Cassazione Penale, Sez. 4, 31 marzo 2014, n. 14789 - Infortunio mortale con una macchina sabbiatrice: prassi scorretta ma consentita dal datore di lavoro


 


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SIRENA Pietro A. - Presidente -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvatore - Consigliere -
Dott. MONTAGNI Andrea - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza


sul ricorso proposto da:
F.S.F. N. IL (Omissis);
avverso la sentenza n. 3929/2010 CORTE APPELLO di MILANO, del 05/10/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/03/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ANDREA MONTAGNI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SPINACI Sante che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. Ribando Sebastiano del foro di Roma sost. processuale dell'avv. Rigamonti del foro di Lecco che insiste nella richiesta di annullamento del provvedimento impugnato.

Fatto


1. La Corte di Milano, con sentenza in data 5.10.2012, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale di Lecco il 27.10.2009, nei confronti di F.S.F., in ordine al reato di cui all'art. 589 cod. pen. ed altro, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato con riguardo alle contravvenzioni contestate ai capi b) e c) della rubrica, essendo estinte per intervenuta prescrizione e confermava nel resto.

All'imputato si contesta, quale legale rappresentante della ditta individuale F.S. Pulitura Metalli, in concorso con altri, di avere provocato la morte del lavoratore B.O., il quale, in data 25.05.2005, rimaneva schiacciato durante l'introduzione e la distribuzione di pezzi da trattare sul tappeto posto all'interno della macchina sabbiatrice, per colpa consistita in negligenza e nella violazione della normativa in materia di prevenzione degli infortunio sul lavoro; in particolare, al prevenuto si contesta l'inosservanza del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 35, comma 2, per non aver attuato misure tecniche organizzative adeguate per ridurre i rischi e per non aver impedito l'utilizzo della macchina sabbiatrice con metodiche non corrette; e la violazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 38, per non aver assicurato al lavoratore una idonea formazione professionale sull'uso della macchina sabbiatrice.

La Corte territoriale ha rilevato che la manovra posta in essere dal B., se pure imprudente e pericolosa, non poteva qualificarsi come abnorme. Al riguardo, il Collegio ha riferito che risultava accertato che B. dovesse ancora smaltire una notevole quantità di lavoro, di talchè l'adozione di modalità di lavorazione pericolose, rispondeva alla specifica esigenza di velocizzazione del ciclo produttivo. La Corte di Appello ha pertanto considerato che, nel caso di specie, la condotta imprudente del lavoratore non concorreva con le colpe del datore di lavoro, ma ne costituiva l'effetto perverso.

2. Avverso la predetta sentenza della Corte di Appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione F.S.F., a mezzo del difensore.

L'esponente premette che risulta determinante la questione relativa al rimprovero che il datore di lavoro ebbe ad effettuare nei confronti del dipendente, a fronte della scorretta manovra che era stata posta in essere.

Ciò posto, con il primo motivo il ricorrente denuncia il vizio motivazionale. Osserva che, illogicamente, la Corte di Appello ha affermato che se F. avesse rimproverato B., gli altri lavoratori lo avrebbero sentito, tenuto conto delle piccole dimensioni del contesto lavorativo.

Con il secondo motivo la parte deduce la contraddittorietà del passaggio motivazionale ora richiamato, che pone in relazione la ristrettezza dell'ambiente di lavoro con il clamore con il quale viene propalato un richiamo ad un dipendente.

Con il terzo motivo l'esponente rileva che illogicamente la Corte di Appello ha ritenuto che il fatto che i dipendenti non avessero sentito F. rimproverare il B., stava a significare che detto rimprovero non fosse mai stato effettuato.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, laddove si afferma che il fatto che F. avesse imposto ad altri dipendenti di non imitare il B., stava a significare che il datore di lavoro avallava la condotta posta in essere dal medesimo B..

Con il quinto motivo viene dedotta la violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2, in riferimento alla valenza probatoria che la Corte territoriale ha assegnato alla circostanza di fatto ora riferita.

Con il sesto motivo viene dedotta la manifesta illogicità del passaggio motivazionale ove la Corte di Appello ricava, della deposizione del teste Fe., il convincimento che F. desiderasse che B., dipendente esperto, ponesse in essere la richiamata condotta pericolosa, nell'utilizzo della sabbiatrice.

Con il settimo motivo viene denunciata la violazione dell'art. 192 c.p.p., comma 2, in riferimento alla valenza probatoria che la Corte territoriale ha assegnato alla circostanza di fatto da ultimo riferita.

Con l'ottavo motivo il ricorrente si duole del vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale ha escluso il concorso di colpa della vittima. Al riguardo l'esponente sottolinea che B. era soggetto adulto ed esperto; ed osserva che la realizzazione di un comportamento imprudente non era stata imposta al dipendente.

Con il nono motivo la parte osserva che la Corte territoriale, dopo aver dichiarato estinti per prescrizione i reati contravvenzionali di cui ai capi b) e c), ha omesso di rideterminare la pena originariamente inflitta, escludendo la sanzione relativa alle contravvenzioni estinte.

2.1 Il ricorrente ha depositato memoria. Osserva che le parti civili sono state risarcite e che le stesse hanno preannunziato rinunzia alla costituzione. Rileva, inoltre, senza che ciò valga rinuncia ai motivi di ricorso, che il reato di omicidio colposo risulta estinto per prescrizione, in applicazione della più favore disciplina introdotta dalla novella del 2005, computando il termine di anni sette e mesi sei e tenendo pure conto delle intervenute sospensioni.


Diritto

 


3. Il ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono.

3.1 Si deve primieramente considerare che il termine massimo di prescrizione, pari ad anni quindici, relativo al reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per il quale si procede, commesso in data 25.05.2005, non risulta ad oggi spirato. Invero, all'imputato non sono state concesse le attenuanti generiche. Pertanto, applicandosi la disciplina di cui al previgente art. 157 cod. pen., il termine prescrizionale, relativo a reato punito, all'epoca del fatto, con la pena della reclusione da uno a cinque anni, risulta pari ad anni dieci, da aumentarsi della metà, sino ad anni quindici, per gli intervenuti atti interruttivi. Del resto, anche applicando la disciplina prescrizionale introdotta dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, il termine risulta comunque pari ad anni quindici, stante il disposto di cui all'art. 157 c.p., comma 6, ove è stabilito il raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di cui all'art. 589 c.p., comma 2. Il termine di prescrizione relativo al delitto di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, per il quale si procede, non risulta perciò altrimenti decorso.

4. Tanto chiarito, si vengono ad esaminare i motivi ai quali il ricorso è specificamente affidato.

4.1 I motivi dal primo al settimo, che è dato esaminare congiuntamente, sono inammissibili.

Come noto, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (in tal senso, "ex plurimis", Cass. Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).

Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali, hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945). E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17905 del 23.03.2006, dep. 23.05.2006, Rv. 234109).

Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1769 del 23/03/1995, dep. 28/04/1995, Rv. 201177; Cass. Sez. 6, Sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, dep. 28.05.2009, Rv.244181).

4.2 Orbene, delineato nei superiori termini l'orizzonte del presente scrutinio di legittimità, deve rilevarsi che il percorso logico argomentativo sviluppato dalla Corte di Appello, in riferimento alla accertata dinamica del sinistro ed al fatto che la condotta imprudente posta in essere dal lavoratore infortunato corrispondesse ad una specifica prassi aziendale, risulta immune dalle dedotte censure.

La Corte di Appello, invero, ha evidenziato che B. aveva agito, cercando di smuovere i pezzi che erano rimasti incastrati sulla benna di carico, con la macchina in movimento in modalità automatica; ed ha chiarito che la predetta manovra, abitualmente posta in essere dal B., risultava avallata dal F.. Al riguardo, la Corte di Appello ha considerato, sviluppando un percorso argomentativo conferente rispetto all'acquisito compendio probatorio ed immune da aporie di ordine logico, che le piccole dimensioni dell'impresa ed il fatto che F. lavorasse a contatto con i propri operai, erano evenienze indicative della circostanza che l'imputato fosse ben consapevole della prassi lavorativa adottata dal B.. In particolare, la Corte di merito ha osservato che risultava accertato che F. aveva ammonito un altro dipendente, intimandogli di non imitare l'operato del B.; e che doveva escludersi, sulla base delle raccolte testimonianze, contestualizzate in relazione allo specifico ambito lavorativo - caratterizzato da spazi ristretti e dal fatto che il datore di lavoro affiancava gli operai nelle attività manuali - che F. avesse mai rimproverato B., per le modalità con le quali il dipendente operava presso la macchina sabbiatrice.

4.3 L'ottavo motivo di ricorso è infondato.

La Corte di Appello ha escluso che il comportamento imprudente posto in essere dal B. possa qualificarsi come abnorme. Ciò in quanto B. aveva agito cercando di smuovere i pezzi che erano rimasti incastrati sulla benna di carico, con la macchina in movimento in modalità automatica, durante l'orario di lavoro e sul luogo di lavoro, nel corso di una specifica fase del processo produttivo, al fine di accelerare i tempi della lavorazione.

Ebbene, la valutazione effettuata dalla Corte territoriale si colloca del tutto coerentemente nell'alveo del consolidato orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, sul tema di interesse.

La Corte regolatrice ha da tempo chiarito che nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento negligente del medesimo lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Sul punto, si è pure precisato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Deve perciò rilevarsi che le richiamate considerazioni, svolte in sede di merito, si collocano appieno nell'alveo dell'orientamento espresso ripetutamente dalla Corte regolatrice, in riferimento alla valenza esimente da assegnare alla condotta colposa posta in essere dal lavoratore, rispetto al soggetto che versa in posizione di garanzia. Questa Suprema Corte, infatti, ha affermato che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; e che può escludersi l'esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento. Nella materia che occupa deve, cioè, considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Deve pure osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha più volte sottolineato che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Cass., sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. il 20.03.2000, Rv. 215686); e ciò con specifico riferimento alle ipotesi in cui il comportamento del lavoratore - come certamente è avvenuto nel caso di specie - rientri pienamente nelle attribuzioni specificamente attribuitegli (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, dep. 9.03.2007, Rv. 236109). Deve pertanto conclusivamente rilevarsi che le valutazioni effettuate dai giudici di merito, in ordine alla non abnormità del comportamento imprudente posto in essere dal dipendente infortunato, risultano immuni dalle dedotte censure.

4.4 Il nono motivo di doglianza è fondato. Il Tribunale di Lecco, in riferimento ai reati contravvenzionali di cui ai capi b) e c) della rubrica, aveva rispettivamente applicato nei confronti dell'imputato la pena di Euro 1.500,00 e di Euro 2.000,00 di ammenda. La Corte di Appello di Milano, nel dichiarare l'estinzione dei richiamati reati contravvenzionali, per intervenuta prescrizione, ha omesso di rideterminare conseguentemente il complessivo trattamento sanzionatorio. Orbene, atteso che i segmenti di pena relativi ai reati dichiarati estinti risultano chiaramente individuati dal giudice di merito, sussistono i presupposti di legge perchè questa Suprema Corte proceda a rideterminare la pena complessivamente inflitta all'imputato in un anno e mesi quattro di reclusione, in relazione al reato di cui al capo a).

5. Si impone, per quanto rilevato, la rideterminazione della pena inflitta al F., nei termini ora evidenziati ed il rigetto nel resto del ricorso.




P.Q.M.

Ridetermina la pena inflitta nei confronti di F.S. F. in un anno e quattro mesi di reclusione; rigetta il ricorso nel resto.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2014