Cassazione Civile, Sez. Lav., 26 settembre 2023, n. 27363 - Si al licenziamento del capo del personale che tiene un comportamento offensivo ai danni di due lavoratrici


 

Nota a cura di Dui Pasquale, Beccaria Luigi Antonio, in Guida al lavoro, 40/2023, pp. 21-23 "Molestie sessuali e giusta causa di licenziamento"

Nota a cura di Dui Pasquale, in Labor on line, 05.03.2024 "La serialità degli atti di molestie sessuali aggrava comunque il fatto materiale contestato"


Presidente Doronzo – Relatore Caso
 


Fatto



1. Con sentenza n. 2723/2019, il Tribunale di Palermo respingeva l'opposizione che la convenuta Fondazione (omissis) aveva proposto contro l'ordinanza del medesimo Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa che detta Fondazione aveva intimato al proprio dipendente F.F., con lettera del 5.12.2017, applicando in favore dell'attore la tutela di cui all'art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970.

2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d'appello di Palermo, in accoglimento del reclamo proposto dalla Fondazione (omissis) contro la sentenza di primo grado e in riforma di quest'ultima, rigettava il ricorso per impugnativa di licenziamento, depositato per il F. in data 30.5.2018; condannava quest'ultimo alla restituzione dell'indennità ricevuta a titolo di risarcimento del danno patito dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione, con gli interessi legali dalla data della sua pronuncia al saldo; respingeva le ulteriori richieste di rimborso della Fondazione; e condannava il reclamato al pagamento, in favore della Fondazione, delle spese del doppio grado di giudizio, come liquidate per ogni grado.

3. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che nella lettera di contestazione disciplinare del 13.11.2017 erano dettagliatamente descritti i fatti oggetto di addebito, relativi in sintesi: ad un primo episodio, occorso il 26.10.2017, in occasione del quale il F. "avrebbe dato una pacca sul sedere" ad altra dipendente della Fondazione, e a un secondo episodio, ma occorso in precedenza nel mese di luglio 2017, rispetto al quale al F. era contestato di aver commentato che altra dipendente della Fondazione, nell'occasione intenta a fare delle fotocopie, girata di spalle, "data l'età", "aveva un bel sedere e l'ha invitata a girarsi in modo tale da mostrarlo anche al sig......", altro dipendente, "affinché anche lui potesse fare i propri apprezzamenti". Premesso ancora l'iter procedurale che aveva condotto all'intimato licenziamento, la Corte d'appello anzitutto riteneva erronea l'interpretazione della contestazione disciplinare fornita dal Tribunale, e di cui si doleva la Fondazione reclamante, perché detta contestazione “non qualificava giuridicamente i fatti di rilevanza disciplinare in base alla "abitualità o reiterazione della condotta"“. Dopo ulteriori considerazioni di ordine giuridico, la stessa Corte riteneva che l'esito dell'istruttoria conduceva a conclusioni di segno opposto a quello espresso dal Tribunale, e convergenti nel senso della sussistenza della giusta causa del recesso.

4. Avverso tale decisione F.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

5. Ha resistito l'intimata con controricorso e successiva memoria.

 

Diritto



1. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia: "Violazione e falsa applicazione delle previsioni di cui all'art. 18, comma IV, L. n. 92 del 2012 in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. in combinato disposto con le previsioni di cui all'art. 18 L. n. 300 del 1970, come modificato a seguito della L. n. 92 del 2012, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3". Secondo il ricorrente, il giudice d'appello ha errato nella qualificazione giuridica della fattispecie de qua, disattendendo l'interpretazione sistematica delle norme succitate - art. 2119 c.c. e art. 18 L. n. 300 del 1970 - alla luce dell'ormai granitico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto. In particolare, lamenta che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, i fatti allo stesso contestati dovevano ritenersi insussistenti, sia sotto il profilo storico/materiale sia, e soprattutto, sotto il profilo giuridico, e quindi disciplinarmente irrilevanti, ed in ogni caso non integranti una giusta causa di licenziamento; lamenta la mancata dimostrazione, in giudizio, dei fatti a lui ascritti con la contestazione disciplinare e posti a fondamento del licenziamento.

2. Con il secondo motivo, deduce: "Omesso esame, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio, circa l'insussistenza giuridica del fatto contestato, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5" c.p.c. Ivi impugna quei capi della sentenza ove il giudice d'appello ha del tutto pretermesso l'esame della condotta ascrivibile al ricorrente sotto il profilo soggettivo, così come invece emerso in sede probatoria, ritenendo non provato e/o non emerso in sede giudiziale un fatto dirimente ai fini del decidere nella fattispecie che ci occupa.

3. Con il terzo motivo, denuncia: "Violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., in relazione alle previsioni di cui all'art. 33 del CCNL, siglato in data 25 marzo 2014 per i dipendenti delle Fondazioni Lirico Sinfoniche in combinato disposto con l'art. 2.2. lett. g) e con l'art. 6 del Codice Etico della Fondazione (omissis), in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3". Per l'impugnante, il giudice d'appello non ha fatto buon uso dei canoni vigenti nell'interpretazione delle norme succitate in riferimento alla fattispecie in esame. Lamenta, in specie, sia la violazione delle regole di ermeneutica e, in particolare, quella che impone di applicare in via prioritaria e prevalente il senso letterale delle parole, sia l'affermata sussunzione, ad opera dei giudici di secondo grado, della fattispecie concreta alle previsioni di cui agli artt. 2.2. lett. g) e 6 del Codice Etico della Fondazione (omissis), così come accertata dal giudice di merito in base alle prove e allegazioni delle parti.

4. I tre motivi di ricorso, essendo all'evidenza tra loro connessi, possono essere congiuntamente esaminati.

4.1. Essi sono in complesso infondati.

5. Rispetto al primo motivo, giova premettere che la Corte d'appello, disattendendo l'interpretazione del Tribunale secondo il quale "la contestazione nel suo complesso appare, quindi, fare riferimento a condotte reiterate di molestia", dopo aver riportato quasi integralmente il contenuto testuale della lettera di contestazione disciplinare (cfr. pagg. 3-5 della sua sentenza), aveva osservato che le circostanze elencate, con la loro collocazione temporale e una serie di riferimenti, tutte unitamente e disgiuntamente considerate, erano rilevanti sotto il profilo della lesione del vincolo fiduciario e andavano dunque valutate per il loro disvalore sociale.

La Corte precisava che la contestazione non connotava gli episodi accaduti come "molestia" - sia essa "generica" o "sessuale", riportandoli, invece, senza alcuna loro qualificazione giuridica - nè ne sottolineava l'illiceità, con la conseguenza che risultavano inconferenti non solo tutte le considerazioni svolte in sentenza in ordine alla loro irrilevanza penalistica, ma anche, dal punto di vista giuslavoristico, la circostanza che la dipendente non avesse proposto denuncia in sede penale.

5.1. Nello sviluppo del primo motivo, il ricorrente ritiene tale assunto non condivisibile, e sostiene che: "Non vi può essere allora dubbio sul fatto che la Fondazione abbia inteso contestare condotte abituali e reiterate".

Sennonché, tale critica in parte qua è inammissibile in questa sede in una duplice prospettiva.

In primo luogo, come si è visto, la diversa interpretazione di quanto contestato fornita dalla Corte territoriale si fonda anzitutto sul testo della lettera di contestazione disciplinare del 13.11.2017, non mancando di dare conto dell'iter procedurale che aveva preceduto la stessa contestazione, nonché di considerare il tenore degli artt. 2.2. lett. g) e 6 del Codice Etico, richiamati in tale nota di contestazione.

Pertanto, per censurare utilmente in questa sede l'interpretazione data dalla Corte d'appello anzitutto alla nota datoriale di contestazione, quale atto unilaterale, avrebbe dovuto allegare quali canoni legali di ermeneutica la stessa Corte avrebbe violato.

5.2. In secondo luogo, il ricorrente contrappone una propria interpretazione della contestazione disciplinare a quella data dalla Corte d'appello, sostanzialmente adesiva a quella che aveva fornito il Tribunale, vale a dire, quella motivatamente disattesa nella sentenza qui impugnata; il che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.

6. Nell'esposizione del primo motivo, il ricorrente assume ancora che, secondo la Corte d'appello, non avrebbe alcuna rilevanza quale significato il lavoratore abbia inteso attribuire alla propria condotta - se abbia inteso dare una pacca sulla schiena o abbia invece mirato proprio a colpire il sedere di una delle colleghe dipendente, se abbia agito con intento goliardico, oppure con concupiscenza e malizia -, nè conta come le stesse dipendenti, presunte vittime delle condotte contestate, abbiano valutato tali condotte e quale gravità le stesse abbiano attribuito.

Secondo lo stesso, quindi, la stessa Corte avrebbe ignorato l'orientamento, ormai granitico, che richiede, al fine di stabilire la rilevanza disciplinare di un addebito disciplinare e, dunque, l'esistenza - o meno - di una giusta causa di licenziamento, che il giudice sia tenuto a vagliare tanto l'aspetto oggettivo quanto quello soggettivo, come l'intenzionalità, il grado più o meno accentuato di colpevolezza, la necessità di dimostrare il dolo o la colpa dell'agente, non potendosi quindi prescindere da una valutazione complessiva delle circostanze concrete in cu si realizza la condotta contestata.

6.1. Analogamente, nello svolgimento del secondo motivo, si deduce che si è data "prova che nessuna volontà di attingere proprio la parte che risulterebbe essere stata colpita, ossia il posteriore della dipendente R., abbia animato il lavoratore nel porre in essere la condotta contestata", e in ciò consisterebbe il fatto decisivo per il giudizio, e controverso tra le parti, che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare.

6.2. Orbene, anche tali considerazioni sono in realtà innanzitutto aliene dall'effettiva motivazione resa dalla Corte di merito su tali aspetti.

In primo luogo, infatti, quanto all'episodio del 26.10.2017, detta Corte ha accertato che effettivamente il F. aveva dato una pacca sul sedere della collega, “non un "palpeggiamento", ma nemmeno una pacca sulla schiena” (cfr. in extenso pagg. 9-11 della sua sentenza).

In secondo luogo, la stessa ha ritenuto “che le altre circostanze contestate con riferimento a detto episodio, lungi dal valere a "qualificarlo nelle intenzioni del F. che lo aveva posto in essere e descrivere le reazioni della lavoratrice che lo aveva subito, senza potere di per sé costituire condotta neppure in astratto disciplinarmente rilevante", come reputato dal Tribunale, denotano, invece, le finalità tutt'altro che goliardiche e cameratesche del gesto ricondotto ad una "confidenza fra colleghi", e la condizione, invece, di profonda mortificazione della....” (cfr. in extenso pag. 10 della sentenza).

In relazione sempre al primo episodio contestato (ma successivo in ordine di tempo, come già notato), relativo alla R., la Corte palermitana osservava che "l'obiettiva offensività della condotta non è in alcun modo da collegare a ciò che il F. possa aver detto successivamente all'accaduto, ma da valutare per la volgarità dei gesti compiuti dallo stesso - anche in relazione al ruolo da costui rivestito - nella prospettiva del datore di lavoro che viene a conoscenza di simili "attenzioni" verbali e fisiche verso le proprie dipendenti, nonché per la contrarietà alle basilari norme della civile convivenza e dell'educazione".

6.3. Contrariamente, perciò, a quanto asserito dal ricorrente, i giudici d'appello hanno indagato anche l'elemento soggettivo delle condotte addebitate, di cui senz'altro è stata ritenuta la volontarietà (cfr. le conclusioni definitive sui "gesti" accertati a pag. 18 dell'impugnata sentenza).

La Corte territoriale, inoltre, aveva considerato inverosimile la spiegazione fornita dal F. al Tribunale circa la parte del corpo della collega (ossia, la schiena) che egli avrebbe inteso attingere con una "pacca" (cfr. pag. 11 della sua sentenza).

Per altro verso, la Corte di merito da precise evidenze processuali ha ricavato "come non possa ragionevolmente sostenersi che tra persone, il cui rapporto è connotato da assoluta formalità (es. F./R.) ovvero dalla totale assenza di atteggiamenti confidenziali (es. F./D.), si possa essere instaurato quel clima cameratesco che avrebbe originato (e "scriminato") le condotte del F. ".

Secondo la Corte, perciò, "i protagonisti degli eventi all'origine del licenziamento non erano camerati volontariamente inclini ad intrattenere uno scherzo "pesante", bensì un Capo del Personale - pure Responsabile della Prevenzione e Corruzione e Responsabile della Trasparenza - e due sottordinate che a costui si rivolgevano dando del lei e con il rispetto dovuto ad un soggetto in posizione di superiorità gerarchica".

Infine, la Corte territoriale ha valutato eclatante l'"offensività delle condotte contestate, perché una mano sul fondoschiena o l'invito a mostrare il "sedere giovanile" non possono certo considerarsi "rispettosi" della dignità di persona e della professionalità delle due lavoratrici - non avvezze a ricevere simili, sgradite, attenzioni che, infatti, avevano loro suscitato imbarazzo e umiliazione - intente a disimpegnare i compiti loro affidati, da cui discende la loro rilevanza ai fini disciplinari".

6.4. In definitiva, la Corte distrettuale ha considerato tutti gli aspetti sui quali torna il ricorrente, compreso quello relativo alla pretesa assenza di prova relativa all'elemento volitivo in capo all'incolpato, avendo ritenuto invece provata la "volontarietà" dei gesti addebitati allo stesso, e non mancando di tener conto anche di come quei "gesti" fossero stati vissuti dalle due lavoratrici coinvolte.

D'altronde, i primi due motivi di ricorso per il resto sono tesi nel proporre una diversa lettura delle risultanze processuali, il che non è consentito in questa sede.

7. Parimenti infondato è il terzo motivo di ricorso, dal punto di vista della pertinenza rispetto a quanto considerato dalla Corte territoriale.

7.1. Assume, infatti, l'impugnante che quest'ultima, nel riformare la sentenza del Tribunale di Palermo, avrebbe "ritenuto che, non solo che nel caso di specie fosse riscontrabile una condotta concretante gli estremi di una giusta causa di licenziamento disciplinarmente rilevante, ma anche come la stessa fosse passibile di licenziamento in applicazione delle previsioni di cui all'art. 33 del CCNL di Categoria,... in combinato disposto con quanto previsto dal Codice Etico... di cui si era dotata la Fondazione... ed in particolare con le norme di cui all'art. 2.2, lett. g) e 6, oltre che di quelle previste dal successivo art. 10, lett. a) e lett. b)".

7.2. Tale punto di partenza di tutte le considerazioni svolte dalla difesa del F. nel motivo ora in esame non è, però, aderente alla motivazione resa dalla Corte palermitana.

Questa, infatti, ha piuttosto dato conto delle varie disposizioni di CCNL e del cit. Codice Etico, indicate nella contestazione disciplinare, e ne ha riferito testualmente taluni contenuti salienti (cfr. pagg. 4-6 della sua sentenza).

Inoltre, ha osservato che la contestazione disciplinare "non richiamava esclusivamente gli artt. 2.2. lett. G e 6 del Codice Etico, come ritenuto dal Tribunale per escluderne la violazione quale conseguenza dell'inesistenza della supposta abitualità della condotta di molestie, ma citava espressamente anche gli artt. 10 lett. a, e 10 lett. b del Codice Etico, nonché la delibera Consiglio di Indirizzo n. 2 dell'1.12.2016", ed ha riconsiderato il contenuto degli ora cit. artt. 2.2. lett. g) e 6 del Codice Etico (cfr. pagg. 7-8).

Come si è già posto in luce, la Corte distrettuale aveva ritenuto che i fatti addebitati dovevano essere "valutati esclusivamente per il loro obbiettivo disvalore sociale".

7.3. Non è affatto vero, dunque, che detta Corte avrebbe ritenuto che la condotta del lavoratore incolpato fosse stata ritenuta "passibile di licenziamento in applicazione" del combinato disposto degli articoli richiamati dal ricorrente e, segnatamente, dell'art. 33 CCNL del settore.

La Corte di merito ha esposto un ragionamento del tutto diverso.

In sintesi, con riguardo all'art. 10 lett. a) e b) del Codice Etico (riportato in sentenza), ha di nuovo considerato quanto rappresentato nella contestazione disciplinare, e cioè che: "i fatti...sono certamente contrari al Codice Etico... viepiù considerato che la S.V. in qualità di Capo Ufficio del personale ha l'obbligo espresso di adoperarsi per il mantenimento di un clima interno rispettoso della dignità e della personalità individuale dei dipendenti/collaboratori..."; "si aggiunga che la S.V. quale Responsabile della Prevenzione e Corruzione e Responsabile della Trasparenza... riveste un ruolo di garanzia specifica in relazione alla concreta ed effettiva applicazione delle norme e dei principi di cui al Codice Etico".

Ha sottolineato, allora, che: "È disciplinata, dunque, una specifica attività di segnalazione (delle violazioni alle norme di comportamento del codice etico, integranti gli obblighi contrattuali, di rilevanza disciplinare), proprio al Responsabile della prevenzione e corruzione (il F.) che le ha disattese, con esternazioni sulla "sculacciata" appena data, ovvero sul "bel sedere giovanile", di donne-lavoratrici a lui sottoposte, commentandole, proprio come i militari di una "camerata", con altri dipendenti, ed invitando costoro ad esprimere, a loro volta, i loro apprezzamenti".

7.4. Del resto, la Corte d'appello circa l'art. 33 del CCNL di settore s'era limitata a notare che esso punisce "con il licenziamento senza preavviso tutti i casi in cui la violazione sia talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto lavorativo, con una norma di apertura rispetto a tutte quelle condotte non espressamente individuate", e il ricorrente non attribuisce un diverso significato a quella previsione collettiva (cfr. pagg. 32-33 del ricorso).

Piuttosto, il ricorrente, ancora una volta, in tale censura propone un differente apprezzamento della gravità della condotta, sostenendo, tra l'altro, che non sarebbe "emerso alcun nocumento, in fatto, all'organizzazione lavorativa della Fondazione direttamente riconducibile al Dott. F.". Così esprimendo una propria valutazione qui non consentita, che non riguarda l'interpretazione di disposizioni collettive e/o del Codice Etico della Fondazione, e trascurando, inoltre, che la Corte di merito aveva osservato che:

"Tale irrimediabile lesione del vincolo fiduciario è consequenziale anche ed in specie al peculiare ruolo di Capo del personale rivestito dal F., ed alle connesse responsabilità, e dal venir meno di quel sereno affidamento circa la corretta esecuzione dei compiti affidatigli, in ragione dell'atteggiamento irrispettoso manifestato verso le lavoratrici e dell'ambiente professionale del teatro in cui tale figura apicale deve sapere correttamente relazionarsi con le dipendenti siano esse amministrative (come la D. ) o appartenenti all'area artistica (come la R.)", soggiungendo che: "Le condotte censurate hanno, poi, compromesso l'organizzazione del lavoro all'interno della Fondazione anche in ragione del comprensibile turbamento delle relazioni gerarchiche che il F. , sovraordinato, doveva intrattenere con gli altri dipendenti".

8. Il ricorrente, pertanto, in quanto soccombente, dev'essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.

 

P.Q.M.
 


La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e c.p.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.