Cassazione Civile, Sez. 6 - L - 17 giugno 2014, n. 13745 - Indumenti di lavoro e obblighi datoriali per i DPI


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SESTA SEZIONE CIVILE - L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIETRO CURZIO - Presidente -
Dott. DANIELA BLASUTTO - Consigliere -
Dott. GIULIO FERNANDES - Consigliere -
Dott. FABRIZIA GARRI - Consigliere -
Dott. ANTONELLA PAGETTA - Rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA


sul ricorso 25354-2011 proposto da:

Omissis elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avv. ... giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
COMUNE ... in persona del Sindaco prò tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dell'avvocato ... rappresentato e difeso dall'avvocato ... giusta mandato in calce al controricorso;

- controricorrente -
avverso la sentenza n. 168/2011 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI del 13.1.2011, depositato il 28/01/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/04/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito per il controricorrente l'Avvocato per delega avv. ... che si riporta agli scritti

Fatto


1. Con la domanda di cui al ricorso di primo grado ... premesso di essere dipendente del Comune ... con mansioni di autista specializzato, ha allegato di non avere potuto utilizzare correttamente i prescritti indumenti di lavoro protettivi ; il Comune di ... aveva fornito infatti, ogni due /tre anni due tute di stoffa e, saltuariamente, tute "usa e getta" le quali non consentivano la traspirazione né garantivano l'impermeabilità ai liquidi; la scarsità degli indumenti forniti, il lungo lasso di tempo intercorrente tra una fornitura ed un'altra, la necessità di lavaggi frequenti (ai quali aveva provveduto esso lavoratore) avevano determinato pertanto un logorio tale degli abiti da lavoro da indurre il ricorrente alla loro sostituzione con abiti propri.
Ha dedotto che la condotta del Comune di ... costituiva violazione degli artt. 32 Cost. e 2087 cod. civ. , del dpr n. 303 del 1956, del d.lgs n. 626 del 1994 e della Direttiva europea n. 89/391 CEE e sostenuto di avere diritto all'indennità per il lavaggio delle tute o al risarcimento del danno per la condotta del Comune.

2. La domanda è stata respinta dal giudice di prime cure con statuizione confermata in appello.
2.1. La Corte territoriale, sulla premessa che il lavoratore appellante aveva lamentato la violazione della norma costituzionale in materia di salute, nonché dell'art. 2087 cc. e dell'art. 40 d.lgs n. 626/94, ha ritenuto inapplicabile la normativa introdotta nel 1994 perché riferibile ai soli "DPI" (dispositivi di protezione individuale), in quanto le tute fornite ai lavoratori erano capi comuni di abbigliamento e assolvevano alla mera funzione di preservazione degli abiti dei lavoratori, così come le tute "monouso"; quindi non si trattava di indumenti predisposti per tutelare la salute e sicurezza delle persone. Elementi essenziali in ordine all'obbligo di fornitura di DPI erano, infatti, la frequenza di esposizione e le caratteristiche del posto di lavoro del singolo dipendente. L'eventualità di venire a contatto con sostanze nocive era stata prospettata in ricorso, in modo del tutto generico, tenuto conto dell'attività svolta, ed era pertanto inidonea a qualificare gli indumenti forniti quali DPI . La controversia era limitata al solo preteso obbligo del Comune di di lavare le tute fornite o di risarcire il danno da violazione di tale pretesa/obbligo per cui non rilevante era la perizia depositata in atti circa la individuazione di DPI in ordine ai rischi specifici delle lavorazioni svolte dall'appellante. La giurisprudenza di legittimità circa la fornitura di idonei strumenti di protezione e circa l'obbligo per il datore di lavoro di tenerli puliti ed efficienti, richiamata dall'appellante si riferiva a casi diversi in cui gli indumenti forniti erano effettivamente DPI o strumenti di copertura ad essi assimilabili. In difetto di specifica allegazione era, infine, da escludere l'obbligo contrattuale del Comune alla fornitura di indumenti da lavoro .

3.Per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso l'originario ricorrente sulla base di quattordici motivi; ha resistito il Comune con controricorso. Parte ricorrente ha depositato memoria difensiva ex art. 378 cp.c.

 

Diritto


4. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt 32 della Cost. e dell'art. 2087 cc; si sostiene che esiste un generale obbligo del datore di lavoro di lavare le tute, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità; in caso di mancato lavaggio, il lavoratore ha pertanto diritto alla relativa indennità.
4.1. Con il secondo motivo si deduce l'omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio, nonché la violazione dell'art 112 cod. proc. civ. e degli artt. 132 cod. proc. civ.; si assume l'errore del giudice di appello per avere ritenuto che esso ricorrente aveva, in prima battuta, qualificato le tute quali DPI e per avere ignorato la domanda del ricorrente fondata sulla sussistenza di un obbligo generale di lavaggio delle tute da parte del Comune di ... .
4.2. Con il terzo motivo si deduce la violazione del d. lgs. n. 626 del 1994 e dell'ulteriore normativa in materia di sicurezza del lavoro; degli artt. 32 Cost e dell'art.2087 cod. civ.; il provvedimento impugnato è in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione . Esiste un obbligo generale del datore di lavoro di lavare le tute in quanto DPI. In caso di mancato lavaggio il lavoratore ha diritto alla relativa indennità.
4.3. Con il quarto motivo si deduce l'omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. Non si era esaminata la perizia prodotta e non si erano esaminati i rischi in concreto sofferti dai lavoratori.
4.4. Con il quinto motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2967 cod. civ. del d. lgs n. 626 del 1994 e dell'ulteriore normativa in materia di sicurezza ; incombe sul Comune datore di lavoro la prova che non sono necessari DPI per il lavoro e le mansioni svolte e che le tute non sono DPI ; il lavoratore ha solo l'onere di dimostrare le mansioni espletate ed il contatto con le sostanze in cui si imbatte nello svolgimento delle mansioni medesime;
4.5. Con il sesto motivo si deduce l'omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso, decisivo per il giudizio. Era onere del comune di dimostrare che le tute non sono DPI ; e stata omessa la motivazione sul mancato esame della questione attinente all'onere della prova;
4.6. Con il settimo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 32 Cost dell'art 2087 cod. civ. del d. lgs n. 626 del 1994 e della normazione in materia di sicurezza del lavoro; è il datore di lavoro che è onerato della prova in ordine alla insussistenza del rischio;
4.7. Con l'ottavo motivo si deduce omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. Era onere del datore di lavoro dimostrare che non sussisteva un rischio per i lavoratori ; la sentenza impugnata manca del tutto di motivazione sul punto;
4.8. Con il nono motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 32 della Cost.; degli artt. 1218 e 2043 cod. civ.; il provvedimento impugnato si pone in contrasto con la giurisprudenza di legittimità.
Nel caso di mancato lavaggio delle tute da lavoro il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale;
4.9 Con il decimo motivo si deduce l'omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso, decisivo per il giudizio. La decisione non ha motivato congruamente le ragioni del rigetto della domanda risarcitoria ed in particolare della insussistenza del danno lamentato;
4.10. Con l'undicesìmo morivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 Cost e dell'art. 2697 cc, nonché dell'art 414 cod. proc. civ. ; si censura , in sintesi il mancato accoglimento delle richieste istruttorie articolate in prime cure;
4.11. Con il dodicesimo motivo si allega l'omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. Non era stata offerta alcuna motivazione in ordine alla mancata ammissione delle prove richieste;.
4.12. Con il tredicesimo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 Cost. , dell'art. 2087 cod. civ.; si censura, in sintesi, la decisione per non avere il giudice di appello esaminato ed accolto la domanda formulata in via gradata attinente all'inosservanza dell'obbligo di fornitura delle tute "siano esse considerate come D.P.I." ovvero come abiti da lavoro;.
4.13. Con l'ultimo motivo si deduce omessa o insufficiente o contraddittoria o incongrua motivazione in relazione ad un fatto controverso decisivo per il giudizio. La motivazione del provvedimento impugnato era del tutto carente in merito al punto evidenziato nel motivo precedente;

5. Il primo ed il secondo motivo, che in quanto connessi sono trattati congiuntamente, devono essere respinti essendo inidonei a validamente censurare la decisione impugnata.
L'assunto dal quale muove parte ricorrente, e cioè l'avere la sentenza impugnata trascurato di pronunciare in merito alla dedotta esistenza di un obbligo di carattere generale dell'ente datore, di provvedere al lavaggio delle tute, a prescindere dalla configurabilità delle stesse quali DPI è inesatto; la sentenza impugnata, infatti, dopo avere dato espressamente atto che l'appellante si era doluto del non corretto inquadramento della questione controversa, sotto il profilo della verifica della esistenza di un obbligo di carattere generale del datore di lavoro, di mantenere a dovere gli abiti da lavoro in quanto tali ed a prescindere quindi dalla loro natura di DPI, ha escluso la esistenza di siffatto obbligo di carattere generale affermando che lo stesso era ipotizzabile solo ove gli indumenti forniti potevano essere configurati come DPI "perché solo in tal caso sorgerebbe in capo all'amministratone l'obbligo di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro frequente lavaggio" La questione che parte ricorrente assume non considerata risulta, quindi, al contrario di quanto sostenuto in ricorso, espressamente esaminata e decisa nel merito in senso sfavorevole alla tesi attorea.
5.1. La correttezza della decisione in ordine alla insussistenza di un generale obbligo per il datore di lavoro di provvedere alla manutenzione ed al lavaggio degli indumenti (ove questi, pur non costituendo DPI, per le peculiari caratteristiche dell'attività lavorativa, fossero soggetti a sporcarsi di frequente) non contrasta, al contrario di quanto assume parte ricorrente, con la giurisprudenza di questa Corte richiamata nella illustrazione delle censure. Invero tali precedenti concernono espressamente ipotesi nelle quali gli indumenti in relazione ai quali è stata affermato l'obbligo datoriale di provvedere alla manutenzione costituivano DPI. In particolare, si legge nella sentenza n. 18573 del 2007, richiamata da parte ricorrente come espressione di indirizzo consolidato del giudice di legittimità : "L'idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma del D.P.R n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi degli art. 40, 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni" (Cass., 5 novembre 1998 n. 11139; 14 novembre 2005 n. 22929; 26 giugno 2006 n. 14712; 13 ottobre 2006 n. 22049). "
5.3.Esclusa la esistenza di un obbligo generale della parte datoriale di provvedere, anche al di fuori dell'ipotesi contemplata dal d. lgs n. 626 del 1994, alla fornitura e manutenzione degli indumenti da lavoro, diviene irrilevante il richiamo di parte ricorrente, richiamo invero generico, al notorio rappresentato dal fatto che, secondo la comune esperienza, i lavoratori addetti ad un certo tipo di lavoro si imbrattano giornalmente con un tipo di sporco che richiede un lavaggio particolare. Tale circostanza risulta infatti inidonea a fondare di per sé l'obbligo datoriale a provvedere al lavaggio degli indumenti.

6. Il terzo ed il quarto motivo, con i quali viene censurato, in sintesi, il mancato riconoscimento della natura e finalità di DPI, alle tute fornite dal Comune, sono anch'essi infondati.
6.1. La Corte territoriale ha escluso che le tute in questione costituissero dispositivi individuali di protezione, ai sensi degli artt. 40 e 41 d. lgs n. 626 del 1994, sulla base di una duplice considerazione: le caratteristiche intrinseche degli indumenti (tute di stoffa) che li rendevano inidonei a svolgere una funzione di protezione della salute del lavoratore da rischi specifici dell'ambiente di lavoro ed in particolare dal contatto con sostanze nocive; la prospettazione, in domanda solo di una generica possibilità di venire in contatto con le
dette sostanze.
6.2. In merito al primo profilo il giudice d'appello è partito dal necessario accertamento se le tute distribuite ai lavoratori, anche se a cadenze assolutamente insufficienti, quelle monouso e quelle di stoffa, potessero essere considerate DPI (dispositivi di protezione individuale) ai sensi della normativa in vigore, ciò in quanto si evince dallo stesso ricorso e dalla ricostruzione della vicenda processuale che l'assimilazione tra le tute in parola e i veri e propri DPI sia stato sempre argomento centrale della tesi di parte ricorrente in quanto la normativa sui DPI- proprio in relazione alle lavorazioni cui era addetto il lavoratore- vuole dare concretezza e specificazione alle norme di ordine generale ed astratto come l'art 32 della Cost. e l'art 2087 cc.
La Corte territoriale correttamente rileva che se le tute fornite dal datore di lavoro Comune di ... si dovessero considerare DPI, allora non vi sarebbe alcun dubbio del connesso obbligo per il Comune di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro frequente lavaggio. Ora la Corte di appello rileva che ai sensi dell'art 40 D. lgs. n. 626/66 e DPI "qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggere contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo" e non sono invece DPI "gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore": l 'art 42 precisa che i DPI devono essere adeguati ai rischi da prevenire, alle condizioni esistenti sul luogo di lavoro e tenere conto delle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore e devono poter essere adattati all'utilizzatore secondo le sue necessità, mentre all'art 43 si precisano gli obblighi di corretta fornitura dei DPI anche in ordine al loro mantenimento in stato di efficienza ed igiene. La Corte di appello ha poi ricordato che la circolare n. 34 del 29.4. 1999 (allegato 17) precisa che gli indumenti di lavoro possono avere tre funzioni: a) di divisa cioè di identificazione aziendale; b) di mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; e) di protezione da rischi per la salute e sicurezza e che solo in quest'ultimo caso gli indumenti rientrano tra i DPI (a titolo esemplificativo gli indumenti per evitare il contagio con sostanze nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici).
6.3. Date queste premesse normative la Corte territoriale ha logicamente concluso che le tute fomite ai lavoratori dal Comune di non potevano essere ritenute DPI per le loro caratteristiche di capi comuni di abbigliamento ( tute di stoffa) e la loro funzione di vestizione in quanto strumentali al solo scopo di mera preservazione degli abiti civili dell'attuale ricorrente dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa.
Discorso da farsi anche per le tute di lavoro monouso in tjvek. La Corte territoriale ha rilevato che proprio il lavoratore aveva allegato e ribadito che le tute monouso erano non traspiranti e permeabili ai liquidi e quindi inidonee e che quelle di stoffa si sporcavano facilmente sicché entrambe i generi di indumenti di lavoro non realizzavano alcuna significativa tutela rispetto ai rischi specifici cui il lavoratore era- a suo dire- esposto. Le caratteristiche e la tipologie di tali indumenti escludono che gli stessi possano essere considerati DPI alla luce della normativa in vigore, non possedendo la funzionalità tipica dei DPI e cioè un'adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive (per lavorazioni come quelle cui era addetto il ricorrente) essendo stati forniti solo per preservare gli abiti civili dall'usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa. Si tratta di un accertamento di natura squisitamente fattuale motivato congruamente ed ancorato ad elementi desunti dalla stesse prospettazioni di parte ricorrente e quindi insindacabile come tale in questa sede, che porta ad escludere in radice non solo la dedotta assimilazione tra le tute fornite al dipendente del Comune di ... e i DPI, ma anche ogni nesso tra la tutela della salute e dell'igiene del dipendente ex art. 32 Cost. ed ex art 2087 cc. e la domanda formulata in questa sede processuale.
6.4. Sotto quest'ultimo profilo è da sottolineare che la Corte di appello ha affermato che "per la sussistenza dell'obbligo di assegnare a ciascun dipendente i DPI, costituiscono elementi essenziali l'entita del rischio, la frequenza di esposizione, le caratteristiche del posto di lavoro del singolo dipendente . I ricorsi degli attuali appellanti si basano,invece, su una generica possibilità di venire in contatto con sostanze nocive, dato certamente inidoneo a connotare gli indumenti fomiti quali DPI. Con quest'ultima affermazione, il giudice di appello ha dimostrato di ritenere le allegazioni di cui in ricorso inidonee, per la loro genericità, a configurare, anche ove provate, la sussistenza di una concreta situazione di rischio per la salute del lavoratore tale da imporre alla parte datoriale il ricorso a dispositivi di protezione individuale. La valutazione di inadeguatezza e genericità delle allegazioni attoree a configurare una situazione di rischio dell'ambiente lavorativo tale da imporre 1'adozione di DPI, non risulta specificamente contrastata dall'odierno ricorrente, il quale nulla deduce in ordine alla eventuale incongruità o illogicità di tale valutazione, al fine di sollecitare il sindacato di legittimità sulla stessa.

6.5. Parte ricorrente a sostegno dell'assunto della finalità di DPI delle tute fornite dal Comune richiama la perizia della RM Consulting e la relazione Asl di Milano . Il riferimento a tali atri, è formulato in termini inadeguati a incidere sull'accertamento di fatto del giudice di appello in merito alle assenza nelle tute fornite delle caratteristiche proprie dei dispositivi individuali di protezione, oggetto dell'obbligo di sicurezza datoriale. Questa Corte ha chiarito che "il controllo della congruità e logicità della motivazione, al fine del sindacato di legittimità su un apprezzamento di fatto del giudice di merito, postula la specificazione da parte del ricorrente - se necessario, attraverso la trascrizione integrale nel ricorso - della risultanza (parte di un documento, di un accertamento del consulente tecnico, di una deposizione testimoniale, di una dichiarazione di controparte, ecc.) che egli assume decisiva e non valutata o insufficientemente valutata dal giudice, perché solo tale specificazione consente al giudice di legittimità - cui è precluso, salva la denuncia di "error in procedendo", 1' esame diretto dei fatti di causa - di deliberare la decisività della risultanza non valutata, con la conseguenza che deve ritenersi inidoneo allo scopo il ricorso con cui, nel denunciare l'omessa valutazione da parte del giudice di merito di una circostanza decisiva, ci si limiti a rinviare alla prospettazione fatta negli atti di causa" (Cass. n. 6679 del 2006). Parte ricorrente non ha osservato gli oneri prescritti al fine della valida censura dell'accertamento di fatto del giudice di merito . Non ha, in primo luogo, in violazione del disposto dell'art. 366 cod. proc. civ. , specificato il luogo processuale in cui risultavano prodotti i documenti menzionati né ha trascritto il relativo contenuto e, soprattutto, non ha indicato quali erano le circostanze emergenti da tali documenti, aventi carattere di decisività, trascurate dal giudice di merito . Il terzo e quarto motivo vanno quindi respinti.


7. Il quinto, il sesto, il settimo e l'ottavo motivo di ricorso, trattati congiuntamente in quanto tutti attinenti al tema dell'onere della prova, sono anche essi infondati.
7.1.La tesi di parte ricorrente è che sul Comune ricadeva l'onere di provare che l'attività espletata dal lavoratore non esigeva l'adozione di DPI e quindi l'assenza di rischio, mentre il lavoratore era tenuto esclusivamente a provare le mansioni svolte ed il contatto con sostanze nocive; censura quindi che la Corte territoriale non abbia motivato in ordine alla questione relativa all'onere della prova che assume sollevata con il ricorso in appello.
7.2. Si premette che, come correttamente rilevato dalla Corte d'appello, oggetto della domanda era l'accertamento dell'obbligo per il Comune di fornire le tute prima indicate e comunque di tenerle pulite e, in linea subordinata, di risarcire il dipendente dalle spese sostenute di lavaggio delle tute, questione completamente estranea al tema della tutela della salute e dell'igiene nel luogo di lavoro ex art. 32 della Cost. ed ex art. 2087 cc, posto che le prima ricordate tute non erano fornite a tale scopo, ma solo per preservare gli abiti civili dall'usura dovuta all'attività lavorativa svolta.
La domanda non concerneva quindi, in prima battuta, la fornitura di DPI ove necessario al fine di salvaguardare i beni costituzionalmente protetti prima ricordati, ma riguardava direttamente il tipo di tute distribuite (saltuariamente, a stare alla prospettazione di parte ricorrente) dal Comune di non altre vestizioni o altro tipo di protezione.
7.3 .E' in relazione a tale articolazione della originaria domanda che deve quindi essere verificato il rispetto della regola sulla distribuzione dell'onere probatorio.
La Corte territoriale, nel confermare la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda del lavoratore, ha implicitamente posto a carico di quest'ultimo l'onere di provare la sussistenza dell'obbligo dell'ente datore di fornire e provvedete alla manutenzione delle tute, dalla cui pretesa violazione scaturisce la pretesa risarcitoria azionata nel presente giudizio.
7.4. Il criterio applicato dalla Corte di merito risulta coerente con il canone di cui all'art 2697 cod. civ. secondo il quale "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento". Per completezza di esposizione può soggiungersi che la regola di cui all'art. 3697 cod. civ. in tema di responsabilità datoriale, ove dedotta la violazione del disposto dell'art. 2087 cod. civ., richiede, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, comunque l'adeguata allegazione prima ancora che la prova da parte del lavoratore del danno sofferto e del nesso causale tra detto pregiudizio e le caratteristiche di nocività dell'ambiente di lavoro e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ( ex plurimis : Cass. n. 2038 del 2013).
7.5. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri sopra delineati, secondo quanto ritenuto, con affermazione non specificamente contrastata in ricorso, dalla Corte di merito in ordine alla genericità di prospettazione con riferimento al possibile contatto con sostanze nocive.

8. L'accertata insussistenza dell'obbligo - legale o contrattuale - per il Comune di di provvedere al lavaggio delle tute assorbe le censure formulate con il nono e decimo motivo, attinenti al mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, attesa la inconfigurabilità di un danno risarcibile laddove non sia ipotizzabile un inadempimento datoriale.

9. L'undicesimo e dodicesimo motivo con i quali viene censurata sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione la mancata ammissione di mezzi istruttori articolati in ricorso, sono entrambi infondati.
9.1. Questa Corte ha chiarito che "Quando sia denunziato, con il ricorso per cassazione, un vizio di motivazione della sentenza sotto il profilo della mancata ammissione di un mezzo istruttorio, è necessario che il ricorrente non si limiti a censure generiche di erroneità e/o di inadeguatezza della motivazione, ma precisi e specifichi, svolgendo critiche concrete e puntuali, seppure sintetiche, le risultanze e gli elementi di giudizio dei quali lamenta la mancata acquisizione, evidenziando altresì in cosa consistesse e con quali finalità e in quali termini la richiesta fosse stata formulata. Più in particolare, ove trattasi di una prova per testi, è onere del ricorrente, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, indicare specificamente le circostanze concrete che formavano oggetto della prova, quale ne fosse la rilevanza, e a quale titolo i soggetti chiamati a rispondere su di esse potessero esserne a conoscenza, atteso che il controllo deve essere consentito alla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. n. 9290 del 2004, Cass. n. 5479 del 2006 , n, 10357 del 2005) e che "In materia di consulenza tecnica d'ufficio la decisione del giudice di merito che ne esclude l'ammissione non è sindacabile in sede di legittimità, posto che compete al giudice del merito l'apprezzamento delle circostanze che consentano di escludere che il relativo espletamento possa condurre ai risultati perseguiti dalla parte istante, sulla quale incombe pertanto l'onere di offrire gli elementi di valutazione." (Cass. n. 26264 del 2005).
9.2. Parte ricorrente si è sottratta agli oneri, sopra delineati, su di essa ricadenti al fine della valida censura della mancata ammissione dei mezzi istruttori e del mancato espletamento della consulenza tecnica d'ufficio; pur avendo, infatti, riprodotto in ricorso le richieste istruttorie di prime cure ed in particolare i capitoli in relazione ai quali era stata formulata la richiesta di prova orale, nel censurare la mancata ammissione della stessa, si è limitata a dedurne, in maniera assertiva, la rilevanza . Non ha in alcun modo argomentato sulle ragioni dello specifico rilievo delle circostanze oggetto di prova alla luce degli elementi in atti né ha specificato quale fatto, avente carattere dì decisività, essa era destinata a dimostrare. Analoga genericità si rileva in relazione alla denunzia di mancata ammissione della ctu dovendosi, anzi, evidenziare che alla stregua delle medesime prospettazioni del ricorrente alla stessa era demandata la verifica di circostanze che avrebbero dovuto costituire prima oggetto di puntuale allegazione.
Invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la consulenza tecnica di ufficio non costituisce un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze; in conseguenza suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
(Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, primo comma, cod. proc. civ. da Cass. otd. n. 3130 del 2011). Nel caso di specie, invece, la consulenza tecnica d'ufficio era destinata a supplire alla carenza e genericità di allegazione in ordine all'esposizione al rischio del lavoratore, secondo quanto accertato dal giudice di appello, con affermazione rimasta incontestata (v. sub 6.4.).

10. Il tredicesimo ed il quattordicesimo morivo con i quali è denunziato, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione l'omesso esame della domanda subordinata , intesa all'accertamento dell'obbligo del Comune a provvedere al lavaggio delle tute di stoffa, siano esse considerate DPI o come meri abiti da lavoro, non si confrontano con le ragioni a base del decisum del giudice di appello. La Corte territoriale, infatti, ha espressamente valutato l'obbligo datoriale di provvedere al lavaggio tute sia con riferimento alla configurabilità delle stesse come DPI sia con riferimento alla configurabilità come meri abiti da lavoro ed escluso, con riguardo a quest'ultimo profilo, la sussistenza dello stesso in difetto di previsione contrattuale collettiva in tal senso, circostanza quest'ultima non investita da censura alcuna.
La sentenza impugnata deve essere pertanto confermata. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza .

P. Q. M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese che liquida in € 1.500,00 per compensi professionali e in € 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Roma, 15 aprile 2014