Cassazione Civile, Sez. 3, 07 novembre 2023, n. 31010 - Caduta mortale a causa del cedimento di una parete fatiscente del ristrutturando edificio 



 


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -

Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere -

Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere -

Dott. GORGONI Marilena - rel. Consigliere -

Dott. ROSSELLO Carmelo Carlo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA



sul ricorso n. 5374-2021 proposto da:

EDIL GAM Srl UNIPERSONALE, in persona del rappresentante legale p.t., A.A., e da A.A. in proprio, rappresentati e difesi dall'avvocato MASSIMO DELLA PELLE, pec: avmassimo.interfreepec.it;

- ricorrenti -

contro

B.B. COSTRUZIONI Srl , in persona del rappresentante legale p.t., C.C., rappresentata e difesa dall'avvocato GIULIANO MILIA, pec: avvgiulianomilia.puntopec.it;

- controricorrente -

e nei confronti di:

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI Spa in persona del procuratore ad negotia, D.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MERCURI 8, presso lo Studio MILIA, pec: avvgiulianomilia.puntopec.it;

- controricorrente -

e nei confronti di:

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI Spa in persona del procuratore ad negotia, D.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MERCURI 8, presso lo Studio dell'avvocato PAOLO GEMELLI, rappresentata e difesa dall'avvocato ERNESTO TORINO-RODRIGUEZ;

- controricorrente - e nei confronti di:

E.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MERCURI 8, presso lo Studio dell'avvocato PAOLO GEMELLI, rappresentato e difeso dall'avvocato SARA D'INCECCO;

- controricorrente - nonchè nei confronti di:

F.F., e G.G., rispettivamente, coniuge e figlio di H.H., nella qualità di suoi eredi ed aventi causa, elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE GORIZIA 2, presso lo Studio dell'avvocato ALBERTO JANNONI SEBASTIANINI, rappresentati e difesi dagli avvocati PAOLO DI GIOVANNI, e PAOLA DI PALMA;

- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 1103/2020 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata in data 04/08/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 25/09/2023 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

 

Fatto


F.F. e G.G., rispettivamente, moglie e figlio di H.H., convenivano, dinanzi al Tribunale di Pescara, la società Edil Gam di A.A. & Co., A.A., I.I., E.E. e la B.B. Costruzioni Srl , al fine di ottenerne la condanna, in via solidale, al risarcimento di tutti i danni, iure proprio e iure hereditario, derivanti dalla morte di H.H., muratore alle dipendenze della Edil Gam Sas caduto nel vuoto, mentre era intento ad operare su un ponteggio metallico, per causa del cedimento di una parete fatiscente del ristrutturando edificio sito in (Omissis), di proprietà della B.B. Costruzioni Srl , su cui un altro operaio, precipitato a sua volta e deceduto immediatamente, stava effettuando una gettata di calcestruzzo;

il Tribunale di Pescara, con la sentenza n. 109/2016, in accoglimento parziale della domanda attorea, condannava la società Edil Gam, A.A., responsabile dei lavori e socio accomandatario della Edil Gam, e I.I. coordinatore della sicurezza, a corrispondere, a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali, a F.F. la somma di Euro 203.613,86, al netto degli accessori di legge, e quella di Euro 164.233,62 a favore di G.G., rigettava la domanda nei confronti di B.B. Costruzioni Srl , di E.E., direttore dei lavori e progettista delle opere strutturali in cemento armato, e dei terzi chiamati - UnipolSai Assicurazioni, già Aurora Assicurazioni Spa e di L.L., chiamato in causa dalla ditta B.B., quale direttore di lavori sul cantiere - regolava le spese di lite e di Ctu;

la Corte d'appello di L'Aquila, con la sentenza n. 1103/2020, investita del gravame, in via principale, da Edil Gam e da A.A., e, in via incidentale, da F.F. e da G.G. nonchè da B.B. Costruzioni Srl , ha rigettato l'appello principale e quello incidentale di F.F. e di G.G., ha accolto l'appello incidentale di B.B. Costruzioni ed ha condannato, per l'effetto, F.F. e G.G. alla rifusione per intero delle spese del giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale, ha poi regolato le spese di lite del grado;

avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione, basato su nove motivi, Edil Gam Srl unipersonale e A.A.;

resistono con separati controricorsi B.B. Costruzioni Srl , UnipolSai Assicurazioni Spa E.E., F.F. e G.G.;

la trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'art. 380-bis 1 c.p.c.;

il Pubblico Ministero non ha depositato conclusioni scritte;

parte ricorrente ha depositato memoria con cui si riporta al ricorso;

F.F. e G.G. hanno illustrato il controricorso con memoria.

 

Diritto



1) con il primo motivo, rubricato "Nullità della sentenza e del procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4) e violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 164 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)", i ricorrenti denunciano l'errato rigetto del motivo di appello con cui avevano eccepito la nullità dell'atto di citazione di primo grado per violazione dell'art. 164 c.p.c., in quanto non era stata indicata la misura del risarcimento richiesto, ma era stata formulata solo una domanda di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale iure hereditario e iure proprio, sprovvista di ogni elemento idoneo alla determinazione del danno, con rimessione integrale alla valutazione del giudice; ciò avrebbe reso impossibile - secondo la prospettazione addotta - l'approntamento di una valida difesa, essendo l'oggetto della domanda - il petitum mediato - risultato assolutamente incerto (così Cass. n. 13328/2015), a nulla valendo il tentativo ex post degli attori di sanare la lacuna dell'atto di citazione con la comparsa conclusionale, perchè detto comportamento avrebbe concretizzato un'ulteriore violazione del loro diritto di difesa costringendoli a confrontarsi con domande nuove e diverse da quelle iniziali;

il motivo non merita accoglimento;

deve ricordarsi innanzitutto che la nullità della citazione, ai sensi dell'art. 164 c.p.c., comma 4, (nel testo, qui applicabile ratione temporis, successivo alle modificazioni apportategli dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 9), postula la totale omissione o l'assoluta incertezza dell'oggetto della domanda, che non ricorre quando il petitum, inteso sia sotto il profilo formale come provvedimento giurisdizionale richiesto che sotto l'aspetto sostanziale come bene della vita di cui si chiede il riconoscimento, sia comunque individuabile attraverso un esame complessivo dell'atto introduttivo del giudizio, non limitato alla parte di esso destinata a contenere le conclusioni, ma esteso anche alla parte espositiva (cfr., anche di recente, Cass. 14/07/2023, n. 20387);

proprio in applicazione di tali principi deve escludersi che la Corte territoriale sia incorsa nel vizio attribuitole;

con un'articolata motivazione, supportata da pertinenti richiami giurisprudenziali (cfr. soprattutto p. 5) e dalla specifica confutazione delle censure dei ricorrenti (a p. 6 si contesta la pertinenza dell'invocazione del principio di diritto di cui a Cass. n. 1681/2015), il giudice a quo ha escluso che nella fattispecie esaminata la richiesta risarcitoria fosse stata genericamente formulata - non mettendo nè il giudice nè il convenuto in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio chiedesse il ristoro - e/o tamquam non esset - non facendo sorgere in capo al giudice il potere-dovere di provvedere - così come statuto da Cass., Sez. Un., n. 11533/2004 e dalla giurisprudenza di legittimità successiva; ciò perchè era stato "espressamente richiesto il risarcimento del danno conseguente alla morte del prossimo congiunto sia iure hereditario sotto forma di danno biologico e morale patito dal de cuius iure proprio specificando che l'importo, nelle more corrisposto dalla compagnia di assicurazione della Edil Gam Srl , di Euro 113.620,52... non fosse satisfattivo del pregiudizio patito" e perchè la liquidazione del danno non avrebbe potuto che essere equitativa, a nulla rilevano l'utilizzabilità delle tabelle, "di conseguenza le prerogative della esatta individuazione del petitum della domanda devono ritenersi... nell'indicazione delle ragioni poste a fondamento della domanda risarcitoria";

tale statuizione è corretta in iure e in totale sintonia con l'orientamento di questa Corte; nulla hanno addotto i ricorrenti che conduca ad una conclusione di segno diverso; infatti, la loro censura, per come prospettata, si incentra essenzialmente sul fatto che gli attori non avessero indicato la misura della richiesta risarcitoria, accompagnata da una generica doglianza in ordine alla violazione del loro diritto di difesa, e non già sul fatto che non avessero supportato la proposizione di una domanda risarcitoria con allegazioni non "limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, produttiva di danni nella sfera giuridica di chi agisce in giudizio" che includessero "anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e/o non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo l'attore mettere il convenuto in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall'assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo" (in termini: Cass. 18/01/2012, n. 691);

2) con il secondo motivo vengono dedotti l'omesso e insufficiente esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 112 c.p.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., 1 comma, n. 3;

attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d'appello ha ritenuto inammissibile la deduzione della responsabilità di M.M., preposto di Edil Gam Srl ma non evocato in giudizio, e delle altre parti convenute in giudizio, qualificando detta argomentazione difensiva come una domanda riconvenzionale trasversale incorsa nella decadenza processuale ed escludendo finanche la possibilità di prenderla in considerazione come eccezione riconvenzionale finalizzata a impedire l'accoglimento delle domande avversarie;

alla Corte d'appello si imputa di avere operato "una non corretta ricostruzione della distinzione tra domanda riconvenzionale ed eccezione fondata sul titolo posto a base della difesa della parte, invece che sull'oggetto di essa o, se si preferisce, sulla struttura invece che sulla funzione di essa", limitando l'ampliamento del thema decidendum da parte del convenuto, in contrasto con ogni disposizione normativa;

segnatamente, i ricorrenti negano di aver formulato una domanda riconvenzionale trasversale e sostengono, ex adverso, che - a fronte della chiamata in giudizio anche di I.I., di E.E., di C.C., rispettivamente, coordinatore della sicurezza, direttore dei lavori per le opere in cemento armato, legale rappresentante della committente, cui si era aggiunto N.N. chiamato in causa dalla ditta B.B. - avevano proposto un'eccezione riconvenzionale con cui avevano inteso paralizzare la domanda attorea nei loro confronti con conseguente richiesta di accertamento della responsabilità in capo agli altri chiamati: eccezione che, non ampliando la sfera dei poteri cognitori del giudice come determinati dalla domanda attorea, non era soggetta ad alcuna preclusione processuale ed era spendibile anche in appello;

aggiungono che, quand'anche quella proposta fosse stata una domanda riconvenzionale inammissibile per le ragioni indicate dal giudicante, quest'ultimo avrebbe dovuto considerare i fatti posti a suo fondamento, già insiti nella loro linea difensiva, "nella più limitata ottica dell'eccezione" diretta ad impedire l'accoglimento della domanda avversaria;

di qui la censura mossa al giudice a quo di essere incorso nella violazione dell'art. 112 c.p.c.;

2.1) il motivo è da dichiarare inammissibile;

2.1.2) la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha chiarito che la domanda riconvenzionale è stata respinta per il suo contenuto innovativo, non avendo i ricorrenti mai dedotto in precedenza - sì da consentire il contraddittorio sul punto e, quindi, l'esercizio del diritto di difesa - che gli altri convenuti avessero la responsabilità esclusiva dell'incidente; sul punto - si legge in sentenza - i ricorrenti non hanno fornito argomenti per superare l'eccezione di inammissibilità sollevata da tutti gli appellati: "nel corso del giudizio ed anche negli scritti difensivi finali gli appellanti non hanno introdotto elementi in grado di superare la censura sollevata dalle controparti persistendo (anche mediante il richiamo a precedenti giurisprudenziali in sede penale) nel ritenere il ruolo centrale in tema di responsabilità per infortunio sul lavoro alla parte committente, nel dedurre che il direttore dei lavori è comunque titolare di una posizione di garanzia, legata al committente da un rapporto fiduciario, titolare di specifici obblighi di vigilanza e controllo sul corretto andamento dei lavori...in particolare, in conclusionale si sono limitati a dedurre l'assenza di profili di violazione dell'art. 345 c.p.c. sull'assunto che con il gravame proposto si è inteso riproporre questioni già introdotte in primo grado. Tale considerazione, tuttavia, non può rilevarsi idonea a paralizzare l'obiezione principale secondo cui in primo grado alcuna domanda è stata proposta dagli odierni appellanti al fine di far valere la responsabilità esclusiva delle altre parti convenute";

ne consegue che alcun rilievo assume nella fattispecie per cui è causa il diverso tema delle modalità di proposizione della domanda riconvenzionale trasversale su cui questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi più volte, affermando, da ultimo, che "Nel processo civile, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, conseguente alla novella di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353 e successive plurime modifiche e integrazioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di altro soggetto, pure convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, facendo a tal fine istanza con la comparsa di risposta tempestivamente depositata a norma degli artt. 166 e 167 c.p.c. e procedendo quindi ai sensi dell'art. 269 c.p.c., previa richiesta al giudice di differimento della prima udienza allo scopo di provvedere alla citazione dell'altro convenuto nell'osservanza dei termini di rito" (Cass. 12/05/2021, n. 12662);

non giova ai ricorrenti riqualificare la richiesta di condanna dei terzi come eccezione riconvenzionale, perchè il suo contenuto - la responsabilità esclusiva degli altri convenuti e del terzo chiamato da uno di essi - esorbita da quello della eccezione riconvenzionale, avvalendosi della quale il deducente non può tendere a conseguire una utilità pratica (l'attribuzione ad altri della responsabilità risarcitoria per cui è stato chiamato in giudizio) diversa da quella consistente a ottenere la reiezione della domanda avversaria;

la distinzione tra domanda ed eccezione riconvenzionale, insegna la giurisprudenza di questa Corte, non dipende dal titolo posto a base della difesa del convenuto, ma dal relativo oggetto, vale a dire dal risultato processuale che lo stesso intende con essa ottenere, che è limitato, nel secondo caso, quello dell'eccezione riconvenzionale, al rigetto della domanda proposta dall'attore; solo in tale ipotesi, che però non ricorre nel caso di specie, non sussistono limiti al possibile ampliamento del tema della controversia da parte del convenuto, il quale può allegare fatti o rapporti giuridici prospettati come idonei a determinare l'estinzione o la modificazione dei diritti fatti valere dall'attore, ed in base ai quali si chiede la reiezione delle domande da questo proposte e non una pronunzia di accoglimento di ulteriori e diverse domande (per tutte cfr. Cass. 05/03/2019, n. 6318);

2.1.3) la censura di violazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile;

anzitutto e in via assorbente, per il limite di deducibilità del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in presenza di c.d. doppia conforme (art. 348-ter c.p.c., commi 4 e 5, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134): al fine di evitare tale conclusione, parte ricorrente avrebbe dovuto, confrontando le ragioni di fatto poste a fondamento della decisione di primo grado con quelle poste a base della sentenza di rigetto del gravame, dimostrarne la diversità: il che nel caso di specie non risulta avvenuto;

in ogni caso, quand'anche il vizio fosse stato deducibile, se ne sarebbe dovuta egualmente dichiarare l'inammissibilità: le censure, infatti, mancano di evidenziare un "fatto storico" e decisivo, il cui esame sia stato omesso;

3) con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli art. 2697 c.c. e dell'art. 116 c.p.c. in relazione alle prove documentali ed orali nonchè alle risultanze della CTU, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, per non avere il giudice a quo escluso la loro responsabilità o almeno attribuito loro quote di responsabilità inferiori rispetto a quanto statuito dal Tribunale;

3.1) il motivo non può essere accolto in tutte le sue articolazioni;

3.1.2) un motivo denunciante la violazione dell'art. 2697 c.c. si configura effettivamente e, dunque, dev'essere scrutinato come tale solo se in esso risulti dedotto che il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull'onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l'onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni. Viceversa, allorquando il motivo deducente la violazione del paradigma dell'art. 2697 c.c. non risulti argomentata in questi termini, ma solo con la postulazione (erronea) che la valutazione delle risultanze probatorie ha condotto ad un esito non corretto, il motivo stesso è inammissibile come motivo in iure ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4 (se si considera l'art. 2697 c.c. norma processuale) e ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3 (se si considera l'art. 2697 c.c. norma sostanziale, sulla base della vecchia idea dell'essere le norme sulle prove norma sostanziali) e, nel regime dell'art. 360 c.p.c., n. 5 oggi vigente si risolve in un surrettizio tentativo di postulare il controllo della valutazione delle prove oggi vietato ai sensi di quella norma (giusta Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054);

3.1.3) nè può utilmente invocarsi la violazione del paradigma dell'art. 116 c.p.c. allo scopo di lamentare l'esito dell'apprezzamento delle prove da parte del giudice di merito, non essendo incasellabile detta censura nè nel paradigma del n. 5 nè in quello del n. 4, non trovando di per sè alcun diretto referente normativo nel catalogo dei vizi denunciabili con il ricorso per cassazione;

3.1.4) infine, oltre ad incorrere nella preclusione processuale di cui all'art. 345 ter c.p.c., la denuncia dell'omesso esame, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può riguardare tout court la CTU - atto processuale che svolge funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), fonte di prova per l'accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente) - in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il "fatto storico", rilevato e/o accertato dal consulente; sarebbe stato necessario evidenziare quale "fatto storico" decisivo fosse stato omesso nell'esame condotto dai giudici di merito e non limitarsi a denunciare una omessa valutazione delle risultanze della CTU (Cass. 24/06/2020, n. 12387);

4) con il quarto motivo - indicato come III a) - i ricorrenti ascrivono alla Corte d'appello l'erronea valutazione della sentenza penale nel processo civile con riferimento alle assoluzioni degli altri soggetti chiamati a risarcire i danni in relazione agli artt. 75, 88, 652 e 654 c.p.p., avendola considerata vincolante nonostante la insussistenza delle tre condizioni - pronuncia della sentenza in esito al dibattimento, costituzione di parte civile del danneggiato o possibilità di costituirsi come tale, proposizione della domanda risarcitoria nei confronti dell'imputato o di altro responsabile civile partecipante al giudizio - che, secondo il combinato disposto degli artt. 75, 88, 652 e 654 c.p.p., come inteso dalla giurisprudenza di questa Corte, consente di considerare l'assoluzione ottenuta in sede penale ragione di per sè sufficiente per escludere la responsabilità civile, a prescindere dalle risultanze probatorie del giudizio civile compresa la Ctu;

il motivo è inammissibile, perchè non coglie la ratio decidendi della pronuncia impugnata;

la Corte d'appello ha infatti preso in considerazione non già la sentenza penale di assoluzione degli altri coimputati al fine di confermare la responsabilità a fini risarcitori di O.O., ma la sentenza con cui quest'ultimo aveva patteggiato la pena di nove mesi di reclusione;

la Corte territoriale quanto agli effetti di detta sentenza nel giudizio civile ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte, citando la pronuncia n. 20170 del 30/07/2018, la quale ha ricostruito i tre indirizzi giurisprudenziali seguiti questa Corte regolatrice: a) il primo è quello fatto proprio dalla odierna ricorrente e ha trovato espressione ad esempio, tra le più recenti, in Cass. 18/12/2017, n. 30328; Cass. 24/05/2017. 13034; Cass. 02/03/2017, n. 5313; Cass. 29/02/2016, n. 3980; b) il secondo orientamento ritiene invece che la sentenza di patteggiamento non inverta affatto l'onere della prova, ma costituisca un semplice "elemento di convincimento" liberamente apprezzabile dal giudice, e dunque in sostanza un mero indizio: poichè la sentenza di patteggiamento è solo equiparata ad una pronuncia di condanna "e, a norma dell'art. 445 c.p.p., comma 1-bis, non ha efficacia in sede civile o amministrativa, le risultanze del procedimento penale non sono vincolanti, ma possono essere liberamente apprezzate dal giudice civile ai fini degli accertamenti di sua competenza": in termini Cass. 06/12/2011, n. 26250 (in senso analogo cfr. Cass. 11/05/2007, n. 10847; Cass. 24/02/2004 n. 3626; Cass. 06/05/2003 n. 6863); b1) in seno a tale orientamento, si rinvengono, tuttavia, anche decisioni che, pur formalmente qualificando la sentenza di patteggiamento un mero indizio, lo ritengono poi così rilevante, da giungere ad affermare che "il giudice non può disattenderlo senza motivare" (Cass. 06/12/2011, n. 26263; Cass. 19/11/2007 n. 23906); c) il terzo orientamento, infine, ritiene che la lettera dell'art. 444 c.p.p. sia chiara e non consenta nessuna interpretazione manipolatrice, pertanto esclude, sulla base dell'interpretazione letterale, che la sentenza penale di patteggiamento possa costituire una ammissione di responsabilità e nega che possa avere qualsiasi efficacia vincolante o probatoria nel processo civile: "non può farsi discendere dalla sentenza di cui all'art. 444 c.p.p. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile" (Cass. 12/04/2011, n. 8421; Cass. 22/11/2017, n. 27835; Cass. 29/03/2006, n. 7196); ed ha poi concluso che la sentenza penale di patteggiamento:

a) nel giudizio civile di risarcimento e restituzione non ha efficacia di vincolo, non ha efficacia di giudicato e non inverte l'onere della prova;

b) non è un atto, ma un fatto; e come qualsiasi altro fatto del mondo reale può costituire un indizio, utilizzabile solo insieme ad altri indizi e se ricorrono i tre requisiti di cui all'art. 2729 c.c.;

le osservazioni che precedono non implicano però la negazione di ogni valenza alla sentenza penale di patteggiamento, non solo come atto giuridico (il che è corretto, perchè "come atto giuridico, la sentenza penale di condanna può produrre nel giudizio civile di danno solo gli effetti stabiliti dalla legge: sicchè, se la legge nega a quell'atto effetti vincolanti o preclusivi, la sentenza penale è giuridicamente irrilevante come atto), ma anche come fatto storico, atteso che "la celebrazione d'un giudizio penale, e la sentenza che lo conclude costituiscono pur sempre dei fatti storici. Sono fatti storici, in particolare, le circostanze che l'Autorità Inquirente abbia chiesto il rinvio a giudizio dell'imputato, che il Giudice dell'Udienza Preliminare abbia accolto tale richiesta, che l'una e l'altra decisione siano state assunte sulla base di determinate fonti di prova, che saranno di norma indicate nelle rispettive motivazioni";

come fatto storico, infatti, "può essere preso in esame dal giudice civile, in quanto qualsiasi fatto storico può costituire un indizio. In quanto tale, esso di per sè non avrà alcuna efficacia probatoria, ma potrà acquistarla se valutato insieme ad altri indizi, che abbiano i tre requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall'art. 2729 c.c.";

in conclusione, alla sentenza di patteggiamento va riconosciuta la natura di elemento di prova, anche importante in ragione del fatto che essa contiene un accertamento ed un'affermazione di responsabilità impliciti sul merito dell'imputazione, giustificati dal fatto che il giudice penale non si limita a certificare la volontà delle parti, ma valuta le risultanze degli atti, anche se rebus sic stantibus e non all'esito d'una attività istruttoria, anche quanto alla responsabilità dell'imputato, di cui è possibile "tener conto nel giudizio civile" (così Cass. 16/08/2019, n. 21435);

tenerne conto significa che al giudice civile non è precluso, ai fini della formazione del proprio convincimento, autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 c.p.p., in ragione dell'assenza nel giudizio civile di un principio di tipicità della prova (Cass. 04/07/2019, n. 18085), potendo le parti, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così accertati in sede penale (Cass. 03/04/2017, n. 8063);

non vi è dubbio che il giudice a quo abbia tenuto conto della sentenza di patteggiamento nel senso precisato, tant'è che diversamente da quanto sostengono i ricorrenti non solo non ha considerato vincolante la sentenza di patteggiamento, ma ha ritenuto O.O. responsabile proprio dopo aver ritenuto non convincenti gli argomenti con cui il medesimo aveva inteso supportare l'assenza di profili di responsabilità a suo carico: Cass. 08/11/2019, n. 28816 (p. 9 e ss.);

5) con il quinto motivo - contrassegnato come III b) - i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 444 c.p.p. e dell'art. 2697 c.c. per non aver applicato immotivatamente il principio di cui a Cass. n. 19871/13, a mente del quale per ottenere il risarcimento dei danni nei confronti del responsabile che nel processo penale ha optato per il patteggiamento sono necessarie ulteriori prove nel processo civile;

oggetto di critica è la statuizione con cui il giudicante ha affermato che la sentenza penale di patteggiamento non ha efficacia di vincolo nè di giudicato e neppure inverte l'onere della prova nel giudizio civile, ove può essere usata solo come indizio e non ha attribuito alcuna responsabilità, neppure ai fini della determinazione delle quote di responsabilità, ai lavoratori per non aver indossato le cinture di sicurezza;

il motivo non ha pregio;

solo eccezionalmente - cfr. la L. 27 marzo 2001, n. 97, la cui ratio è quella di dare credibilità alla pubblica amministrazione favorendo la coerenza tra la decisione penale e la pronuncia in sede civile qualora l'imputato, soggetto alla sanzione disciplinare, abbia patteggiato la pena per il medesimo fatto oggetto di accertamento nel giudizio civile - la sentenza di patteggiamento è equiparata alla sentenza di condanna e la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato in un diverso giudizio quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso; nella consapevolezza del fatto che sull'efficacia della sentenza di patteggiamento si sono formati più orientamenti, conviene, nondimeno, ribadire il ragionamento seguito da questa Sezione con la sentenza n. 20170 del 30/07/2018, già evocata, e precisare che l'art. 445 c.p.p., negando tout court alla sentenza penale "efficacia" nel giudizio civile, senza ulteriori precisazioni, rende evidente che il legislatore non ha voluto attribuire alla sentenza penale di patteggiamento nè effetti di vincolo - che si hanno quando la legge vieta al giudice civile di decidere la questione a lui sottoposta in modo diverso rispetto alla decisione penale - nè effetti di preclusione - che ricorrono quando la legge vieta al giudice civile finanche di esaminare la questione, se su essa si è già pronunciato il giudice penale -; il mancato riconoscimento alla sentenza di patteggiamento dell'efficacia di giudicato è particolarmente significativo, giacchè il giudicato penale, ove vi fosse, esplicherebbe l'effetto, nel giudizio civile, di precludere un nuovo accertamento con una diversa ed autonoma ricostruzione del fatto come già ricostruito dal giudice penale, ricordando che per fatto accertato dal giudice penale deve intendersi il nucleo oggettivo del reato nella sua materialità fenomenica, costituita dall'accadimento oggettivo, accertato dal giudice penale, configurato dalla condotta, evento e nesso di causalità materiale tra l'una e l'altro (fatto principale), e le circostanze di tempo, luogo e modi di svolgimento di esso (Cass. 28/09/2004, n. 19387);

di quanto detto si trae, indiretta conferma, anche considerando che l'art. 444 c.p.p., comma 2, stabilisce che nel caso di sentenza di patteggiamento "non si applica la disposizione dell'art. 75 c.p.p., comma 3" (che dispone la sospensione obbligatoria del processo civile, fino a che quello penale non sia terminato, quando l'azione di danno sia proposta dopo la sentenza penale di primo grado); perciò "anche se la sentenza di patteggiamento viene impugnata, al danneggiato è consentito proporre l'azione di danno in sede civile";

per dare un senso alla deroga voluta dal legislatore occorre riconoscere "che la sentenza penale definitiva non potrà mai avere mai alcun impatto sull'esito del giudizio civile medio tempore iniziato", diversamente "il giudice civile dovrebbe, nel pronunciare la propria decisione, tenere conto del contenuto d'una sentenza penale ancora suscettibile di riforma";

un altro elemento da prendere in esame è che al fine di giustificare la relevatio ab onere probandi non potrebbe neppure assumersi l'ammissione di responsabilità rinveniente dalla scelta dell'imputato di patteggiare; manca, infatti l'animus confitendi (cioè la "volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte" (cfr. Cass. 07/09/2015, n. 17702, per l'esclusione dell'animus confitendi nella dichiarazione resa dal datore di lavoro e documentata dal verbale ispettivo perchè resa in "resa in funzione degli scopi dell'inchiesta"), sicchè non potrebbe attribuirsi efficacia confessoria, comportante come tale l'esonero della prova, alla richiesta di applicazione di una pena contenuta nei limiti edittali;

come ritenuto dalla Corte Costituzionale (sent. 02/07/1990, n. 313), l'imputato si limita sostanzialmente a non negare la sua responsabilità, accettando una decisione "allo stato degli atti" come contropartita di una pena contenuta, con la duplice consapevolezza della difficoltà di dimostrare in dibattimento la propria innocenza e di rinunciare all'impugnazione se la richiesta viene accettata (art. 448 c.p.p., comma 2);

i ricorrenti non colgono e quindi con confutano in maniera convincente ed efficace la sentenza impugnata che diversamente da quanto prospettato ha preso in considerazione il fatto che gli operai vittime dell'incidente non usassero un'adeguata protezione per evitare la caduta, escludendo che di tale circostanza dovessero rispondere i lavoratori, applicando il principio di diritto secondo cui solo il comportamento abnorme del lavoratore, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute può porsi come causa esclusiva dell'evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere (Cass. 16/02/2023, n. 1490); ipotesi non ricorrente, perchè un'attenta attività di controllo "avrebbe senza dubbio evitato che nell'eseguire i lavori il dipendente non ne avesse fatto uso";

6) con il sesto motivo -numerato come III c) - i ricorrenti adducono come motivo cassatorio la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 bis il quale nella versione ratione temporis applicabile prevedeva che "il datore di lavoro che esercita le attività di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 e, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, i dirigenti e i preposti che dirigono o sovraintendono le stesse attività, sono tenuti all'osservanza delle disposizioni del presente decreto"; segnatamente, l'errore del giudice a quo risiederebbe nell'avere attribuito al legale rappresentante della Edil Gam Srl compiti di vigilanza e di controllo che spettavano a M.M., preposto, cioè al soggetto che sovrintende al lavoro di altri soggetti da lui coordinati con funzione di controllo delle modalità esecutive della prestazione lavorativa da parte dei soggetti da lui coordinati sotto il profilo della salute e della sicurezza;

il motivo non coglie nel segno;

A.A., oltre ad essere il rappresentante legale della Edil Gam, rivestiva il ruolo di direttore dei lavori e come tale era stato ritenuto responsabile per non avere impedito la esecuzione della gettata in calcestruzzo nonostante fosse utilizzato "il muro come parete esterna della casseratura" senza la predisposizione di misure di sicurezza adeguate; (p.2, p. 3, p. 8 della sentenza);

7) con il settimo motivo - individuato come III d) - i ricorrenti lamentano la violazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 2 perchè la Corte d'Appello avrebbe dovuto escludere la responsabilità di A.A., perchè l'incarico conferitogli dalla impresa B.B. Costruzioni era nullo, inefficace e privo di qualsiasi effetto e gli era stato assegnato nonostante non avesse i requisiti per assumere il ruolo di responsabile dei lavori; il responsabile dei lavori deve essere esplicitamente delegato dal committente e la sua nomina come direttore dei lavori esonera il committente dalla responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro nel cantiere nella misura dell'incarico delegato, accompagnata dai mezzi tecnici ed economici e dei poteri organizzativi necessari per adempiere gli obblighi assunto; in aggiunta, in applicazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, il responsabile dei lavori qualora incaricato fino al (Omissis) avrebbe dovuto essere il progettista per la fase di progettazione dell'opera e il direttore dei lavori per la fase di esecuzione della medesima; pertanto, all'epoca dei fatti - (Omissis) - A.A. non essendo nè progettista nè direttore dei lavori non avrebbe potuto essere incaricato quale responsabile dei lavori e, in applicazione di Cass. pen. 1490/2010, stante il rapporto critico-dialettico tra il committente e il datore di lavoro dell'impresa esecutrice, avrebbe dovuto escludere l'assegnazione da parte del committente del ruolo di responsabile dei lavori a A.A., pena l'inconcepibile identificazione tra soggetto controllore e soggetto controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere;

il motivo riproduce le argomentazioni a sostegno dell'atto di appello nella parte in cui veniva lamentato il fatto che O.O. non potesse essere designato quale responsabile dei lavori, già confutate dalla Corte d'appello;

rispetto agli argomenti confutativi espressi dalla sentenza gravata - cfr. pp. 10-11 - nulla aggiunge il motivo di ricorso che va, pertanto, condannato all'inammissibilità, in applicazione del principio secondo il quale "Con i motivi di ricorso per cassazione la parte non può limitarsi a riproporre le tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell'appello, senza considerare le ragioni offerte da quest'ultimo, poichè in tal modo si determina una mera contrapposizione della propria valutazione al giudizio espresso dalla sentenza impugnata che si risolve, in sostanza, nella proposizione di un "non motivo", come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4": Cass. 24/09/2018, n. 22478;

8) con l'ottavo motivo - anch'esso individuato come III d) - i ricorrenti censurano per violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. e del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5 la statuizione con cui la Corte d'Appello ha escluso ogni responsabilità di H.H., disattendendo l'esito della CTU che, ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 5 nel testo allora vigente, gli aveva attribuito il 5% della responsabilità; la vittima era un lavoratore esperto che era consapevole di avere assunto sul ponteggio una posizione errata e che avrebbe dovuto usare i dispositivi di protezione individuale;

anche questo motivo ripropone le stesse argomentazioni difensive già disattese dalla Corte d'Appello (p. 12 e 13) e condivide la sorte del motivo precedente;

9) con il nono motivo, indicato come IV, i ricorrenti sostengono che il giudice a quo, omettendo di esaminare le risultanze della Ctu espletata in primo grado e, incorrendo nella violazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si sarebbe rifiutato di disporre la rinnovazione della CTU, nonostante quella espletata in primo grado fosse contraddittoria, avendo dapprima addebitato il 45% della responsabilità a Edil Gam, il 30% a A.A., il 10% a I.I. e il restante 15% a M.M. ed ai due operai deceduti, avrebbe poi addebitato nelle conclusioni il 45% a Edil Gam Srl , il 35% a A.A., il 10% a I.I. e il restante 15% a M.M. e ai due operai deceduti, pervenendo ad un totale del 105%;

il Tribunale aveva poi escluso la responsabilità di M.M. e dei due operai deceduti ed aveva addebitato il 50% della responsabilità a Edil Gam, il 35% a A.A. e il 15% a I.I., condannandoli in solido senza ripartizione di responsabilità;

il motivo non si confronta affatto con la decisione impugnata che, a p. 12, p. 3.3.5., contrariamente a quanto sostiene parte ricorrente, si è soffermata tanto sulla Ctu svolta in primo grado quanto sulla richiesta di sua rinnovazione;

non può non rilevarsi che gli errori attribuiti alla CTU svoltasi nel giudizio di prime cure, la contraddittorietà della sentenza del Tribunale, l'assenza di motivazione circa le ragioni per cui il giudice di prime si era discostato dalla CTU si fondano su mere asserzioni, non supportate dall'adempimento delle prescrizioni di cui all'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, essendo stata omessa la riproduzione diretta e indiretta del contenuto della CTU nella parte denunciata come erronea e della sentenza del Tribunale e non essendo stato neppure soddisfatto l'onere di localizzazione;

anche declinato secondo le indicazioni della sentenza CEDU 28 ottobre 2021, Succi e altri c/ Italia, il principio di autosufficienza del ricorso, di cui l'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 costituisce il precipitato normativo, può dirsi soddisfatto solo se la parte riproduce il contenuto del documento o degli atti processuali su cui si fonda il ricorso e se sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (così Cass., Sez. Un., 18/03/2022, n. 8950): requisito che può essere concretamente soddisfatto "anche" fornendo nel ricorso, in ottemperanza dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i riferimenti idonei ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati rispettivamente, i documenti e gli atti processuali su cui il ricorso si fonda" (Cass. 19/04/2022, n. 12481);

10) il ricorso va, dunque, rigettato;

11) le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;

12) si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico di parte ricorrente l'obbligo del pagamento del doppio contributo unificato, se dovuto.
 


P.Q.M.
 

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge a favore di F.F. e G.G. e in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge a favore di B.B. Costruzioni Srl , di UnipolSai Assicurazioni Spa e di E.E..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione Terza civile della Corte di Cassazione, il 25 settembre 2023.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2023