Cassazione Penale, Sez. 4, 13 settembre 2013, n. 37762 - Lavoratore fumatore esposto ad agente cancerogeno professionale e tumore polmonare
- Agenti cancerogeni
- Dirigente e Preposto
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Malattie Professionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROMIS Vincenzo - Presidente -
Dott. D'ISA C. - rel. Consigliere -
Dott. CIAMPI Francesc - Consigliere -
Dott. VITELLI CASELLA Luca - Consigliere -
Dott. DOVERE Salvator - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
Sui ricorsi proposti da:
1. B.R. n. il (Omissis);
2. Z.P. n. il (Omissis);
3. S.A. n. il (Omissis);
avverso la sentenza n. 998/12 della Corte d'appello di Venezia - del 7.06.2012;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
Udita in PUBBLICA UDIENZA del 21 giugno 2013 la relazione fatta dal Consigliere dott. D'ISA CLAUDIO;
Udito il Procuratore Generale nella persona del Dott.ssa FODARONI Maria Giuseppina, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio in ordine all'omicidio colposo del C. per essere il reato estinto per prescrizione. Rigetto dei ricorsi nel resto.
L'avv. Taras Fausto, difensore del B., l'avv. Merlin Angelo, difensore dello Z., l'avv. Maiolino Giuseppe, difensore dello S. chiedono, in accoglimento dei rispettivi ricorsi, annullarsi la sentenza impugnata.
Fatto
1. Con sentenza, resa il 24 maggio 2012, il GIP del Tribunale di Bassano del Grappa assolveva con la formula "perchè il fatto non sussiste" S.A., Z.P. e B. R. dai reati di cui agli artt. 589 c.p., comma 2 e art. 590 c.p., ad essi contestati in quanto il primo, nella qualità di presidente ed amministratore delegato della T. S.p.a., il secondo, nella qualità di amministratore delegato della stessa società e poi della industria Galvanica PM, e l'ultimo, nella qualità di dirigente responsabile del reparto cromatura della T. S.p.a., con violazione delle norme antinfortunistiche, causavano la morte, per tumore polmonare, dei lavoratori dipendenti D.F.E., B. D., Co.Ug., G.A., Za.Pi. e C.R., nonchè lesioni personali aggravate (art. 590, commi 1 e 3 e art. 583, comma 2, n. 1) al lavoratore dipendente Br.Di., consistite nella neoplasia polmonare e nella broncopneopatia cronica ostruttiva manifestatesi nel (Omissis).
In sostanza, si addebitava agli imputati di non avere, in violazione del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 20 e art. 2087 c.c., nello svolgimento dell'attività di cromatura presso lo stabilimento industriale della T., dai primi anni 70 fino al 2003, adottato i provvedimenti atti ad impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione di vapori tossici, mediante aerodispersione di cromo esavalente, e, comunque, di non aver adottato le misure necessarie secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori.
1.1 Il GIP, prendeva atto; a) delle risultanze delle indagini svolte dallo SPISAL (servizio Igiene Sicurezza sul Lavoro) e dalla Sezione di P.G. del C.F.S., presso la Procura della Repubblica di Bassano del Grappa; b) delle perizie espletate, sia nel corso delle indagini preliminari (in particolare quella affidata al Dott. Cl. ed all'ing. G. in sede di incidente probatorio), sia di quelle disposte direttamente dal magistrato in sede di giudizio abbreviato mediante l'incarico affidato in via collegiale (prof. A., prof. D.F. e dott. R.) di ricostruire l'eziopatogenesi delle neoplasie polmonari diagnosticate alle persone offese e di individuare l'eventuale efficacia causale o concausale nel relativo decorso della esposizione professionale a cui le stesse sono state soggette. Tale perizia collegiale, a seguito del raffronto dei livelli di esposizione lavorativa a CR (4^) ricavati dagli indicatori clinici e biologici con i dati relativi al fumo di tabacco presente (in diversa misura) in tutte le pp.oo., ha formulato un giudizio di prevalenza dell'esposizione lavorativa sull'abitudine tabagica come fattore di induzione della neoplasia polmonare per B., C. e Co., di concorrenza, invece, tra i due fattori oncogeni per D.F., di minusvalenza del primo rispetto al secondo per G. e Br., e di trascurabile valenza dell'esposizione professionale rispetto al fumo per Za.; c) dei risultati della perizia epidemiologica, dallo stesso magistrato, disposta, ex art. 441 c.p.p., comma 5, sulla valenza causale (o concausale) dell'esposizione a CR (VI) nella insorgenza delle neoplasie riscontate nelle pp.oo, affidandone l'espletamento al Dott. Cr.Pa., coordinatore nazionale di un progetto per la rilevazione informativa dei tumori di sospetta origine professionale;
basandosi sui dati relativi ai lavoratori della T. deceduti per tumori al polmone forniti dalla ASL di Bassano del Grappa e sui risultati di una precedente indagine epidemiologica pubblicata sulla coorte di 127 dipendenti T., il perito - previa determinazione delle stime di rischio al fine di azzerare l'incidenza dell'eccesso di abitudine al fumo riscontrata presso la "coorte" esaminata (rispetto alla popolazione generale veneta costituente il termine di raffronto), e, prendendo in esame i soggetti esposti al rischio per oltre 5 anni con un periodo di latenza superiore nel minimo a 10 anni - ha attribuito almeno tre dei sette decessi per neoplasia polmonare all'esposizione lavorativa.
Nonostante le conclusioni, raggiunte dalla perizia collegiale e dall'indagine epidemiologica svolta dal prof. Cr., la sentenza di primo grado ha ritenuto non verificato il nesso di condizionamento tra l'esposizione professionale delle vittime alla sostanza cancerogena del CR(6^) e l'insorgenza delle neoplasie polmonari secondo il grado di elevata probabilità logica o credibilità razionale richiesto dalla giurisprudenza delle SS.UU. penali della Corte di legittimità per pervenire a un giudizio di condanna (sentenza Franzese, n. 30328 del 2002), non essendo al riguardo sufficiente la mera probabilità statistica di produzione dell'evento emersa dal complesso delle indagini peritali.
1. 2 Su appello del Procuratore della Repubblica del Tribunale di Bassano del Grappa, del Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Venezia e delle costituite parti civili, la Corte distrettuale veneta, con sentenza del 7 giugno 2012, in riforma parziale della sentenza del GIP, ha dichiarato S.A., Z.P. e B.R., colpevoli dei reati loro ascritti in danno di B.D., Co.Ug. e C. R., condannandoli alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili.
I giudici del gravame, pur dando atto della completezza della motivazione della sentenza del GIP, affermano che, anche in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali come il tumore polmonare, la sussistenza del nesso causale con la condotta incriminata non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo che si limiti a prendere atto, nell'ambito di un giudizio controfattuale svincolato dalle concrete risultanze processuali, della ricorrenza di un fattore causale alternativo di potenziale innesco della malattia (il fumo di sigaretta) in grado di spiegarne autonomamente l'insorgenza. E', invece, necessario procedere, alla stregua dell'accennata presenza del fattore oncogeno legato all'ambiente di lavoro munito di altrettanta (se non maggiore) - e scientificamente certa - potenzialità causale nell'induzione della neoplasia, a una puntuale verifica, da operarsi caso per caso, con riguardo alla posizione di ciascuna singola persona offesa e alle peculiarità della relativa vicenda lavorativa, nonchè dei dati soggettivi, anche di natura biologica, specificamente disponibili in ordine alla durata e all'intensità dell'esposizione al relativo fattore di rischio, dell'efficienza determinante - nella produzione dell'evento lesivo - dell'esposizione professionale a CR(6^) nel corso dell'attività lavorativa svolta presso lo stabilimento industriale degli imputati.
Quindi, dopo un'approfondita analisi delle singole posizioni delle pp.oo. richiamate, con riferimento alla durata per ognuna di esse della esposizione alle esalazioni da cromo esavalente ed alla incidenza personale dell'abitudine al fumo di tabacco, è pervenuta alla condanna degli imputati, non tralasciando di osservare come la conferma, in linea generale, che l'incidenza della neoplasia polmonare, presso la "coorte" dei lavoratori della T., non possa - necessariamente - trovare spiegazione per tutti i lavoratori ammalatisi nel corso del periodo oggetto dell'osservazione nell'abitudine al fumo di sigaretta si trae in modo certo, sul piano logico razionale prima ancora che su quello scientifico, dai risultati dell'indagine epidemiologica riportati nella perizia del Dott. Cr..
2. Propongono avverso la sentenza della Corte lagunare ricorso per cassazione tutti e tre gli imputati.
2.1. Ricorso di B..
Con il primo motivo si denunciano violazione di legge, in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., nonchè vizio di motivazione con riferimento alla prova della causalità individuale in ordine agli eventi di danno occorsi a B.D., Co.Ug. e C.R., concretizzatosi nella distorsione palese fra il risultato probatorio utilizzato nella motivazione e l'atto probatorio acquisito al processo.
Il riferimento è al risultato della perizia collegiale e alle deposizioni dei periti rese in udienza, posti a base della sentenza di condanna, ma erroneamente interpretati dalla Corte distrettuale.
Si argomenta che già la sentenza di primo grado aveva evidenziato che "i periti hanno confermato quanto già rilevato dal Dott. Cl., nel senso della impossibilità di individuare con ragionevole certezza nell'ambito di una patologia multifattoriale, in presenza di fattori di rischio, la causa di insorgenza del tumore".
E, pertanto, per le posizioni lavorative nelle quali il collegio peritale aveva attribuito all'esposizione professionale al Cromo 6^, un giudizio di prevalenza ( B.D., Co.Ug. e C. R.) non è possibile - sulla base di un sapere scientificamente fondato - escludere l'efficienza causale di un diverso meccanismo eziologico fondato sull'abitudine al fumo di sigaretta.
E', quindi, impossibile, dal punto di vista scientifico, stabilire se i summenzionati lavoratori affetti da una patologia "pur a prevalente eziologia lavorativa" non si sarebbero ammalati in mancanza del fattore di rischio riconducibile all'ambiente di lavoro.
Il dato probatorio rilevante per il ricorrente, acquisito nel processo, è che, nonostante la perizia collegiale abbia attribuito un c.d. "giudizio di prevalenza" all'esposizione professionale, non è stata in grado di escludere, ricorrendo a leggi scientifiche, il decorso causale alternativo per le tre suddette posizioni.
Quando due spiegazioni causali di un medesimo evento si fronteggiano, il decidere quale sia quella effettivamente produttiva dell'evento è giudizio che deve essere affidato a criteri razionalmente controllabili mediante il ricorso a leggi scientifiche e non può trovare ospitalità un canone legato ad una c.d. "prevalenza della spiegazione", quale quello utilizzato dalla Corte d'Appello.
La censura, con riguardo al metodo, che si muove alla sentenza impugnata è che l'intendimento dei giudici dell'appello è quello di spiegare l'evento morte, non sulla base della prospettiva esplicativa ex post, ma sulla base del paradigma causale del ed. aumento del rischio (e cioè per l'esistenza del nesso causale è sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea - in questo caso l'esposizione alla sostanza pericolosa - a produrre la malattia), e cioè su un paradigma inaccettabile per violazione del principio di personalità della responsabilità penale.
Si afferma che, se è vero che, in virtù del principio del libero convincimento e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione di prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettate, quella che ritiene condivisibile, è però altrettanto vero che deve giustificare la scelta operata sulla base di una congrua motivazione che tenga conto delle leggi scientifiche di copertura.
E, in questo processo, evidenzia il ricorrente, i periti nominati dal giudice del giudizio abbreviato non hanno prospettato tesi alternative ma, concordemente, hanno stabilito che (per i decessi relativi ai lavoratori B., Co. e C.) non è possibile - sulla base di un sapere scientificamente fondato - escludere l'efficienza causale di un diverso meccanismo eziologico fondato sull'abitudine al fumo di sigaretta.
Si rileva, inoltre, che questa conclusione non può essere nemmeno scalfita dalla perizia epidemiologica redatta dal Dott. Cr.
ed utilizzata dai giudici di appello per sottolineare "l'incremento esponenziale del rischio verificatosi per i lavoratori occupati alle dipendenze della T. dopo il 1980" (pag. 27 dell'impugnata sentenza).
Infatti, anche se fosse ritenuto accertato, sulla base di una affidabile legge epidemiologica, che l'esposizione al Cromo 6^ ha aumentato l'incidenza della patologia tra i lavoratori esposti, ciò non sarebbe comunque sufficiente per l'imputazione eziologica, perchè il giudice deve verificare la derivazione causale della singola forma patologica (causalità individuale), e rispetto ai lavoratori B.D., Co.Ug. e C.R., l'escussione collegiale dei periti nominati dal GUP ha permesso di accertare che questi si sarebbero potuti ammalare anche in mancanza dell'esposizione lavorativa.
Sul punto si fa riferimento alla mancata attuazione del criterio valutativo ermeneutico dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio", assumendosi che proprio la controllabilità razionale (cioè secondo paradigmi che possano essere sottoposti a verifica critica e dunque a confutazione) rappresenta lo snodo strutturale del criterio ermeneutico ricordato.
Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge in relazione all'art. 40 c.p. e vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello affermato l'esistenza di un nesso causale tra la neoplasia contratta da Co.Ug. e la esposizione professionale presso la T. S.p.a..
Con riguardo alla posizione di tale persona offesa si evidenzia che, prima di essere assunto alla T., tale lavoratore aveva prestato attività lavorativa per otto anni presso altra ditta di cromatura in Torino, ed i periti hanno definito basso il peso dell'esposizione al cromo esavalente nel periodo di lavoro di sei anni prestato presso la T., attribuendosi alla prima esperienza lavorativa maggiore incidenza causale.
Sul punto si censura la sentenza della Corte del merito per una palese insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Si aggiunge che l'incertezza circa il momento "di insorgenza della patologia è stata risolta facendo ricorso all'art. 41 c.p., in quanto, essendo certa la riferibilità al cromo della neoplasia polmonare di cui era affetto il Co., e non potendosi sapere se essa si è innescata durante il periodo di lavoro presso la T. o in quello precedente, la Corte ha ritenuto che entrambi i periodi valgono da concause, di tal che il periodo presso la T. è comunque responsabile dell'evento, tutto ciò in aperta contraddizione con quanto affermato a pagina 17 della sentenza impugnata la teoria condizionalistica accolta dal combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p., esige pur sempre la positiva e concreta dimostrazione che la concausa attribuibile alla condotta degli imputati sia stata condizione "necessaria" dell'evento neoplastico, da verificarsi alla stregua del tradizionale giudizio controfattuale.
Con il terzo motivo si eccepisce la prescrizione del reato con riferimento "alla morte" del C.R., rilevandosi che, considerata la data del decesso di tale p.o. del (Omissis), dovendosi applicare il termine prescrizionale di 10 anni (art. 157 c.p., n. 3 e art. 160 c.p., ultima parte, prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005), esso è perento alla data del 10.10.2007, tenuto presente che il primo atto interruttivo corrisponde al provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, datato 17.10.2007.
La Corte d'appello, applicando la disposizione di cui all'art. 81 c.p., ha ritenuto che il termine prescrizionale sia di quindici anni a partire dall'ultimo decesso (quello del B.) avvenuto il (Omissis). Per il ricorrente è palese la violazione di legge con riferimento agli artt. 589 e 157 c.p., atteso che la norma di cui all'art. 589 c.p., comma 3, integra un'ipotesi di concorso formale di reati nella quale l'unificazione è sancita unicamente "quoad poenam" non rilevando per gli altri effetti.
Con il quarto motivo si denunciano altra violazione di legge in relazione agli artt. 2087 c.c. e D.P.R. n. 303 del 1956, art. 4 e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta posizione di garanzia dell'imputato.
2.2 Il ricorso dello Z. si basa su due motivi: l'uno riguardante la sussistenza del nesso causale e l'altro la maturata prescrizione del reato con riferimento "alla morte" della p.o. C.R., che sono sostanzialmente identici al primo ed al terzo motivo del ricorso del B..
2.3 Ricorso dello S..
Il primo motivo ripercorre sostanzialmente le censure avanzate dal B., evidenziandosi come la sentenza incorre in contraddizione motivazionale, allorchè da un lato nega che l'esposizione professionale al Cr (6^) possa costituire una concausa delle patologie tumorali assieme al fumo di sigaretta e dall'altro finisce con l'attribuire al cromo la esclusiva responsabilità dei tre decessi dei lavoratori B., Co. e C..
Il ricorrente riconosce che la Corte correttamente ha evidenziato, come del resto già aveva fatto il giudice di primo grado, la natura alternativa (e non già concausale o coefficiente, come preteso dal P.M. appellante), nella produzione della neoplasia polmonare, dei fattori causali rappresentati dall'inalazione del cromo e della abitudine al fumo di sigaretta, sostenendo anche, sempre in maniera corretta, che se pure si volesse accedere alla tesi della operatività concausale dei due fattori di rischio "la teoria condizionalistica di cui al combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p. esige pur sempre la positiva e concreta dimostrazione che la concausa attribuibile alla condotta degli imputati, sostanziatasi nella colposa esposizione delle parti offese all'azione cancerogena del cromo esavalente, sia stata condizione "necessaria" dell'evento neoplastico. Condizione, questa, da verificarsi alla stregua del tradizionale giudizio controfattuale per cui, eliminando mentalmente l'incidenza del fattore oncogeno legato all'ambiente di lavoro, Vie vittime non avrebbero contratto la neoplasia polmonare (o si sarebbero ammalate in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva) pur in presenza del concomitante fattore di rischio costituito dall'abitudine di ciascuna al fumo di un quantitativo di tabacco".
Tutto ciò affermato, la Corte del merito, poi con palese contraddizione, afferma la esistenza di un sicuro nesso causale tra i tre decessi B., Co. e C. e la esposizione professionale fondando il suo convincimento sui seguenti elementi istruttori:l) le conclusioni del Dr. Cr., perito epidemiologico, il quale ha ritenuto che nel numero dei lavoratori deceduti per tumore polmonare ci sarebbe un "eccesso di 3,93 casi" rispetto alla "popolazione di riferimento", tenuto già conto della abitudine al fumo; 2)le conclusioni degli stessi periti A.- D.F.- R., i quali hanno dato al fattore oncogeno della esposizione professionale una valutazione di prevalenza rispetto al fumo di sigaretta per i tre casi di B.D., C. R. e Co.Ug.; 3) l'alto assorbimento di Cr(6^) attestato dalle indagini ambientali e biologiche per ciascuno di tali tre dipendenti; 4) la prolungata permanenza dei lavoratori a contatto con il Cr(6^), da cui deriverebbe "l'incremento graduale del rischio probabilistico di contrarre la patologia polmonare".
Per il ricorrente è evidente che se una certa condotta umana non è ritenuta "condizione necessaria" per la realizzazione dell'evento, quella stessa condotta non può essere contemporaneamente affermata quale causa esclusiva dell'evento.
Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge nella specie degli artt. 40 e 41 c.p. e vizio di motivazione per avere la sentenza affermato la esistenza di un nesso causale negato dagli atti processuali per quei fatti per cui vi è stata condanna. Anche tale motivo ripercorre le stesse argomentazioni poste a base del ricorso del primo ricorrente evidenziandosi, quale elemento assorbente di contraddittorietà motivazionale, la risposta fornita dal collegio peritale al GIP, nel senso di non poter escludere o posticipare i decessi eliminando mentalmente il fattore "umano" (la esposizione professionale) il nesso causale tra tali decessi e la esposizione non può, in alcun modo, ritenersi "processualmente certo", giacchè al contrario, se ne è acclarata in positivo l'incertezza processuale.
Con il terzo motivo si denunciano violazione di legge nella specie degli artt. 40 e 41 c.p. e vizio di motivazione per avere affermato la esistenza di un nesso causale tra la neoplasia polmonare contratta da B.D. e la esposizione professionale presso la T.. Si precisa che, per affermare la responsabilità degli imputati in ordine al decesso del B., la Corte del merito, in aggiunta agli elementi probatori già evidenziati (V. primo motivo) ha valutato tre ulteriori elementi costituiti dalla cessazione anticipata dell'abitudine al fumo, dalla necessità di valutare l'apporto del nichel e dalla applicabilità dell'art. 41 c.p., comma 1 in relazione alla predisposizione genetica alle patologie tumorali atteso che il B. ha avuto altri due fratelli morti di neoplasie, di cui il primo proprio di neoplasia polmonare. Quanto al primo elemento si evidenzia che l'abitudine al fumo di sigaretta del B. si è mantenuta "dall'età di 14 anni" sino al 1977 e quindi per ben 19 anni, per cui si conferma, proprio per la sua prolungata ed ininterrotta durata, quale causa, potenzialmente, idonea a far insorgere la neoplasia al pari della esposizione professionale. La Corte ha completamente ignorato il dato. Quanto al secondo elemento (influenza del nichel) il giudice di appello ha ignorato le conclusioni dei periti, che non hanno dato rilevanza al nichel quale causa aggiuntiva al cromo esavalente in quanto sostanza cancerogena di diversa azione rispetto al cromo con diverso meccanismo di azione.
In ordine al fattore genetico, la Corte lo ha valutato quale fattore causale preesistente, ai sensi del dell'art. 41 c.p., comma 1, diversamente da come valutato dal perito Cl. che ha collocato la suscettibilità genetica tra le possibili cause autonome del tumore al polmone, idonea, anch'essa, al pari del fumo e del cromo a provocare da sola la neoplasia.
Con il quarto motivo si denunciano violazione di legge nella specie degli artt. 40 e 41 c.p. e vizio di motivazione per avere affermato la esistenza di un nesso causale tra la neoplasia polmonare contratta da Co.Ug. e la esposizione professionale presso la T.. Si precisa che la posizione di Co.Ug. è connotata dal fatto che questi ebbe a lavorare per due cromature diverse (dal 1957 al 1965 presso una cromatura di Torino e dal 1973 al 1979 presso la T. spa) e dalla presenza (attestata dai referti medici del tempo) di una bronchite asmatica e di una perforazione del setto nasale, malattie che sono riconducibili al cromo ma che tuttavia i periti hanno riferito esclusivamente al periodo lavorativo presso la ditta torinese. Tenuto conto di tali (pregresse) malattie e considerato che l'indicatore di esposizione concernente la (sola) T. è risultato "basso", così come "non valutabile" è risultato il carico polmonare di cromo, i periti hanno considerato congiuntamente i due periodi lavorativi, dando "prevalenza all'esposizione a cromo", ma valutando "leggermente superiore" il peso della precedente galvanica. Il perito F., nel corso del giudizio abbreviato, su specifica domanda del GUP ha risposto che non è possibile affermare se la neoplasia ha avuto il momento di partenza nella prima o nella seconda esposizione.
Dunque, si argomenta, la Corte del merito, anzichè prendere atto della impossibilità di attribuire la malattia all'uno piuttosto che all'altro periodo lavorativo, ha apoditticamente affermato che la neoplasia ben può essere stata innescata da un processo patologico insorto in un momento successivo in conseguenza della esposizione lavorativa presso la T.: così facendo, da un lato ha obliterato l'incertezza scientifica evidenziata dai perire dall'altro ha ignorato le risultanze processuali, che dicono l'esatto contrario e che peraltro hanno attribuito al "periodo T." del Co. un "basso" valore di esposizione.
Si censura, sempre sul punto, l'errata menzione dell'art. 41 c.p..
Secondo la Corte, quand'anche la patologia si fosse innescata nel corso della esperienza lavorativa torinese, il "periodo T." avrebbe comunque svolto un ruolo quantomeno concausale agli effetti della riduzione del tempo di latenza e di manifestazione e decorso della patologia tumorale e del suo esito letale. La Corte ha utilizzato dati scientifici inesistenti, con stravolgimento delle risultanze processuali ed adozione di una nozione erronea del nesso causale, che sussiste solo quando è possibile superare scientificamente la verifica controfattuale e non quando si decide di ritenerlo tale.
Con il quinto motivo si denunciano violazione di legge nella specie degli artt. 40 e 41 c.p. e vizio di motivazione per avere affermato la esistenza di un nesso causale tra la neoplasia polmonare contratta da Ce.Ro. e la esposizione professionale presso la T.. Con il sesto motivo si denuncia altra violazione di legge per non avere la Corte territoriale dichiarato la già maturata prescrizione del reato con riguardo alla morte del Ce. si apportano gli stessi rilievi esposti nell'ultimo motivo del ricorso del B..
Diritto
3. I ricorsi vanno accolti nei limiti che si preciseranno.
3.1 - Premessa - La primaria censura posta a base di tutti e tre i ricorsi riguarda l'impossibilità generalizzata per i casi di specie, accertata su base scientifica, di individuare con ragionevole certezza nell'ambito di una patologia multifattoriale, in presenza di più fattori di rischio, la causa di insorgenza del tumore di cui erano affette le parti offese e che certamente ha determinato la loro morte, ed i ricorrenti, pertanto, deducono che il dato probatorio acquisito nel processo, e cioè che non è possibile escludere, per i lavoratori B.D., Co.Ug. e Ce.Ro.
l'efficienza causale di un diverso meccanismo eziologico fondato sull'abitudine al fumo di sigaretta, ben può fondare un ragionevole dubbio che smentisce la spiegazione che l'evento morte sia certamente derivato dall'esposizione professionale al Cromo 6^.
La Corte d'appello, diversamente da come opinato dal GIP, ha ritenuto, nell'affrontare, appunto, la questione basilare dell'accertamento del nesso causale - secondo le regole codificate negli art 40 e 41 c.p., - che, al fine di pervenire all'affermazione o meno della responsabilità penale degli imputati, è necessario accertare la causa individuale delle singole neoplasie polmonari riscontrate nelle pp.oo., la cui identificazione ben può condurre, stante la pacifica multifattorialità della patologia, a risultati diversi da caso a caso, sulla base dell'esame complessivo di tutte le evidenze probatorie disponibili con riguardo a ciascuna posizione soggettiva, la cui indagine relativa deve condursi secondo i criteri e le regole giuridiche, oggetto della elaborazione della giurisprudenza di legittimità in materia.
I ricorrenti obiettano che, contrariamente, ma correttamente, con motivazione immune da vizi logici, il primo giudice, pur in presenza di una condotta dei prevenuti, ritenuta di natura commissiva (in quanto l'esposizione alla sostanza patogena ha costituito frutto della scelta aziendale di adibire i dipendenti alle lavorazioni pericolose nell'ambito di un'organizzazione del ciclo produttivo predisposta dal datore di lavoro), e, pur in presenza di una legge scientifica di tipo statistico accertante l'esistenza di una relazione probabilistica tra esposizione a CR(6^) ed insorgenza del tumore al polmone, afferma che la ricorrenza - per tutte le persone offese - del fattore oncogeno alternativo (rappresentato dall'abitudine al fumo di sigaretta) risulta di per sè idonea a indurre un ragionevole dubbio sull'autonoma capacità dell'esposizione al fumo di innescare la malattia neoplastica anche in assenza del fattore di rischio professionale. In effetti, il GIP sostiene che, anche se mentalmente eliminato, il rischio professionale, nell'ambito del giudizio controfattuale, necessario a verificare la fondatezza dell'ipotesi accusatoria, non consentirebbe di ritenere verificata l'ipotesi che le vittime non si sarebbero ammalate o avrebbero contratto la patologia tumorale in epoca significativamente posteriore; tale situazione ha imposto, sotto tale assorbente profilo, l'assoluzione degli imputati.
La Corte distrettuale rileva che, a tale condivisibile esposizione sul piano teorico, da parte del GIP, dello statuto della prova della causalità materiale, non ha fatto seguito una altrettanta coerente applicazione dei principi, calibrata sull'intero compendio delle evidenze probatorie disponibili e delle circostanze del caso concreto, con specifico riguardo alle posizioni dei lavoratori B. D., C.R. e Co.Ug., nei cui confronti la sussistenza del nesso causale tra l'evento mortale, conseguente alla patologia tumorale dagli stessi contratta, e l'esposizione professionale al cromo esavalente, presso lo stabilimento industriale degli imputati, deve invece ritenersi accertata secondo quell'alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica richiesto proprio dalla giurisprudenza richiamata dal giudice di primo grado.
4. Nesso causale - Dunque, inevitabilmente, per la verifica della giustezza dell'una (quella del GIP fatta propria dai ricorrenti) d dell'altra tesi (quella della Corte d'appello) il Collegio non può far a meno di esaminare i temi proposti alla luce della giurisprudenza di questa Corte di interpretazione degli artt. 40 e 41 c.p., e, segnatamente, di quella affermata dalla richiamata sentenza Sezioni Unite Franzese, n. 30328 del 2002, non tralasciando di tenere, altresì, conto dell'evoluzione, in questi ultimi dieci anni, dell'ulteriore elaborazione giurisprudenziale in materia.
La metodologia motivazionale impone di affrontare, per prima, la questione essenziale, come delineata, certamente di diritto, se è, giuridicamente corretto ritenere la sussistenza del nesso causale, tra le condotte degli imputati e gli eventi lesivi, collegabili, quindi, all'esposizione al cromo esavalente delle persone offese, ancorchè la presenza di altro fattore cancerogeno abbia potuto determinare la stessa patologia, idonea a prospettare un ragionevole dubbio sull'autonoma capacità dell'esposizione al fumo di innescare la malattia neoplastica anche in assenza del fattore di rischio professionale; risolto positivamente il quesito va, poi, verificata la tenuta logica dell'impugnata sentenza relativamente alla valutazione dei dati probatori, circa la prevalenza dell'uno rispetto all'altro fattore di provocare autonomamente la malattia.
4.1 Natura delle condotte - E' bene innanzitutto sgombrare il campo, da una questione, introdotta dal GIP, circa la natura commissiva e non omissiva della condotta contestata agli imputati, fuorviante, a parere del Collegio, per la soluzione della questione in esame dell'accertamento del nesso causale. E' al riguardo solo il caso di aggiungere che la distinzione non deve essere sopravvalutata, dal momento che è ormai pacificamente riconosciuto che i due tipi di comportamento sono in realtà strettamente connessi e, per così dire, l'uno speculare all'altro, dato che nel violare le regole di comune prudenza il soggetto non è evidentemente inerte ma tiene un comportamento diverso da quello dovuto; peraltro, essi sono sottoposti a regole identiche in ordine all'accertamento della responsabilità f e la distinzione attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anzichè fondato sui dati della realtà. Ma, per il caso che ci riguarda, il GIP pur ritenendo la condotta contestata di natura commissiva nell'accertamento del nesso causale fa poi ricorso al giudizio controfattuale, cadendo in un'apparente contraddizione logica.
In effetti, (soprattutto in tema di responsabilità medica vi è stata l'elaborazione teorica della distinzione tra i due tipi di condotta) viene ritenuta omissiva una condotta che tale non è, in quanto si confonde tra il reato omissivo e le componenti omissive della colpa:i casi dell'agente che pone in essere una condotta attiva colposa omettendo di adottare quella diligente non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva. E' il caso del medico che adotta (comportamento attivo) una terapia errata e quindi omette di somministrare quella corretta (comportamento passivo).
Causalità omissiva sarà dunque solo quella di chi omette la condotta dovuta: ad es. il medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo.
Ma ciò che rileva, è che anche in presenza di condotta commissiva, in certi casi è necessario ricorrere al giudizio controfattuale per accertare il nesso di condizionamento. Ritornando all'esempio del medico che adotta una terapia diversa da quella accolta dai protocolli è, comunque, necessario verificare, se nel caso concreto, se non vi è certezza che la sola terapia errata adottata ha determinato l'evento (per così dire terapia neutra), è necessario verificare se l'effettiva adozione della terapia consigliata lo avrebbe evitato.
Il caso sottoposto all'esame del Collegio, integrando le singole condotte la violazione specifica di una norma di prevenzione antinfortunistica in quanto non sono stati predisposti ed adottati i presidi finalizzati a salvaguardare la salute degli operai, è chiaramente omissive. L'affermare che esse dipendano da una scelta di politica aziendale (ovviamente per risparmiare i costi) ha una rilevanza del tutto marginale; per così dire è una valutazione più di ordine morale, che penale, ma certamente non incide sulla natura omissiva della condotta, altrimenti staremmo a parlare di tutt'altro tipo di reato, visto che la scelta di politica aziendale di non adottare volutamente le misure antinfortunistiche avrebbe potuto anche implicare un indagine sull'elemento soggettivo qualificabile, quanto meno, come dolo eventuale.
4.2. Sentenza Franzese e successiva evoluzione della giurisprudenza della S.C. - Il caso di specie ha una sua peculiarità: l'azione omissiva contestata, quella di non aver disposto le misure idonee a proteggere i lavoratori dalle esalazioni da cromo esavalente, è stata incontrovertibilmente accertata, come pure, è rimasta acquisita, in presenza di una legge scientifica di tipo statistico, l'esistenza di una relazione probabilistica tra esposizione al cromo esavalente ed insorgenza di quelle patologie tumorali polmonari riscontrate nelle persone offese, allo stesso modo dell'abitudine al fumo. E dunque, la compresenza, per le persone offese, dell'esposizione ai due fattori cancerogeni, laddove, ed i periti sono tutti concordi sul punto, l'uno non esclude l'altro, (si concorda con le critiche svolte prima dalla sentenza impugnata e poi dagli stessi ricorrenti circa la tesi della concausalità dei due fattori delineata dal P.M.) (1- La Corte in sentenza rileva che i periti hanno esposto i modo chiaro ed inequivocabile la conclusione, correttamente recepita come tale dal GIP, della natura alternativa (e non già concausale o coefficiente, come preteso dal P.M. appellante) nella produzione della neoplasia polmonare, dei fattori causali descritti, ribadendo, nel corso dell'esame congiunto reso all'udienza del 29.03.2011, quanto già affermato a pag. 88 dell'elaborato peritale, e, in particolare, che "siamo di fronte a due fattori eziopatogenici che sono da un lato l'esposizione al cromo, dall'altro il fumo di tabacco, ciascuno dei quali se non ci fosse l'altro avrebbe piena dignità di causa efficiente sufficiente. Per cui non possiamo parlare di concausa perchè non c'è neanche, come ad esempio potrebbe essere per l'amianto, un'azione sinergica, ma agiscono singolarmente") - essendo, quindi, consentita una valutazione di prevalenza trai due (diversamente da come accade per altri fattori cancerogeni, quale l'esposizione all'amianto e l'abitudine al fumo, laddove uno esclude l'altro), - determina che il giudizio controfattuale va effettuato con l'eliminare, nei casi concreti, mentalmente il fattore professionale per verificare se le vittime, anche in presenza del fattore "abitudine al fumo", non si sarebbero ammalate o avrebbero contratto la patologia tumorale in epoca significativamente posteriore.
Il richiamo da parte di tutti i ricorrenti alla locuzione "oltre ogni ragionevole dubbio", contenuta nella sentenza delle sezioni unite "Franzese" e poi in altre ed ora recepita nell'art. 533 c.p.p., per fondare la primaria censura dell'impossibilità di pervenire all'affermazione di colpevolezza degli imputati non potendosi ritenere accertato la sussistenza del nesso causale, come delineato, secondo quell'alto o elevato grado di credibilità razionale o "probabilità logica", impone di far notare, dopo l'esperienza giurisprudenziale applicativa di dieci anni, che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale, sono a fondamento della stessa, sicchè esattamente è stato notato come detta frase ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacchè, in precedenza, il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, l'allora non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma si ribadisce un principio immanente nel nostro ordinamento, costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale della responsabilità dell'imputato (Cfr. Sez. 2^, Sentenza n. 7035 del 09/11/2012 Ud. Rv. 254025; Sez. 2^, Sentenza n. 16357 del 02/04/2008 Ud. Rv. 239795; Sez. 1^, Sentenza n. 20371 del 11/05/2006 Ud; Cass. sez. 2^ 7 giugno 2006 n. 19575 rv.233785 cui adde Cass. sez. 1^ 13 settembre 2006 n.30402 rv.234374 e dello stesso estensore 14 giugno 2006 n. 20371 rv. 234111).
Detta acquisizione serve anche a valutare la portata della decisione delle sezioni unite (Cass. sez. un. 11 settembre 2002 n. 30328 rv. 222138 e 222139), oggetto anche di differenti letture da parte della dottrina ed all'interno della quarta sezione, pur rimanendo inalterata l'interpretazione da essa data agli artt. 40 e 41 del codice penale (Sez. 4^, Sentenza n. 9170 del 14/02/2013 Ud. Rv. 255397; Sez. 4^, Sentenza n. 17758 del 06/03/2012 Ud. Rv. 253502; Sez. 4^, Sentenza n. 17523 del 26/03/2008 Ud. Rv. 239542; Sez. 5^, Sentenza n. 4941 del 18/12/2008 Ud. Rv. 242630; Sez. 4^, Sentenza n. 35115 del 24/05/2007 Ud. Rv. 237452; Sez. 4^, Sentenza n. 20560 del 02/03/2005 Ud. Rv. 231356; Sez. 4^, Sentenza n. 4675 del 17/05/2006 Ud. Rv. 235658;Sez. 4^, Sentenza n. 39062 del 26/05/2004 Ud. Rv. 229832; Sez. 4^, Sentenza n. 40183 del 23/06/2004 Ud. (Rv. 229834; Rv. 234111 Cass. sez. 4^ 13 febbraio 2003 n. 7026, Loi ed altri rv.223749, Cass. sez. 4^ 21 maggio 2003 n. 19312, Merlin rv. 19312 e Cass. sez. 4^ 2 ottobre 2003 n. 37432, Monti ed altri rv. 225988; Sez. 4^, Sentenza n. 4981 del 05/12/2003 Ud. Rv. 229668).
Infatti, secondo le pronunce di questa Corte ad essa succedutesi, corroborate da voci dottrinali più convincenti, è stata ribadita la perdurante validità della teoria condizionalistica e la necessità di procedere al giudizio controfattuale, non poste mai in dubbio, e riaffermato che il nesso di causalità non può essere accertato con criteri di valutazione diversi da quelli utilizzati per gli altri elementi costitutivi del reato, sostenendosi un'argomentazione ovvia, ma, purtroppo, non pacifica in tema di colpa professionale, in cui si faceva riferimento a criteri metagiuridici quali ad esempio il valore della vita umana, richiamandosi, altresì, un principio lampante, secondo cui per pronunciare una condanna sono necessarie le prove, che possono essere anche indiziarie e logiche, ed introducendo il criterio della probabilità logica rispetto a quella statistica in modo da ridimensionare "in modo equilibrato" quella teoria seguita da autorevole voce dottrinale della certezza e della probabilità prossima ad uno e l'altra della probabilità statistica e delle serie ed apprezzabili probabilità di successo.
Il merito, unanimemente riconosciuto, della decisione delle sezioni unite "Franzese" è quello di aver rimosso l'equivoco di una diversità di accertamento della causalità omissiva e soprattutto, proprio sotto questo profilo, di aver ritenuto non accettabile la teoria della certezza o della quasi certezza, prossima ad uno, quasi che in questi casi fosse possibile prevedere un differente modo di accertamento del fatto e del rapporto eziologico e fosse possibile una certezza assoluta, contrastata, persino, dalla filosofia della scienza, che, secondo quanto sostenuto dai più accreditati filosofi del ramo, si fonda sulla c.d. "causa probabile", giacchè appartiene "all'innocenza del pensiero scientifico del passato" il riferimento alla certezza assoluta.
Peraltro, senza addentrarsi in un esame minuto della predetta decisione ed in un'analisi della sua struttura, la pronuncia assume particolare rilevanza per l'attenzione riservata al momento dell'accertamento processuale, che assume importanza fondamentale per il caso che ci occupa, attese le censure mosse con i ricorsi alla sentenza della Corte d'appello di Venezia.
Infatti, si può fare questione di modalità di accertamento della sussistenza del nesso causale tra omissione ed evento solo qualora esistano condotte eterogenee ed interagenti, ma non quando il fatto sia sicuramente attribuibile, secondo le varie tipologie delle normali valutazioni probatorie (prova diretta, critica ed indiziaria), al soggetto come proprio.
La sentenza a SS.UU. chiarisce che "nulla esclude che (coefficienti medio - bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica) se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico - legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento".
Pertanto, escluso che "si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico "prossimo a 1" cioè alla "certezza", giacchè si tratterrebbe di assicurare un "garantismo nichilista", occorre riferirsi al ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 c.p.p., comma 2, ed alla regola generale in tema di valutazione della prova di cui al primo comma della medesima disposizione ed alla ponderazione, ma non all'acritico accoglimento, delle ipotesi antagoniste, in modo che, "esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell' imputato, (risulti) condizione "necessaria" dell'evento, attribuibile per ciò all'agente come fatto proprio", sicchè è ben presente nella citata pronuncia la consapevolezza del carattere probabilistico delle leggi scientifiche, ma le stesse servono, in uno con quelle statistiche e le massime generalizzate di comune esperienza, a dare credibilità razionale all'accertamento del nesso eziologico.
Infatti, interessa al diritto l'individuazione della condizione necessaria dell'evento e non di quella sufficiente cioè dell'insieme delle condizioni che rendono inevitabile un determinato risultato, condizione che nemmeno le leggi scientifiche sono in molte ipotesi in grado di esprimere, senza che per questo si dubiti della loro intrinseca razionalità.
Le leggi statistiche ed i correlati studi costituiscono uno strumento revisionale utile ai fini della prevenzione dei rischi ed ipotizzano un rapporto causale tra fenomeni senza che provino di per sè un nesso di causalità tra fenomenifcioè costituiscono un indizio da poter valorizzare, insieme ad altri, nell'accertamento di detto rapporto "ex post".
4.3 Alla luce di queste osservazioni e di questi principi, esaminati i proposti ricorsi, ritiene il Collegio che è certamente condivisibile l'impostazione motivazionale della sentenza impugnata in ordine al tema del nesso causale, con la conseguente infondatezza dei motivi di cui ai ricorsi aventi ad oggetto l'esame della questione.
L'ulteriore conseguenza dei principi esposti è che il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile circa la reale ed effettiva efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comporta la neutralizzazione dell'accusa e l'esito assolutorio del giudizio. Il ragionevole dubbio deve essere, però, reale, fondato su specifici elementi di fatto che lo avvalorino, sul piano concreto, circa la effettiva inferenza causale del fattore alternativo, non potendosi escludere che, sulla base delle leggi scientifiche e di quelle statistiche, e dell'esame complessivo di tutte le evidenze probatorie disponibili, quel fattore interagente (nel caso di specie in maniera esclusiva) possa risultare non influente, eliminato mentalmente quello addebitabile alla condotta umana, all'esito di un giudizio di credibilità razionale.
Ritornando ai principi giurisprudenziali espressi dalla sentenza Franzese e da quelle che le hanno fatto seguito, apparendo l'osservazione determinante alla risoluzione del caso sottoposto all'esame del Collegio, la Suprema Corte, senza mettere in discussione l'utilizzabilità oltre che delle leggi universali anche di quelle statistiche, ha inteso evidenziare e mettere in luce l'esigenza di distinguere tra credibilità razionale e scientifica della legge da un lato e credibilità razionale e scientifica dell'accertamento, dall'altro. Viene precisato che "il giudice ha un duplice compito: quello dell'attenta verifica della "fondatezza scientifica" della legge statistica, al quale si aggiunge quello della verifica dell'applicabilità del coefficiente di probabilità rilevato nella fattispecie concretare". Si è passati, quindi, dalla probabilità scientifica, alla probabilità logica, per cui si è parlato di teoria della probabilità logica ovvero di alto grado di credibilità razionale. Di conseguenza alla stregua del ed. giudizio controfattuale ed all'esito del ragionamento probatorio "...che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, deve risultare giustificata e processualmente certa la conclusione per cui la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell'evento " con alto o elevato grado di credibilità razionale o di probabilità logica".
Dunque, correttamente la Corte veneziana ha proceduto ad accertare la causa individuale delle singole neoplasie polmonari riscontrate nelle pp.oo, la cui identificazione ha condotto, stante la pacifica multifattorialità della patologia, a risultati diversi caso per caso, sulla base dell'esame complessivo di tutte le evidenze probatorie disponibili con riguardo a ciascuna posizione soggettiva, indagine condotta secondo i criteri e le regole giuridiche or ora esposte, di tal che, esclusa l'influenza di processi causali alternativi, si può sostenere in termini di "certezza processuale", ossia di alla credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta omissiva, addebitata ai ricorrenti, a determinare gli eventi lesivi, facendo riferimento, come già rilevato, secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, sia a dati statistici sia ad altro materiale probatorio.
4. 4 Valutazione delle perizie. E' opportuno accennare sinteticamente alla questione relativa ai poteri attribuiti al giudice in sede di valutazione dei risultati peritali, giacchè pure questo tema è richiamato dai ricorsi (primo motivo dei ricorsi B. e S.), le cui censure denunciano "una distorsione palese fra il risultato probatorio (perizie n.d.r.) utilizzato nella motivazione e l'atto probatorio acquisito al processo".
E' indubitabile la necessità per il giudice dell'ausilio degli esperti della materia per la individuazione, nel caso concreto, delle leggi scientifiche e di quelle statistiche, non appartenendo tale sapere alla cultura giuridica, ed il dato fornito dagli ausiliari va senz'alcun dubbio recepito, come base di valutazione fattuale. A tal riguardo, la giurisprudenza costante di questa Corte ammette, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove la possibilità del giudice di scegliere fra varie tesi, prospettate da differenti periti, di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicchè, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poichè si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di Cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sez. 4^, Sentenza n. 34747 del 17/05/2012 Ud. Rv. 253512; Sez. 4^, Sentenza n. 45126 del 06/11/2008 Ud. Rv. 241907Cass. sez. 4^ 20 maggio 1989 n. 7591 rv. 181382).
La Corte d'appello si è riportata alle conclusioni cui è pervenuta la perizia collegiale A. - D.F. - R., ritenute confermate dall'indagine epidemiologica svolta dal dott. Cr., considerando la perizia Cl. non rilevante in quanto i relativi risultati si sono tradotti in giudizi genericamente possibilisti sull'ascrivibilità dell'induzione delle neoplasie polmonari all'esposizione professionale al CR (6^) delle persone offese.
Dunque, la motivazione dell'impugnata sentenza, più che affrontare il contrasto tra diverse tesi scientifiche prospettate dai consulenti, ha disatteso l'assunto del giudice di primo grado. Già si è evidenziato, nella parte narrativa, che il GIP, pur prendendo atto del giudizio di prevalenza, formulato dalla perizia collegiale, dell'esposizione lavorativa sull'abitudine tabagica, come fattore di induzione della neoplasia polmonare, per B., C. e Co., ha altresì considerato la conclusiva considerazione degli stessi periti, secondo cui tali giudizi devono intendersi formulati, non già nell'ambito di un'incidenza concausale, maggiore o minore dei due diversi fattori nell'induzione sinergica della patologia neoplastica, ma bensì in termini di una capacità alternativa di entrambi i fattori oncogeni di determinarne l'insorgenza, sia pure in diversa misura probabilistica, in relazione alle singole posizioni soggettive esaminate. Sulla base di tale considerazione il GIP ha ritenuto non verificato il nesso di condizionamento tra l'esposizione professionale delle vittime alla sostanza cancerogena del CR (6^) e l'insorgenza delle neoplasie polmonari, secondo il grado di elevata probabilità logica o credibilità razionale richiesto dalla richiamata giurisprudenza delle SS.UU. penali della Corte di cassazione per pervenire ad un giudizio di condanna, non essendo al riguardo sufficiente la mera probabilità statistica di produzione dell'evento emersa dal complesso delle indagini peritali.
Ritiene il Collegio che il primo giudice abbia, come correttamente rilevato da quello del gravame di merito, quasi fideisticamente, ritenuto (ragionamento acquisito dai ricorrenti e posto a sostegno delle censure avverso la sentenza impugnata) di non poter pervenire al giudizio di responsabilità, all'esito del ragionamento probatorio, per non essere rimasta esclusa l'interferenza del fattore alternativo dell'abitudine al fumo di tabacco, per cui non risulterebbe giustificata e "processualmente certa" la conclusione che la condotta omissiva degli imputati sia stata condizione necessaria degli eventi lesivi con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica".
In effetti il GIP ha fatto riferimento al solo dato statistico, evidenziato dai periti, non proseguendo, poi, quel percorso di verifica di credibilità razionale e scientifica dell'accertamento.
Operazione, questa, rimessa certamente al giudice e non ai periti, perseguita dalla Corte territoriale, che, una volta acquisiti quei dati peritali, ha verificato la validità del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica sulla base delle circostanze di fatto e dell'evidenza probatoria.
Dunque, è infondato il rilievo difensivo (V. ricorso B.) secondo cui il dato probatorio rilevante, acquisito al processo, è che, nonostante la perizia collegiale abbia attribuito un c.d.
"giudizio di prevalenza" all'esposizione professionale, non è stata in grado di escludere, ricorrendo a leggi scientifiche, il decorso causale alternativo per le posizioni B.- Co.- C..
L'infondatezza del rilievo deriva proprio da un'erronea lettura delle conclusioni cui è pervenuta la perizia collegiale e delle dichiarazioni rese a chiarimento in dibattimento dai periti. Invero, non risponde affatto alla realtà processuale che i periti non abbiano indicato le leggi scientifiche in base alle quali l'esposizione dell'uomo alle esalazioni del cromo esavalente determina l'insorgere della patologia tumorale di cui trattasi, anche con l'indicazione di quali sono le probabilità statistiche che tale evento si produca, solo che, non hanno potuto, in termini di certezza scientifica, escludere l'influenza alternativa dell'altro fattore cancerogeno dell'abitudine al fumo di tabacco. Ma tale risposta non doveva essere certamente data dai periti. Come già ricordato è solo il giudice che, sulla base del dato peritale (leggi scientifiche e statistiche) tenendo conto, poi, del risultato probatorio, può verificare la validità del coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica in relazione alle circostanze di fatto e all'evidenza (credibilità razionale e scientifica dell'accertamento)2 - (2 - Osserva, infatti, la Corte veneziana che".....(il giudice n.d.r.) non può esigere (diversamente dal ragionamento deterministico di tipo nomologico-deduttivo, che ispira invece il riscontro della causalità generale in funzione della formulazione di leggi tendenzialmente universali) il conseguimento di un'utopistica certezza assoluta nel riconoscimento del nesso di condizionamento tra la condotta umana addebitata all'agente e il singolo evento lesivo, ma deve, comunque, soddisfare un coefficiente di elevata probabilità logica o credibilità razionale del relativo riscontro probatori che sia in grado di corroborare la fondatezza dell'ipotesi accusatoria".
Dunque, è esclusa qualsiasi distorsione, come denunciata, fra il risultato probatorio utilizzato in motivazione e l'atto probatorio acquisito al processo.
In particolare, la Corte del merito, parte dal dato pacificamente acquisito, degli effetti genotossici e dell'accertata azione cangerogena sull'organismo umano del cromo esavalente e dei suoi composti, unanimemente riconosciuti dalla comunità scientifica mondiale e dagli enti nazionali ed internazionali competenti, sulla base sia di studi in vitro e in vivo che delle analisi epidemiologiche sui soggetti esposti risalenti - addirittura - al 1948 ( si rimanda alla sentenza di primo grado - pag.27- per la descrizione dei meccanismi ipotizzati attraverso i quali il CR esavalente è in grado di apportare mutazioni e danneggiamenti alle strutture cellulari del DNA umano); affronta la questione relativa all'individuazione della dose di esposizione al CR (6^) in grado di produrre i predetti effetti oncogeni, confutando l'ipotesi accolta dal GIP che ha fissato il valore di concentrazione atmosferica di 5 mcg/mc come limite al di sotto del quale non vi sarebbe sufficiente evidenza di un'azione cancerogena dell'inalazione del CR (6^), evidenziando che altri studi, altrettanto scientificamente (V. pag.
14-15 della sentenza di 2^ grado), hanno stimato una maggiore incidenza di tumori polmonari, anche a fronte di un'esposizione professionale a livelli di concentrazione di cromo esavalente decisamente inferiori.
Quanto alla corroborazione dei dati peritali scaturiti dalla perizia collegiale da parte dei risultati dell'indagine epidemiologica portata avanti dal Dott. Cr., altrettanto non conferenti si rivelano le critiche difensive (ricorso B.) svolte sul punto.
La Corte, nel seguire quel percorso di verifica di credibilità razionale e scientifica dell'accertamento, fa riferimento a tale indagine epidemiologica, e rileva che, proprio dai relativi risultati, vi è la conferma, sul piano logico-razionale prima ancora che su quello scientifico, che l'incidenza della neoplasia polmonare presso la "coorte" dei lavoratori della T. non possa - necessariamente - trovare spiegazione per tutti i lavoratori ammalatisi nel corso del periodo oggetto di osservazione nell'abitudine al fumo di sigaretta (per alcuni dei quali peraltro, come il B., già dimessa da lungo tempo al momento dell'insorgenza della patologia tumorale).
Continua la Corte che i risultati del raffronto operato dal perito (dott. Cr.) tra i casi accertati di decesso a seguito di tumore al polmone verificatisi nell'ambito della "coorte" dei lavoratori della T. e quelli dello stesso periodo temporale nell'ambito della popolazione generale di riferimento, costituita nella fattispecie della popolazione del Veneto, avente le medesime caratteristiche per sesso ed età, evidenziano infatti un eccesso di mortalità presso la T. di 3.93 individui (su un totale di 7), rispetto alla popolazione generale - e dunque più che doppio rispetto al numero dei decessi attesi sulla base del termine di riferimento - anche tenendo conto del fattore di correzione apportato dal Dott. Cr. per uguagliare l'incidenza dell'abitudine al fumo di tabacco nelle due popolazioni messe a confronto 3 - (3 Evidenzia la Corte del merito: "Ciò significa che, a parità di incidenza della patologia tumorale dovuta al fumo di sigaretta, almeno 4 (per l'esattezza 3.93) delle 7 neoplasie riscontrate presso la T. devono ritenersi ascrivibili, sul piano della probabilità statistica a un fattore oncogeno ulteriore e diverso, obiettivamente individuabile - sulla base del rischio specifico derivante dall'esposizione a cromo esavalente durante l'attività lavorativa - nell'accettata natura cancerogena del CR (VI); ed il dott. Cr. non ha mancato sul punto, di evidenziare come il dato statistico relativo all'incidenza del fattore di rischio specifico per lavoratori della T. emergente dal suddetto raffronto sia in realtà sottostimato, posto che anche una parte della popolazione generale veneta di riferimento globalmente considerata, rispetto alla quale si è manifestato il suddetto eccesso di mortalità, è a sua volta addetta a lavorazioni che comportano l'esposizione al rischio di induzione al cancro al polmone".
In aggiunta la Corte del merito osserva che la conclusione dell'indagine Cr., secondo cui l'abitudine al fumo di tabacco dei lavoratori appartenenti alla corte esaminata (T.), non può spiegare l'eccesso di tumori polmonari riscontrato presso la stessa (che è quella riconducibile ad un diverso fattore causale) trova a sua volta conferma nei risultati dello studio compiuto da Gibb nel 2000) riportato a pag. 80 della perizia collegiale su una "coorte"di 2357 lavoratori composta da una percentuale di fumatori del 93,3% esposta all'azione cancerogena del CR (6^) per un periodo di tempo significativo dal 1950 al 1992, da cui è emersa una scarsa o nulla influenza del fattore fumo nella riscontrata risposta delle neoplasie polmonari alla prolungata esposizione dei soggetti al cromo esavalente.
Orbene, la motivazione, ora sinteticamente riportata, con cui sono stati recepiti i risultati dell'indagine epidemiologica, in maniera così approfondita, pone nel nulla le censure ad essa apportate (V. ricorso B.) che, ricadono, anche su questo punto, nell'errore di considerare che la Corte d'appello abbia preso in considerazione solo il dato statistico, non considerando, invece, che i giudici di appello erano ben consci che quel dato, ricavabile dall'indagine epidemiologica, non poteva surrogare la puntuale verifica processuale che il giudice è tenuto a compiere, nel singolo caso concreto, della causa individuale della patologia neoplastica con riguardo alla peculiare posizione soggettiva di ciascun lavoratore esaminato.
Il Collegio concorda con la Corte, in applicazione dei principi esposti in tema di nesso di causalità con riferimento alla giurisprudenza in materia di legittimità dianzi illustrata, nel ritenere che il dato statistico, ricavabile dall'indagine suddetta, ".....fornisce un elemento di apprezzamento che non è possibile trascurare - contrariamente a quanto ha fatto il GIP - nell'ambito di un giudizio inferenziale connotato da una imprescindibile componente valutativa rimessa alla prudente discrezionalità del giudice e che deve perciò tenere conto - alla stregua dei criteri logico giuridici indicati - di tutti gli argomenti fattuali in grado di corroborare la credibilità razionale dell'ipotesi accusatoria".
4.5 - Le posizioni dei lavoratori B., C. e Co..
L'esame delle censure oggetto dei ricorsi, (in special modo quelli del B. e dello S.) riguardanti la parte della motivazione della sentenza impugnata che ha affrontato la valutazione degli elementi probatori emersi, unitamente alle leggi scientifiche ed ai dati statistici evidenziati dai periti, deve essere limitato a verificare se i giudici di merito abbiano logicamente giustificato quel giudizio di credibilità razionale dell'ipotesi accusatoria secondo cui le patologie tumorali di cui sono stati affetti i lavoratori B., C. e Co. siano diretta conseguenza dell'esposizione al cromo esavalente presso la T.. Ebbene ritiene il Collegio che la motivazione abbia una sua tenuta logica che non è scalfita dalle critiche dei ricorrenti avendo preso in esame in via generale, per tutti e tre gli operai, salvo poi ad approfondire per ognuno di essi dati personali e fattuali specifici, elementi sicuramente significativi quali le mansioni lavorative (di addetti al reparto cromatura), durata della esposizione alla sostanza cancerogena e del superamento - per tutti e tre i soggetti - dei valori di soglia di assorbimento e di concentrazione, ricavabile dai dati obiettivi disponibili.
Altro dato, ritenuto in sentenza, residuale, ma che a parere del Collegio offre un contributo, e non di minor peso, al giudizio di alla credibilità razionale, è la maggiore compatibilità dell'istotipo del carcinoma polmonare in concreto riscontrato, squamoso o a piccole cellule, con una neoplasia cromocorrelata sulla base dei dati tratti dalla registrazione della tipologia dei tumori osservati nelle lavorazioni galvaniche, così come evidenziato dai periti (pagg. 13-19 verbale di udienza del 29.03.2011).
Ciò ritenuto, ai fini di questo giudizio di legittimità, è sufficiente esaminare le specifiche censure dei ricorrenti relativamente alle singole posizioni, tralasciando di riportare tutti quei dati evidenziati dalla Corte singolarmente per ognuno delle persone offese indicate (si rimanda alla sentenza da pagg. 22 a 30), che hanno presieduto al riscontro probatorio della sussistenza del nesso di causalità materiale, non oggetto di critica ( e, quindi, pacificamente acquisiti), ma che di per sè, attesa la loro significativa rilevanza, non vengono sminuiti dalle critiche che ora si esamineranno per completezza di motivazione.
4.5.1. B.D. - In ordine alla posizione di B. D. (V. parte narrativa terzo motivo ricorso S.) non risponde a realtà che la Corte non abbia tenuto conto del fatto che la pregressa abitudine al fumo di sigarette dell'operaio è stata mantenuta dall'età di 14 anni per 19 anni, atteso che, non solo è stato considerato tale lasso di tempo, ma è stato anche evidenziato, dato certamente rilevante, che il B. smise completamente di fumare vent'anni prima dell'insorgenza della patologia accertata nel 1999, e cioè dopo 20 anni di ininterrotta attività lavorativa prestata presso il reparto di cromatura della T. a partire proprio dalla cessazione dell'esposizione al rischio derivante dal fumo di sigaretta. Quanto all'influenza del nichel, metallo anch'esso assorbito dal B. durante l'attività lavorativa, a fronte della censura, secondo cui la Corte territoriale avrebbe ignorato le conclusioni dei periti che non hanno dato rilevanza al nichel quale causa aggiuntiva al cromo esavalente, in quanto sostanza cancerogena di diversa azione rispetto al cromo, in sentenza è dato leggere che "..pur non essendo allo stato scientificamente accertato che il nichel eserciti direttamente un'autonoma azione mutagena sull'organismo umano (così come invece il cromo esavalente) non è comunque contestabile - alla stregua delle conclusioni raggiunte sul punto dalla perizia collegiale (pag. 86 dell'elaborato) - che l'associazione nociva del solfato di nichel al CR (6^) ne incrementi l'effetto cancerogeno, con conseguente aumento esponenziale del relativo fattore di rischio di induzione della neoplasia polmonare derivante dall'esposizione professionale che dunque - per quello che riguarda specificamente il B. -risulta (diversamente da quanto opinato dal GIP a pag. 66 della sentenza impugnata) positivamente verificato".
Non può contestarsi tale assunto per lo specifico riferimento a dati illustrati dai periti.
Da ultimo, ritiene il Collegio, che appare veramente di stile la censura relativa alla concorrenza per il B. di una predisposizione genetica alla malattia tumorale in ambito familiare, ritenuta dalla Difesa, come valutata dal perito Cl., quale causa autonoma del tumore al polmone, essendo pienamente condivisibile, in quanto conforme al dettato normativo - art. 41 c.p., comma 1, - la sottolineata irrilevanza giuridica del fattore causale preesistente nella produzione dell'evento all'esito di un accertamento, meticoloso, approfondito, di una diretta connessione dell'insorgere della malattia per un periodo assai prolungato (22 anni) con l'esposizione della vittima a un fattore certo di innesco della malattia oncologica senza adozione delle prescritte cautele.
4.5.2. Co.Ug. - In ordine alla posizione dell'operaio Co. U. TESTO NON COMPRENSIBILE C. abbia continuato ad essere esposto alle esalazioni del cromo esavalente anche presso la T. è un dato non contestato, quanto alla specifica censura dei ricorrenti come illustrata, il Collegio ritiene che essa non infici il giudizio della Corte di responsabilità degli imputati 4 - (4 - Si legge in sentenza: "...a fronte del puntuale riscontro probatorio della sussistenza di un fattore oncogeno certo come la prolungata esposizione diretta agli effetti cancerogeni del CR (6^) nonchè della sua verificata incidenza lesiva - nel caso concreto - sull'organismo della p.o., associata ad una latenza superiore ai 15 anni significativa di un aumento del rischio di insorgenza della patologia neoplastica .... E alla manifestazione di un istotipo tumorale compatibile con lo specifico fattore rischio, l'abitudine al fumo di un modesto quantitativo quotidiano di tabacco non può assumere alcuna plausibile valenza controfattuale (fondata su specifici elementi cha la avvalorino sul piano concreto) in grado di inficiare la ricorrenza del nesso di condizionamento che, anche per la posizione del Co., deve riconoscersi con "elevato grado di credibilità razionale" tra l'esposizione a cromo esavalente e la patologia tumorale che ne ha cagionato la morte...". Invero, sul punto della individuazione del momento in cui è insorta la patologia tumorale, la Corte veneziana, ovviamente tenendo conto delle accertate pregresse esposizioni al cromo esavalente con la produzione di effetti sicuramente allarmanti (presenza di fenomeni infiammatori, esame obiettivo riportato in cartella clinica a seguito della visita medica effettuata il 25.08.1977 - quando la p.o. era già occupata presso il reparto cromatura della T. - che evidenziava un'ampia perforazione del setto nasale, la lesione tipica riconducibile agli effetti dell'inalazione del cromo esavalente), rileva, contrariamente a quanto affermato dal GIP, che deve ritenersi sostanzialmente acquisito a livello di sapere scientifico (perizia collegiale, dichiarazioni dibattimentali dei periti e del dott. Cr. sul punto) il dato relativo all'esistenza di una relazione causale tra la protrazione dell'esposizione professionale al CR (6^) e l'aggravamento per il lavoratore del rischio di insorgenza (anche solo in termini acceleratori della durata di latenza) della neoplasia polmonare. E,dunque, correttamente è stata applicata la disposizione dell'art. 41 c.p., comma 1, attesa la natura incontestata di concausa della pregressa esposizione al cromo esavalente rispetto a quella successiva presso la T., rimanendo accertata, nei termini esposti in sentenza, l'incidenza della successiva esposizione al CR(6^) anche presso questo stabilimento industriale; la sua valenza penale rimarrebbe inalterata anche se la si ritenesse come solo fattore di aumento del rischio di insorgenza della neoplasia e/o di accelerazione dell'evoluzione ed dei tempi di manifestazione della malattia, diagnosticata negli ultimi mesi del 1998 ad una distanza di circa 16 anni dalla cessazione dell'attività del Co. presso la T. (1983).
4.5.3 - C.R. - Per quanto riguarda la posizione di tale persona offesa va accolta l'eccezione di estinzione del reato, in riferimento a tale parte della contestazione, per prescrizione così come formulata da tutti e tre i ricorrenti.
Invero, ha errato la Corte distrettuale nel ritenere che, applicando la disposizione di cui all'art. 81 c.p., il termine prescrizionale, con riferimento alla parte della contestazione riguardante il decesso del C., sia di quindici anni avendo fissata la data di decorrenza del termine prescrizionale a partire dall'ultimo decesso (quello del B.) avvenuto il (Omissis). Sussiste la violazione di legge, come denunciata, con riferimento agli artt. 589 e 157 c.p.:
la norma, di cui all'art. 589 c.p., comma 4, ascritta agli imputati, integra un'ipotesi di concorso formale di reati nella quale l'unificazione è sancita unicamente "quoad poenam" non rilevando per gli altri effetti. La giurisprudenza di questa Corte è uniforme nell'affermare che le disposizioni in tema di reato continuato non sono applicabili ai delitti colposi poichè è inammissibile, in quanto illogica, l'identità di un disegno criminoso riferita a reati non voluti o "contro l'intenzione". (Sez. 4^, Sentenza n. 10052 del 15/04/1982 Ud. Rv. 155851; Sez. 1^, Sentenza n. 17571 del 05/10/1989 Ud. Rv. 182868; Sez. 4^, Sentenza n. 16693 del 02/02/2005 Ud. Rv. 231541; Sez. 4^, Sentenza n. 3579 del 29/11/2006 Cc. Rv. 236018).
Di conseguenza, considerata la data del decesso del C. del (Omissis), il termine prescrizionale ordinario di 10 anni (art. 157 c.p., n. 3 e art. 160 c.p., ultima parte, prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005), in quanto il primo atto interruttivo corrisponde al provvedimento del giudice di fissazione dell'udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, datato 17.10.2007, è perento alla data del 10.10.2007.
E, comunque, anche se si ritenesse la causa interrotta il termine prescrizionale di quindici anni sarebbe parimenti prescritto alla data del 10.10.2012. E' principio acquisito che la presenza di una declaratoria di improcedibiltà per intervenuta prescrizione del reato preclude alla Corte di Cassazione un riesame dei fatti finalizzato ad un eventuale annullamento della decisione per vizi attinenti alla sua motivazione, a meno che risulti l'evidenza di una causa di non punibilità così come previsto dell'art. 129 c.p.p., comma 2.
Esclusa per il caso sottoposto all'esame della Corte l'applicazione della norma ora richiamata, comunque, stante la costituzione di parte civile, va analizzata la fondatezza dei motivi posti a base dei ricorsi.
La critica che il solo ricorrente S. muove alla sentenza impugnata con riferimento alla posizione della p.o. C.R. è quella che riguarda il significato da attribuirsi alla "presenza di cellule squamose neoplastiche". Il ricorrente precisa che i periti in udienza hanno scollegato tale presenza dalla evoluzione della patologia tumorale, relazionandola, viceversa, alla azione irritante delle nebbie acide (non cancerogene), mentre per i giudici di appello è incomprensibilmente divenuta uno specifico elemento probatorio di condanna.
La critica non coglie nel segno apparendo del tutto marginale rispetto ai dati probatori, acquisiti ed illustrati in sentenza, che comprovano, in relazione alle mansioni specifiche dell'operaio di addetto alle cromature, l'esposizione diretta ed ininterrotta a cromo esavalente per un periodo di tempo significativo (nove anni), sicuramente idoneo ad innescare la patologia tumorale che può avere una latenza di parecchi anni (al C. fu diagnosticato il tumore ad otto anni di distanza dalla cessazione dell'attività lavorativa presso la T. avvalorata dalla concentrazione di cromo rilevata nelle urine del lavoratore di una quantità ingravescente di sostanza cancerogena, che hanno indotto la corte del gravame di merito a formulare il giudizio di colpevolezza, connotato dal grado di certezza processuale, richiesto dell'art. 533 c.p.p., comma 1, e che è ulteriormente corroborato, in risposta alla censura del ricorrente S., dalla compatibilità dell'istotopo della neoplasia polmonare concretamente riscontrata - consistente in un carcinoma squamoso - alla tipicità tumorale cromocorrelata, preceduta dal positivo riscontro fin dal 1984 nell'escreato del C. della presenza si cellule squamose, sintomatica, quanto meno, di un'accentuata sensibilità della p.o. all'azione corrosiva e ossidante del cromo esavalente.
5. - Posizioni di garanzia - Vanno esaminate le deduzioni difensive dei ricorrenti B. e S. circa la titolarità della posizione di garanzia a loro contestata.
Il B. deduce che assolutamente insufficiente e contraddittoria appare la motivazione nella parte relativa al ruolo a lui attribuito, definito dirigente responsabile sul piano operativo del reparto di cromatura della T. nel periodo in cui si sono verificati gli eventi lesivi, senza che tale qualifica, sul piano formale o sostanziale, emerga in alcun modo dagli atti, evincendosi, al contrario, dalla busta paga come il ricorrente fosse un impiegato.
Si attribuisce all'imputato una posizione che non ha mai ricoperto quale quella di essere preposto dai vertici aziendali a dirigere e sovrintendere il ciclo lavorativo comportante l'esposizione dei lavoratori alle sostanze....e, dunque, specificamente investito della normativa di settore al pari del datore di lavoro. L'assunto accusatorio, si rimarca, è carente sul piano probatorio non essendo stata acquisita agli atti alcuna delega, nè generica, nè specifica in ordine alla adozione e all'attuazione delle misure di sicurezza.
Orbene, assodato che la Corte lagunare riconosce in maniera incontrovertibile la responsabilità dello S. e dello Z. per i ruoli da essi ricoperti che li fanno individuare come le figure datoriali dirette destinatane delle norme a tutela dei lavoratori e degli obblighi di attuazione delle misure di prevenzione, evidenziandosi che le riscontrate carenze strutturali delle misure di prevenzione, riguardanti in particolare l'omessa installazione di un adeguato ed efficiente impianto di aspirazione dei vapori tossici, erano direttamente ascrivibili a scelte inescusabili dei vertici aziendali, per cui le censure mosse sul punto dallo S. si rilevano del tutto generiche; quanto alla posizione del B. ed alla qualifica a lui attribuita, dianzi indicata, si legge in sentenza che, dalle risultanze processuali, è emerso in modo incontrovertibile, che l'imputato ha diretto pressochè ininterrottamente il ciclo delle lavorazioni galvaniche presso lo stabilimento industriale di (Omissis) dal 1975 al 1993, con funzioni che contemplavano la responsabilità dell'organizzazione del lavoro degli operai addetti, i quali prendevano ordini direttamente da lui durante la prestazione lavorativa. Rimasta accertata (la sentenza fa riferimento alle prove verbali acquisite) la qualifica, così come descritta, appare chiaramente infondata, per altro non consentita in questa sede di giudizio, la deduzione difensiva del ricorrente che pretende di ribaltare il risultato probatorio delle dichiarazioni testimoniali, adducendo che non è stata acquisita alcuna delega nè generica, nè specifica in ordine alla adozione e all'attuazione delle misure di sicurezza, dimenticando che, la qualifica ricoperta dal B., come correttamente osservato, dalla Corte del merito,in quanto preposto dai vertici aziendali a dirigere e sovrintendere il ciclo lavorativo comportante l'esposizione dei lavoratori alle sostanze nocive e cancerogene presenti nell'attività di cromatura, era specificamente investito, del D.P.R. n. 303 del 1956, ex art. 4, normativa di settore, al pari del datore di lavoro, dell'obbligo di garantire l'attuazione delle prescritte misure di prevenzione e di dotare i lavoratori dei mezzi di protezione necessari - e, in particolare, tra gli altri, delle mascherine individuali atte ad impedire l'inalazione dei vapori nocivi durante l'intera fase delle lavorazioni -assicurandosi del loro effettivo utilizzo. Inoltre, non si può non condividere, per la conformità al dato normativo ed alla giurisprudenza di questa Corte, l'ulteriore rilievo secondo cui la inosservanza delle più elementari norme precauzionali è immediatamente imputabile al B., così come gli eventi lesivi che ne sono derivati, che, tra l'altro - in ragione della sua diretta, diuturna, presenza sul luogo di lavoro - era in grado di rilevare ed apprezzare personalmente gli effetti negativi della presenza e della stagnazione dei vapori tossico-nocivi e di segnalarne ai coimputati l'esigenza d una immediata eliminazione. Dunque, la sentenza dimostra l'esistenza di condotte che del tutto correttamente vengono collocate nel ruolo del preposto.
Tale figura del sistema prevenzionistico, come ripetutamente enunciato da questa Corte (da ultimo Cass. 4, 23 novembre 2012, Lovison), sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l'esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico. E le condotte attribuite all'imputato si attagliano, appunto, a tale ruolo. Dunque, correttamente si è ritenuto che sull'imputato incombesse l'obbligo di cautelare il rischio di cui trattasi.
6. Conclusioni- Dunque, per quanto argomentato al punto 5.4.3., la sentenza impugnata va annullata senza rinvio agli effetti penali, nei confronti di B.R., Z.P. e S. A., limitatamente al reato di omicidio colposo concernente il decesso di C.R., per essere il reato estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di mesi quattro di reclusione(così già ridotta per la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p.), rideterminando la pena in anni uno di reclusione, per ciascuno dei predetti, per i residui reati per i quali vi è stata condanna.
Con la conseguenza che vanno rigettati, agli effetti civili, in ordine al medesimo reato, i ricorsi degli stessi B., Z. e S..
Vanno, inoltre rigettati, per tutto quanto argomentato, i ricorsi in ordine ai reati di omicidio colposo concernenti i decessi di B. D. e Co.Ug..
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, nei confronti di B.R., Z.P. e S. A., limitatamente al reato di omicidio colposo concernente il decesso di C.R., per essere il reato stesso estinto per prescrizione, ed elimina la relativa pena di mesi quattro di reclusione (così già ridotta per la diminuente di cui all'art. 442 c.p.p.), rideterminando la pena in anni uno di reclusione, per ciascuno dei predetti, per i residui reati per i quali vi è stata condanna.
Rigettargli effetti civili, in ordine al medesimo reato, i ricorsi degli stessi B.R. Z.P. e S. A..
Rigetta i ricorsi in ordine ai reati di omicidio colposo concernenti i decessi di B.D. e Co.Ug..
Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 21 giugno 2013.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2013