Carlo Vito Magli

Il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro nell’esperienza dell’Ispesl, la ratio e le definizioni.
Le posizioni di garanzia con riferimento alla pubblica amministrazione ed alle strutture giudiziarie e penitenziarie.
I rischi psicosociali legati all’organizzazione del lavoro, le tipologie di danno ad essi riconducibili ed il mobbing.


Relazione presentata al Seminario sul tema:

La Sicurezza nei Luoghi di Lavoro presso gli Uffici Giudiziari
Lido di Ostia, 10 e 11 settembre 2008

La parte giurisprudenziale è stata approfondita dalla dott.ssa Elena De Martino.

 




Sommario

Premessa

1. Il testo unico nell’esperienza dell’Ispesl
2. Le definizioni, il “nuovo” concetto di prevenzione ed il modello dell’art. 2087 c.c.
3. Le posizioni di garanzia e la loro dinamica nel capo III del titolo I del testo unico.
4. Aspetti della sicurezza sul lavoro legati alle pubbliche amministrazioni e nelle strutture giudiziarie e penitenziarie.
5. Lo stress nel lavoro organizzato.
5.1 Fattori di rischio psicosociale e loro riflessi sul mobbing
5.2 Il danno biologico
5.3 Differenze tra danno biologico e danno patrimoniale
5.4 Il danno psichico
5.5 Il danno morale
5.6 Il danno esistenziale
5.7 Prova del danno, nesso di causalità e liquidazione
5.8 La valutazione del danno biologico
5.9 La valutazione del danno morale
5.10 La valutazione del danno esistenziale
5.11 Il mobbing
5.12 Caratteristiche e strutture del mobbing
5.13 L’evoluzione giurisprudenziale in materia di mobbing
5.14 Il danno da mobbing
5.15 Onere della prova nel danno da mobbing
5.16 Il mobbing nel settore pubblico
5.17 La responsabilità contabile del dirigente pubblico in caso di pronuncia giurisdizionale accertativa del mobbing


Premessa

Questo breve scritto trova luce a distanza esatta di un anno dai lavori preparatori al Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che hanno avuto luogo principalmente presso l’Istituto Superiore per la Prevenzione e Sicurezza del Lavoro nella sede di Roma. In realtà anche se la legge delega è dell’agosto 2007, i lavori di studio e di approfondimento avevano trovato avvio già nei mesi precedenti.

Il contributo che si intende fornire nasce dall’aver vissuto da vicino quel periodo e soprattutto dall’esperienza scaturente dalla direzione dell’ufficio legale dell’Istituto a partire dal 2000. Com’è noto, fino all’entrata in vigore del nuovo sistema istituzionale disegnato dal testo unico, l’Ispesl, ai sensi dell’art 26 del d.lgs. 626 ha reso pareri, a soggetti pubblici o privati, in merito alle applicazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro. Pertanto, a parte i pareri specifici riguardanti determinati aspetti legati all’igiene del lavoro, alla medicina del lavoro, o vertenti su questioni squisitamente tecniche, in merito ai quali fornivano risposte i dipartimenti tecnici e scientifici, le “restanti questioni” sono finite sul tavolo di chi scrive.

Per fornire un quadro indicativo di queste “restanti questioni” basti pensare ai quesiti posti nel 2003 sull’applicabilità della normativa in materia di sicurezza ai volontari della Croce Rossa (in mancanza di uno statuto o di un accordo collettivo come per la protezione civile), nel 2005 in merito al ruolo che organismi pubblici e privati svolgono in processi produttivi particolarmente delicati, come quello degli apparecchi a pressione (che ha portato a 2 pronunce di primo e secondo grado peraltro concordi all’interpretazione resa dall’ufficio, e che a tutt’oggi, forse ancora più del sistema normativo stesso, danno chiarezza all’articolato quadro di competenze pubblicistiche e privatistiche nel sistema), fino ad arrivare all’istituzione di un vero e proprio “osservatorio epidemiologico sui rischi domestici” composto da soggetti istituzionali, dalle associazioni delle casalinghe e da rappresentanti della Confindustria che, partendo dall’analisi della presenza dei metalli pesanti in alcuni detersivi (che poteva causare dermatiti o altre patologie), è giunto oggi ad occuparsi anche di aspetti legati alla violenza domestica poiché la sicurezza non dev’essere considerata solo negli ambienti di lavoro ma anche in quelli di vita, anche se ormai molto spesso i due ambiti si sovrappongono.

In questo quadro estremamente variegato e complesso, nel quale chi scrive ha visto crescere in maniera esponenziale le spinte di privatizzazione di funzioni pubblicistiche legate alla sicurezza sul lavoro, le istanze di trasferimento e le definizioni di nuove competenze a diversi soggetti istituzionali quali le Asl e le Arpa e in capo alle regioni stesse (anche alla luce della riformulazione del titolo V della Costituzione) si inserisce l’esperienza di preparazione del testo unico, i cui prodromi partono già dal febbraio del 2007.

Come noto i tentativi di risistemazione della normativa avevano già avuto luogo nelle precedenti legislature con vicende non positive, tanto da far paragonare lo sforzo di riscrittura ad una fatica di Sisifo piuttosto che ad una fatica di Ercole; tuttavia, a parte l’amaro commento, in questa occasione il Ministero della salute ha giocato un ruolo decisivo collocando l’Ispesl al centro di questa importante operazione. Il fine era proprio quello di impostare tutto il lavoro tecnico/giuridico preparatorio per la predisposizione del testo unico in stretta collaborazione con il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e con la Conferenza Stato-regioni, da discutere sui vari tavoli istituzionali e con le parti sociali (a tale proposito si ricorda come molti di questi incontri si sono tenuti presso la sede dell’Ispesl di via Urbana).

Infatti, proprio come ha ricordato il Dott. Beniamino Deidda a conclusione del suo intervento in un importante convegno: Vorrei chiudere con una nota di speranza. Sembra che l’eco di questi problemi sia arrivata fino al Ministero della salute, che ha deciso di partecipare attivamente alla redazione del nuovo testo unico. e, se ci si pensa bene, questa è davvero una buona notizia”[1].

Appare di tutta evidenza che i meriti e demeriti della predisposizione del testo unico non vanno certamente ascritti esclusivamente al ruolo svolto dall’Istituto nella fase preparatoria (ciò sarebbe presuntuoso ma soprattutto non corrispondente al vero); tuttavia corre l’obbligo di ribadire come in questa circostanza ci sia stata una fortissima sinergia tra il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale (storicamente deputato a sovraintendere alla materia) ed il Ministero della salute, orientata alla migliore tutela sia delle posizioni di carattere “sociale” sia delle “posizioni individuali” che costantemente si intersecano nel settore che ci occupa.

Si sono quindi avviati i vari “tavoli”, uno principale concernente il titolo primo e diversi altri “tavoli tecnici” (14 per la precisione) che riguardavano specifici campi d’applicazione, che poi hanno trovato collocazione nei vari titoli del testo unico. Tale metodologia ha certamente contributo ad accelerare ed a favorire, ben prima della scadenza della delega (25 maggio 2008), l’emanazione del testo unico, avvenuta nonostante lo scioglimento anticipato del Parlamento.

Da menzionare inoltre il fattivo ruolo svolto dai rappresentati della Conferenza Stato-Regioni nell’ambito dei lavori preparatori svolti presso l’Ispesl, che hanno costantemente condiviso la predisposizione della nuova regolamentazione della materia ben prima dell’esame presso la conferenza stessa, permettendo di giungere così a considerare l’iter di formazione della legislazione in esame come una “cooperazione simultanea” [2] tra Stato e Regioni e di conseguire il parere favorevole nella seduta del 12 marzo 2008 della Conferenza stessa.

Un importante e delicato ruolo è stato altresì svolto, in questa partita, anche dal Ministero della Giustizia che ha avuto, com’è noto, l’arduo ed ingrato compito di riscrivere il nuovo impianto sanzionatorio, e soprattutto di coordinare le nome sanzionatorie del titolo I con tutte le altre (in applicazione del principio di specialità [3]), dovendo peraltro affrontare le problematiche nascenti dalle norme immediatamente precettive introdotte dalla legge delega.

In questo quadro si colloca la collaborazione tra l’Ispesl, l’Università di Urbino “Carlo Bo” e l’Osservatorio Olympus, dando vita al progetto di ricerca “Un testo unico per il riassetto e la riforma della disciplina della salute e sicurezza dei lavoratori”.

Al riguardo, permettetemi di segnalare la lungimiranza e l’impegno nel progetto strategico del prof. Antonio Moccaldi, Presidente dell’Ispesl, la disponibilità e l’attenzione alla tematica del Direttore Generale dott. Umberto Sacerdote (cui è anche affidato il coordinamento delle attività dei dipartimenti territoriali dell’Istituto), l’egregio lavoro svolto dal Prof. Paolo Pascucci dell’Università di Urbino e da tutti i suoi validissimi collaboratori, e l’attività del dott. Stefano Signorini, instancabile responsabile scientifico del progetto nonché capo della Segreteria tecnico scientifica dell’Ispesl, che ha seguito, per l’Istituto i lavori del testo unico in tutti i tavoli, istituzionali e non.


1) Il testo unico nell’esperienza dell’Ispesl.

Come noto, la legge delega ha previsto un riordino generale della disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Per l’Ispesl le parole chiave che hanno guidato il progetto normativo - riordino, innovazione, coordinamento e semplificazione – hanno inteso definire un nuovo sistema della prevenzione che riconosce come centrale la diffusione della cultura e della sicurezza nei luoghi di lavoro [4].

A tale proposito occorre ricordare che il Ministero della Salute ha finanziato 9 progetti dell’Ispesl le cui tematiche più importanti riguardano:

- la costruzione di una rete per la promozione della salute dei lavoratori che coinvolga i Dipartimenti delle Asl, le organizzazioni datoriali e sindacali territoriali;

- il miglioramento della raccolta e la registrazione delle segnalazione di patologie correlate al lavoro da parte dei servizi di prevenzione secondo un modello strutturato, denominato MALPROF;

- la rilevazione e l’analisi delle dinamiche di accadimento degli infortuni mortali attraverso l’applicazione del modello “Sbagliando si impara”;

- una campagna informativa di prevenzione dei tumori nei luoghi di lavoro;

- un progetto di ricerca per lo sviluppo dei programmi e delle attività per la promozione della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro attraverso il miglioramento della sorveglianza, della normativa, dell’efficacia delle attività e dei processi produttivi .

Nell’ambito di quest’ultimo progetto l’Istituto ha fornito supporto tecnico-scientifico e documentale tecnico-normativo attraverso la costituzione del gruppo di lavoro per la predisposizione del Testo Unico sulla sicurezza e la collaborazione con l’osservatorio Olympus istituito presso l’università degli studi Carlo Bo di Urbino [5].

Di seguito si illustra, attraverso un breve “abstract”, la metodologia generalmente concordata in convenzione, poi elaborata ed approfondita dall’università “Carlo Bo” di Urbino nel corso del progetto di ricerca “Un testo unico per il riassetto e la riforma della disciplina della salute e sicurezza dei lavoratori” [6] facendo riferimento ad alcuni approfondimenti emersi nel corso della stessa ricerca [7].

“La ricerca si è proposta di perseguire essenzialmente i seguenti obiettivi:
a) rivisitazione del campo di applicazione della disciplina in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori;
b) rivisitazione delle definizioni dei profili soggettivi, dei requisiti e delle funzioni dei vari attori del sistema di prevenzione e sicurezza;
c) rivisitazione dell’apparato sanzionatorio “diretto” amministrativo e penale e dell’apparato sanzionatorio civile “indiretto” in materia di sicurezza del lavoro.

Gli obiettivi del progetto di ricerca sono strettamente connessi all’applicazione della legge 3 agosto 2007, n. 123, con particolare riferimento al suo articolo 1, il quale conferisce al Governo la delega per adottare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della stessa legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in conformità all'articolo 117 della Costituzione e agli statuti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, e alle relative norme di attuazione, e garantendo l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati.

In particolare, attraverso il progetto di ricerca, ci si è prefissi lo scopo di fornire un supporto scientifico, sul piano tecnico-giuridico, per l’elaborazione di analisi e proposte tali da poter essere valutate in sede di predisposizione della decretazione delegata di cui all’articolo 1 della citata legge n. 123 del 2007.

I lavori per la ricerca sono stati avviati dall’unità operativa dell’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” avvalendosi, come previsto dalla Convenzione tra la stessa Università e l’ISPESL, del supporto di “Olympus”, Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, istituito presso la Facoltà di Giurisprudenza della stessa Università.

La ricerca è stata condotta privilegiando un metodo interdisciplinare, fondato in particolare sul continuo confronto fra studiosi ed esperti di diritto sindacale, diritto del lavoro e di diritto penale, senza peraltro trascurare, ove necessario, riscontri con altre discipline giuridiche che si intersecano con i temi della ricerca (diritto comunitario, diritto internazionale e comparato del lavoro, diritto amministrativo, diritto civile, diritto processuale penale). L’approccio interdisciplinare è stato arricchito dal costante apporto di studiosi di economia con particolare sensibilità per l’analisi economica del diritto, al fine di valutare anche l’impatto economico (nonché in termini di effettività) delle varie soluzioni normative ipotizzabili.

La ricerca si è avvalsa di un’attenta ricognizione, da un lato, delle fonti normative internazionali, comunitarie e nazionali interne, nonché di quelle di alcuni paesi europei in tema di sicurezza del lavoro e, dall’altro lato, dei principi elaborati in materia dalla giurisprudenza.

Assolutamente determinante per la corretta impostazione della ricerca è stata l’attenzione per le fonti internazionali e comunitarie (direttive, anche alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia), quale metodo imprescindibile di lavoro, rappresentando l’ottica prioritaria mediante cui operare la valutazione delle norme nazionali esistenti e verificare la praticabilità delle nuove soluzioni normative. Anche per quanto attiene al diritto comparato, il confronto con le legislazioni straniere ha rappresentato un irrinunciabile metodo di lavoro: ciò vale sia sul piano per così dire “trasversale”, vale a dire nella comparazione generale dei vari sistemi, che consente di enucleare le linee comuni di politica del diritto nei paesi più avanzati, sia sul piano del confronto più specifico con il sistema italiano, soprattutto per verificare l’opportunità di mutuare modelli e tecniche regolative già sperimentate altrove. In particolare, per quanto concerne gli aspetti più strettamente concernenti la rivisitazione dell’apparato sanzionatorio, si è ritenuto opportuno attivare un confronto con referenti stranieri al fine di analizzare i modelli utilizzati nei rispettivi paesi di appartenenza da cui trarre utili spunti di confronto e di validazione delle soluzioni prospettate.

Per quanto riguarda le fonti normative interne, si è operata una attenta ricognizione delle fonti attualmente vigenti sia sul piano legislativo, sia su quello regolamentare, sia su quello contrattuale-collettivo. Tale analisi è stata condotta, com’era inevitabile, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali. Peraltro, definita un’ipotesi del possibile nuovo quadro normativo delle materie attualmente ricomprese nel Titolo I del decreto legislativo n. 626 del 1994 in stretta connessione con l’apparato sanzionatorio, la ricerca si è concentrata su ulteriori aspetti della disciplina, anche con riferimento ai possibili modelli di architettura istituzionale del sistema di prevenzione.

La decisiva importanza delle questioni trattate – risultante sia dal rilievo costituzionale degli interessi in gioco, più volte sottolineato dallo stesso Presidente della Repubblica, sia, purtroppo, dal tragico ripetersi di eventi luttuosi nei luoghi di lavoro, specialmente nel periodo più recente – e la necessità di garantire percorsi di approfondimento di elevato livello scientifico, hanno consigliato di operare in costante confronto con referenti esterni, in particolare giuristi di altre Università con una riconosciuta esperienza scientifica in materia, nonché autorevoli esponenti del mondo giudiziario dotati di indiscussa competenza sulle tematiche oggetto della ricerca. Ciò in omaggio al principio universalmente condiviso secondo cui la qualità della ricerca scientifica può essere adeguatamente garantita solo mediante un costante ed aperto confronto tra gli esponenti di una comunità scientifica, nel rispetto delle doverose cautele imposte dal particolare contesto de iure condendo in cui la ricerca si inserisce.

Rispetto agli obiettivi della ricerca e della metodologia sopra descritti, si è reputato opportuno organizzare le attività di ricerca in due diverse aree, una lavoristica ed una penalistica, articolate al loro interno in specifici sotto-gruppi di lavoro, incaricati di redigere, nel rispetto delle metodologie precedentemente illustrate, appositi papers, ciascuno dei quali capace di dar conto dell’attuale “stato dell’arte legislativo e giurisprudenziale”, delle criticità e delle possibili soluzioni alla luce dei criteri di delega previsti dall’articolo 1 della legge n. 123 del 2007, anche sotto forma di bozza di articolato, verificate alla luce della compatibilità con la normativa comunitaria ed eventualmente suffragate dal confronto con le esperienze straniere.

Una volta predisposti, tali papers sono stati oggetto di ampia ed approfondita discussione sia collegiale interna all’organismo di ricerca, sia in appositi incontri svoltisi nella sede romana dell’ISPESL.

Per quanto concerne l’area lavoristica, nella redazione di tali papers si sono tenute in particolare considerazione le profonde trasformazioni intervenute nel mercato e nell’organizzazione del lavoro sia nel settore privato sia nel settore pubblico, che hanno comportato:

a) la moltiplicazione tipologica dei contratti di lavoro subordinato;
b) il fenomeno dei vari contratti di lavoro autonomo che presentano le caratteristiche della dipendenza socio-economica dal committente;
c) la diffusione di attività con finalità formativa o sociale formalmente non riconducibili ad un rapporto di lavoro;
d) le specifiche esigenze di tutela della salute in riferimento al “genere”, all’età, alla cittadinanza, alla disabilità e allo svantaggio.

Una particolare attenzione è stata riservata, mediante la redazione di due distinti rapporti:

- alle questioni connesse alla rappresentanza collettiva dei lavoratori per la sicurezza, specialmente per quanto concerne il ruolo dei rappresentanti territoriali, e quelle connesse alla informazione e formazione in tema di sicurezza;
- alla rivisitazione, mediante la sua valorizzazione, della procedura connessa alla valutazione dei rischi (di cui all’articolo 4 del decreto legislativo n. 626 del 1994), considerata sia nei suoi aspetti generali sia in quelli specifici, anche per consentire, in una logica lato sensu incentivante, soltanto ai datori di lavoro “in regola” con la disciplina in materia di sicurezza di ricorrere all’utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili di lavoro.

Per quanto concerne l’area penalistica e, pertanto, relativamente all’apparato sanzionatorio, sono state realizzate analisi volte a definire i principali profili problematici connessi alle seguenti tematiche:

- individuazione dei soggetti attivi con specifico riferimento alle attuali definizioni dei soggetti obbligati, alla delega di funzioni e alla disciplina speciale contenuta nella normativa riguardante i cantieri mobili;
- esame delle statistiche elaborate da istituti nazionali ed internazionali allo scopo di individuare le aree “criminologicamente” sensibili, evidenziando gli ambiti di diffusione degli incidenti sul lavoro, la loro tipologia e la specificità dei soggetti infortunati;
- esame della giurisprudenza con particolare riferimento al ruolo dei soggetti passivi dei reati di omicidio e lesioni colpose commessi con violazione delle norme in materia di sicurezza dei luoghi di lavoro;
- verifica della normativa comunitaria alla luce degli sviluppi delle decisioni della Corte di Giustizia delle Comunità Europee;
- analisi della disciplina della “prescrizione”, con particolare riferimento alle indicazioni offerte da ordinamenti europei (Spagna, Francia) ed individuazione delle sue possibili aree di estensione;
- esame del quadro problematico conseguente all’introduzione della responsabilità delle persone giuridiche, con particolare riferimento ai profili di interferenza tra la disciplina organizzativa dettata dal decreto legislativo n. 626 del 1994 ed il sistema dei “compliance programms” di cui al decreto legislativo n. 231 del 2001 ed i riflessi sulla responsabilità penale individuale;
- analisi delle criticità connesse alla tecnica di incriminazione fondata sul rinvio, ai reati di pericolo ed alla responsabilità colposa dei soggetti tenuti a garantire le condizioni di sicurezza del lavoro all’interno dell’impresa.

L’attività dell’unità operativa dell’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” si è svolta, come già ricordato, avvalendosi di un confronto continuo fra i vari componenti della stessa unità e dei referenti esterni, concretizzatosi anche in molteplici incontri svoltisi nella sede della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università finalizzati ad approfondire le varie questioni oggetto di indagine.

La stessa unità operativa ha costantemente aggiornato l’I.S.P.E.S.L., quale soggetto committente del progetto di ricerca, dello sviluppo dell’attività di ricerca mediante frequenti incontri congiunti a carattere seminariale svoltisi a Roma, presso la sede dell’I.S.P.E.S.L.: a tali incontri, oltre ai rappresentanti dei due soggetti firmatari della convenzione, hanno partecipato attivamente rappresentanti del Ministero della salute.

Mediante il suo responsabile scientifico ed i suoi coordinatori scientifici ed organizzativi, l’unità operativa dell’Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” ha altresì partecipato attivamente, in funzione di supporto tecnico-giuridico, ai lavori del gruppo istituzionale – composto da rappresentanti del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, del Ministero della salute e del Coordinamento tecnico delle Regioni – che ha avuto il compito di redigere materialmente la bozza di articolato della decretazione delegata ex legge n. 123 del 2007 da sottoporre all’esame delle parti sociali: tali lavori si sono svolti a Roma presso la sede dell’I.S.P.E.S.L e presso la sede del Ministero del lavoro e della previdenza sociale.”


Da questa breve ricognizione operata sull’elaborato finale del progetto presentato dall’Università degli studi di Urbino, agli atti dell’Istituto [8], emerge quanto sia stato complesso e delicato l’approccio alla materia in esame, che riguarda la “socialità” e tutti i risvolti ad essa connessi, quali ad esempio l’emersione del lavoro nero e il ruolo degli organismi pubblici e delle parti sociali nel sistema sicurezza [9].


2) Le definizioni, il “nuovo” concetto di prevenzione ed il modello dell’art. 2087 c.c.

Come sottolineato in autorevoli sedi [10] “il decreto legislativo è stato elaborato nel pieno rispetto della filosofia delle direttive comunitarie in materia e del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, il quale – come noto – trova i suoi capisaldi nella programmazione della sicurezza in azienda, da realizzare tramite la partecipazione di tutti i soggetti delle comunità di lavoro”. In linea di continuità e per corrispondere alla necessità di rinnovazione della materia, ai sensi della delega, si colloca il nuovo art. 2 che, a parere di chi scrive, rappresenta una delle vere novità del testo unico.

Il Testo Unico è costituito da una parte ricognitiva, che ha tenuto conto non solo della previgente normativa ma anche di quel processo di “sedimentazione giurisprudenziale” che nel nostro ambito è particolarmente importante, e da una parte innovativa che ha riguardato anche la sistematica del testo stesso.

In questa logica occorre chiedersi il “perché” delle definizioni di cui all’art. 2 e di quanto esse siano importanti per la reale fruibilità del testo unico da parte degli operatori.

In effetti i compilatori hanno considerato come molto ampi i margini della delega, anche se non tutta la materia è stata ricompresa nel testo unico che difatti non può considerarsi un “unico testo” in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro [11].

Occorre tuttavia sforzarsi per cogliere nell’art. 2 una delle novità della normativa, che consiste nella definizione delle posizioni soggettive individuali (questa volta adeguatamente circoscritte) e nelle nozioni che finora non erano mai state sistematicamente raccolte nell’ incipit di una norma di settore[12].

Come detto, l’intento del compilatore è quello di mettere a disposizione dell’utente un prodotto fruibile che possa essere facilmente compreso ed adattato alla realtà produttiva. Se il sistema della sicurezza costituisce ormai “un’organizzazione nell’ambito della più ampia organizzazione lavorativa”, ecco che la norma vuole porsi come strumento per realizzare quest’organizzazione e che le definizioni, pertanto, costituiscono la base di questo sistema.

Secondo un recentissimo commentario sul testo unico infatti “L’elenco dell’art. 2 … semplifica dunque l’operazione di ricerca del significato del termine all’interno delle varie norme. Ma soprattutto costituisce una sorta di vocabolario della sicurezza utilizzabile, con la consapevolezza della sintesi che lo strumento impone, come guida per avere un’immediata risposta del significato delle nuove disposizioni”[13].

Già il d.lgs. 626/94 aveva ribaltato la visione del datore di lavoro che “controllava” ai fini della prevenzione della salute, tutto il processo produttivo, per introdurre un importante concetto di cooperazione tra tutti gli attori della sicurezza [14]. Proprio questo concetto di sicurezza condivisa e compartecipata, secondo cui il “sistema” funziona se i vari “attori” si parlano, è stato sviluppato ed ampliato nella stesura del testo unico.

In effetti oltre a riscrivere le posizioni soggettive dei vari attori (datore di lavoro, lavoratore, dirigente preposto, medico competente, responsabile e addetto al servizio prevenzione e protezione e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza), l’art. 2 si preoccupa di definire alcuni concetti fondanti del nostro settore, come quelli di “prevenzione”, “salute”, “norma tecnica”,“buone prassi” ecc..

L’intento dell’art. 2 è dunque quello di far chiarezza nella materia e rendere nel contempo fruibili dei concetti, magari già conosciuti ma sparsi nel vasto “corpus normativo”, al fine di rendere più efficace la “Gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro” di cui al capo III del titolo I.

Questa operazione è ancora più importante nel contesto attuale dove si è definitivamente chiarita ed acclarata l’importanza delle posizioni di garanzia; pertanto chi assume i ruoli innanzi cennati, deve necessariamente conoscere e quindi poter compiutamente governare quel processo o quel segmento di processo cui è preposto, ai fini della sicurezza.

Tale lettura deve essere effettuata tenendo presente altresì l’evoluzione della nozione di lavoratore ai fini della sicurezza elaborata da dottrina e giurisprudenza, essendo ormai il concetto di lavoratore sdoganato dal confine del “rapporto sinallagmatico contrattuale col datore di lavoro” (secondo quanto disposto nella legge delega e a tutte le tipologie di rapporto in essa ricomprese) [15], e inteso come soggetto “esposto al rischio” del processo produttivo di cui è parte. Appare dunque necessario ribadire quali siano le posizioni di garanzia che governano il rapporto di lavoro ai fini della sicurezza dello svolgimento dello stesso.

La norma rivelatrice di questa ormai acclarata e condivisa visione è, come noto, l’art. 299 del testo unico, laddove viene stabilito che “ Le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) (datore di lavoro dirigente e preposto) gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti”.

Ecco quindi emergere finalmente per tabulas quanto la giurisprudenza aveva affermato già da lungo tempo, ossia che la responsabilità penale del datore di lavoro in tema di violazione delle norme di sicurezza sul lavoro debba individuarsi in presenza di tre elementi costitutivi:

• il primo di carattere formale, riconducibile alla titolarità effettiva del rapporto lavorativo;
• il secondo soggettivo, legato alla responsabilità del soggetto;
• l’ultimo rapportato al principio di effettività delle funzioni, con riferimento alla autonomia decisionale ed alla possibilità di spesa.

Peraltro la Corte di Cassazione con una significativa pronuncia [16] chiarisce il grado di esigibilità della condotta che si assume essere virtuosa, distinguendo gli obblighi giuridici astratti dai doveri di diligenza previsti dalla legge e concretamente esigibili.

Secondo tale pronuncia nessun soggetto può essere chiamato a rispondere di obblighi che non aveva la materiale possibilità di adempiere, perché ciò sarebbe in contrasto con il principio della personalità della responsabilità penale. Pertanto l’individuazione del datore di lavoro va effettuata non tanto basandosi su formalità giuslasvoristiche (quali il soggetto che ha stipulato il contratto) quanto esaminando in concreto l’organizzazione aziendale e l’effettivo esercizio del potere decisionale al quale è indissolubilmente legato il dovere di sicurezza. In tal senso anche prima del d.lgs. 626/94 l’orientamento giurisprudenziale è sempre stato univoco.

La dottrina e la giurisprudenza hanno definito un indice presuntivo per individuare, nei casi controversi, il datore di lavoro che viene così definito quale colui che decide l’effettuazione delle spese sostenute per attuare il sistema prevenzionale; la Cassazione, con più pronunce, ha spesso ritenuto rilevante anche l’assunzione volontaria di tali poteri, se risultante da atti inequivoci.

Non potendo, per ragioni di sistematica e di tempo, affrontare compiutamente le molteplici tematiche sottese alle definizioni di cui all’art. 2, mi preme tuttavia sottolineare come, proprio in quest’ambito, sia avvenuta l’azione di recupero (se mai ci fosse stato bisogno di recuperare qualcosa) dei principi dell’art. 2087 c.c., considerato come “grande assente” (così come definito da recentissima ed autorevole dottrina) nell’impianto della legge delega [17].

Come è stato più volte ricordato, la norma codicistica [18], che non implica un caso di responsabilità oggettiva, oltre a delineare la posizione di garanzia per antonomasia (ossia quella del datore di lavoro), conferisce alla stessa un dinamismo ed un’attualità assolutamente sorprendenti.

Infatti la locuzione: “secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica”, comprende almeno due concetti di tipo “dinamico” (appunto, l’esperienza e la tecnica) che richiedono un continuo aggiornamento della posizione di garanzia secondo l’evoluzione di quei due concetti.

I compilatori del testo unico hanno giustamente considerato questi momenti legati all’attività produttiva, peraltro fissati in una norma del 1942, come attualissimi e necessari per la riscrittura del sistema e pertanto li hanno riportati, “rinnovandoli”, nella definizione cardine contenuta nella lettera n) del più volte citato art. 2.

“n) «prevenzione»: il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno;”

L’aver rinnovato questi concetti in una nuova importante definizione conferisce grandissima forza al sistema, ancorandolo ancora meglio ai capisaldi di una consolidata giurisprudenza orientata a cercare sempre di individuare chi “effettivamente è in grado di conoscere e governare il processo produttivo”.


3) Le posizioni di garanzia e la loro dinamica nel capo III del titolo I del testo unico.

In questo breve paragrafo cercherò di portare in luce come le cennate posizioni di garanzia trovino la loro dinamica nell’ambito della gestione della prevenzione nei luoghi di lavoro.

Mi preme in particolare sottolineare la sistematica e la sequenza delle norme nel Capo in questione. Infatti la sistematica delle norme è uno dei criteri fondamentali per operare una corretta interpretazione delle fonti.

Appare di tutta evidenza come la collocazione in apertura del Capo III, dopo l’art. 15 (che riguarda le misure generali di tutela), di una norma nuova e importante per il nostro sistema come quella concernente i poteri di delega, ci fa comprendere quanto l’intento dei compilatori sia stato fortemente orientato a tentare di rendere “l’organizzazione (del sistema sicurezza) nell’organizzazione (del sistema produttivo) più agevole e soprattutto più conforme ai criteri produttivi del processo.

Tale potere organizzatorio viene peraltro definito ancor prima degli obblighi riguardanti le varie posizioni di garanzia (datore di lavoro, dirigente e preposto).

Non più dunque un testo meramente elencativo di obblighi correlati a responsabilità e di compiti “ancillari” quali quelli del responsabile del servizio prevenzione e protezione (che in alcuni casi hanno dato origine anche a condanne in sede penale), ma un testo capace di fornire, in primo luogo, gli strumenti per organizzare il sistema sicurezza ed eventualmente distribuire ed “organizzare” (secondo quanto stabilito nella legge) le posizioni di garanzia nei vari ambiti del processo produttivo. Chiaro lo scopo, chiare le definizioni, chiaro il modo di organizzare il sistema “effettivamente ed efficacemente preventivo della causazione dell’evento”.

Del resto occorre prendere atto di come il sistema della delega, in precedenza non regolato nel sistema prevenzionale ma mutuato da quello civilistico, sia largamente utilizzato nel settore e pertanto necessitasse di una previsione e sistemazione a livello normativo.

Sempre in tema di organizzazione del sistema, corre obbligo di segnalare anche l’art. 30 che introduce i modelli di organizzazione e di gestione idonei ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle imprese di cui al d.lgs. 231/2001.

Senza addentrarci ulteriormente nelle tematiche della delega, ben chiarite dal Prof. Bacchini in recenti scritti [19], si è voluto qui brevemente ribadire lo spirito del Capo III che sicuramente costituisce una delle novità più importanti del testo unico.


4) Aspetti della sicurezza sul lavoro legati alle pubbliche amministrazioni e in particolare nelle strutture giudiziarie e penitenziarie.

Con riferimento al tema di questo paragrafo, si rimanda all’allegato commento il quale, ancorché non aggiornato al testo unico, risulta assolutamente attuale nei contenuti e nella giurisprudenza [20].

Tale contributo di studio deve essere inteso esclusivamente come un approfondimento comparativo, in ordine alle problematiche relative alla sicurezza nelle strutture giudiziarie e penitenziarie, certamente meglio affrontate in altri interventi del seminario.


5 ) Lo stress nel lavoro organizzato

Solo alcune brevi considerazioni in merito all’importanza di quest’ultimo aspetto, fortemente legato all’ambito del rinnovato concetto di “Salute” inteso come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità” voluto dal testo unico [21].

L’art. 28 nell’ambito dell’operazione di valutazione dei rischi indica come oggetto di valutazione anche “…omissis…quelli collegati allo stress da lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo del 2004 omissis…..” al fine di ribadire l’importanza e la portata dell’espressione “tutti rischi” (la cui mancata previsione nel previgente impianto del d. lgs, 626/94 ha costituito uno dei punti di condanna per l’Italia da parte della Corte di giustizia della Comunità Europea [22].

Come osservato da recente dottrina [23]“ l’accordo europeo del 2004 spiega che lo stress da lavoro è considerato a livello internazionale, europeo e nazionale, un problema sia dei datori di lavoro che dei lavoratori”. Come ben spiegato “…. l’accordo offre ai datori di lavoro e ai lavoratori un modello che consente di individuare e di prevenire o gestire i problemi di stress da lavoro” [24].

Con riferimento ai rischi psicosociali occorre sottolineare in generale che essi riguardano le interazioni tra il contenuto del lavoro, inteso come condizioni ambientali e organizzative, da un lato, e le esigenze e competenze dei lavoratori dipendenti dall’altro.

A tale proposito corre l’obbligo segnalare che l’Ispesl nell’ambito del dipartimento di Medicina del lavoro ha avviato, da lungo tempo, diverse azioni e progetti di ricerca volti a definire e meglio approfondire le tematiche legate appunto ai rischi psicosociali.

Tra queste iniziative si segnala il Centro nazionale d’ascolto per il mobbing e per il disagio psicosociale (istituito nel 1999 appunto presso il Laboratorio di Psicologia del Lavoro di detto dipartimento); dai dati emersi dalle testimonianze si evince che il 55% dei casi segnalati è da ricondursi a problemi di organizzazione del lavoro [25].

Ancora più importante in quest’ambito è la costituzione del Network nazionale per la prevenzione del disagio psicosociale nei luoghi di lavoro, istituito con un decreto dell’ISPESL nel febbraio del 2007, che ne cura il coordinamento nazionale. Ad esso vi afferiscono 16 centri clinici dedicati (ASL, Università, Ospedali) che rappresentano altrettante regioni italiane. Obiettivo del Network è quello di omogeneizzare su tutto il territorio nazionale il protocollo diagnostico e le condotte di tipo prevenzionistico [26].


5.1 Fattori di rischio psicosociale e loro riflessi sul mobbing.

I cambiamenti in atto nel mondo del lavoro sono spesso oggetto di disamina dal punto di vista dell’efficienza del processo produttivo, ma non sempre vengono affrontati gli effetti che tali cambiamenti hanno sul benessere psicofisico del lavoratore. La trasformazione dell’organizzazione del lavoro ha fatto emergere nuovi rischi identificabili come rischi psico-sociali.

Per rischi psico-sociali devono intendersi quegli aspetti della progettazione del lavoro ed il loro contesto sociale ed ambientale, che hanno la potenzialità di causare danno psicologico o fisico. Nell’ambito dei rischi psico-sociali occorre individuare i così detti fattori di rischio. Sono da considerarsi come fattori di rischio quelli legati all’interrelazione tra l’organizzazione, la progettazione del lavoro e le condizioni sociali ed ambientali.

Tali fattori influiscono in modo preponderante sulle condizioni di benessere o malessere del lavoratore. A tale proposito giova ricordare che ogni ambito lavorativo si muove su due livelli, quello formale e quello informale, i quali, a loro volta, sono l’espressione di dinamiche razionali ed emozionali dell’individuo. Il dinamismo del sistema richiede un continuo aggiustamento e l’eccessivo squilibrio di questi elementi determina un aumento di stress e pertanto del rischio.

In tale contesto interagiscono aspetti formali riguardanti la tecnologia, le mansioni, le procedure, gli obiettivi e la struttura organizzativa, ed aspetti informali che riguardano la cultura organizzativa ed il clima organizzativo stesso, nonché le attitudini e le interazioni del singolo con le norme di gruppo.

Da alcune indagini svolte nell’ambito pubblicistico possono segnalarsi, quali specifici fattori di rischio attinenti l’organizzazione del lavoro, quelli riguardanti l’ambiguità di ruolo ed i conflitti di ruolo presenti nei vari processi.

A titolo meramente esemplificativo si segnalano, quali fattori di rischio, quelli riguardanti lo sviluppo della carriera, il blocco carriera o l’incertezza della stessa, la mancanza o l’eccesso di promozioni, la scarsa retribuzione e l’insicurezza lavoro.

Un altro aspetto dei rischi è legato all’ampiezza delle decisioni e del controllo operati che possono concretizzarsi o in una bassa partecipazione ai processi decisionali o in una carenza di controllo sul lavoro o infine in restrizioni comportamentali.

Da ultimo vanno sicuramente ricordati i fattori individuali e le relazioni interpersonali sul lavoro, che possono tradursi in un isolamento sociale o fisico, in scarse relazioni con i superiori od in conflitti interpersonali.

Un possibile rimedio preventivo a detti fattori è fornito dalla comunicazione e dalla vigilanza costante in determinate situazioni. Peraltro si evidenzia che può risultare, ancora una volta molto utile effettuare riscontri con il medico competente sull’insorgenza di tali fattori di rischio.

Non a caso la cultura della sicurezza è strettamente legata alla qualità della comunicazione nell’organizzazione. Essa richiede la condivisione di un linguaggio comune, un atteggiamento cooperativo volto al raggiungimento di scopi comuni.

Per ragioni di sistematica ed al fine di ricordare e comprendere lo sforzo evolutivo operato dalla giurisprudenza del settore, nelle pagine che seguono si ripercorreranno, a grandi linee, le tappe che hanno portato a delineare le varie voci di danno concernenti la tematica che ci occupa.

Per arrivare a definire il “mobbing”, che è istituto estraneo al nostro ordinamento (mutuato dallo studio scientifico del comportamento dei primati) [27], mi sia concesso, benevolmente, partire dai prodromi della nostra giurisprudenza i quali, consentono logicamente di esaminare, nelle varie sfaccettature, la fattispecie.

Senza ripercorrere, in questa sede, il complesso itinerario dottrinale e giurisprudenziale che ha condotto alla ridefinizione delle «mobili frontiere» del danno non patrimoniale, è necessario tuttavia richiamare sinteticamente i concetti fondamentali delle varie voci di danno al fine di consentire l'ingresso, nell'attuale sistema risarcitorio, di una nuova voce di danno non patrimoniale, altra rispetto al danno biologico, risarcibile anche in mancanza di una fattispecie di reato.


5.2 Il danno biologico

Come noto, nella dottrina civilistica e nella giurisprudenza maturate sino agli anni ’70 il danno alla persona assumeva rilievo soltanto in quanto avente conseguenze di natura patrimoniale: l’art. 2043 c.c. (Risarcimento per fatto illecito), limitandosi a prevedere unicamente i danni patrimoniali e i danni non patrimoniali, risarcibili in quanto conseguenza di un fatto costituente reato (art. 2059 c.c. Danno non patrimoniale), non prevedeva la persona nel suo valore più strettamente umano e nella sua complessità psicofisica, ambientale e relazionale.

L’individuo, ai fini del risarcimento, assumeva rilievo soltanto se capace di produrre reddito, in contrasto quindi con quanto previsto dagli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione dai quali si ricava il carattere fondamentale del diritto alla salute, la cui violazione genera un illecito allorquando si accerti il nesso di causalità tra il danno ed il fatto doloso o colposo di un terzo (art. 2043 c.c.).

Da qui la necessità di risarcire il cosiddetto danno biologico, inteso come danno alla salute in sé e per sé considerato, indipendentemente dalle conseguenze sull’attitudine a produrre reddito provocate dall’evento dannoso, ricomprendendo nel concetto di danno biologico sia la lesione fisica sia quella psichica e mentale.

Sia la dottrina che la giurisprudenza iniziarono a considerare che il danno biologico, in quanto direttamente collegato al principio del c.d. neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., andava ricondotto nell’ambito dei danni ingiusti, cioè prodotti non iure e contra ius, danni cioè lesivi di un interesse giuridicamente apprezzabile e tutelato dall’ordinamento, causati da un fatto doloso o colposo di un terzo.

La Corte Costituzionale con la sentenza del 14 luglio 1986 n. 184 [Cfr.All.1 Giurisprudenza] ha posto le fondamenta di tutte le successive pronunce giurisprudenziali in materia.

Secondo la Consulta l’art. 2043 c.c. è una sorta di “norma in bianco”. L’illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere dell’obbligazione risarcitoria, viene indicata unicamente attraverso “l’ingiustizia” del danno prodotto dall’illecito.

Il collegamento tra l’art. 32 Cost. e l’art. 2043 c.c. ha permesso alla Corte di affermare che, dovendosi il diritto alla salute certamente ricomprendere tra le posizioni subiettive tutelate dalla Costituzione, è indubbia la sussistenza dell’illecito, con conseguente obbligo alla riparazione, in caso di violazione del diritto stesso. L’ingiustizia del danno biologico e la conseguente sua risarcibilità derivano direttamente dal collegamento tra l’art. 32, 1° comma Cost. e l’art. 2043 c.c..

Pertanto, secondo la Corte Cost., l’art. 2043 c.c. correlato all’art. 32 Cost. va esteso fino a comprendere il risarcimento non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma di tutti quei danni che ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, di guisa che il risarcimento dovuto per la lesione del bene “salute” non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sulla idoneità del soggetto a produrre reddito, ma deve autonomamente comprendere anche il c.d. danno biologico, inteso come menomazione della integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore “uomo” in tutta la sua dimensione; e che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita e di lavoro, ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica [Cass. 25.5.1985 n. 3212 ; Cass. 21.03.1986 n. 2120; Cass. 14.01.1998 n. 208 (Cfr.All.2 Giurisprudenza)].

Nella sentenza della Cassazione n. 411/1990 [Cfr.All.3 Giurisprudenza] in caso di fatto illecito lesivo della integrità psicofisica della persona, il danno patrimoniale risarcibile non è costituito soltanto dalle conseguenze pregiudizievoli correlate all’efficienza lavorativa ed alla capacità di produzione del reddito, ma si estende a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute in sé considerato, quale diritto inviolabile dell’uomo alla pienezza della vita ed all’esplicazione della propria personalità morale, intellettuale e culturale.

Nelle sentenze della Corte Cost. del 1991 nn. 356 e 485 [Cfr.All. 4 e 5 Giurisprudenza]il danno biologico è definito come danno alla persona di carattere psicofisico, il quale sussiste a prescindere dalla eventuale perdita o riduzione del reddito e che va riferito quindi, non soltanto alla sfera produttiva ma anche a quella spirituale, culturale, affettiva, sociale e ad ogni altro ambito in cui il soggetto svolge la propria personalità.

Alla luce del panorama giurisprudenziale fin qui richiamato, si può asserire che nel nostro ordinamento giuridico il danno biologico ha assunto una posizione prioritaria rispetto ad ogni altro tipo di danno alla persona. Infatti all’interno della nozione di danno biologico rientrano tutte conseguenze pregiudizievoli che dalla lesione della salute influiscono sulla qualità della vita del soggetto offeso, rimanendo escluso solo il danno patrimoniale in senso stretto [Cass. 1937/2003 (Cfr.All.6 Giurisprudenza)].

E’ lecito, quindi, sostenere che nella nozione di danno biologico rientrino tutte le ipotesi di danno “non reddituale”, e cioè i danno estetici, quelli alla vita di relazione, nonché i danni da riduzione della capacità lavorativa generica.

Quindi, il danno alla salute o “danno biologico” comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito che la lesione del bene alla salute abbia provocato alla vittima e non è concettualmente diverso dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione.

In tal senso il danno biologico è riferibile a qualsiasi atto amministrativo illegittimo che vada ad incidere in varia guisa su un diritto della persona, in particolare quando il soggetto è costretto ad assumere un comportamento non voluto o, viceversa, a rinunciare ad una condotta che ritiene corretta e congrua.

Questo concetto è da ritenersi ormai pacifico ed indiscutibile, così come la natura “non reddituale” già ricordata è stata più volte confermata dalla Suprema Corte di Cassazione con numerose sentenze dal contenuto univoco ormai completamente recepito dagli organi giudiziari competenti.

Tuttavia questo orientamento ha subito una correzione ed una integrazione in senso più ampio in ragione di una interessante sentenza del T.A.R. della Campania [6 maggio 2004 n° 8235 (Cfr.All.7 Giurisprudenza)] che, partendo dalla definizione sopra accennata, in applicazione dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2043 c.c., giunge a ricomprendere nella nozione di danno biologico tutti i comportamenti lesivi che ostacolano le attività realizzatrici della persona umana e quindi anche la “temporanea impossibilità o diminuzione delle normali occasioni di vita”, intesa come ridimensionamento o privazione di un valore fondamentale dell’essere umano, anche in mancanza di danno economico [in tal senso anche Cass. Sez. III 27.11.2001, n°15034 (Cfr.All.8 Giurisprudenza)].

La sentenza sopra menzionata è importante perché per la prima volta valuta come idonea a concretare un danno biologico la “perdita di chances”, intesa come probabilità in funzione del fattore tempo, quale valore economico suscettibile di creare nuovo reddito, cioè la probabilità di rendita dell’investimento del capitale umano nel tempo.

Una volta chiarito il concetto, in verità, di non immediata comprensione, è evidente la difficoltà della determinazione e quantificazione dell’eventuale risarcimento : come si può ipotizzare il futuro di un essere umano, come è possibile “indovinare” cosa un uomo avrebbe potuto realizzare nella sua professione e nella sua vita se non si fosse verificato l’evento che si assume essere stato lesivo?

Se viene superata la soluzione transattiva, soccorre il calcolo delle probabilità, con tutte le perplessità che è lecito nutrire sulla attendibilità di questa valutazione; secondo la definizione cosiddetta “soggettivista” la probabilità del verificarsi di un evento può ipotizzarsi sul grado di fiducia che un individuo, sulla base di conoscenze possedute in un determinato momento, nutre nel verificarsi di quello stesso evento.

Da ciò si può dedurre la complessità della valutazione che il Giudicante dovrà effettuare se vorrà quantificare il danno biologico come perdita di chances.


5.3 Differenze tra danno biologico e danno patrimoniale

Come noto occorre distinguere il danno biologico da quello patrimoniale in quanto riguardanti due diverse sfere di riferimento:

- il danno biologico è l’evento del fatto lesivo della salute, interno al fatto illecito, è inerente alla gravità della inabilità ed in relazione ad un fatto illecito è sempre presente e deve essere rigorosamente provato;

- il danno patrimoniale (art. 1223 c.c.) è un danno conseguenza, esterno al fatto illecito, e concernente la riduzione della capacità di guadagno nella sua duplice articolazione di danno emergente (è il danno immediato e diretto: es. spese mediche) e lucro cessante (è mancato guadagno: es. per non aver lavorato nei giorni di inabilità), può anche non esistere e deve essere rigorosamente provato (danno conseguenza).

In caso di illecito lesivo dell’integrità psicofisica della persona, detta menomazione dà luogo di per sé a danno biologico, che come tale va provato e risarcito indipendentemente dal fatto che da esso sia derivata anche una perdita patrimoniale.

Ne deriva che la riduzione della capacità lavorativa generica – attitudine del soggetto di svolgere utilmente qualsiasi attività lavorativa – è risarcibile sotto il profilo del danno biologico.

Qualora, invece, alla riduzione della capacità lavorativa generica si associ una riduzione della capacità lavorativa specifica (ossia dell’attitudine del soggetto di attendere a quella particolare e determinata attività che utilmente svolge), la quale a sua volta dà luogo ad una perdita della capacità di guadagno, detta diminuzione integra un danno patrimoniale. La prova della sussistenza di quest’ultimo spetta al danneggiato e può essere anche presunta, purchè sia certa la riduzione della capacità lavorativa specifica (Cass. 6291/2003; Cass. 13409/2001; Cass. 10289/2001; Cass. 1512/2001; Cass. 10725/2000) [Cfr.All.9 Giurisprudenza].


5.4 Il danno psichico.

Il danno psichico (inteso come danno comportamentale privo di manifestazione esteriore tangibile, caratterizzato dalla riduzione, temporanea o permanente, di una o più funzioni psichiche della persona) rappresenta una componente del danno biologico.

Il bene della salute costituisce, come tale, oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), sicché il risarcimento dovuto per la sua lesione deve autonomamente comprendere il cd. danno biologico, inteso come menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé considerata, in quanto incidente sul “valore uomo” in tutta la sua dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza ma si collega alla somma delle funzioni naturali riguardanti il soggetto nel suo ambiente di vita ed aventi rilevanza non solo economica ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica. Il danno biologico può sussistere non soltanto in presenza di una lesione che abbia prodotto postumi permanenti, ma anche in presenza di lesioni che abbiano causato uno stress psicologico. Secondo la dottrina prevalente la lesione deve avere un carattere permanente e non mutevole, non potendo essa risolversi in un momentaneo disagio personale.

Tra le situazioni caratterizzanti l’insorgenza del danno psichico rientra certamente il mobbing.


5.5 Il danno morale.

Il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. è definito anche danno morale e comprende non soltanto le afflizioni e i dolori fisici o psichici cagionati dall’illecito (pecunia doloris), ma anche il “transeunte turbamento psicologico del soggetto offeso”.

La richiesta di risarcimento del danno morale non esclude quelle per danno patrimoniale o biologico.

La norma sul danno morale di cui all’art. 2059 c.c. (danno consequenziale al danno biologico ma da questo concettualmente distinto, attenendo il primo alla sfera della salute, mentre il secondo attiene specificatamente a tutte le sofferenze psichiche e morali subite a causa del comportamento illecito dell’agente) si ispira agli stessi criteri risarcitori “integrali” di cui all’art. 2043 c.c. e non ha, pertanto, natura indennitaria del pretium doloris, ma considera tutte le sofferenze di ordine psichico e morale che il danneggiato subisce in conseguenza dell’evento dannoso ingiusto e si fonda sul principio costituzionale di cui all’art. 2 della Costituzione che tutela e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo.

Il Legislatore, però, aveva limitato il risarcimento del danno morale alle sole ipotesi previste dalla legge, cioè alle ipotesi di reato ex art. 185 c.p..

La Corte Costituzionale con la sentenza del 30.06.2003 n. 233 [Cfr.All.10 Giurisprudenza] ha interpretato l’art. 2059 c.c. in termini del tutto innovativi, asserendo che tale norma deve essere interpretata nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge.

Secondo la Consulta l’art. 2059 c.c., stabilendo che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi previsti dalla legge, circoscriveva originariamente la risarcibilità all’ipotesi del danno non patrimoniale derivante da reato contemplata dall’art. 185 c.p. e le conferiva un carattere sanzionatorio.

Secondo la Corte l’indirizzo sopra esposto risulta, tuttavia, destinato ad entrare in crisi per effetto della evoluzione sull’area di risarcibilità del danno non patrimoniale.

Da un lato il legislatore ha introdotto ulteriori casi di risarcibilità del danno non patrimoniale estranei alla materia penale, dall’altro la giurisprudenza, sia pure muovendosi nell’ambito di operatività dell’art. 2043 c.c., ha da tempo individuato ulteriori ipotesi di danni sostanzialmente non patrimoniali, derivanti dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, risarcibili a prescindere dalla configurabilità di un reato (es.: il danno biologico).

Su tale base, pertanto, anche il riferimento al “reato” contenuto nell’art. 185 c.p., in coerenza con la diversa funzione assolta dalla norma impugnata, non postula più, come in passato, la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all’astratta previsione di una figura di reato, con la conseguente possibilità che ai fini civili la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge.

In due pronunce della Cassazione [nn. 8827 e 8828 del 2003 (Cfr.All.11 Giurisprudenza)] viene prospettata, nel quadro di un sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere, nell’astratta previsione della norma, ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesioni di valori inerenti alla persona; e, dunque, sia il danno morale inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima, sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità fisica e psichica della persona, conseguente ad un accertamento medico, sia infine il danno definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale in quanto derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.

Nell’ambito del rapporto di lavoro le ipotesi in cui può essere ravvisata l’insorgenza di un danno morale sono le seguenti:

- infortuni sul lavoro e malattie professionali, in virtù del combinato disposto degli artt. 2087 c.c. (tutela delle condizioni di lavoro) e 590 c.p. in tema di violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro;

- violazione degli obblighi di prevenzione e sicurezza sul lavoro;

- nel mobbing, in virtù del combinato disposto degli artt. 2087 c.c. (tutela condizioni di lavoro), 660 c.p. (molestie e disturbo alle persone), 610 c.p. (violenza privata), 572 c.p. (maltrattamenti); 595 c.p. (diffamazione).


5.6 Il danno esistenziale

La Corte Costituzionale con la sentenza 233/2003 (Cfr.All.10 Giurisprudenza) ha ritenuto che nell’astratta previsione della norma di cui all’art. 2059 c.c. deve ricomprendersi ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: sia il danno morale, sia il danno biologico sia il danno cosiddetto esistenziale.

Va tuttavia menzionato un diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui il danno esistenziale si riferisce alla medesima lesione e alla medesima sofferenza del danno morale; vi è quindi, sovrapponibilità concettuale e giuridica tra danno morale e danno esistenziale [Trib. Roma 7.03.2002 (Cfr.All.12 Giurisprudenza)].

Il danno esistenziale non è, comunque, risarcibile nei casi in cui la legge consente la liquidazione del danno morale [Cass. Civ. Sez. I, n.15449/2002 (Cfr.All.13 Giurisprudenza)].


5.7 Prova del danno, nesso di causalità e liquidazione.

La responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c..

Tale responsabilità è esclusa soltanto in caso di:

- dolo del lavoratore;
- rischio elettivo, ossia rischio generato da un’attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa o che esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa;
- comportamento del dipendente che presenti i caratteri dell’abnormità e dell’assoluta imprevedibilità, da valutare anche in considerazione dell’esperienza lavorativa del dipendente medesimo. L’obbligo di vigilare sulla osservanza da parte dei lavoratori delle misure di sicurezza, incombente in capo al datore di lavoro ex art. 4 D.P.R. n. 547/1955 (ora abrogato dal d.lgs. 81/08 e sostituito dal sistema di vigilanza sopra cennato) ed ex art. 2087 c.c., non si estende fino a comprendere quello di impedire comportamenti anormali ed imprevedibili posti in essere in violazione delle norme sulla sicurezza.

Tuttavia, l’eventuale colpa del lavoratore per negligenza, imprudenza o imperizia non elimina la responsabilità del datore di lavoro, sul quale incombe l’onere di provare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.

Va sottolineato che in tema di responsabilità, che sorge in capo al datore di lavoro a causa della violazione delle disposizioni di cui all’art. 2087 c.c., la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa o il dolo dell’altra parte, dato che ai sensi dell’art. 1218 c.c. è il datore di lavoro che deve provare che il pregiudizio che colpisce la controparte deriva da causa a lui non imputabile.

Incombe sul presunto danneggiato l’onere di dimostrare che l’asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Ne deriva, quindi, che ai fini dell’accertamento della responsabilità del datore di lavoro, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure della nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altra senza che occorra anche l’indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Ai fini dell’insorgenza della responsabilità occorre che l’evento si verifichi in conseguenza della condotta omissiva o commissiva dell’agente individuandosi la presenza del c.d. nesso causale tra condotta ed evento.

Per stabilire la sussistenza del nesso causale tra fatto dannoso ed evento di danno non si può far ricorso né alla causalità naturalistica, né alla causalità statistica.

Per accertare il nesso eziologico bisogna valutare tutti gli elementi della fattispecie, al fine di stabilire se il fatto era obiettivamente e concretamente idoneo a produrre l’evento.

E’ evidente che l’accertamento dell’esistenza del nesso di causalità tra il danno lamentato e la condotta antigiuridica del datore di lavoro non può esaurirsi nella mera enunciazione di una formula ma è meritevole di un approfondimento particolare; l’evoluzione giurisprudenziale sull’argomento è stata laboriosa e sempre più tesa ad una valutazione rigorosa del comportamento datoriale, anche al fine di evitare facili indennizzi per chi potrebbe essere solo asseritamente vittima di comportamenti mobbizzanti.

Si possono assumere come punti di partenza per valutare l’esistenza o meno del nesso di causalità alcuni paradigmi elaborati nell’ambito della pratica medico – legale.

In primo luogo è necessario che la causa (il comportamento mobbizzante) sia precedente al danno; è poi indispensabile valutare la “qualità” del comportamento asseritamente lesivo, nel senso che il fatto deve essere adeguato a produrre quel tipo di reazione nel soggetto e quindi il danno nelle varie forme che poi esamineremo più da vicino. Soccorre poi un criterio quantitativo, per cui il fatto lesivo deve avere caratteristiche di durata e di ripetitività idonee a produrre il danno.

Da ultimo è necessario che il comportamento che si assume lesivo si sia manifestato in modo inequivocabile ed adeguato a produrre l’evento dannoso.

Una sentenza di particolare interesse, relativamente recente, è la n° 6572 del 24 Marzo 2006 (Cfr.All.14 Giurisprudenza). della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ove si ribadisce il principio secondo il quale il lavoratore deve dimostrare, anche con l’ausilio di prove testimoniali, i concreti cambiamenti subiti in senso peggiorativo della propria qualità di vita conseguentemente al fatto lesivo posto in essere dal datore di lavoro.

E’ del pari importante chiarire la natura dell’inadempimento; il principio di base che ha ispirato i Giudici della Suprema Corte è stato quello di qualificare il demansionamento o la dequalificazione del lavoratore come una responsabilità di natura contrattuale nel cui ambito si deve collocare qualunque danno lamentato dal prestatore d’opera in esito a comportamenti mobbizzanti.

Questo orientamento non è sempre stato pacifico ed incontestato ma attualmente la tesi maggioritaria in dottrina ed in Giurisprudenza è quella sopra menzionata. Tale tesi merita un chiarimento ulteriore, essendo il presupposto che giustifica l’evoluzione processuale dei procedimenti per mobbing.

Stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, sia se attinente alla lesione della professionalità, sia quello che deriva da un nocumento apportato alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza già ritenuta illecita sul piano contrattuale: nel primo caso (lesione alla professionalità) il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’art. 2103 c.c. mentre nel secondo caso (danno alla salute o alla personalità) la norma violata deriva dall’obbligazione sancita dall’art. 2087 c.c..

Queste norme sono già ispirate dalla volontà del Legislatore di inserire nell’ambito del rapporto di lavoro i principi costituzionali.

In entrambi i casi, pertanto, giacchè l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’art. 1218 c.c., con conseguente esonero dell’onere della prova sulla sua imputabilità che va regolata in stretta connessione con l’art. 1223 c.c..

Vi è da aggiungere che l’ampia locuzione usata dall’art. 2087 c.c. (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diritto di accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali e quindi non è necessario verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del codice civile.

Se, come sin qui esposto, il comportamento che si assume illecito rappresenta un inadempimento contrattuale non è possibile far conseguire ad esso automaticamente l’esistenza di un danno. L’inadempimento ex artt. 2103 e 2087 c.c. ha già per sua natura carattere sanzionatorio in quanto prevede l’obbligo di ristoro del danno.

Quindi per aversi “danno” è necessario che l’inadempimento produca una lesione aggiuntiva e per certi versi autonoma.

Alla luce di questa considerazione il lavoratore che chieda la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento di un danno subito a causa della lesione del proprio diritto ad eseguire la propria prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, oltre a dover provare l’esistenza del danno, dovrà fornire al Giudicante la prova del nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro e tale accertamento costituisce un presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa.

Nel caso del tipo di danno più facilmente riconoscibile, il danno biologico, non può prescindersi dall’accertamento medico – legale.

Del pari nel caso di danno professionale, che ha natura patrimoniale e può verificarsi in diversi modi, la prova dovrà consistere nell’indicare quali vantaggi professionali siano venuti meno a causa del demansionamento o quali aspettative siano state frustrate dalla forzata inattività.

Infine per accertare l’esistenza di un danno esistenziale non sarà sufficiente provare “meri dolori e sofferenze” ma anche indicare le scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso, trattandosi di una tipologia di danno fondata su circostanze oggettivamente accertabili.

Per meglio determinare l’esistenza o meno del nesso di causalità tra il comportamento datoriale ed il danno subito dal lavoratore soccorre, tra le altre, la sentenza emessa dal Tribunale di Bari, Sezione Lavoro, il 20 Febbraio 2004 (Cfr.All.15 Giurisprudenza). la quale, nel rigettare parzialmente il ricorso inoltrato da un lavoratore … “induscutibilmente affetto da sindrome depressiva …” precisa che “… è inverosimile non considerare che all’interno dell’azienda possono intervenire nel tempo cambiamenti, mentre è plausibile che di tali cambiamenti il dipendente venga a risentire, ma non è in ciò l’antigiuridicità della condotta datoriale: occorre che emerga la prova che determinati cambiamenti si traducano in condotte obiettivamente idonee ed univocamente finalizzate a ledere quel dipendente; bisogna tenere ben presente che il comportamento del datore di lavoro per essere definito antigiuridico deve essere definibile oggettivamente come lesivo, ostile, emarginante, non rilevando affatto che il dipendente lo percepisca come tale”.


5.8 La valutazione del danno biologico

Ai sensi dell’art. 1226 c.c., se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare è liquidato dal giudice con valutazione equitativa.

Essendo il danno biologico difficilmente quantificabile nel suo ammontare e necessitando di valutazione medico-legale, la prassi giurisprudenziale ha adottato tabelle per il calcolo di tale danno fondate sul c.d. valore-punto della menomazione, tenendo conto del sesso e dell’età dell’infortunato.

Tali tabelle, che forniscono solo il valore medio riconosciuto nei precedenti giudiziari, non sono un parametro obbligatorio e, avendo natura astratta e predeterminata, pertanto il giudice deve dare congrua motivazione sull’adeguamento del valore medio alla peculiarità del caso concreto; la liquidazione del danno biologico è dunque necessariamente equitativa. E’ difatti necessario tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto e, specificatamente:

- della particolare lesione dell’organismo e del grado di menomazione dell’integrità psico-fisica;
- della gravità della lesione;
- degli eventuali postumi permanenti;
- dell’età e delle condizioni sociali e familiari del danneggiato.

In materia la Corte Costituzionale [pronuncia n.184/1986 (Cfr.All.16 Giurisprudenza)].afferma che il valore umano perduto deve essere determinato in via equitativa, secondo criteri risarcitori che rispettino, da un lato il principio dell’uguaglianza (parità di trattamento a parità di lesioni), dall’altro il principio del danno personalizzato, cioè di un danno che sia riferito alla persona in concreto menomata e considerata non solo nel suo status fisico o psichico, ma anche nelle sue potenzialità interrazionali (c.d. danno estetico, danno alla vita di relazione, danno alla capacità lavorativa generica).

La giurisprudenza corrente ritiene che entrambi i metodi (tabellare ed equitativo) possano costituire una seria base di partenza ed una valido binario operativo per una valutazione del caso singolo in chiave equitativa secondo i principi suggeriti dalla Suprema Corte. Quindi, proprio perché l’adozione del canone equitativo, per sua natura, mal si concilia con la rigidità dei valori tabellari, comunque ricavati, il Giudice, una volta individuato e scelto il parametro, deve poter conservare il necessario margine di discrezionalità per soddisfare l’esigenza di adattare l’intervento risarcitorio alle singole fattispecie sottoposte alla sua attenzione.

Concludendo, nella quantificazione del danno biologico – sia inteso quale danno alla salute o nell’accezione in uso presso parte della giurisprudenza che include nel danno biologico il danno alla vita di relazione, estetico, all’immagine, al decoro, alla vita sessuale – il ricorso ad un criterio meramente “contabile”, inteso quale valutazione prefissata per ogni punto dell’invalidità accertata, ed al metodo equitativo puro, prestano il fianco a critiche ugualmente serie anche se di segno opposto. Nell’un caso si rischia di esonerare il giudice da un’analisi fattuale delle lesioni, dei danni e della situazione reale del caso concreto, determinando di fatto (ciò che si vorrebbe evitare) la disuguaglianza di trattamento, perché l’eguaglianza impone che i casi diversi debbono avere trattamenti diversi. Il metodo equitativo puro lascia invece eccessivo spazio alla discrezionalità, che può scadere in arbitrio.

In sintesi, nella giurisprudenza di merito e di legittimità non si è delineata una coerente costruzione della teoria del risarcimento. Si può però dire che per i danni di difficile valutazione economica il sistema equitativo deve basarsi su criteri generali da adeguarsi alla fattispecie concreta così da dare attuazione al principio di uguaglianza.


5.9 Valutazione del danno morale

La liquidazione del danno morale, non avendo la funzione di reintegrazione patrimoniale, deve necessariamente essere effettuata con valutazione equitativa, rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tale valutazione deve ispirarsi alla considerazione di tutte le concrete circostanze individuali, in modo da adeguare l’indennizzo al caso particolare e da renderlo il più possibile rispondente a criteri di equità e deve, comunque, rispettare l’esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell’indennizzo.

La quantificazione dell’indennizzo, pertanto, deve tener conto delle effettive sofferenze patite dall’offeso, della gravità dell’illecito e di tutti gli elementi peculiari della fattispecie concreta, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto.

Secondo consuetudine giurisprudenziale diffusa, il risarcimento del danno morale si concretizza in una frazione dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno biologico.

Tale criterio non è illegittimo, ove il giudice abbia tenuto conto del caso concreto, ma comunque lascia qualche perplessità.

La Corte di legittimità ha ritenuto che il sempre più diffuso criterio di determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno morale – generalmente oscillante tra un terzo e la metà dell’importo riconosciuto per il risarcimento del danno alla salute - è in sé legittimo ove il giudice abbia mostrato, per quanto con motivazione sintetica, di avere anche tenuto adeguato conto delle particolarità del caso concreto. E’ indispensabile che il giudice, nel quantificare in via equitativa il danno morale, valuti che la quantificazione proposta, in quota percentuale di quella “a punto”, sia congrua, in relazione al caso concreto, alle modalità dell’evento dannoso, alla particolarità dei soggetti coinvolti, alle conseguenze perduranti.

Tuttavia giova precisare che, secondo un altro orientamento giurisprudenziale, essendo il danno morale ontologicamente autonomo rispetto al danno biologico, non può essere considerato un minus rispetto ad esso, onde la quantificazione automatica del danno morale come quota del danno biologico è illogica e potenzialmente riduttiva [Cass. 8169/2003 (Cfr.All.17 Giurisprudenza)].


5.10 La valutazione del danno esistenziale.

Il danno esistenziale non richiede un accertamento medico legale e come tale è direttamente collegato al concetto di ingiustizia del danno ex art. 2043 c.c.. Il relativo risarcimento è demandato alla valutazione equitativa del giudice ai sensi dell’art. 2056 c.c..

In particolare dottrina e giurisprudenza hanno affrontato il tema inerente alla risarcibilità del danno esistenziale conseguente a demansionamento professionale nel rapporto di lavoro.

Infatti, il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo l’art. 1226 c.c. [Cass. Civ. 11727/1999 (Cfr.All.18 Giurisprudenza)].


5.11 Il mobbing

Il mobbing è una forma di pressione psicologica che viene esercitata sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte dei colleghi o dei datori di lavoro. Le forme che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti dequalificanti alla compromissione dell’immagine sociale nei confronti di colleghi o superiori. Nei casi più gravi si può arrivare anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona che è in qualche modo “scomoda”, distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni.

Si tratta di un fenomeno nuovo, almeno per intensità, frequenza gravità delle conseguenze. Attualmente si ritiene che le norme debbano essere tutte indirizzate alla valorizzazione dell’uomo perché sia rispettato e possa crescere, in libertà di espressione e di aggregazione, nell’uguaglianza e con il lavoro in ogni sua forma intellettuale e materiale.

Nella lettura costituzionale del diritto all’integrità psicofisica ed alla personalità morale del lavoratore per il combinato disposto dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2087 c.c. si innesta la tutela dei diritti personalissimi e inviolabili nascenti da situazioni di inadempimento del datore di lavoro.

La giurisprudenza ha negli ultimi anni riconosciuto il danno nascente da comportamenti che potremmo definire mobbing, ampliando il riconoscimento del danno biologico fino a far assurgere la lesione dell’integrità psicofisica a ruolo centrale per la tutela dei diritti della personalità del lavoratore.

Perché si possa parlare di mobbing però occorre che le condotte vessatorie e le molestie poste in essere siano perduranti nel tempo.

Il mobbing genera danno, spesso danno economico, impossibilità di progredire nella carriera, perdita del lavoro, sicuramente danno biologico conseguente alle malattie psicosomatiche che genera, e danno morale perché è dolore e sofferenza.

Ma anche in assenza di danno economico il mobbing danneggia la vita del lavoratore quale uomo nella sua interezza, crea cioè danno all’esistenza, danno esistenziale e come tale andrà risarcito in via equitativa secondo il prudente apprezzamento del giudice.

Il danno nascente dal mobbing è, perciò, danno tipicamente esistenziale, perché spesso è danno economico (dequalificazione, impossibilità alla carriera, perdita del posto di lavoro) è spesso danno biologico (malattie psicosomatiche, tentativi di suicidio) ma sopratutto danno all’esistenza (perdita di fiducia in se stessi, depauperamento delle proprie capacità intellettive e di rapporto con i colleghi, i superiori, ed il mondo esterno, malessere nella vita di relazione e familiare).

Il mobbing è essenzialmente un fenomeno poliedrico e non soggetto a una standardizzazione dei comportamenti. Il mobbing è, perciò, condotta atipica e quindi ogni condotta sistematica e duratura, molesta e vessatoria perpetrata sul luogo di lavoro può essere considerata mobbing.

Il nostro ordinamento prevede alcune norme che assumono fondamentale importanza nella lotta contro il mobbing: l’art. 2087 c.c., più volte ricordato e l’art. 2103 c.c. riguardante le mansioni del lavoratore. Il mutamento delle mansioni costituisce in molti casi uno strumento utilizzato al fine di costringere il prestatore di lavoro a rassegnare le proprie dimissioni.

Come innanzi precisato, è evidente che la figura del danno esistenziale può essere particolarmente utile in caso di mobbing, che costituisce condotta plurioffensiva. Occorre comunque ricordare che nel campo dei rapporti di lavoro la tutela della persona in quanto tale, e non solo della salute della persona, trova un preciso aggancio normativo nell’art. 2087 c.c. nella parte in cui afferma il diritto del lavoratore a vedere tutelata la propria personalità morale.

La vittima del mobbing – ricorrendone i presupposti – può ottenere il risarcimento di una o più delle seguenti voci: danno patrimoniale, di cui dovrà essere dimostrato il quantum; danno biologico (fisico e psichico), per il quale sono generalmente utilizzati criteri tabellari; danno esistenziale (e/o danno alla professionalità, e/o alla vita di relazione, ecc.), facendo ricorso ai criteri equitativi di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.; danno morale, in genere liquidato con una percentuale aggiuntiva rispetto all’intero danno.

Pur in assenza nel nostro ordinamento giuridico di una disciplina a livello di normazione primaria avente ad oggetto specifico il mobbing, i giudici sono stati chiamati più volte a pronunciarsi in controversie in cui tale fenomeno entrava a volte come fonte della pretesa del risarcimento del danno biologico (per patologie, soprattutto psichiche, che si affermavano causate da comportamenti vessatori e persecutori subiti nell’ambiente di lavoro da parte del datore di lavoro o di uno o più colleghi), a volte come elemento di valutazione di atti risolutivi del rapporto di lavoro, la cui qualificazione si faceva dipendere dall’accertamento di determinate condotte integranti il fenomeno in questione.

La giurisprudenza ha, prevalentemente, ricondotto le concrete fattispecie di mobbing nella previsione dell’art. 2087 c.c.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 31.07.2003 [Cfr.All.19 Giurisprudenza], definisce il mobbing come una serie di atti e comportamenti ostili, vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici, nei confronti di un dipendente individuato come vittima, atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolarlo ed emarginarlo nell’ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione.

Elemento essenziale, dunque, per definire come tale un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuto per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere effettività oggettiva a tali atti.

In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato, Sez. VI, 06/05/2008, n.2015, ribadendo che “Costituisce mobbing quell'insieme di condotte, protratte nel tempo, le quali, indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali, rivestano le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente. La sussistenza della lesione del bene protetto deve essere verificata considerando l'idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sua sistematicità e durata, dalle caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione per i comportamenti tenuti.”

Il Tribunale di Palermo, Sez. lavoro, 18/01/2008 ha precisato inoltre che “..Omissis….Dal punto di vista oggettivo, l'elemento principale si rinviene nella ripetitività e/o reiterazione delle condotte prevaricatrici, le quali debbono avere una durata di almeno sei mesi e consistere in episodi vessatori costanti nel tempo, pressoché quotidiani. Dal punto di vista soggettivo, invece, rileva la finalità persecutoria, che deve orientare in un unico programma vessatorio, connotando di illiceità i vari atti o comportamenti i quali, se analizzati isolatamente, possono anche apparire neutri (ad es., semplici atti di amministrazione del rapporto di lavoro) ovvero addirittura rappresentare esercizio di diritti o potestà.”

Di uguale avviso la Suprema Corte di Cassazione in una recentissima sentenza, [(Cass. sez. lav.,del 9/9/2008 n. 22858) Cfr. All. 39 Giurisprudenza] nello stabilire che "l'individuazione del tempo necessario a determinare mobbing è un procedimento logico complesso, in cui è necessario considerare l'ambiente socio-culturale in cui il conflitto si svolge, le relazioni psicologiche del mobbizzato e lo specifico lavoro svolto", ha cassato la sentenza della Corte di appello di Torino che aveva rigettato le tesi della ricorrente-lavoratrice sostenendo, al contrario, che la "protrazione del comportamento per sei mesi non fosse sufficiente a concretizzare mobbing".

La Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per la condotta mobbizante attuata dal suo dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica (nella specie con qualifica di quadro) rispetto alla vittima, precisando che "non esclude tale responsabilità un mero - tardivo - "intervento pacificatore", non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un'aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto "mobbizante".

Nel corso della motivazione la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che "il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti", nonché "la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione ed all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico".

Lo specifico intento del comportamento e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.). "Fondamento dell'illegittimità è [in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774(Cfr.All.36 Giurisprudenza)] l'obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore".

Pertanto il datore di lavoro è responsabile, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, anche se il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente (ex art. 2049 cod. civ.) per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo.

Intervento della Corte Costituzionale sentenza n. 359 del 19.12.2003 (Cfr.All.20 Giurisprudenza).

Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha impugnato la legge della Regione Lazio 11.12.2002 n. 16 (Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro), in quanto avrebbe leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile nonché di ordinamento ed organizzazione amministrativa dello Stato e degli Enti pubblici nazionali in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere l) e g), della Costituzione. Inoltre il ricorrente sostiene che la disciplina del mobbing rientra nella tutela della salute e della sicurezza del lavoro, materie entrambe oggetto di legislazione concorrente, e che con legge impugnata la Regione Lazio ha fissato essa stessa i principi fondamentali senza attendere che fosse lo Stato a stabilirli.

La Consulta, valutando che la disciplina del mobbing, considerata nella sua complessità e sotto il profilo della regolazione degli effetti sul rapporto di lavoro, rientri nell’ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione), il quale, comunque, non può non mirare a salvaguardare sul luogo di lavoro la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore (artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 11.07.2002 n. 16.

Risoluzione A5-0283/2001 del 20.09.2001 del Parlamento Europeo (Cfr.All.21 Giurisprudenza).

Il Parlamento europeo nella Risoluzione A5-0283/2001 assunta il 20.09.2001 ha rilevato che il mobbing:

- attiene a fenomeni di violenza e molestie sul lavoro derivanti anche dalla precarietà dell’impiego;
- implica molestie, le quali costituiscono dei rischi potenziali per la salute che spesso sfociano in patologie associate allo stress;
- riguarda le professioni caratterizzate da un elevato livello di tensione;
- annovera tra le cause le carenze a livello di organizzazione lavorativa;
- può individuarsi anche nell’aumento di contratti a termine e della precarietà del lavoro, in particolare tra le donne;
- richiede il ricorso ad un trattamento medico e psicoterapeutico;
- può essere generato anche dalle false accuse di mobbing.


5. 12 Caratteristiche e struttura del mobbing

Le fondamentali caratteristiche del mobbing sono: la sistematicità, la durata e l’intenzionalità (reiterazione e la persecutorietà) del comportamento persecutorio/ aggressivo.

Comportamenti a sfondo sessuale. A tal fine debbono essere utilizzati come parametri la durata, l’intensità e la gravità dell’offesa, la posizione delle parti, le circostanze in cui l’offesa è arrecata. Anche il datore di lavoro, che posto a conoscenza della condotta del suo preposto non abbia agito secondo gli obblighi a lui imposti dall’art. 2087 c.c., va condannato in solido al risarcimento del danno [(Trib. Milano 14.06.2001) Cfr.All.22 Giurisprudenza].

Inattività forzata del lavoratore. Si è poi ritenuto che la protratta inattività forzata del lavoratore, in violazione da parte del datore di lavoro del disposto di cui all’art. 2103 c.c., genera il diritto ad un risarcimento del danno alla professionalità e all’immagine in via equitativa, potendosi individuare un atteggiamento persecutorio nei confronti del lavoratore stesso [(Cass. n.10 del 2.01.2002) Cfr.All.23 e 14 Giurisprudenza].

Comunicazione dello stato di gravidanza. Non essendo la lavoratrice incinta tenuta a comunicare il suo stato al datore di lavoro al momento dell’assunzione, ogni ritorsione di quest’ultimo va qualificata come mobbing [(Cass. Sez Lavoro n. 9864 del 6.07.2002) Cfr.All.24 Giurisprudenza], e qualora la lavoratrice subisca una discriminazione per sesso ha diritto di ottenere la condanna dell’azienda al risarcimento del danno indipendentemente dalla reiterazione del comportamento lesivo, la cui intensità può essere tale da aver effetti perduranti nel tempo [(Cass. Lavoro n. 9877 del 8.07.2002) Cfr.All.25 Giurisprudenza].

Nella struttura del mobbing si individuano generalmente quattro distinte fasi:

• la fase preliminare, la quale si realizza quando iniziano a sorgere i primi elementi di dissidio nell’ambito del lavoro svolto;
• la seconda fase, consistente nella manifestazione di azioni mobbizzanti (es. offese, maldicenze, allontanamento, dequalificazione ecc.), al fine di impedire alla vittima di esprimere il proprio parere sulle decisioni inerenti il lavoro, isolarla, calunniarla, sminuirne la professionalità attraverso l’assegnazione a mansioni umilianti e lederle la salute psicofisica:
• la terza fase di denuncia da parte del lavoratore della propria situazione di disagio a causa di comportamenti da lui ritenuti mobizzanti;
• la quarta fase c.d. dell’allontanamento, durante la quale il lavoratore oggetto dei comportamenti persecutori viene licenziato o è costretto a rassegnare le dimissioni.


Tipologie di mobbing

Sulla base degli studi effettuati sul mobbing è possibile individuare due forme di manifestazione del fenomeno. La prima a carattere verticale, ha per oggetto vessazioni sistematiche perpetrate da chi si trova ad essere in posizione di superiorità gerarchica rispetto alla vittima. La seconda a carattere orizzontale, comprende molestie di varia natura ad opera di un collega o di un gruppo di colleghi.

All’interno della categoria c.d. verticale è stata individuata una particolare forma di mobbing verticale, il bossing o mobbing sistematico, attuato da un’azienda allo scopo di indurre uno o più lavoratori alle dimissioni.

Il bossing trova terreno fertile in quelle aziende che incontrano più difficoltà ad effettuare licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo. Accade allora che i vertici aziendali pianifichino una vera e propria strategia mirata all’eliminazione del dipendente che abbia scarsa possibilità di essere reimpiegato in mansioni differenti.

Il bossing può anche rivolgersi ad interi gruppi di lavoratori ed essere causato da politiche a larga scala di riduzione del personale, ridimensionamento o riorganizzazione.

E’ stata teorizzata anche una forma di mobbing verticale ascendente che consiste un una forma di persecuzione esercitata da un lavoratore o da un gruppo di lavoratori subalterni nei confronti di altro lavoratore gerarchicamente superiore nell’organigramma aziendale.

In ogni caso, pur nelle sue varie forme di espressione, il mobbing risulta essere caratterizzato da un comune denominatore costituito dalla sistematicità degli atti e dalla loro durata per un certo periodo di tempo. Tali atti possono avere varia natura, ma difficilmente si concretizzano in atteggiamenti violenti; il mobber infatti predilige una subdola strategia psicologica, spesso occulta, mirata all’isolamento della vittima dal resto del gruppo di lavoro.

La sistematicità dei comportamenti persecutori è fondamentale per distinguere il mobbing vero e proprio da semplici contrasti tra colleghi, fisiologici alla maggior parte degli ambienti di lavoro.


Le azioni mobbizzanti

Affinché si possa parlare di mobbing occorre trovarsi in presenza di una serie di comportamenti ed atteggiamenti persecutori che abbiano una certa frequenza e durata nel tempo.

Sulla base di ricerche effettuate nel corso degli anni sul fenomeno è stata individuata una casistica di azioni raggruppate in cinque categorie base a seconda di alcune caratteristiche comuni.

La prima categoria raggruppa tutte quelle azioni tendenti ad impedire al lavoratore di esprimersi in azienda.

I colleghi tendono a non collaborare con la vittima, a bocciarne eventuali iniziative e proposte, isolandola dall’organizzazione del lavoro; i superiori rifiutano contatti o colloqui e comunicano solo in via burocratica. In alcuni casi si assiste ad un vero e proprio “sabotaggio” dell’operato della vittima.

La seconda categoria comprende invece i comportamenti tesi ad isolare il lavoratore dalle relazioni sociali. L’isolamento è di tipo psicologico, attraverso l’eliminazione di ogni rapporto umano con i colleghi sia ad iniziativa degli stessi che su disposizione dei superiori, o di tipo fisico, che si realizza ad esempio con immotivati cambi di postazione all’interno dell’ufficio, spesso in luoghi isolati ed inadeguati.

Esiste poi tutta una serie di azioni che, per la loro natura, pur non incidendo direttamente nella sfera lavorativa contribuiscono in maniera assai rilevante a comprometterla oltre ad influire pesantemente sulla comparsa delle prime patologie psicosomatiche. Questi comportamenti sono costituiti nei casi più leggeri da atteggiamenti difformi da quelli solitamente riservati ad altri colleghi, ma più spesso sfociano in diffamazioni, calunnie, ingiurie, affermazioni screditanti riguardanti la persona, le sue opinioni politiche, la religione, la razza, le abitudini sessuali, l’ambiente familiare, la presenza di handicap o tic, e quant’altro possa essere preso a pretesto. E’ spesso in seguito a questi comportamenti che la vittima presenta i primi importanti segnali di stress post-traumatico e perdita di autostima.

Nella quarta categoria sono racchiusi gli attacchi alla professione del lavoratore. Questi attacchi possono variare dal demansionamento all’esautoramento con conseguente inutilità o scarsa utilità della prestazione, dal sottoutilizzo al sovraccarico di lavoro.

Infine esiste tutta una serie di comportamenti che si ritengono posti in essere al solo fine di compromettere la salute fisica e psichica della vittima.

A tal proposito va però osservato che il mobbing inteso nel suo complesso è di per se stesso causa di patologie psicofisiche spesso gravi, senza a volte che vi sia la presenza di vere e proprie azioni dirette. In ogni caso, in questa categoria rientrano l’assegnazione a incarichi usuranti o pericolosi, l’immotivato diniego di ferie, le minacce e le violenze fisiche, le molestie sessuali ecc..

E’ importante rilevare che i singoli comportamenti non sempre assumono una rilevanza giuridica. La loro atipicità fa sì che possano verificarsi casi, seppur rari, in cui le azioni poste in essere dai colleghi o superiori non integrino gli estremi dell’illecito civile o penale. D’altro canto appare problematico consentire al giudice di intervenire nella gestione dei rapporti sociali, autorizzandolo ad emettere giudizi di natura essenzialmente morale, a fronte di comportamenti che non abbiano una reale rilevanza giuridica. La riconducibilità al mobbing dipende dalla sistematicità degli atti vessatori, protratti per un periodo di tempo relativamente lungo.

La giurisprudenza italiana, nella cause aventi ad oggetto presunti casi di mobbing, ha inteso accogliere la tesi della necessità che i singoli atti siano tutti diretti se non all’eliminazione del lavoratore perlomeno al suo isolamento.


5.13 L’evoluzione giurisprudenziale in materia di mobbing.

Con ordinanza del 29.9.2000 il Tribunale di Bari ha riconosciuto che, una volta accertata l’esistenza di uno stato patologico, la lesione del diritto alla salute del lavoratore vittima di mobbing appare difficilmente risarcibile per equivalente; ciò a maggior ragione ove si ipotizzi che il perdurare della situazione lavorativa sfavorevole non potrebbe che comportare un aggravamento della lesione dell’integrità psicofisica dell’istante.

Di assoluta rilevanza è la sentenza del Tribunale di Forlì nel marzo 2001 (Cfr.All.26 Giurisprudenza) in quanto per la prima volta il giudice si è trovato a dover giudicare un caso che presentava tutti gli elementi individuati dalla scienza medica internazionale per poter essere definito mobbing in senso proprio.

Si ricorda ancora una recente sentenza di merito [(Tribunale di Pisa, pronuncia del 3.10.2001) Cfr.All.27 Giurisprudenza)]. che riconosce il danno alla vita di relazione in un caso definito dallo stesso giudice quale “mobbing”. In questo caso si è ritenuta concorrente la responsabilità del datore di lavoro e dell’autore materiale della condotta così motivando: il riferimento alla necessaria tutela anche della personalità morale e della dignità umana da parte del datore di lavoro consente di qualificare come illecito contrattuale (art. 2087 c.c.) ogni comportamento che cagioni ingiustificatamente al lavoratore un pregiudizio alla sua personalità umana e dunque appronta una tutela all’uomo in sé, sanzionando con il risarcimento ogni atteggiamento che travalichi il diritto ad ottenere dal lavoratore una corretta prestazione …

Elemento essenziale, dunque, per definire come esistente un comportamento di mobbing è che la vessazione psicologica sia attuata in modo sistematico, ripetuta per un apprezzabile periodo temporale, così da far assumere significatività oggettiva a tali atti vessatori, attuati dall’imprenditore o da altri, permettendo di distinguerli dall’indeterminatezza dei rapporti interpersonali ed in particolare dal conflitto puro e semplice.

In altra sentenza della Corte di Appello di Torino [sez. Lavoro del 21.04.2004 (Cfr.All.28 Giurisprudenza)]si decide che dell’attività persecutoria posta in essere non orizzontalmente dai colleghi ma verticalmente dal direttore generale risponde solidalmente il datore di lavoro che tale attività ha fatto sua, consentendola e non intervenendo affinché fosse interrotta. Si è pertanto, nell’ambito dell’art. 2087 c.c., secondo cui il datore di lavoro deve tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

La Cassazione sez. Lavoro [23.03.2005 n. 6326 (Cfr.All.29 Giurisprudenza)]ha deciso che qualora il lavoratore, agendo in giudizio per il danno da demansionamento, chieda anche la componente di danno alla vita di relazione (cosiddetto danno biologico) deducendo sin dall’atto introduttivo del giudizio la lesione della propria integrità psicofisica derivante non solo dal demansionamento ma anche dal globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro, la successiva qualificazione come mobbing del suddetto comportamento non comporta domanda nuova ma solo diversa qualificazione dello stesso fatto giuridico, in considerazione della mancanza di una specifica disciplina del mobbing e della sua riconduzione alla violazione dei doveri del datore di lavoro, tenuto ai sensi dell’art. 2087 c.c. alla salvaguardia sul luogo di lavoro della dignità e dei diritti fondamentali del lavoratore.

Il Tribunale di Agrigento sez. Lavoro con la sentenza del 1.2.2005 [Cfr.All.30 Giurisprudenza]afferma che al lavoratore “mobbizzato” vanno risarciti i danni patrimoniali e non patrimonialie che alla lesione della professionalità si fa fronte con la categoria del danno patrimoniale, risarcibile sulla base dell’art. 2043 c.c.; per le lesioni della salute, dello stato d’animo e della sfera relazionale – sociale, si apre la categoria del danno non patrimoniale nel suo triplice aspetto del danno biologico, morale ed esistenziale, sulla base dell’art. 2059 c.c..


5.14 Il danno da mobbing

In tema di responsabilità che deriva da persecuzioni e vessazioni sui luoghi di lavoro, la giurisprudenza di merito ha anche sostenuto in alcune sentenze la linea che ritiene possibile la concorrenza tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.

Infatti le fonti di responsabilità del datore di lavoro sono state individuate sia nel generale obbligo del neminem laedere, espresso dall’art. 2043 c.c., la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale, sia nel più specifico obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. ad integrazione, ex lege, delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale. L’art. 2087 c.c., obbligando il datore di lavoro a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro, si presta a tutelare il lavoratore anche da tutta una serie di pregiudizi, conseguenti all’attività mobbizzante, ulteriori rispetto alle tradizionali voci del danno patrimoniale e del danno biologico (es. danno da demansionamento).

Sulla base di tali principi, il lavoratore vittima del mobbing che provi che le conseguenze pregiudizievoli sono in rapporto di causalità con le attività persecutorie compiute per nuocergli ha diritto alla riparazione di tutti gli aspetti non patrimoniali di danno sofferti, anche se per la liquidazione non potrà che farsi ricorso al criterio equitativo, trattandosi di riparare la lesione di valori inerenti alla persona. In tale ambito la giurisprudenza ha delineato le possibili estrinsecazioni del danno non patrimoniale nelle categorie del danno biologico e del danno morale, elaborando recentemente, con estrema chiarezza, la categoria del danno esistenziale [Trib. Pinerolo sez. Lavoro 03.03.2004; trib. Tempio Pausania 10.07.2003; Tribunale di Agrigento sez. Lavoro 01.02.2005, Trib. Forlì 13.03.2005 (Cfr.All. 31,32,33 Giurisprudenza).

Secondo la Corte di Cassazione (sez. Lavoro 2.01.2002 n. 5 ) [Cfr.All.34 Giurisprudenza] nel concetto di danno non patrimoniale disciplinato dall’art. 2059 c.c., interpretato in senso conforme ai precetti della Costituzione, rientrano tutti i pregiudizi di natura non patrimoniale derivanti da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost); sia infine il danno esistenziale derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona.


5.15 Onere della prova nel danno da mobbing

In base all’art. 2697 c.c. l’onere della prova in merito alla sussistenza del comportamento persecutorio, della sussistenza del danno o del collegamento di quest’ultimo rispetto al comportamento citato spetta a colui che è vittima del mobbing. L’assolvimento di tale onere deve essere preciso e puntuale.

Il lavoratore deve altresì dimostrare sia la lesione all’integrità psicofisica sia il nesso di casualità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa. Pertanto non è configurabile un danno psichico del lavoratore, del quale il datore di lavoro sia obbligato al risarcimento, conseguente ad un’allegata serie di vicende persecutorie lamentate dal lavoratore stesso, qualora non venga offerta rigorosa prova del danno e della relazione causale tra il medesimo ed i pretesi comportamenti persecutori, che tali non possono dirsi qualora siano riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva. Una volta assolto tale onere, non occorre invece che il lavoratore dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente, gravando su quest’ultimo il diverso onere di provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile (Tribunale Tempio Pausania, 10.07.2003).

La Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 12445 del 25.05.2006) [Cfr.All.35 Giurisprudenza] affronta la ripartizione dell’onere della prova del danno richiesto dal lavoratore. Pochi mesi prima la Corte aveva delimitato i confini del fenomeno (sentenza n. 4774 del 6.03.2006) [Cfr.All.36 Giurisprudenza] chiarendo che il mobbing si realizza solo in presenza di una condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione all’integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 c.c..

Presupposto per il realizzarsi del mobbing sono, dunque una serie di azioni vessatorie poste in essere dal datore di lavoro in modo pretestuoso, discriminatorio e durevole nel tempo al solo scopo di arrecare danno al lavoratore. Non occorre, pertanto, secondo la Cassazione, la violazione di norme specifiche da parte del datore di lavoro per ritenerlo responsabile degli eventuali danni subiti al lavoratore a seguito dell’illecita condotta. La Corte ribadisce la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro, conseguente appunto alla violazione dell’art. 2087 c.c. che gli impone di adottare nei confronti del proprio dipendente quelle misure atte a tutelarne l’integrità fisica e morale.

Dalla natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro derivano importanti conseguenze sulla ripartizione degli oneri probatori in giudizio tra datore di lavoro e dipendente. Secondo la Corte il lavoratore, per ottenere un risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento che si vuole qualificare come mobbing, ha l’onere di provare sia il fatto che costituisce un inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di sicurezza sia il nesso di causalità tra questo inadempimento ed il danno subito. Dunque, anche in questi casi non è configurabile una responsabilità oggettiva del datore di lavoro rispetto all’evento dannoso prodotto. Tuttavia, la natura contrattuale dell’obbligo di sicurezza in capo al datore di lavoro comporta che si verifichi una presunzione legale di colpa a carico del datore di lavoro, inadempiente all’obbligo di sicurezza del quale è “debitore” nei confronti del lavoratore. Questa presunzione può, comunque, essere vinta dal datore di lavoro sul quale grava l’onere di provare che l’inadempimento all’obbligo di sicurezza non è a lui imputabile.


5.16 Il mobbing nel settore pubblico

Il fenomeno del mobbing è presente anche nel pubblico impiego. Ciò è dipeso dall’innesto massiccio di logiche e di modelli privatistici nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione Pubblica, avvenuto con la riforma attuata con il d.lgs. 29/1993.

In passato la rigidità strutturale della P.A. comportava che un lavoratore, adibito a mansioni specifiche, difficilmente poteva modificarle; oggi, invece, la P. A. dal momento che è improntata ai principi di efficacia, efficienza ed economicità, è più orientata “ad una maggiore flessibilità dei ruoli”. In questo modo, si è favorito il diffondersi di atteggiamenti e di condotte vessatorie nel mondo della P.A., a causa della nuova impostazione delle funzioni dei dirigenti pubblici, i quali svolgono “le attività di organizzazione e di gestione del personale e di gestione dei rapporti sindacali e di lavoro con la stessa capacità e poteri del privato datore di lavoro”. A ciò si aggiunge che, in base all’art. 19 d.lgs. 165/2001, il conferimento dell’incarico di funzione dirigenziale (secondo determinate percentuali) può essere dato a persona esterna all’Amministrazione da parte dell’Organo politico, senza quindi tenere conto del curriculum e dell’anzianità di servizio degli aspiranti a quell’incarico provenienti dall’Amministrazione Pubblica.

Inoltre, va osservato che il processo di revisione cui è stata sottoposta la P.A. a partire dalle Leggi Bassanini e successivi decreti legislativi ha favorito comportamenti mobbizzanti in alcuni settori; ad esempio nel mondo della sanità il mobbing ha trovato terreno, con particolare riferimento ai rapporti esistenti fra personale medico e paramedico ed alle nomine dei primari di reparto operate dai dirigenti del SSN; nell’ambito delle autonomie locali si è avuto, invece, un crescente e generalizzato malessere, cui sono esposti i Segretari comunali e provinciali ecc..

Ormai si può affermare con certezza che anche il settore del lavoro pubblico non è indenne da pronunce giurisdizionali sul mobbing. In tale contesto si pone una delle prime decisioni di merito in tema di mobbing nella P.A. (Trib. Lecce 31.08.2001) ove si afferma che “la P.A. ha il preciso dovere di intervenire per rimuovere una situazione non più tollerabile all’interno dell’ufficio, e di evitare un’ulteriore lesione della personalità fisica e morale del lavoratore: correttamente, allora, l’azione è incardinata nei confronti del datore di lavoro, titolare dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. nei confronti di dipendenti e responsabile in quanto tale anche del comportamento vessatorio ed illecito dei suoi dipendenti nei confronti di altri” [28].

La sentenza n. 157 del 2003 del Tribunale di Tempio Pausania [Cfr.All.32 Giurisprudenza] presenta un notevole interesse per vari motivi, ma in questa sede rileva notare che per la prima volta in una causa di lavoro del pubblico impiego viene liquidato un risarcimento del danno specificatamente ed esplicitamente riferito al mobbing.

Fino alla pronuncia in argomento le sentenze riguardanti il mobbing (non molte, in realtà) erano state relative all’impiego privato e, quand’anche riguardanti il settore pubblico, si trattava sempre di sentenze di ricognizione di una situazione persecutoria che avrebbero trovato poi seguito in una successiva causa di merito.

La sentenza del Tribunale di Tempio Pausania è pertanto, un chiaro pronunciamento di un Giudicante sulla concreta esistenza di comportamenti mobbizzanti in un Ente locale.

Considerando quelle che erano e tuttora sono le difficoltà di carattere probatorio tipiche delle cause di mobbing, dovute all’innalzamento di un muro di gomma di fronte alla vittima da parte dei colleghi e di tutte le persone che potrebbero far conoscere al Giudicante la realtà, l’impostazione di questa sentenza ha sicuramente il merito di una provvidenziale semplificazione. Inoltre, per la prima volta, viene accertata l’esistenza di un intento persecutorio, cagionato dal demansionamento, dall’isolamento fisico e morale, dal trattamento discriminatorio riservato alla vittima rispetto ad altri colleghi.

In tale direzione e con attenzione sempre maggiore alla responsabilità della pubblica amministrazione per “culpa in vigilando” si evidenzia la sentenza del T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 23/03/2007, n.339 nella quale si statuisce che “In tema di "mobbing" nel pubblico impiego non privatizzato (nella specie, si trattava di un assistente di Polizia penitenziaria) ove sia stata accertata, nei confronti del dipendente, la coesistenza e/o la concorrenza della responsabilità extracontrattuale e contrattuale della P. A., rispettivamente, per la condotta vessatoria ed ostile di colleghi o superiori gerarchici, e per la "culpa in vigilando" dell'Amministrazione che, consapevole di tale condotta, nulla ha posto in essere perché cessasse il lamentato atteggiamento di ostilità, deve ritenersi che la controversia promossa dal dipendente per ottenere il risarcimento del danno biologico, alla professionalità, ed esistenziale subito, appartenga alla giurisdizione del G. A.” e ancora “ Può essere accolta una domanda di risarcimento del danno avanzata da un dipendente nei confronti della P. A., per c.d. "mobbing", al fine di ottenere il ristoro del danno biologico, professionale ed esistenziale, subito a seguito della condotta vessatoria ed ostile - reiterata e sistematica - di colleghi o superiori gerarchici, nel caso in cui il comportamento complessivo tenuto dall'Amministrazione si lasci apprezzare per un responsabile lassismo e per un'assoluta mancanza di controllo sui rapporti tra dipendenti, idonei a consentire il reiterarsi di una serie di episodi qualificabili come vessatori e prolungatisi nel tempo, con conseguenze pregiudizievoli per i dipendenti medesimi; tale comportamento della P. A., infatti, costituisce omissione di un intervento doveroso, e inadempimento dei principi di buona fede e correttezza nella gestione del rapporto di lavoro, nonché violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, idonei a configurare la "culpa in vigilando" della P. A. “

Si può affermare che attualmente le pronunce giurisdizionali in tema di mobbing derivate dal demansionamento nella Pubblica Amministrazione costituiscono una realtà che sempre più frequentemente si propone all’attenzione della Magistratura e, pertanto, è necessario innanzitutto precisare e delineare il concetto stesso di demansionamento e valutare poi come gli organi giurisdizionali competenti abbiano elaborato una giurisprudenza ancora “giovane” ma significativa.

Si tratta di tutelare nella giusta misura i diritti del lavoratore, senza con ciò rallentare o impedire il processo di modernizzazione della P.A. vincolando i Dirigenti pubblici a regole troppo schematiche o severe nell’ambito della organizzazione del processo produttivo anche nel settore pubblico.

Il concetto di demansionamento è stato già accennato in precedenza e può essere riassunto in alcuni “casi di scuola”: a) assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori; b) consistente riduzione dei compiti a lui affidati ; c) esautoramento dalle funzioni precedentemente svolte; d) inattività lavorativa forzata.

Per aversi demansionamento non basta una modifica quantitativa delle mansioni svolte dal dipendente, ma vi deve essere una sottrazione di mansioni tale – per natura, portata ed incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale – da comportare un abbassamento considerevole del livello delle prestazioni con una sottoutilizzazione delle capacità del dipendente ed un conseguente impoverimento della sua professionalità.

Rientra inoltre nel concetto di demansionamento anche il caso del datore di lavoro che tenga il dipendente in forzata inattività, poiché il lavoro costituisce non solo un mezzo di guadagno, ma anche un modo di estrinsecazione della personalità del lavoratore (Cass. sez. lavoro 22.2.2003 n. 2763) [Cfr.All.37 Giurisprudenza].

Di particolare interesse, anche perché testimone del più recente orientamento giurisprudenziale, è la sentenza del Tribunale di Avellino, sez. lavoro, emessa in data 7 Novembre 2006 che ci consente di ricavare importanti principi destinati con ogni probabilità ad essere recepiti da dottrina e Giurisprudenza.

Innanzitutto, per inquadrare giuridicamente il fenomeno del demansionamento o dequalificazione professionale nel pubblico impiego non trova applicazione l’art. 2103 c.c., bensì l’art. 52 del Decreto Legislativo 30 Marzo 2001 n.° 16 “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, come è stato più volte affermato dalla Suprema Corte di Cassazione.

Tale norma, pur ricalcando apparentemente quella codicistica, se ne differenzia profondamente: in particolare il Decreto Legislativo in argomento sancisce il principio di equivalenza riferendosi alle mansioni di assunzione e non a quelle svolte abitualmente o nell’ultimo periodo lavorativo, consentendo così implicitamente al datore di lavoro pubblico l’esercizio dello “ius variandi” nell’ambito delle mansioni da considerare equivalenti in base alla classificazione fornita dalla contrattazione collettiva.

Nella disciplina del pubblico impiego, pertanto, il demansionamento del lavoratore deve essere valutato in rapporto alla sua qualifica di appartenenza, senza possibilità di indagine sui compiti in concreto svolti, se contrattualmente ed economicamente congrui al livello professionale.

La mancata prova di una dequalificazione del ricorrente se riferita al livello di appartenenza del lavoratore porta al rigetto della relativa domanda di indennizzo.

Pertanto, per concludere, se il dipendente pubblico è stato impiegato nell’ambito di mansioni rientranti nella figura professionale di appartenenza, in medesima posizione economica, nulla rileva il suo utilizzo in settori operativi diversi, seppur sgraditi al lavoratore stesso.


5.17 La responsabilità contabile del dirigente pubblico in caso di pronuncia giurisdizionale accertativa del mobbing.

Il principio di maggiore flessibilità dei ruoli nella Pubblica Amministrazione risponde ad una esigenza di efficienza ed economicità che, nelle attese del Legislatore, dovrà rendere la gestione dell’apparato statale più snella e meno dipendente da processi burocratici inevitabilmente lenti e macchinosi.

Questo atteggiamento relativamente innovativo ha portato a dover considerare una serie di problemi altrimenti scarsamente affrontati in passato da dottrina e Giurisprudenza.

Prima di affrontare l’argomento ed esaminare il fenomeno della responsabilità contabile del funzionario e/o dirigente nella Pubblica Amministrazione in caso di pronuncia giurisdizionale acclarante un comportamento mobbizzante, avvalendosi della invero scarna Giurisprudenza in merito, occorre precisare la nozione stessa di responsabilità contabile ed i suoi elementi costitutivi che soli possono integrare un iter processuale.

La “responsabilità contabile” deve essere intesa quale responsabilità di quei soggetti che, avendo avuto in consegna a vario titolo denaro, beni o altri valori di pertinenza pubblica o, comunque, avendone ricevuto la disponibilità materiale, non adempiono all’obbligo di restituzione che loro incombe.

Tale concetto si applica al dirigente della Pubblica Amministrazione che, con il suo comportamento illecito (se accertato in sede giurisdizionale) cagiona un esborso di denaro altrimenti ingiustificato.

E’ però più corretto parlare di responsabilità contabile–amministrativa riferendosi alla responsabilità a contenuto patrimoniale di amministratori o dipendenti pubblici per i danni causati all’Ente nell’ambito o in occasione del rapporto d’ufficio.

L’accertamento di tale responsabilità comporta la condanna al risarcimento del danno a favore della Amministrazione danneggiata.

Pertanto il processo che si instaura ai danni del dirigente pubblico non è una azione di regresso, come erroneamente da taluni è stato sostenuto, ma è una azione obbligatoria e pubblica tesa ad ottenere il reintegro del patrimonio della Pubblica Amministrazione attraverso il recupero nei confronti dell’autore del fatto rivelatosi dannoso.

Sul piano probatorio il giudice contabile è tenuto, per poter affermare la responsabilità del pubblico dirigente, a ricercare la colpa grave nel comportamento dello stesso e valutare l’esistenza o meno del vantaggio illecitamente derivato alla Pubblica Amministrazione.

Per definire la “colpa grave” la Giurisprudenza ormai univocamente utilizza il concetto di negligenza inescusabile, ovvero disattenzione macroscopica.

È di tutta evidenza che, affinchè venga correttamente instaurato un procedimento dinanzi al giudice contabile, deve sussistere un “danno erariale”, cioè una ingiustificata diminuzione del patrimonio pubblico.

Esaminate queste indispensabili premesse, torniamo al tema principale riprendendo il discorso sulla responsabilità eventualmente ascrivibile al comportamento illecito perché mobbizzante del pubblico amministratore.

Come già accennato precedentemente, in seguito alla intervenuta privatizzazione del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il dipendente pubblico usufruisce delle medesime prerogative e gode delle identiche tutele del lavoratore privato.

Così, ove vengano violate le disposizioni del testo unico in materia di pubblico impiego o egualmente le norme del codice civile, lo Stato o l’Ente pubblico datore di lavoro è responsabile dei danni eventualmente causati al lavoratore.

In questi casi, la responsabilità dello Stato o dell’Ente pubblico concorre con quella personale e diretta del dipendente autore del comportamento illecito ai sensi dell’art. 28 Cost. secondo il quale “… i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità si estende allo Stato ed agli Enti pubblici”.

Ciò implica che l’Amministrazione può rivalersi, promuovendo un giudizio dinanzi alla Corte dei Conti, nei confronti dell’amministratore o dipendente pubblico che determini in sede civile con il suo comportamento la condanna della stessa amministrazione al risarcimento del danni in favore del soggetto privato.

Sostanzialmente in questa sede bisogna valutare, qualora il comportamento mobbizzante nell’ambito della Pubblica Amministrazione sia stato giurisdizionalmente accertato e la P.A. stessa sia stata condannata in sede civile al risarcimento dei danni a favore del dipendente, se ed eventualmente in che misura il danno erariale possa essere oggetto di rivalsa nei confronti del funzionario responsabile dell’atteggiamento poi sanzionato.

Preliminarmente occorre però precisare il rapporto esistente tra il giudizio ordinario che accerta l’esistenza di un diritto al risarcimento del lavoratore ed il successivo ed eventuale procedimento contabile che, stante la sussistenza del danno erariale, stabilisce se quest’ultimo debba o meno essere imputato al pubblico amministratore.

Malgrado alcune pronunce contrastanti ( Corte dei Conti sez. III d’Appello n. 10 del 18 gennaio 2002; sez. I d’Appello n. 331 del 14 novembre 2000) si può ritenere pacificamente che la responsabilità contabile degli amministratori e dipendenti pubblici ed il relativo processo non si aggiungono né si integrano con la responsabilità civile ed il giudizio ordinario, ma si sostituiscono in toto, sia sotto l’aspetto sostanziale che dal punto di vista squisitamente processuale.

Diversamente bisognerebbe ipotizzare due responsabilità concorrenti e rimarrebbe il fatto, anomalo e costituzionalmente poco sostenibile, di soggetti esposti per il medesimo fatto a due diverse azioni di cui beneficerebbe economicamente il medesimo soggetto danneggiato.

Inoltre, se esistesse la possibilità dell’azione diretta in sede civile nei confronti dell’amministratore o dipendente pubblico, finirebbero per vanificarsi tutte quelle guarantige che il Legislatore ha introdotto come legittima tutela in considerazione della peculiarità della funzione svolta dal dirigente pubblico stesso.

Del resto le numerose e significative pronunce della Suprema Corte di Cassazione non lasciano margini per interpretazioni diverse (ordinanza Cass. Sez. unite n. 3150 del 3 marzo 2003; sent. n. 232 del 10 aprile 1999).

E’ quindi del tutto pacifica l’autonomia e la diversità del petitum e della causa petendi tra l’azione di responsabilità amministrativa e l’azione civile di danno intentata nei confronti della Pubblica Amministrazione.

Mentre infatti il Giudice civile giunge a condannare l’Amministrazione a risarcire il privato utilizzando gli ordinari parametri del danno e della colpa, nella successiva azione di rivalsa, viceversa, il Giudice contabile dovrà, per poter anch’egli declarare la responsabilità, ricercare la colpa grave dell’agente e valutare il vantaggio comunque conseguito all’amministrazione con il comportamento, pur se per altro verso dannoso, da lui tenuto.

E’ del pari univoco in questo senso l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale le sentenze civili di condanna ai danni della P.A. non esplicano efficacia vincolante nel giudizio di responsabilità contabile anche se, ovviamente, il Giudice contabile può trarre da quel diverso giudizio elementi (testimonianze, consulenze tecniche o quant’altro ritenga utilizzabile) necessari per formare il proprio libero convincimento per quanto il convenuto sia rimasto estraneo al giudizio civile (art. 116 c.p.c.).

Evidente la considerazione che la Corte dei Conti, ove giunga a pronunce diverse da quelle prese dal Giudice ordinario, deve adeguatamente motivarle, anche in specifico riferimento alla diversa ricostruzione e/o interpretazione dei fatti di causa ed alla valutazione del materiale probatorio.

Precisato il rapporto intercorrente tra i due giudizi e chiarita la completa autonomia dei relativi procedimenti bisogna tornare al primo quesito che ci siamo posti, cioè quale sia la natura del giudizio contabile e sino a che punto questo tipo di responsabilità può limitare le funzioni dell’amministratore.

E’ noto che il ripetersi di episodi di mobbing nell’ambito delle Pubbliche Amministrazioni ha indotto gli Enti a provvedere, anche in sede di contrattazione collettiva, alla costituzione di comitati paritetici e di osservatori.

Inoltre il comportamento mobbizzante è stato ritenuto suscettibile di sanzioni disciplinari.

E’ opportuno accennare brevemente alla competenza per materia nell’ambito del giudizio per responsabilità contabile: ai sensi dell’art. 103 della Costituzione la Corte dei Conti ha una generale competenza in materia di contabilità pubblica. Alla Corte vanno rese note le sentenze di condanne patrimoniali a carico della Pubblica Amministrazione e vanno inviate le denunce di ingiustificata lesione del patrimonio pubblico. Il Pubblico Ministero presso la Sezione giurisdizionale regionale della Corte competente per territorio è titolare esclusivo dell’azione risarcitoria. Il termine di prescrizione è di cinque anni decorrenti dal verificarsi dell’evento dannoso. Nel caso di risarcimento per danno da mobbing, essendo questo un danno conseguente ad una sentenza, il termine di prescrizione può iniziare a decorrere anche molti anni dopo la commissione dell’evento mobbizzante.

Le pronunce della Corte dei Conti nell’ambito della responsabilità contabile non sono numerose ma sono univoche, seppur intervengono in una materia nella quale la valutazione riguarda la sussistenza del comportamento gravemente colpevole dell’agente, cioè del funzionario pubblico, e non può prescindere dall’esame del singolo caso in quanto determinati comportamenti possono essere meritevoli di sanzione nell’ambito di talune amministrazioni ed essere del tutto inconferenti in una struttura organizzativa diversa.

In questa direzione sembra muovere la sentenza 25 ottobre 2005 n. 623 [Cfr.All.38 Giurisprudenza] della Corte dei Conti la quale ha determinato un principio interessante seppur generico e suscettibile di una evoluzione più accurata, rilevando che “… in presenza di un danno erariale cagionato da comportamento integrante mobbing di un proprio funzionario , la Amministrazione ha facoltà di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del funzionario colpevole , laddove il comportamento non sia in alcun modo riferibile a modelli organizzativi o regole di servizio dell’amministrazione ma esclusivamente dell’agente e sempre che il materiale probatorio confermi l’effettiva sussistenza di un comportamento gravemente colpevole del medesimo agente…”.

Come si può agevolmente notare questa sentenza - che a tutt’oggi è la più importante nell’ambito della materia in esame - può considerarsi un importante punto di partenza per l’evoluzione giurisprudenziale che inevitabilmente dovrà svilupparsi negli anni a venire, anche perché l’apparato normativo della Pubblica Amministrazione è muta con l’introduzione di nuove tipologie contrattuali tese soprattutto a migliorare la qualità del servizio ed a responsabilizzare maggiormente dipendenti e Amministratori pubblici.

E’ pertanto prevedibile che anche il tema della responsabilità contabile derivante da comportamento mobbizzante giurisdizionalmente acclarato sarà nel prossimo futuro oggetto di maggiore e più esaustiva disamina da parte tanto del Legislatore quanto da parte dei Magistrati nell’esercizio delle loro funzioni.








Elenco della giurisprudenza allegata


1) Corte Costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184

2) Cassazione civile, 25 maggio 1985, n. 3212

3) Cassazione civile,sez.lavoro, 24 novembre 1990, n. 411

4) Corte Costituzionale, 18 luglio 1991, n. 356

5) Corte Costituzionale, 27 dicembre 1991, n. 485

6) Cassazione civile, sez. III,10 ottobre 2003, n. 1937

7) T.A.R. Campania, 6 maggio 2004, n. 8235

8) Cassazione civile, sez. III, 27 novembre 2001, n. 15034

9) Cassazione civile, sez. III, 18 aprile 2003, n. 6291

Cassazione civile, sez. III, 29 ottobre 2001, n. 13409

Cassazione civile, sez. III, 27 luglio 2001, n. 10289

Cassazione civile, sez. III, 2 febbraio 2001, n. 1512

Cassazione civile, sez. III, 11 agosto 2000, n. 10725

10) Corte Costituzionale, 11 luglio 2003, n.233

11) Cassazione civile, sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827

Cassazione civile, sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828

12) Tribunale di Roma, sez. XIII, 7 marzo 2002

13) Cassazione civile, sez. I, 5 novembre 2002, n. 15449

14) Cassazione civile, sez. unite, 24 marzo 2006, n. 6572

15) Tribunali di Bari, 20 febbraio 2004

16) Corte Costituzionale, 14 luglio 1986, n. 184

17) Cassazione civile, sez. III, 23 maggio 2003, n. 8169

18) Cassazione civile, sez. lavoro, 18 ottobre 1991, n. 11727

19) Tribunale di Milano, 31 luglio 2003

20) Corte Costituzionale,19 dicembre 2003, n.359

21) Parlamento Europeo, Risoluzione A5-0283/2001 del 20.09.2001

22) Tribunale di Milano, 14 giugno 2001

23) Cassazione civile, sez. lavoro, 2 gennaio 2002, n. 10

24) Cassazione civile, sez. lavoro, 6 luglio 2002, n. 9864

25) Cassazione civile, sez. lavoro, 8 luglio 2002, n. 9877

26) Tribunale di Forlì, 15 marzo 2001

27) Tribunale di Pisa, 3 ottobre 2001

28) Corte di Appello di Torino, sez. lavoro, 21 aprile 2004

29) Cassazione civile, sez. lavoro,23 marzo 2005, n. 6326

30) Tribunale di Agrigento, sez. lavoro, 1 febbraio 2005

31) Tribunale di Pinerolo, sez. lavoro, 3 marzo 2004

32) Tribunale di Tempio Pausania, 10 luglio 2003

33) Tribunale di Forlì, 10 marzo 2005

34) Cassazione civile, sez. lavoro, 2 gennaio 2002, n.5

35) Cassazione civile, sez. lavoro, 25 maggio 2006, n. 12455

36) Cassazione civile, sez. lavoro, 6 marzo 2006, n. 4774

37) Cassazione civile, sez. lavoro,22 febbraio 2003, n. 2763

38) Corte dei Conti, sez. III, 25 ottobre 2005, n. 623

39) Cassazione civile, sez. lavoro,12 settembre 2008, n. 22858



N o t e

[1] Beniamino Deidda in “Il testo unico sulla sicurezza del lavoro, in P. Pascucci (a cura di) Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, Roma 2007, pag. 93 e ss.
[2] E’ quello che auspica Marco Masi, (coordinatore del Coordinamento tecnico per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro della Conferenza Stato-Regioni) nell’intervento al Convegno di Urbino del 10 Maggio 2008 su Le nuove regole sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Un confronto a più voci: “la concorrenza nelle competenze va intesa non in senso competitivo, bensì collaborativo”.
[3] Si riporta il testo dell’art. 298 del d.lgs. 9 aprile 2008 , n. 81 rubricato “Principio di specialità”: “ Quando uno stesso fatto e' punito da una disposizione prevista dal titolo I e da una o piu' disposizioni previste negli altri titoli, si applica la disposizione speciale.”
[4] Così Stefano Signorini e Valentina Meloni in “Testo unico, il nuovo sistema di prevenzione e la collaborazione con Olympus” nel volume “Il testo Unico sulla sicurezza del lavoro, in Il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, a cura di P. Pascucci, Roma 2007, pag.21 e ss.
[5] Così ancora Stefano Signorini e Valentina Meloni op cit.
[6] Come detto, la Ricerca è stata svolta nell’ambito della Convenzione tra Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e I.S.P.E.S.L. del 10 ottobre 2007 su “sviluppo dei programmi e delle attività per la promozione della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro, attraverso il miglioramento della sorveglianza, della normativa, dell’efficacia e delle attività e dei processi produttivi
[7] La parte del paragrafo che segue è tratta da Atti Ispesl (documentazione della segreteria tecnico scientifica presso la Presidenza) riguardanti il progetto di ricerca citato.
[8] Il progetto è composto da 2 tomi per oltre 2200 pagine, suddiviso in due grandi aree Sezione lavoristica e Sezione penale e in diversi paragrafi completati dai relativi quadri sinottici e compendi giurisprudenziali.
[9] Per tutti vedasi Paolo Pascucci in Dopo la legge n. 123 del 2007: prime osservazioni sul titolo I del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” IT 73/2008.
[10] Più compiutamente in “Relazione illustrativa allo schema di decreto attuativo della delega di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 3 agosto 2007, n. 123” in atti parlamentari 2008.“La normativa in materia di sicurezza è il risultato di una stratificazione di norme, molte delle quali di derivazione comunitaria, emanate nell’arco di quasi sessanta anni.
Il Governo, nella consapevolezza della assoluta priorità della materia della sicurezza, ha perseguito con convinzione l’obiettivo di procedere al riassetto ed alla riforma delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro. A tale scopo, la legge delega 3 agosto 2007, n. 123, ha previsto non solo un’operazione di riorganizzazione della normativa di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro bensì anche la rivisitazione della medesima materia attraverso l’armonizzazione di tutte le leggi vigenti in una logica unitaria ed innovativa e nel pieno rispetto delle previsioni dell’art. 117 della Costituzione, il cui terzo comma attribuisce alla competenza ripartita di Stato e Regioni la materia della tutela e sicurezza del lavoro”
.
[11] Per tutti vedasi l’interessante approfondimento in tale tema svolto da Paolo Pascucci in “Dopo la legge n. 123 del 2007 prime osservazioni sul titolo I del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 … “op. cit. pag 23 e ss.
[12] L’art 2 del d.lgs.626 conteneva infatti poche definizioni rispetto all’attuale articolo del testo unico.
[13] Daniele Circioli in collaborazione con Paola De Vita, Maria Rita Gentile, Maria Giovannone “Le parole della sicurezza: glossario” in “Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” di Michele Tiraboschi, Giuffrè editore pag. 117 e ss.
[14] A tale proposito vedasi Lorenzo Fantini e Annamaria Faventi “L’impianto del testo unico quadro di sintesi” in “Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” di Michele Tiraboschi, Giuffrè editore
[15] A tale proposito vedasi Paolo Pascucci in Dopo la legge n. 123 del 2007 prime osservazioni sul titolo I del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81 … op cit. pag. 31 e ss.
[16] Ci si riferisce alla sentenza del 9 Giugno 2004 n° 36769.
[17] In argomento vedasi Francesco Basenghi “La legge delega e le norme immediatamente precettive” in “Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” di Michele Tiraboschi Giuffrè editore pg. 51 e ss. Molto oculatamente il professore osserva nel paragrafo “Alcune vistose assenze” il mancato richiamo nella legge delega all’art 2087 c.c. quale principio cardine del sistema prevenzionistico.
[18] Per comodità si riporta il testo dell’art. 2087 c.c., rubricato Tutela delle condizioni di lavoro. “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”
[19] Ci si riferisce al Prof. Bacchini ed alle sue approfondite e pertinenti osservazioni contenute anche in “Misure di tutela ed obblighi” in “Speciale testo unico sicurezza del lavoro”in ISL 2008.
[20] Allegato: A. D’amato, M. di Mauro “Le strutture giudiziarie e penitenziarie” in “ L’ambito di applicazione oggettivo. La sicurezza nelle amministrazioni pubbliche” in “Ambiente e sicurezza del Lavoro” vol VIII a cura di M.Rusciano e G. Natullo nel Commentario al diritto del Lavoro diretto da Franco Carinci utet 2007.
[21] Art. 2 “definizioni”lett. O D.lgs n.81/08 «salute»: stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermita’.
[22] Ci si riferisce alla famosa Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee del 15 novembre 2001 con la quale La Corte dichiara e statuisce che non avendo prescritto che il datore di lavoro debba valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza esistenti sul luogo di lavoro….omissis.. la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza degli artt.6….omissis della direttiva 89/391/CEE. Come noto a seguito di tale condanna fu riscritto l’art 4 , del D.Lgs.626/94 (oggi sostituito dall’art 28) inserendo come oggetto di valutazione “tutti i rischi”.
[23] Daniele Cirioli “Il documento sulla valutazione dei rischi”in “Il testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” di Michele Tiraboschi Giuffrè editore pg. 406 ss
[24] Daniele Cirioli “Il documento sulla valutazione dei rischi” op.cit. pg. 406 ss . L’autore in quell’ambito precisa che “sempre secondo l’accordo lo stress è uno stato che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali e che consegue dal fato che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o attese nei loro confronti”
[25] In generale, sui fattori di rischio nell’ambito pubblicistico occorre ancora far riferimento ai seguenti fattori che attengono all’organizzazione del lavoro ed in particolare possono riguardare:orari/turni di lavoro; carichi/stress rapporti gerarchici ed interindividuali; rapporti con terzi e con il pubblico; software.
[26] Per maggiori approfondimenti su queste tematiche si invita a visionare il sito Ispesl (www.ispesl.it) nel quale sono disponibili maggiori informazioni sull’ argomento.
[27] Il concetto di «mobbing» fu introdotto per la prima volta dall'etologo K. Lorenz, Das sognante boese. Zur Naturgeschichte der Aggression, Vienna, 1963, ed utilizzato dallo studioso con riferimento a quei comportamenti aggressivi con cui alcune specie animali circondavano minacciosamente un proprio simile col fine di allontanarlo. Il termine è stato poi mutuato da parte della psicologia del lavoro per indicare un comportamento affine, volto all'emarginazione di una persona e perpetrato in ambiente lavorativo da parte di superiori gerarchici o colleghi. I primi e fondamentali studi sul fenomeno si devono allo scandinavo Heinz Leymann, The content and development of mobbing at work, in European journal of work and organizational psycology, 1996, 239 e segg.; Mobbing and psychology terror at workplaces, in Violence and victims, 1990, 119 e segg. Di pari importanza per la dottrina italiana sono stati, poi, i contributi dello studioso di origine tedesca H. Ege che ha rivisitato i criteri definti dal Leymann per individuare la gravità del mobbing. Si vedano, in particolare, H. Ege, Mobbing aziendale o collettivo, o molestia, in Lav. e Giur., 2002, 76 e segg.; La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002; Il mobbing in Italia, Bologna, 1997; Mobbing: cos'è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Bologna, 1996. H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, cit., 52.
[29] Come meglio precisato dall’Avv. Rocchina Staiano in “Dequalificazione professionale e mobbing” edito da Halley Editrice, 2006, pag. 66 ss.