Tribunale di Cosenza, Sez. Lav., 30 novembre 2023 - Ambiente di lavoro nocivo e stress. Risarcimento dei danni differenziali





REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale Ordinario di Cosenza
Sezione Lavoro

Il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino, ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nella causa iscritta al n. 3914/2020 R.G.
TRA
L.C. rappresentato e difeso dagli avv.ti G. C. TENUTA e G. MAURO;
Ricorrente
E
AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI COSENZA (ASP), in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall’avv. G. BROGNO;
Resistente


OGGETTO: Risarcimento danni differenziali – art. 2087 c.c.


 

FattoDiritto


Con ricorso depositato in data 28/10/2020, il sig. L.C. conveniva in giudizio l’ASP di Cosenza affinché venisse condannata al pagamento della somma pari ad € 567.326,00 o in quella maggiore o minore determinata in corso di causa oltre interessi e maggior danno ai sensi dell’art. 1224, co. 2, c.c., ovvero oltre interessi moratori ex D. Lgs. 231/2001, oppure oltre svalutazione monetaria dal 21.10.2015 fino al soddisfo a titolo di risarcimento danni ai sensi degli artt. 2087 c.c., 2059 c.c. e 1218 c.c. per postumi invalidanti, danno biologico, danno esistenziale e comunque di tutti i danni differenziali non indennizzati dall’Inail, con vittoria di spese e competenze del giudizio da distrarsi.
Esponeva in punto di fatto:
- di aver prestato, a far data dal 19.11.1974, lavoro subordinato alle dipendenze della soppressa USL n. 4 di Cosenza, e, successivamente, a far data dal 2007 al 30.6.2016, lavoro subordinato alle dipendenze dell’ASP di Cosenza con mansioni di addetto all’Ufficio Protocollo;
- di aver svolto le mansioni di coordinatore dell’Ufficio Protocollo dell’ASP di Cosenza a far data dal 2013 fino alla data di pensionamento del 30.6.2016;
- di aver svolto la propria attività lavorativa in un ambiente seminterrato, poco illuminato, poco arieggiato e poco salubre;
- di aver subito, un graduale peggioramento delle condizioni di salute in conseguenza dell’aumento dei carichi di lavoro, in particolare dell’aumento delle pratiche in entrata ed in uscita da protocollare e/o smistare (dovuto anche alla carenza di personale), delle continue aggressioni verbali da parte degli utenti, personale medico ed amministrativo, dello stress legato al raggiungimento degli obiettivi aziendali e, in generale, dell’inefficienza nel funzionamento dell’ufficio;
- che, in data 21.10.2015, veniva trasportato al Pronto Soccorso dell’AO di Cosenza ove subiva un intervento di angioplastica presso l’UOC di cardiologia interventistica rimanendo ricoverato fino al 26.10.2015 con diagnosi di uscita “sca – nstemi – coronaropatia bivasale, angioplastica con impianto di DES di CX e di CS, ipertensione arteriosa, dislipidemia”;
- che la patogenesi della malattia era da rinvenire nell’ambiente di lavoro nocivo ed insalubre, privo di sistemi di aerazione, strutturalmente inadeguato sotto il profilo della gestione e della organizzazione del lavoro, nella contemporanea esposizione agli I.P.A. (Idrocarburi policiclici aromatici), alle polveri sottili, comprese quelle degli inchiostri presenti nei toner delle stampanti e dei fotocopiatori, al fumo di sigaretta attivo e passivo, nelle modalità di svolgimento delle mansioni, nella qualità e quantità del lavoro svolto, negli straordinari effettuati, nella alimentazione scorretta, nella mancata fruizione della pausa pranzo, nello stress lavorativo, nei rapporti conflittuali con i superiori, i colleghi, gli utenti, nel deficit organizzativo e nella mancanza di personale specializzato, nell’omessa predisposizione del piano di sicurezza, generale e di quello particolare sui rischi derivanti dallo stress-lavoro correlato e dalle c.d. interferenze con altri lavoratori e con altre attività, nell’omessa formazione professionale ed informazione del lavoratore relativa ai nuovi compiti da svolgere ed alle nuove metodiche da seguire, nell’omissione da parte dell’ASP di Cosenza di istruzioni sui rischi lavorativi generali e specifici nonché nell’omessa formazione ed informazione per quanto riguarda gli agenti cancerogeni presenti nei cicli lavorativi, ivi compresi i rischi supplementari dovuti al fumare;
- che a causa della patologia (nonché di altra malattia renale), cambiava stile di vita, abitudini e comportamenti incidenti nella propria sfera sociale e familiare, in particolare, manifestava depressione, stati d’ansia, timore della morte e del dolore;
- che sussisteva il nesso causale tra la patologia contratta e l’ambiente lavorativo in cui operava, spettandogli, dunque, il risarcimento del danno biologico ed esistenziale.

Si costituiva tempestivamente in giudizio l’ASP di Cosenza contestando le avverse deduzioni ed eccependo – in particolare - l’inesistenza del nesso causale fra la patologia allegata e lo svolgimento dell’attività lavorativa presso l’ASP di Cosenza. Concludeva per il rigetto del ricorso con condanna di parte ricorrente al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 96 c.p.c. e con vittoria delle spese e competenze del giudizio.

Nel corso del giudizio venivano escussi i testi indicati dalle parti nonché disposta CTU medico legale.

Le parti, con note depositate telematicamente in sostituzione dell’udienza ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c., insistevano nelle rispettive conclusioni, ed all’esito il procedimento veniva definito con sentenza.

In via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le note di trattazione scritta depositate da parte ricorrente in data 6.2.2021, 8.2.2021, 25.3.2021 e 9.11.2023, trattandosi – a ben vedere - di note difensive non autorizzate violative del principio del contraddittorio ed irrispettose dei limiti contenutistici propri delle note di trattazione scritta contenenti le sole istanze e conclusioni per come disposto dall’art. 221, co. 4 del D.L. n. 34/2020 (prima) e dall’art. 127 ter c.p.c. (poi). Invero, il deposito di tali note (effettuato in via autonoma dal ricorrente) non è stato oggetto di previa istanza di parte né di previa autorizzazione giudiziale. A tanto, dunque, consegue l’inammissibilità delle note depositate oltreché della documentazione prodotta in uno con le suddette note (sulla cui ammissibilità e rilevanza, parte resistente non ha avuto neppure modo di interloquire).

Nel merito, il ricorso è fondato e dev’essere accolto nei limiti di cui in motivazione.

In punto di diritto, giova preliminarmente premettere che costituisce acquisizione ormai consolidata la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione, operante cioè anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. n. 24742/2018; Cass. n. 13956/2012; Cass. n. 20142/2010; Cass n. 2491/2008).
L’ampiezza dell’obbligo di sicurezza delineato dall’art. 2087 c.c. che si inserisce nella struttura del rapporto obbligatorio tra lavoratore e datore di lavoro e la necessità di una sua declinazione in relazione alle possibili situazioni di rischio per il lavoratore, comporta che la previsione in esame si qualifichi non solo come fonte di doveri di astensione ma anche di obblighi positivi in quanto il datore di lavoro è tenuto a predisporre un’organizzazione ed un ambiente di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale, di rilievo costituzionale, rappresentato dalla salute.
Per costante giurisprudenza il contenuto dell’obbligo di sicurezza non può mai dilatarsi fino al punto da dare luogo ad una sorta di responsabilità oggettiva per tutti i possibili eventi lesivi verificatisi in connessione con l’espletamento dell’attività di lavoro. Invero, affinché il datore di lavoro sia chiamato a rispondere di tali eventi, si richiede pur sempre che la sua condotta, commissiva o omissiva, sia sorretta da un elemento soggettivo, quanto meno colposo, quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
La formulazione dell’art. 2087 c.c. sull’obbligo dell’imprenditore di adottare “le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, come chiarito dalla giurisprudenza della Suprema Corte, non implica, infatti, un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile; egualmente non può pretendersi l’adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili (cfr. Cass. n. 4970/2017; Cass. n. 1312/2014).
Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 12347/2016; Cass. n. 11981/2016) non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto.
Il contenuto dell’obbligo di protezione ex art. 2087 c.c. - il cui adempimento è necessariamente correlato alle concrete circostanze nelle quali il lavoratore può trovarsi esposto in una situazione di rischio - non si esaurisce nell’adozione di misure cd. nominate ma impone anche l’adozione di misure che seppure non tipizzate siano richieste dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza riferite ad un determinato momento storico.
Corollario di quanto ora detto e della carenza dei caratteri di responsabilità oggettiva è la regola, più volte ribadita in sede giurisdizionale che incombe al lavoratore provare l’esistenza del danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi: l’ambito dell’art. 2087 c.c. riguarda, invero, una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass. n. 1509/2021; Cass. n. 18132/2020; Cass. n. 20366/2019; Cass. n. 24742/2018; Cass. n. 11427/2000; Cass. n. 3234/1999; Cass. n. 7792/1998).
Peraltro, per ciò che concerne gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo che devono essere indicati dal lavoratore, essi sono i concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa; tale allegazione rientra nell’ambito dei fatti che devono essere indicati da colui che agisce deducendo l’inadempimento datoriale (cfr. ex multis, Cass., ord., n. 1269/2022).

Ciò premesso, parte ricorrente deduce la riconducibilità dell’evento dannoso (patologia coronarica bivasale dell’ottobre 2015) a molteplici fattori legati alla nocività dell’ambiente di lavoro privo di sistemi di aerazione, strutturalmente inadeguato sotto il profilo della gestione e della organizzazione del lavoro. Deduce, inoltre, la nocività dell’ambiente lavorativo sotto il profilo della contemporanea esposizione agli I.P.A. (Idrocarburi policiclici aromatici), alle polveri sottili (comprese quelle degli inchiostri presenti nei toner delle stampanti e dei fotocopiatori); del fumo di sigaretta attivo e passivo; delle modalità di svolgimento delle mansioni; della qualità e quantità del lavoro svolto; degli straordinari effettuati; dell’alimentazione scorretta; della mancata fruizione della pausa pranzo; dei rapporti conflittuali con i superiori, i colleghi, gli utenti; del deficit organizzativo e della mancanza di personale specializzato; dell’omessa predisposizione del piano di sicurezza generale e particolare sui rischi derivanti dallo stress-lavoro correlato; delle interferenze con altri lavoratori e con altre attività; dell’omessa formazione professionale; dell’omessa informazione del lavoratore circa i nuovi compiti da svolgere ed alle nuove metodiche da seguire; dell’omissione di istruzioni sui rischi lavorativi generali e specifici nonché dell’omessa formazione ed informazione per quanto riguarda gli agenti cancerogeni presenti nei cicli lavorativi.

Orbene, atteso che risulta pacifico ed incontestato che il ricorrente abbia svolto attività di coordinatore dell’Ufficio Protocollo dell’ASP di Cosenza dal 2013 fino alla data di pensionamento del 30.6.2016, l’espletata attività istruttoria ha confermato la dedotta nocività del suddetto ufficio nel periodo per cui è causa in termini di sovraccarico lavorativo e di deficit organizzativo, anche quale conseguenza della carenza dell’organico aziendale.
In particolare, la teste I. (collega di lavoro del ricorrente) ha precisato che “il lavoro all’ufficio protocollo era immane ed il ricorrente si sentiva responsabile e per questo motivo capitava che si innervosiva ed urlava sia con gli altri dipendenti degli altri uffici che con gli utenti. Più con i primi che con i secondi […] Il lavoro all’ufficio protocollo era immane anche perché il personale era limitato rispetto alla necessità e soprattutto non si erano adeguati gli uffici di zona quando è entrato in vigore il protocollo informatico sicché tutta l’attività di protocollazione veniva svolta da noi […] Inoltre, quando è entrato in vigore il protocollo informatico, nonostante ogni ufficio fosse attrezzato per la protocollazione, gli utenti mandavano comunque gli atti al nostro ufficio (protocollo generale) e noi poi dovevamo smistarli nei vari uffici”.
Tali affermazioni hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni rese della teste N. (collega di lavoro del ricorrente) la quale ha precisato che “quando io sono arrivata all’ufficio protocollo c’era un arretrato consistente, soprattutto di fatture che dovevano essere lavorate. Io ne facevo circa 200-250 al giorno, e credo anche il ricorrente […] Anche noi dipendenti dell’ufficio protocollo ci lamentavamo con lui per il carico eccessivo di lavoro, ma in realtà ci veniva chiesto di eliminare l’arretrato”. La teste I. ha ulteriormente precisato che il ricorrente “in ufficio era veramente nervoso, era “sclerato” tant’è che una volta mi ha buttato addosso una bottiglietta d’acqua piena […] diverse volte il ricorrente si è sentito male sul luogo di lavoro ma non è mai andato al pronto soccorso […] il giorno che ha avuto l’infarto, io ero con lui. L’abbiamo portato in ospedale. Nei periodi precedenti lui era molto nervoso, sudava, era visibilmente stressato […] i rapporti fra il ricorrente e le colleghe N. e T. non erano buoni ed anche questo incideva sulla sua tensione e sullo stress lavorativo del ricorrente che si sentiva solo”. La teste T., parimenti, ha precisato che “il ricorrente era molto ansioso e soffriva di ipertensione e prendeva molte compresse e sudava tanto, urlava al telefono”. La teste N., infine, ha affermato che “negli anni precedenti all’infarto effettivamente il ricorrente era teso, nervoso, fumava di più e sudava di continuo. A mio avviso si sentiva oppresso dalle responsabilità. Era nervoso ed irascibile” con ciò confermando che la situazione di stress lavorativo influisse sulle condizioni psicofisiche del ricorrente.
Risulta confermato che la situazione lavorativa dell’ufficio protocollo era conosciuta dalla datrice di lavoro, la quale non ha adottato alcuna misura atta ad impedire il verificarsi dell’evento dannoso. La teste I., infatti, ha confermato che “della situazione all’ufficio protocollo nonché della situazione di tensione del ricorrente, ne erano a conoscenza sia l’ufficio personale che l’ufficio affari generali ma non hanno mai preso provvedimenti. Io ho fatto presente la situazione di disagio in cui versava il ricorrente sia all’avv. Baldini che agli altri colleghi degli affari generali, direzione generale. Ho espressamente detto che il carico era eccessivo per il ricorrente anche perché lui non aveva le competenze per fare il capo-ufficio di un ufficio come il protocollo di un’azienda come l’ASP”.
Quanto all’inadeguatezza dei locali ove il ricorrente ha svolto l’attività lavorativa, l’istruttoria ha consentito di accertare che l’ufficio protocollo dell’ASP di Cosenza fosse situato al piano terra della sede datoriale risultando, al contempo, seminterrato (considerando l’ingresso sito in Via Alimena) e piano rialzato (considerando l’ingresso di Via Tocci).
Ciò posto, la teste T. ha precisato “le stanze dove noi lavoriamo all’ufficio protocollo hanno finestre che affacciano su Via Brenta dove c’è l’accesso per il front- office. Ci sono tre stanze dedicate al protocollo”.
Tali dichiarazioni hanno trovato riscontro nella documentazione fotografica prodotta da parte resistente, ove risultano presenti - all’interno di tali locali - n. 3 finestre.
Sul punto, tuttavia, la teste I. ha precisato che “le stanze dove lavoravamo erano umide. Avevano delle finestre che affacciavano su Via Tocci ma non potevamo aprirle perché essendo un piano basso, lì davanti sostavano molti ragazzi e non era consigliabile, data la delicatezza del nostro ufficio, lasciare le finestre aperte”.

Le dichiarazioni rese, dunque, hanno confermato l’allegazione di parte ricorrente secondo cui i locali dell’ufficio protocollo dell’ASP di Cosenza si caratterizzavano per la scarsa illuminazione ed areazione.

Per ciò che concerne lo svolgimento da parte del ricorrente del lavoro straordinario nonché la mancata fruizione dei giorni di ferie – causalmente collegati, secondo la prospettazione di parte ricorrente, unitamente agli altri fattori di rischio, all’insorgenza della malattia - i testi escussi hanno affermato che il ricorrente era sempre presente all’ufficio protocollo, senza, tuttavia, circoscrivere tale circostanza al dedotto lavoro straordinario e/o alla mancata fruizione dei giorni di ferie.
Sul punto, peraltro, occorre precisare come il fatto in sé della prestazione di lavoro straordinario e la mancata fruizione dei giorni di ferie – quand’anche dimostrati – possono configurare (in astratto) una responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. sempreché venga allegato e dimostrato che il datore di lavoro abbia richiesto prestazioni eccedenti i limiti massimi stabiliti dalla contrattazione collettiva rispetto alla misura (giornaliera, settimanale, periodale o annua) del lavoro e che abbia impedito la fruizione dei giorni di ferie spettanti al lavoratore. A ben vedere, in assenza di tale dimostrazione, alcuna nocività degli ambienti di lavoro può essere denunciata.
Ebbene, parte ricorrente, di tanto onerata, non ha fornito alcuna dimostrazione sul punto. Al contrario, parte resistente ha dato dimostrazione della circostanza secondo cui era il ricorrente a chiedere l’autorizzazione ad effettuare lo straordinario. Invero, la teste R. (di parte resistente) ha precisato che “le richieste di straordinario e di ferie vanno avanzate ai dirigenti del proprio ufficio, e, nel caso dell’ufficio protocollo, vanno avanzate all’ufficio generale. Una volta lavorate vanno passate all’ufficio risorse umane per il caricamento nelle buste paga. Il ricorrente chiedeva lo straordinario. Ricordo che a volte gli veniva detto verbalmente che non era possibile, ma poi dietro sue insistenze gli veniva autorizzato. Allo stesso modo ricordo che il ricorrente presentava domanda di ferie, ma caldeggiava un eventuale rigetto delle stesse. Ciò non mi risulta per avere io assistito personalmente a questo, ma l’ho sentito in ufficio. Era peraltro una prassi nell’ASP che i dipendenti avanzassero la richiesta di ferie ma anche su sollecitazioni loro gli venissero concessi dei giorni inferiori di ferie”. Tali dichiarazioni, peraltro, troverebbero riscontro nelle affermazioni rese dalla teste I. secondo cui il ricorrente “aveva bisogno di guadagnare perché aveva una famiglia alle spalle ed aveva dei figli che non lavoravano e quindi si buttava a capofitto su tutto”.
Dunque, alla luce dell’istruzione testimoniale, appare verosimile ritenere che fosse il ricorrente a richiedere l’autorizzazione all’effettuazione dello straordinario ai fini di un maggior introito economico.

Per ciò che concerne la nocività dell’ambiente di lavoro in termini di dedotta conflittualità fra il L.C. ed i superiori gerarchici, i colleghi e gli utenti, l’istruttoria testimoniale ha consentito di ritenere accertato un unico alterco (summenzionato) fra il ricorrente e la sig.ra I.. Tuttavia, non risulta che da tale alterco sia scaturita alcuna apprezzabile conseguenza, né che esso sia espressione di una significativa, effettiva e stabile conflittualità esistente fra il ricorrente e gli altri colleghi di lavoro e/o superiori gerarchici e/o utenti.
In tema di conflittualità sul luogo di lavoro, infatti, i testi escussi hanno genericamente affermato che “noi sentivamo le urla e le discussioni nella stanza del ricorrente di tanto in tanto. Non sapevamo se i litigi erano con gli interni o con gli utenti esterni” (teste N.); “io sentivo il ricorrente parlare ad alta voce ma non so con chi e per quale motivo. Non so se c’erano problemi tra i dirigenti ed il ricorrente […] Fra il ricorrente ed i dirigenti c’erano rapporti normali […] Noi addetti all’ufficio protocollo non abbiamo mai avuto problemi con il ricorrente. Poteva capitare che ci lamentavamo del troppo lavoro, ma tali lamentale non erano rivolte a lui” (teste T.).
Dunque, l’espletata istruttoria testimoniale ha consentito di escludere che all’interno dell’ufficio protocollo dell’ASP di Cosenza fosse presente una situazione patologica di divergenza fra il ricorrente ed altri soggetti variamente considerati, come tale, non intercettante una situazione di nocività. Il rapporto interpersonale, infatti, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. (cfr. Cass., n. 29059/2022).

Quanto alle denunciate violazioni consistite nell’esposizione agli I.P.A. (Idrocarburi policiclici aromatici) ed alle polveri sottili (comprese quelle degli inchiostri presenti nei toner delle stampanti e dei fotocopiatori), l’istruzione probatoria non ha dato alcuna dimostrazione della nocività dell’ambiente lavorativo atteso che alcun dei testi ha affermato l’esposizione a tali sostanze nocive (il solo teste N. ha dichiarato che il ricorrente – alle volte - sostituiva i toner delle stampanti).

Alcun inadempimento può ascriversi alla datrice di lavoro per la dedotta alimentazione scorretta del ricorrente e per la mancata fruizione della pausa pranzo, atteso che le stesse - rientrando nelle scelte individuali dell’individuo - non rilevano in termini di nocività dell’ambiente di lavoro, e, dunque, non determinano alcun inadempimento datoriale.

Per quanto concerne la dedotta omissione dei corsi di formazione professionale in relazione ai nuovi compiti di coordinatore del personale, si osserva quanto segue.
Come noto, l’omissione di un certo comportamento, rileva, quale condizione determinativa del processo causale dell’evento dannoso, soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma giuridica specifica (purché la condotta omissiva non sia essa stessa considerata fonte di danno dall’ordinamento, come, sul piano penale, per i reati omissivi propri), ovvero, in relazione al configurarsi della posizione del soggetto cui si addebita l’omissione siccome implicante l’esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell’evento poi verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento. L’individuazione di tale obbligo si connota come preliminare per l’apprezzamento di una condotta omissiva sul piano della causalità giuridica, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo imponeva, non è possibile apprezzare l’omissione del comportamento sul piano causale (cfr. Cass. n. 20328/2006).
Tale giudizio, peraltro, non ha attinenza con quello sull’attribuibilità della condotta omissiva sul piano soggettivo a colui che era tenuto alla condotta positiva e, quindi, con il giudizio sull’elemento soggettivo dell’illecito, che postula la tenuta del comportamento omissivo con dolo o colpa e, dunque, il relativo concreto accertamento, e che si colloca, pertanto, su un piano diverso e successivo a quello dell’accertamento del nesso di causalità, presupponendo quest’ultimo (cfr. Cass. SS.UU. pen. n. 30328/2002).
Orbene, avuto riguardo all’evento di danno (alla salute) che, a dire del ricorrente, la condotta omissiva datoriale (omesso corso di formazione professionale relativo ai nuovi compiti di coordinatore) avrebbe dovuto impedire, è evidente che l’obbligo di impedimento dell’evento deve essere correlato all’evento che la norma positiva di condotta mirava ad evitare ed impedire.
Detto altrimenti, il bene salute non è certamente il bene giuridico che la (non meglio specificata) norma impositiva di corsi di formazione professionale mirava a tutelare; pertanto, difetta la stessa configurabilità in termini di una causalità omissiva fra l’evento di danno lamentato e la dedotta mancata formazione professionale.

Ciò premesso e rilevato che la prova della responsabilità datoriale si è raggiunta solo con riferimento alla natura nociva dell’ambiente di lavoro in cui ha operato il ricorrente ed allo stress lavorativo da egli accumulato, va osservato come il CTU nominato, nella sua valutazione peritale ha affermato che “valutare lo “stress lavorativo” come potenziale fattore di rischio per CHD è impegnativo, data la sua soggettività e la difficoltà associata alla sintesi delle sue componenti significative in parametri comparabili anche se ci sono prove crescenti a sostegno del ruolo della tensione lavorativa, che collegano lo stress lavorativo ai tradizionali fattori di rischio CVD e ai meccanismi patologici consolidati.
Uno studio americano è stato pubblicato dall’European Society of Cardiology (Esc), confermando per la prima volta il collegamento tra burnout, stress da lavoro e le patologie cardiache, con il conseguente aumento del 20% del rischio di fibrillazione atriale. I ricercatori hanno condotto gli studi su un campione di 11 mila soggetti a rischio, monitorandoli per circa 25 anni. Inoltre, una serie di revisioni scientifiche, hanno individuato nei lavoratori stressati, un’anomalia nel ritmo cardiaco, che in alcuni casi può portare ad aritmie, ictus ed infarto”, ivi concludendo che “nella documentazione valutata esistono i presupposti per considerare la patologia cardiologica legata anche allo stress lavorativo anche se alcuni aspetti da considerare sull’ambiente di lavoro sulla formazione svolta e sulla volontà del lavoratore come, ad esempio, le continue richieste di straordinario attenuano la potenza della concausa”.
Dunque, appare del tutto evidente, secondo l’id quot prelumque accidit e, quindi, sulla base di dati indiziari univoci, che le condizioni di lavoro – nei limiti indicati in motivazione – siano all’origine, in termini di apporto concausale, della patologia denunciata in ricorso.

A fronte della dimostrazione della malattia del ricorrente nonché della nocività dell’ambiente lavorativo (nei limiti di cui in motivazione) e del nesso di causa fra l’una e l’altra, il datore di lavoro - su cui incombeva l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi - non è riuscito in alcun modo ad assolvere il proprio onere probatorio non articolando, in tema di obblighi di protezione ad esso incombenti, alcun capitolo di prova né producendo documentazione comprovante l’attività datoriale diretta a limitare e/o a non aggravare l’insorgenza della patologia del ricorrente.
Né può valere come esimente il riferimento allo stile di vita extralavorativo del ricorrente quale patogenesi esclusiva della lamentata patologia del ricorrente (id est: gli altri fattori di rischio non imputabili alla datrice di lavoro come il fumo attivo del ricorrente), in quanto ciò non esclude la natura di concausa delle usuranti condizioni lavorative. Sul punto, va richiamato il principio per cui “in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni” (ex multis Cass., Sez. Lav., n. 13954/2014).

Venendo alla liquidazione del danno biologico subìto dal ricorrente, si osserva come il CTU ha affermato che “nella patogenesi dell’evento ischemico sono diversi i fattori che la determinano tra i quali si può annoverare lo stress in questo caso il fattore legato allo stress lavorativo è da considerare una concausa per la Sindrome coronarica, considerando la valutazione della patologia, la valutazione del danno biologico è pari al 12%”.
Le conclusioni del CTU, suffragate dall’accurata visita del periziando, da un’attenta valutazione dei dati anamnestici e degli esami specialistici, devono essere senz’altro condivise dal Tribunale.
Sulla scorta di tali condivisibili conclusioni, del grado di invalidità accertato dal consulente e dell’età della parte lesa al momento del sinistro (60 anni), il danno - in applicazione delle Tabelle di Milano del 2021 – va equitativamente liquidato nella somma pari ad € 20.758,00. Peraltro, dalle certificazioni mediche in atti, è possibile determinare un periodo di invalidità temporanea pari a 43gg, (di cui 16 gg per I.T.T. e 27 gg per I.T.P. al 50%). Pertanto, considerato il valore del punto base di I.T.T. pari ad € 99,00, la somma dovuta a titolo di danno biologico temporaneo è pari ad € 2.920,50 (€ 1.584,00 per I.T.T. ed € 1.336,50 per I.T.P.).

Per ciò che concerne il danno non patrimoniale rappresentato dal danno esistenziale, ritiene il giudicante che parte ricorrente, di tanto onerata, non abbia dato dimostrazione del danno subìto. In particolare, parte ricorrente non ha dato dimostrazione (neanche attraverso la prova presuntiva ex art. 2729 c.c.) che l’evento dannoso abbia inciso in senso negativo nella sua sfera personale alternandone l’equilibrio e le sue abitudini di vita.
Sul punto la Suprema Corte ha precisato come “il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato “in re ipsa”, ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto” (Cass., n. 27482/2018).
Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.
La Suprema Corte, peraltro, in tema di profilo probatorio del danno esistenziale, ha ammesso la prova presuntiva previa allegazione da parte del danneggiato di tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.
Ebbene, nel caso di specie, parte ricorrente non ha allegato alcun elemento obiettivo, specifico e preciso in base al quale risalire alla sofferenza e al cambiamento delle abitudini di vita derivate dalla consapevolezza della sopravvenuta patologia cardiaca.
Peraltro, alle generiche allegazioni di parte ricorrente circa la sussistenza del cd. danno esistenziale, non è seguito alcun specifico e circostanziato riscontro probatorio, atteso che le dichiarazioni rese dai testi escussi sul punto sono apparse ininfluenti e/o irrilevanti (teste N.: “non so che tenore di vita conducesse il ricorrente fuori dall’ufficio […] Non frequento il ricorrente al di fuori del lavoro. Non so che stile di vita tenesse dopo l’infarto ed al di fuori dell’orario lavorativo”; teste T.: “nulla posso dire sul tenore di vita extra-lavorativo del ricorrente), o comunque eccessivamente vaghe e non sufficientemente circostanziate (teste I.: “al di fuori dell’attività lavorativa, ci frequentavamo con le rispettive famiglie ed il ricorrente era più tranquillo, fumava di meno e non era stressato”), quand’anche sconfessanti le generiche allegazioni di parte ricorrente (teste N.: “anche dopo l’infarto il ricorrente fumava”).
Pertanto, dev’essere rigettata la domanda di parte ricorrente diretta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale per danno esistenziale.

Va osservato, peraltro, come oggetto del presente giudizio è il solo danno differenziale, rettamente inteso come quella parte di risarcimento che eccede l’importo dell’indennizzo dovuto in base all’assicurazione obbligatoria e che resta a carico del datore di lavoro. Esso è quello che rientra nel tipo già considerato dall’assicurazione obbligatoria, ma che, in ragione del carattere indennitario di questa, può presentare delle differenze dei valori monetari rispetto al danno civilistico, primariamente sia per la diversa valutazione del grado di inabilità in sede INAIL in confronto al diritto comune (dove il grado di invalidità permanente viene determinato con criteri non imposti dalla legge ma elaborati dalla scienza medico legale), sia per il diverso valore del punto di inabilità.
E il calcolo del danno differenziale va effettuato indipendentemente da una richiesta di parte in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (in tal senso, circa i criteri di liquidazione del danno differenziale, si veda Cass. n. 20807/2016).
Occorre valutare, cioè, il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni e da esso detrarre quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale (Cass. n. 20807/2016). Tale operazione di scomputo va effettuata ex officio ed anche se l’INAIL non abbia in concreto provveduto all’indennizzo.
Depone per tale soluzione il tenore letterale dell’art. 10 del D.P.R. 1124/1965 compatibile anche col caso del difetto di un già intervenuto indennizzo. Infatti, i commi 6, 7 e 8 della disposizione citata parlano di indennità o rendita “liquidata a norma” del decreto. Dunque, non dicono “che è stata liquidata”, né “pagata”, ma parlano di merda “liquidazione”, che è operazione contabile astratta che qualsiasi interprete può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Di contro, l’art. 11 dello stesso decreto n. 1124/1965, in materia di regresso, usa la ben diversa espressione di “somme pagate”, certamente presupponendo il reale ed effettivo pagamento degli importi. Quindi, l’indennizzo può essere anche un termine di raffronto solo virtuale, cioè astrattamente liquidabile secondo un puro criterio tabellare. Altrimenti ragionando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare né al dipendente (perché il risarcimento al lavoratore, anche in casi di responsabilità penale, è dovuto solo per l’eccedenza), né all’INAIL (che può agire in regresso solo per le somme versate e, quindi, senza indennizzo non vi sarebbe regresso). Inoltre, la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta allo stesso comportamento del lavoratore, che, ad esempio, non ha denunciato l’infortunio o la malattia ovvero ha lasciato prescrivere l’azione; detta condotta non può determinare una maggiore esposizione del datore ed il lavoratore non può incidere, con una sua scelta, sull’esonero parziale da responsabilità civile inderogabilmente prescritto dall’art. 10 D.P.R. n. 1124/1965.
Risulta pertanto necessario procedere al calcolo ex officio della prestazione previdenziale di cui all’art. 13 del D. Lgs. n. 38/2000. Ebbene, tenuto conto del grado di menomazione subite dal ricorrente (12%), dell’età dell’assicurato al momento della guarigione clinica (60 anni, tenuto conto delle dimissioni in data 26.10.2015), dei valori indicati dalla “tabella indennizzo danno biologico” richiamata dall’art. 13 citato e dei meccanismi di rivalutazione automatica di cui alla L. n. 208/2015, l’indennizzo va determinato in € 15.844,01.
Considerata la data di riferimento per la capitalizzazione e la liquidazione equitativa del danno civilistico, effettuata in valori attuali, il danno differenziale, in conclusione è dato dalla differenza tra le superiori poste omogenee (€ 20.758,00 - € 15.844,01) e risulta, dunque, pari ad € 4.913,99 oltre ad € 2.920,50 a titolo di danno biologico temporaneo, dunque, per un totale pari ad € 7.834,49.
Tale somma, che costituisce credito di valore, in difetto di allegazione di un maggior danno rispetto a quello determinato dalla svalutazione monetaria, va maggiorato della rivalutazione monetaria dalla data del fatto, e sulla somma così rivalutata decorrono dalla medesima data gli interessi legali sino al saldo.

La datrice di lavoro va dunque condannata al pagamento del danno differenziale sopra determinato.

Le spese di lite e di CTU seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
All’accoglimento della domanda principale consegue il rigetto della richiesta di condanna avanzata da parte resistente ex art.96 cpc.
 

PQM


Accerta e dichiara la natura professionale della patologia del ricorrente da cui è derivato un danno biologico permanente pari al 12%, e, per l’effetto, condanna l’ASP di Cosenza al risarcimento del danno differenziale non patrimoniale nei confronti del ricorrente pari ad € 7.834,49, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria come in motivazione.
Condanna l’ASP di Cosenza al pagamento delle spese di lite che liquida in € 2.695,00 oltre IVA, CPA e rimborso forfettario da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari.
Pone le spese di CTU, liquidate come da separato decreto, a carico dell’ASP di Cosenza.
Così deciso in Cosenza, 30/11/2023
Il giudice Dott.ssa Silvana Domenica Ferrentino