Cassazione Civile, 24 gennaio 2014, n. 1477 - Fibrosi polmonare e amianto




 

Fatto





Con sentenza n. 689/2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Bergamo, all’esito di una CTU e in parziale accoglimento della domanda di B. N., condannava la N. S. s.p.a., datrice di lavoro dal 1976 al 1979, al risarcimento del danno biologico e morale per la malattia contratta, fibrosi polmonare progressiva interstiziale conseguente ad inalazione di fibre di amianto, a cui attribuiva una percentuale di invalidità del 5%, affermando l’eziopatologia professionale della malattia e il nesso causale con l’omissione colposa di misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire le polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell’attività produttiva svolta dalla società convenuta e respingeva invece la domanda relativa al danno da ipoacusia non essendo stato possibile enucleare all’interno del danno complessivo la percentuale attribuibile alla convenuta.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza ribadendo le difese già svolte ed in particolare sottolineando la sensibilità individuale alle polveri d’amianto, la non prevedibilità del danno e l’assenza quindi di una violazione dell’art. 2087 c.c., essendo gli impianti a norma secondo le conoscenze dell’epoca. L’appellante contestava comunque la quantificazione del danno effettuata secondo le cosiddette tabelle di Milano, in luogo dell’applicazione delle tabelle INAIL comprendenti ormai il danno biologico.

Il B. si costituiva chiedendo la conferma della statuizione sul danno polmonare e proponendo appello incidentale sul mancato riconoscimento del danno da ipoacusia, in quanto, essendo stata riconosciuta la genesi professionale della menomazione e la rumorosità dell’ambiente di lavoro, era necessario procedere a nuova CTU per enucleare il danno riconducibile all’esposizione presso la N. S.

La Corte d’Appello di Brescia, rinnovata la CTU audiologica, con sentenza depositata il 17-1-2009, respingeva l'appello principale e, in accoglimento dell’appello incidentale, condannava la società al risarcimento del danno biologico differenziale e morale da ipoacusia professionale nella misura complessiva di euro 8.087,33, con gli accessori, oltre al pagamento delle spese del doppio grado.

In sintesi la Corte territoriale:

riteneva provata una condotta colposa della società di omissione di misure di sicurezza sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare, il tutto in relazione al periodo de quo;

rilevava che la società non aveva provato le dedotte circostanze legate all’esistenza di una predisposizione individuale a contrarre la malattia e della possibilità di contrarla anche per l’inalazione di dosi minime di polveri, al fine di una interruzione del nesso causale fra condotta ed evento;

sul quantum, evidenziava che, attesa la differenza ontologica tra l’indennizzo erogato dall’INAIL (che del resto non copre il danno biologico per invalidità permanenti inferiori al 6%) e il risarcimento del danno in materia di responsabilità civile, comunque andava riconosciuto al lavoratore il danno biologico da invalidità permanente escluso dalla sfera dell’assicurazione INAIL, applicando a tal fine correttamente i criteri equitativi milanesi in uso anche nel distretto di Brescia;

sull’appello incidentale rilevava che la CTU espletata in sede di gravame aveva confermato sia la otolesività della lavorazione sia il certo nesso causale tra la stessa e una quota del danno da ipoacusia professionale pari complessivamente al 9% ed affermava che, dovendo applicarsi i principi di cui agli artt. 40 e 41 c.p., nella fattispecie, sussistendo senz’altro la concausa della invalidità in termini di rilevante probabilità, non aveva rilievo la maggiore o minore incidenza nel raffronto con le altre concause di origine professionale ed extraprofessionale.

Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con tre motivi.

B. N. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..


Diritto





Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 2697 c.c., la società ricorrente deduce che nella fattispecie è mancata la prova del nesso causale tra la esposizione all’amianto e l’evento lesivo, non essendo emersi "elementi in base ai quali poter stabilire se il B. ha contratto le placche pleuriche a causa della sua elevata suscettibilità individuale, certamente non addebitabile ad essa società, all’epoca delle prime esposizioni, ovvero successivamente, per effetto delle dosi progressivamente accumulate". In specie la ricorrente rileva che "le conoscenze derivanti dalla epidemiologia riguardano la causalità generale, ma nulla dicono sulla causalità individuale", di guisa che "non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno" dell’esistenza del nesso causale, dovendo il giudice "verificarne la validità nel caso concreto".

Con il secondo motivo la società lamenta vizio di motivazione in ordine al fatto decisivo e controverso della esistenza della possibilità di prevenire le placche pleuriche all’epoca (1976/1979) in cui risaliva l’esposizione all’amianto del B..

In particolare la ricorrente evidenzia che fino alla seconda metà degli anni ’80 sia le maschere antipolvere individuali che i filtri per gli impianti di aspirazione fissi e mobili erano completamente inefficaci perché sicuramente permeabili alle fibre di diametro submicronico, mentre soltanto con il decreto 6-9-94 sono state prescritte ufficialmente in Italia maschere di gomma semifacciali con filtri assoluti, finalmente adeguate alla protezione verso le fibre ultrafini.

Con il terzo motivo la società lamenta che la Corte di merito avrebbe violato l’art. 2087 c.c. anche in relazione all’art. 21 del d.P.R. 303/1956, in quanto "ha accreditato la conclusione che gli obblighi di comportamento, in punto di predisposizione di meccanismi di aspirazione o riduzione delle polveri, ex art. 21 cit., potessero radicare comportamenti doverosi della N. S. s.r.l. anche con riferimento a tipologie di polveri (quelle ultrafini, appunto, dotate di efficacia patogenetica decisiva ai fini dell’insorgenza delle placche pleuriche), per le quali invece le acquisizioni tecniche di causa escludevano l’esistenza di rimedi preventivi adeguati all’epoca dei fatti".

Osserva il Collegio che il terzo motivo è inammissibile in quanto del tutto privo del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., che va applicato nella specie ratione temporis, trattandosi di ricorso avverso una sentenza pubblicata successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 40 del 2006 ed anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 (v. fra le altre Cass. 16-12-2009 n. 26364, Cass. 18-7-2011 n. 15718).

I primi due motivi risultano infondati e vanno respinti.

Sul primo motivo va premesso che nella specie trova applicazione "la regola contenuta nell'art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni" (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003 n. 6722).

Del resto, come è stato costantemente affermato in generale, in ambito civilistico la prova del nesso causale consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del "più probabile che non" (v. fra le altre Cass. 16-1-2009 n. 975, cfr. Cass. 16-10-2007 n. 21619, Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass. 21-7-2011 n. 15991).

In particolare, poi, è stato anche precisato che "nel caso di malattia ad eziologia multifattoriale, il nesso di causalità relativo all'origine professionale della malattia non può essere oggetto di semplici presunzioni tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, e, se questa può essere data anche in termini di probabilità sulla base delle particolarità della fattispecie (essendo impossibile, nella maggior parte dei casi, ottenere la certezza dell’eziologia), è necessario pur sempre che si tratti di "probabilità qualificata", da verificarsi attraverso ulteriori elementi (come ad esempio i dati epidemiologici), idonei a tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale (v. Cass. 12-5-2004 n. 9057).

Nella fattispecie la Corte territoriale sulla base delle valutazioni e delle conclusioni della CTU, applicando i principi sopra richiamati, legittimamente ha ritenuto provato nella specie il nesso causale tra l’esposizione professionale all’amianto e la genesi della patologia polmonare contratta, non essendo, d’altra parte, emerse rilevanti cause interruttive del detto nesso causale.

In particolare la Corte non soltanto ha fatto proprie le valutazioni epidemiologiche dell’ausiliare, bensì ha anche accertato, in base alla prova testimoniale, che il B., pur avendo lavorato soltanto per tre anni presso la N. S. "è stato esposto al rischio di inalazione di fibre di amianto in modo massiccio quale addetto ai vari lavori tra i quali principalmente la miscelazione", in un ambiente privo delle necessarie misure di sicurezza all’epoca già conosciute, quali la segregazione degli ambienti polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri con l’umidificazione.

Parimenti infondato è, poi, il secondo motivo, riguardante l’asserita non prevenibilità, all’epoca, dell’evento dannoso.

Come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, la responsabilità del datore di lavoro di cui al citato art. 2087 è di natura contrattuale, per cui "ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo" (v. Cass. 17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-3- 2006 n. 4840, Cass. 24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-2- 2000 n. 1886).

In sostanza "la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori" (v. tra le altre Cass. 19-4-2003 n. 6377, Cass. 1-10-2003 n. 16645).

In particolare, con riguardo all’inalazione di polveri di amianto questa Corte ha precisato che "la responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia." (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr. Cass. 1-2-2008 n. 2491, Cass. 14-1-2005 n. 644).

Del resto, come è stato chiarito da Cass. 30-6-2005 n. 14010, seppure all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte col DPR 10 febbraio 1982 n. 15), senz’altro si imponeva l’adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di tali materiali, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 cc ed all'art. 21 del DPR 19 marzo 1956 n. 303, ove si stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro" soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri".

Orbene la sentenza impugnata, sul punto, nel respingere la tesi della società, dopo aver premesso che "la normativa del 1956 già contemplava alcune misure specifiche" (quali la segregazione degli ambienti polverosi, l’installazione di impianti di aspirazione adeguati e l’abbattimento delle polveri con l’umidificazione), ha accertato, in base alle risultanze della prova testimoniale, che tali misure, senz’altro già disponibili all’epoca ed idonee ad abbattere significativamente la polverosità e quindi anche ad evitare l’insorgenza della malattia, non sono state affatto adottate in N. S., essendo anzi emerso che: "il reparto di miscelazione era separato dagli altri (ma non segregato), non vi sono stati per molti anni aspiratori, successivamente vennero adottati aspiratori inadeguati e svariate erano le mansioni che implicavano l’esposizione diretta alla polvere non inumidita, comprese quelle di pulizia di macchine dal materiale secco, dello spostamento dei sacchi di tela contenenti la polvere di amianto, del caricamento dei miscelatori (fatto a mano se le pale erano rotte) e della manipolazione degli impasti, di cui i lavoratori rimanevano impiastricciati".

Pertanto la Corte di merito ha ritenuto nella specie provata la condotta colposa omissiva della società, "sotto il profilo della mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, della mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e della mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare (relative alle tute, stivali ecc. e al trattamento di detti indumenti)", considerando tali omissioni rilevanti "a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche" all’epoca.

Tale decisione, conforme ai principi sopra richiamati e all’indirizzo consolidato in materia, risulta altresì congruamente motivata e resiste alla censura della ricorrente.

Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese in favore del B..



P.Q.M.





Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare al B. le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.