REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI IVREA
SEZIONE PENALE
Il Giudice del Tribunale di Ivrea Dr.ssa Ivana Peila alla pubblica udienza del 30 aprile 2010

ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

 

 


nel procedimento penale contro
B.O., nato a Pisa il ***, elett. dom. ex art. 161 c.p.p. presso lo studio dell'avv. N.A. del Foro di Milano;
libero - contumace
difeso di fiducia dall'avv. N.A. del Foro di Milano e dell'avv. A.M. del Foro di Torino.

IMPUTATO


del delitto di cui agli artt. 40 c.p.v. c.p. e 589 comma II c.p., perché, in qualità di legale responsabile - amministratore delegato della società "O. S.p.a.", per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché per inosservanza di norme attinenti alla prevenzione degli infortuni e relative all'igiene sul lavoro (art. 2087 c.c. e il capo II del D.P.R. del 19.3.1956 n. 303, con speciale riferimento agli artt. 4 e 21), omettendo di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica erano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori secondo la miglior scienza ed esperienza del momento (che già aveva evidenziato i rischi per la salute derivanti da amianto) e, specificamente, di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate al lavoro da svolgere ovvero idonee ai fini della sicurezza e della salute e, in particolare, ad impedire la dispersione di polveri nell'ambiente lavorativo, nel prolungato periodo 1972 - 1976 esponeva la dipendente De.Lu. a tremolite (tipo di amianto del gruppo degli anfiboli - cancerogeno), contenuta nel talco utilizzato per il montaggio dei particolari in gomma per le macchine da scrivere che si depositava sul piano di lavoro e sugli indumenti, così da cagionarle la morte e ciò a seguito dell'insorgenza, dopo un periodo di latenza tipico nell'eziologia di tale grave patologia, di un mesotelioma pleurico causalmente determinato dalla predetta esposizione e che si manifestava in data 10.8.2002, cui conseguiva con nesso eziologico non interrotto il decesso della lavoratrice in data ***.

Fatti commessi in Ivrea in data *** (epoca del decesso).

Con l'intervento del Pubblico Ministero Dr.ssa Manuela R. V.P.O. come da delega in atti, dell'avv. N.A. del Foro di Milano e dell'avv. A.M. del Foro di Torino difensori di fiducia dell'imputato - sostituiti in udienza dall'avv. Me. e delle costituite Parti Civili O.G. nato ad Agliè il *** e O.F. nato a Castellamonte il *** entrambi assistiti e rappresentati dall'avv. R.N. del Foro di Ivrea.






FattoDiritto


In data 22 settembre 2008 il g.u.p. presso il Tribunale di Ivrea disponeva il rinvio a giudizio nei confronti di B.O. per rispondere del reato previsto e punito dagli artt. 40 c.p.v., 589 commi primo e secondo c.p. per aver cagionato per colpa il decesso di D.L., fatto commesso in Ivrea l'1 novembre 2005.


Il processo è stato celebrato nella contumacia dell'imputato e si è svolto in sette udienze: in data 5 febbraio 2009 veniva aperto il dibattimento, venivano ammesse le prove richieste dalla parti e venivano fissata nuova udienza al 4 giugno 2009 per l'escussione dei testimoni indicati dal Pubblico Ministero; in tale udienza venivano sentite le costituite parti civili nonché i testimoni F.P. e R.M.; alla successiva udienza del 16 luglio 2009 venivano escussi Ce.Si., in Servizio presso l'Asl *** e quindi - atteso l'impedimento del consulente di parte - il processo veniva rinviato al 3 dicembre 2009.

In tale udienza la difesa rinunciava all'escussione del proprio consulente e quindi veniva emessa ordinanza ex art. 507 c.p.c. relativa all'affidamento di due incarichi peritali rispettivamente al dott. M.B. ed all'ing. L.T., i quali prestavano il giuramento di rito all'udienza del 9 dicembre 2009 e venivano poi sentiti all'esito del deposito degli elaborati peritali nel contraddittorio delle parti in data 26 marzo 2010.

 

Alle successive udienze del 21 e 30 aprile 2010 le parti discutevano la causa e il Giudice pronunciava sentenza dando lettura del dispositivo con la fissazione del termine di giorni novanta per il deposito della motivazione attesa la complessità della stessa sia in punto ricostruzione dei fatti che di qualificazione giuridica dei medesimi.

 

La vicenda può essere riassunta nei seguenti termini.

 

In data 10 ottobre 2002 veniva diagnosticato alla signora D.L. un mesotelioma pleurico e sulla base delle dichiarazioni dalla stessa rese ai sanitari venivano, svolti gli accertamenti da parte degli organi competenti al fine di accertare la causa dell'insorgenza di tale malattia, malattia che ha poi portato al decesso della paziente in data ***.
In particolare, venivano eseguiti i controlli per verificare se la paziente fosse stata a contatto con sostanze cancerogene nell'ambiente di lavoro e già in sede di s.i.t. la sig.ra D.L. aveva chiarito di aver lavorato a far data dal 1960 fino al 1976 presso lo stabilimento di A. della ditta O. (azienda presso la quale l'imputato rivestiva all'epoca la qualità di legale rappresentante ed amministratore delegato) dove per un certo periodo (circa sei mesi anche non continuativi) si era occupata di programmare i tempi per la messa a punto di pezzi in gomma per l'insonorizzazione della macchina da scrivere e che questa lavorazione comportava l'utilizzo di "polvere biancastra che a fine turno si ritrovava sul piano della postazione di lavoro e sugli indumenti".



Deposizione Persona Offesa

 

In dibattimento la persona offesa ha meglio spiegato che dal 1972 al 1976 ha svolto il lavoro di "allenatrice" che consisteva nell'allenarsi per due o tre giorni su un componente per poi stabilire il ritmo di lavoro e che questo comportava la necessità di toccare queste parti in gomma che erano piani di "una polvere bianca che chiamavamo talco" ("ho manipolato questi pezzi in gomma a intervalli non regolari, ho fatto diversi componenti mettiamo sei mesi non fissi, a tempi, magari stavo tre giorni, poi andavo via, poi ritornavo") e che "questo talco finiva dappertutto ("avevamo una specie di banco di lavoro dove appoggiavamo la scocca e dove arrivavano questi pezzi, arrivava dappertutto, dappertutto, perché poi avevamo in dotazione un barattolone che mi ricordo molto bene, alto così, bianco, con del talco e nei periodi molto caldi la gomma appiccicava comunque, allora se ne aggiungeva, si aggiungeva ancora del talco per poterle staccare), anche sui vestiti ("soprattutto sugli indumenti... era sul tavolo da lavoro, sulle mani... questa polvere residuava sui vestiti tanto che dovevo lavarli tutti i giorni").

 

Circa gli strumenti di protezione in dotazione, la persona offesa ha affermato di non aver mai avuto una mascherina e neppure dei guanti ma soltanto un grembiule di gomma per ripararsi dalla colla e che lo stabilimento non era dotato di alcun macchinario di aspirazione delle polveri.
Ed ancora ha aggiunto che nel 1985 o 1986 presso lo stabilimento di Ivrea dove era stata trasferita si era verificato un incendio in una parte del capannone confinante con il proprio ufficio e con il tetto ricoperto di "eternit" e che in tale occasione la stessa era stata autorizzata a salire per circa dieci minuti "nonostante vi fosse una gran polvere" per cercare di recuperare alcuni dati importanti prima che l'accesso venisse impedito ai dipendenti.

 

Infine, confermava la circostanza che nelle vicinanze della propria abitazione vi era la ditta Il. che aveva una copertura in eternit che era stata rimossa anni addietro.

 

Deposizione O.G. (parte civile).

 

Il sig. O.G. era il marito della sig.ra D.L. nonché collega di lavoro presso la ditta O. e quindi a conoscenza dei fatti di causa sia per il ruolo rivestito in azienda che per la sua convivenza con la vittima.
Il testimone ha spiegato che il lavoro della moglie consisteva nel "fare i tempi", ossia "lavorare tre - quattro - cinque - sei mesi su una lavorazione per calcolarne i tempi", che in tale mansione usava del "talco" perché "i rulli erano pieni di talco" tanto che "aveva il grembiule nero che portava a casa, lo scuoteva fuori dalla lavatrice per eliminare la polvere ...i grembiuli erano in fabbrica ma una volta alla settimana era tutto bianco e lo scuotevamo perché c'era la polvere bianca e poi lo portavano a casa a lavare" e che il talco era anche "per terra perché vi erano dei barattoli da dove le donne prendevano con le mani c. lo buttavano sopra... andava dappertutto e la cassa continuava a girare sul R."; circa gli strumenti di protezione, ha evidenziato che non vi erano né mascherine né aspiratori ("no, no, non c'era niente non vi erano protezioni").

Deposizione O.F..

 

Il figlio della persona offesa ha premesso di non saper riferire nulla circa le modalità di lavoro visto che lo stesso, era un ragazzino all'epoca ma di ricordare soltanto che "si cambiava fuori quando arrivava non entrava in casa... immagino per non impolverare, aveva l'abitudine di cambiarsi sotto e di non venire su quando arrivava dal lavoro" e che la mamma gli diceva che "usavano del borotalco per non far incollare le guarnizioni delle vecchie macchine da scrivere".
Responsabile del servizio ecologia della ditta O. ha riferito di aver appreso dell'utilizzo in azienda del talco per lubrificare i rullini di gomma delle macchine da scrivere e la Responsabile del laboratorio chimico di analisi ha invece confermato di aver fatto analizzare il talco, di averne accertato la presenza di amianto e quindi di aver suggerito di non utilizzarlo più.
Il medico del lavoro dott.ssa S.C. ha spiegato che la sig.ra D.L. era affetta da un mesotelioma pleurico, ossia una patologia correlata all'esposizione all'amianto con una latenza molto lunga e per il quale era sufficiente un'esposizione anche minima per aumentare le probabilità di contrarre la malattia; circa le caratteristiche del talco industriale, la testimone ha affermato che lo stesso "era stato qualificato come cancerogeno dall'Agenzia per la Ricerca per il Cancro nel 1972".

Tale essendo il quadro probatorio, questo giudice aveva ritenuto opportuno disporre due perizie al fine di accertare:
a) il nesso eziologico tra la patologia riscontrata dalla persona offesa e l'attività lavorativa svolta nel periodo 1972 - 1976 presso lo stabilimento O. di Agliè;
b) quali fossero le misure di sicurezza da adottare nel periodo sopra indicato.

 

a) Consulenza medico legale.

Il dott. M.B. ha analizzato la documentazione medica in atti e ha spiegato che la signora D. era in vita affetta da mesotelioma pleurico epiteliomorfo tubulare e che la stessa fu esposta nel corso della sua vita lavorativa a fibre di amianto: esposizione probabilmente diretta, con alto grado di probabilità almeno indiretta, presso la ditta O. nel periodo 1972 - 1976.
In particolare, ha affermato che "il mesotelioma, con il conseguente decesso, è riferibile all'esposizione lavorativa con alto grado di credibilità razionale perché tale esposizione, non elevata (certamente inferiore a quella in grado di causare l'asbestosi) è comunque da ritenersi significativamente superiore a quella della popolazione generale non esposta professionalmente e comunque sufficiente ad aumentare significativamente il rischio di mesoletioma pleurico "e che "pur non essendo nota una dose soglia, un incremento di rischi riferibile alla maggior dose inalata nel corso dell'esposizione lavorativa è da ritenersi significativo".
"Inoltre, il periodo di "latenza convenzionale" (tra i 24 e i 30 anni) è compatibile con il nesso causale" e quindi "la patologia da cui era affetta la signora De. e che ne ha causato il decesso è con alto grado di probabilità logica e credibilità razionale da riferire all'attività lavorativa svolta dalla stessa presso la ditta in causa".

A seguito di richiesta di chiarimenti, il perito ha sottolineato come "l'esposizione lavorativa è ritenuta il maggior fattore di rischio rispetto ad altre esposizioni" e che "la dose presunta inalata, seppur non elevata, è comunque superiore a quella della popolazione generale" ("la quota di probabilità che il tumore sia dovuto ad esposizione professionale negli esposti che vanno dal 99 al 90% di rischio rispetto alla popolazione generale"); confermando quanto ritenuto dal perito ing. L.T., il dott. M.B. ha affermato che "senza dubbio dal 1972 al 1976 si era già a conoscenza della pericolosità dell'amianto" e che "in quel periodo vi erano dei mezzi di protezione disponibili che non erano perfetti ma che non furono usati e poi vi era la possibilità di usare un talco non contaminato,

 

b) consulenza in tema di misure di sicurezza....

 

L'ing. L.T. ha redatto una relazione particolarmente dettagliata e puntuale che offre una precisa ricostruzione della normativa in materia di amianto, delle malattie ad esso correlate nonché circa lo stato delle conoscenze in ambito scientifico dei rischi connessi con l'utilizzo di tale sostanza nei processi industriali e in tema di misure di protezione dei lavoratori.
Si riportano di seguito i passaggi fondamentali della consulenza rinviando alla lettura della medesima che viene in questa sede integralmente richiamata e fatta propria, come peraltro quella del medico legale dott. M.B..



1. Normativa in materia di amianto.

 

Il r.d. n. 1720 del 7 agosto 1936 indica le lavorazioni dell'amianto nonché la macinazione dello stesso e del talco nella tabella dei lavori pericolosi per i quali vengono sancite misure particolari da adottare per l'occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni.
La legge n. 455 del 12 aprile 1943 affronta per la prima volta l'aspetto correlato alle problematiche assicurative obbligatorie a tutela dei soggetti esposti alla silice e all'asbesto e il successivo D.P.R. n. 648 del 20 marzo 1956 riconosce addirittura un indennizzo per gli addetti alle lavorazioni che comportano l'inalazione di polveri di amianto.
L'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 19 marzo 1956 impone di adottare i provvedimenti tecnici per ridurre lo sviluppo e la diffusione della polvere e di privilegiare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e raccolta delle polveri per impedirne la dispersione, di effettuare l'aspirazione nelle immediate vicinanze del luogo di produzione delle polveri, di evitare che le polveri raccolte (aspirate) rientrino nell'ambiente di lavoro, e di utilizzare - nei lavori all'aperto - i mezzi personali di protezione quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigono l'attuazione dei provvedimenti tecnici.
L'art. 638 del D.P.R. n. 128 del 8 aprile 1959, in tema di norme di polizia delle miniere, evidenzia alcuni aspetti peculiari connessi all'utilizzo dell'amianto e sancisce che, se necessario, può essere imposto l'uso di maschere antipolvere, di tipo idoneo.


Il D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965 in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali considera l'asbestosi alla stregua di malattia professionale relativamente alle lavorazioni che comportano l'impiego e l'applicazione dell'amianto e di materiali che lo contengono e che comunque espongono all'inalazione di polvere di amianto (art. 144) e si prevede che con apposito decreto dovevano essere introdotte - a tutela dei lavoratori esposti al rischio silicosi e asbestosi - disposizioni particolari concernenti le misure di prevenzione, e di sicurezza tecniche individuali e collettive (art. 173).


Successivamente, agli inizi degli anni Ottanta, si è raggiunta la certezza che l'esposizione professionale alle polveri di amianto era in grado di esporre non solo al rischio di contrarre l'asbestosi, ma anche il cancro, e quindi sono state emanate ulteriori normative a tutela dei lavoratori che prevedono, per esempio, da ultimo, i valori limiti di esposizione alla polvere di amianto o da materiali contenenti amianto nonché l'utilizzo di dispositivi di protezioni individuali (D.P.I.) delle vie respiratorie con particolari modalità (art. 251 del d.lgv. 81 del 2008).
Ciò premesso, si ricorda che con il termine "amianto o asbesto" si indica l'insieme di tutti quei materiali fibrosi presenti in natura e provenienti da una trasformazione chimica di rocce eruttive.
Lo stato delle conoscenze, in ambito scientifico, circa i rischi connessi all'esposizione all'amianto sono risalenti all'inizio del secolo passato per quanto attiene all'insorgenza della malattia chiamata asbestosi mentre la prova della correlazione con il mesotelioma pleurico sono di epoca successiva: il consulente ricorda una pubblicazione scientifica di Ri.Do. del 1955 che analizzava la mortalità dei lavoratori addetti alla produzione di filati in fabbriche inglesi.
Riassumendo, quindi, all'epoca dei fatti per cui è processo - ossia dal 1972 al 1976 - non vi era ancora la conoscenza circa la possibilità di insorgenza della malattia contratta dalla persona offesa a seguito di inalazione di polvere contenente amianto ma erano già in commercio dei dispositivi di protezione per contrastare l'inalazione delle polveri nonché dei sistemi di aspirazione delle medesime e la legislazione vigente ne imponeva l'utilizzo (art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956).

L'esperita istruttoria ha consentito di accertare in termini di certezza l'avvenuta esposizione della lavoratrice per almeno sei mesi (non continuativi) alla polvere (cd. talco) in grande quantità, tanto che rimaneva sui vestiti (il grembiule nero diventava bianco alla fine della settimana), nonché il fatto che la polvere non veniva mai eliminata dall'ambiente di lavoro tanto che rimaneva sul banco; per quanto attiene alla sussistenza del nesso di causalità tra la quantità di polvere inalata e l'insorgenza della malattia si rinvia a quanto sopra detto nonché alla consulenza del dott. Ma.Bu..


Parimenti provata è poi l'assenza sul luogo di lavoro di delimitazione delle aree nelle quali veniva utilizzato il talco (cd. compartimentazione), nonché l'assenza di sistemi di aspirazione localizzata e quindi il mancato utilizzo di idonei mezzi di protezione personali (c.d. mascherine).

Non vi è dubbio che l'adozione di tali misure di prevenzione avrebbe consentito - con alto grado di probabilità razionale - la riduzione significativa dell'esposizione della lavoratrice ai rischi derivanti dalla inalazione delle fibre di amianto così come l'abbattimento delle polveri, la loro cattura o la riduzione di emissione avrebbe contribuito in modo significativo alla riduzione dell'intensità dell'esposizione nonché alla durata della medesima.


Infine, si evidenzia come nel caso di specie è stata accertata la pericolosità del talco utilizzato dalla persona offesa, tanto che lo stesso è stato poi sostituito dopo i risultati di laboratorio, e pertanto se le analisi fossero state fatte in epoca anteriore, anche solo a campione e attraverso un esame al microscopio ottico, si sarebbe accertata la presenza di tremolite nel talco e lo stesso, sarebbe stato eliminato dalla produzione, con conseguente assenza dell'insorgenza del danno nella lavoratrice.
Come bene riassunto dal consulente ing. Lu.Ti., "nel periodo in cui la persona offesa è stata esposta a sostanze contenenti amianto, in particolare il talco, erano certamente noti gli effetti sulla salute dei lavoratori per quanto riguardava l'asbestosi e vi erano già prove di correlazione certa tra mesotelioma e amianto agli inizi del secolo. La presenza dell'amianto come possibile contaminante del talco era certamente nota e conosciuta da tutti gli addetti ai lavori" (pag. 54).


Tali essendo i termini della questione, si riportano ora i principi elaborati dalla Corte di Cassazione in materia di responsabilità per omicidio colposo per contrazione di malattia a seguito di inalazioni di polvere contenente amianto.

Da tempo si è affermato che, "in tema di responsabilità colposa per violazione di norme prevenzionali, la circostanza che la condotta antidoverosa, per effetto di nuove conoscenze tecniche e scientifiche, risulti nel momento del giudizio produttiva di un evento lesivo, non conosciuto quale sua possibile implicazione nel momento in cui è stata tenuta, non esclude la sussistenza del nesso causale e dell'elemento soggettivo del reato sotto il profilo della prevedibilità, quando l'evento verificatosi offenda lo stesso bene alla cui tutela avrebbe dovuto indirizzarsi il comportamento richiesto dalla norma, e risulti che detto comportamento avrebbe evitato anche la lesione in concreto attuata" (Cass. pen., Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988, relativa all'esposizione di lavoratori all'inalazione di polveri di amianto, nella quale l'eventuale ignoranza dell'agente circa la possibile produzione di malattie tumorali, e soprattutto del mesotelioma pleurico, è stata giudicata irrilevante a fronte dell'omissione di cautele che sarebbero state comunque doverose, secondo le conoscenze dell'epoca, per la prevenzione dell'asbestosi, e cioè di una malattia comunque molto grave e potenzialmente fatale, almeno in termini di durata della vita).


Ed ancora si è chiarito che "nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa ...l'interferenza di decorsi causali alternativi, la condotta omissiva è stata condizione "necessaria" dell'evento che, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva" (Cass. pen., Sez. IV, 9 maggio 2003, n. 37432, fattispecie in cui è stata riconosciuta l'esistenza del rapporto di causalità tra l'omissione, da parte dei responsabili del servizio sanitario delle Fe.St., dei controlli mirati alla prevenzione del rischio derivante dalla cronica esposizione all'amianto da parte dei lavoratori, e la morte o le lesioni verificatesi per questi ultimi come effetto di tale esposizione).

Sempre in tema di colpa, si è statuito che "la prevedibilità dell'evento può riconnettersi anche solo alla possibilità che lo stesso si verifichi, purché tale possibilità riveli in maniera comunque concreta le potenzialità dannose della condotta dell'agente. In tal senso, quando si verte in materia di tutela della vita e della salute dei consociati, il rischio che l'agente deve rappresentarsi può ritenersi concreto anche solo laddove la mancata adozione di cautele preventive possa indurre un dubbio non meramente congetturale sulla possibile produzione di conseguenze dannose" (Cass. pen., Sez. IV, 22 novembre 2007, n. 5117, sempre in tema di responsabilità del datore di lavoro per la mancata predisposizione di misure preventive, ulteriori rispetto a quelle imposte dalle norme preventive vigenti all'epoca, idonee ad evitare la pur prevedibile contrazione da parte dei lavoratori di gravi malattie connesse all'esposizione nell'ambiente di lavoro con polveri di amianto).
Riassumendo, quindi, costituisce principio pacifico quello secondo cui, in tema di omicidio colposo, "sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del datore di lavoro di idonee misure di protezione e il decesso del lavoratore in conseguenza della protratta esposizione alle polveri di amianto, quando, pur non essendo possibile determinare l'esatto momento di insorgenza della malattia, deve ritenersi prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza" (Cass. pen., Sez. IV, 11 aprile 2008, n. 22165).

Tale essendo lo stato della giurisprudenza cui questo giudice ritiene di aderire, non vi è dubbio che il comportamento dell'imputato, consistente nel non aver controllato - anche solo a campione - la qualità del talco utilizzato negli stabilimenti e comunque nel non aver predisposto gli strumenti di protezione già previsti dalla normativa in tema di polveri, abbia contribuito con alto grado di probabilità alla causazione del danno, ossia alla contrazione della malattia che ha poi portato alla morte della lavoratrice.


Non si condividono infatti le osservazioni del consulente dell'imputato secondo cui il livello di esposizione al rischio sarebbe stato minimo perché la maggior parte del talco restava attaccato ai gommini e quindi soltanto una percentuale indicata nell'1 % sarebbe stata destinata agli indumenti dei lavoratori e alle superfici di lavoro.

Come ben spiegato dal perito ing. Lu.Ti., tale conclusione omette di considerare l'effetto cumulativo dell'immissione di amianto nel ciclo produttivo, circostanza invece provata in giudizio attesa l'assenza dei strumenti di aerazione delle polveri, con la conseguenza che la concentrazione del talco era necessariamente destinata ad aumentare proporzionalmente con i giorni di utilizzo (cfr. memoria depositata il 19 aprile 2010, pag. 4).

Circa il concetto di prevedibilità (e quindi evitabilità) dell'evento, a parere di questo giudice l'istruttoria svolta ha dimostrato che le conoscenze scientifiche all'epoca imponevano un diverso comportamento da parte del datore di lavoro e ciò a maggior ragione se si considera la struttura organizzativa complessiva dell'azienda, ossia una società di grosse dimensioni e quindi con la possibilità di eseguire i controlli imposti dalla legge.
Acclarata la penale responsabilità dell'imputato, ai fini della determinazione della pena occorre far riferimento ai criteri di cui all'art. 133 c.p., alla luce del principio della finalità rieducativa della pena sancito dall'art. 27, comma terzo, della Costituzione.
La condizione di incensuratezza e soprattutto il periodo storico nel quale sono stati commessi i fatti (1972 - 1976) giustificano il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alla contestata aggravante e la comminazione della pena detentiva in misura pari al minimo edittale, con conseguente condanna alla pena di mesi sei di reclusione.

Ai sensi dell'art. 535 c.p.p., con la presente sentenza di condanna vengono poste a carico del condannato le spese processuali.

Per quanto attiene alla domanda delle parti civile, si precisa quanto segue.

Non vi è dubbio che le costituite parti civili, rispettivamente marito e figlio della vittima, abbiano subito dei danni - sia di natura patrimoniale che morale - a seguito della condotta colposa dell'imputato perché i medesimi dapprima hanno assistito alla grave sofferenza subita a causa della malattia contratta e successivamente sono stati privati della presenza del loro familiare.
L'istruttoria dibattimentale ha certamente evidenziato la sussistenza dei danni lamentati dalle costituite parti civili ma non ha consentito la sua quantificazione in termini precisi e pertanto si rinvia per la liquidazione al giudice civile.


Riassumendo, l'imputato viene condannato al risarcimento del danno a favore delle costituite parti civili con rimessione della quantificazione del medesimo ad opera del giudice civile, oltre al pagamento delle spese processuali delle costituite parti civili come liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Il Tribunale di Ivrea in composizione monocratica in persona della Dr.ssa Ivana Peila

Vistigli artt. 533 e 535 c.p.p.
Dichiara
l'imputato responsabile del reato a lui ascritto e riconosciute le circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alla contestata aggravante, lo
Condanna,
alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali;
visti gli artt. 538.ss. c.p.p.
condanna
l'imputato al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili rimettendo le parti davanti al giudice civile per la liquidazione del medesimo;
condanna
l'imputato al pagamento delle spese processuali delle costituite parti civili che liquida complessivamente in Euro 3.500,00 oltre iva c.p.a. e accessori di legge.
Visto l'art. 544, comma terzo, c.p.p.
fissa in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Ivrea, il 30 aprile 2010.

Depositata in Cancelleria il 29 luglio 2010.