invalidare la sentenza impugnata, impongono l'annullamento della stessa, limitatamente agli effetti civili, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., con conseguente rinvio al giudice civile competente per valore, in grado di appello, cui è demandato di riesaminare i profili della decisione affetti dai vizi riscontrati e provvedere, altresì, alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità (Sez. U, del 25/05/2023, D.P.D.).

 

P.Q.M.


Annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2023