Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 giugno 2014, n. 14614 - Polveri di amianto e misure di sicurezza cosiddette "innominate"
Presidente Lamorgese – Relatore Patti
Fatto
Con sentenza 8 giugno 2007, la Corte d'appello di Brescia rigettava l'appello proposto da Nuova Sacelit s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, che l'aveva condannata al pagamento, in favore di C.F. , G. e M. , quali eredi di S.G. , della somma di Euro 600.000,00 (oltre interessi legali dalla data del fatto sul capitale, previa devalutazione della somma, per il primo anno sul capitale e per i successivi sul capitale annualmente rivalutato secondo i criteri previsti dall'art. 150 disp. att. c.p.c.), a titolo di risarcimento del danno biologico e morale sofferto dalla loro congiunta, deceduta per mesotelioma pleurico da amianto, dipendente dall'omissione colposa di misure di sicurezza idonee alla prevenzione e diminuzione delle polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione dell'attività produttiva (di lastre e pezzi speciali) della società datrice, alle cui dipendenze ella aveva lavorato come operaia dal 1963 al 1970.
In esito a diffusa illustrazione dell'evoluzione storica della conoscenza degli effetti dell'esposizione ad amianto e dei più aggiornati studi in materia, nonché a critico ed argomentato esame delle risultanze istruttorie e della rinnovata C.t.u. medico - legale, la Corte territoriale riteneva la prova dell'eziopatogenesi professionale del mesotelioma contratto da S.G. , del nesso causale tra sua insorgenza e durata e quantità di esposizione della lavoratrice alle polveri di amianto e dell'omissione dalla società datrice delle misure di sicurezza all'epoca adottabili in base allo stato delle conoscenze tecniche (segregazione degli ambienti polverosi, installazione di impianti di aspirazione adeguati, abbattimento delle polveri con l'umidificazione), in violazione degli artt. 2087 c.c. e 21 d.p.r. 303/56. Nuova Sacelit s.p.a. ricorre per cassazione con dieci motivi, cui resistono con controricorso C.G. e M. , nella qualità; entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Diritto
Con il primo motivo, complesso e articolato, la società ricorrente deduce vizio di motivazione sul fatto decisivo e controverso della (im)possibilità di prevenzione del mesotelioma all'epoca di esposizione di S.G. all'amianto, per insufficiente replica della Corte territoriale alle critiche sollevate nelle proprie relazioni controperitali di inidoneità all'esclusione di esistenza fin dall'origine di fibre ultrafini, di concreta inesigibilità di misure preventive ad esse specificamente riferite e di imprevedibilità, con riguardo alla stessa epoca.
Con il secondo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., anche in relazione all'art. 21 d.p.r. 303/56, per avere la Corte territoriale ritenuto la mancata adozione di meccanismi di aspirazione o riduzione delle polveri, stabiliti dalla seconda norma, integrare comportamento antidoveroso anche con riferimento a tipologie di polveri (quali le ultrafini, dotate di efficacia patogenetica decisiva nell'insorgenza del mesotelioma pleurico), per cui esclusa dalle acquisizioni tecniche l'esistenza all'epoca di rimedi preventivi adeguati.
Con il terzo motivo, la società ricorrente deduce vizio di motivazione sulla mancata adozione di misure di sicurezza congrue al fine di riduzione al minimo del rischio di contrazione di malattie amianto-correlate, in concreto esigibili e pertinenti, avendo la Corte territoriale ignorato le circostanze di fatto specificamente dedotte nel proprio atto di appello (diffusamente riportate) e riferite anche dal teste P.F. , con selezione delle risultanze istruttorie apodittica e pertanto sindacabile in sede di legittimità.
Con il quarto, la società ricorrente deduce vizio di motivazione sull'assenza di correlazione tra dose inalata e sviluppo del mesotelioma pleurico, in base alle osservazioni di C.t.u. e di c.t. di parte appellata sulla natura del processo di cancerogenesi, con erronea attribuzione di rilevanza alla durata dell'esposizione, senza esame né confutazione delle puntuali critiche svolte negli atti e nelle elaborazioni tecniche depositate, ampiamente richiamati.
Con il quinto motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., per ravvisata sussistenza di un proprio obbligo, non assolto, di adozione di misure idonee ad evitare l'esposizione, pure in assenza di certezza scientifica dell'efficienza di una riduzione dell'esposizione ad amianto, diversa da una radicale eliminazione.
Con il sesto, la società ricorrente deduce vizio di motivazione sulla rilevanza, nella patogenesi del mesotelioma, della predisposizione individuale della vittima, erroneamente esclusa dalla Corte territoriale senza neppure esame della puntuale osservazione specialistica al riguardo, per ravvisata insussistenza di tale predisposizione in esito all'autopsia su S.G. , da cui risultata nei polmoni la presenza di fibre di amianto, produttiva di un processo degenerativo (fibrosi) attestante una sua prolungata e intensa esposizione alle polveri.
Con il settimo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione agli artt. 2697 c.c. e 116, primo comma c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso la prova datoriale della possibilità di contrazione dell'asbestosi a dosi di esposizione minime o della predisposizione individuale ad essa di S.G. , in realtà offerta con le evidenze scientifiche documentate nelle note controperitali, senza necessità di prova in specifico riferimento alla sua posizione.
Con l'ottavo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione agli artt. 40 c.p. e 1223 c.c., per erronea istituzione di un nesso causale tra la propria supposta inadempienza all'adozione di misure di sicurezza e il danno denunciato dagli eredi di S.G. , nell’inesigibilità di una doverosa condotta alternativa, ostativa all'insorgenza e allo sviluppo della malattia, per irrilevanza dell'entità dell'esposizione alle polveri di amianto, nella sufficienza di una dose anche minima.
Con il nono motivo, la società ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sul motivo di appello avente ad oggetto la contestazione, in subordine, della determinazione del tribunale, manifestamente eccessiva, del danno biologico e morale di cui chiesta la riduzione: pure ridondante in difetto totale di motivazione, oggetto del decimo.
I primi otto motivi, riguardanti vizio di motivazione (su possibilità di prevenzione del mesotelioma all'epoca di esposizione di S.G. all'amianto: il primo; mancata adozione di misure di sicurezza congrue alla riduzione al minimo del rischio di contrazione di malattie amianto - correlate: il terzo; assenza di correlazione tra dose inalata e sviluppo del mesotelioma pleurico: il quarto; rilevanza, nella patogenesi del mesotelioma, della predisposizione individuale della vittima: il sesto) e violazione e falsa applicazione di legge (art. 2087 c.c., anche in relazione all'art. 21 d.p.r. 303/56, per inesistenza all'epoca di adeguati rimedi preventivi di aspirazione o riduzione delle polveri e insussistenza di un obbligo datoriale, non assolto, di adozione di misure idonee ad evitare l'esposizione: il secondo e il quinto; art. 2087 c.c., in relazione agli artt. 2697 c.c. e 116, primo comma c.p.c., sulla prova datoriale della possibilità di contrazione dell'asbestosi a dosi di esposizione minime o di predisposizione individuale di S.G. e in relazione agli artt. 40 c.p. e 1223 c.c., sull'istituzione di nesso causale tra supposto inadempimento di Nuova Sacelit s.r.l. all'adozione di misure di sicurezza e danno denunciato: il settimo e l'ottavo), sono congiuntamente esaminabili. Seppure attraverso la segmentazione nei profili illustrati, essi prospettano, infatti, una doglianza sostanzialmente convergente nella censura del ragionamento motivo della sentenza impugnata di ravvisata sussistenza dell'eziopatogenesi professionale del mesotelioma contratto da S.G. , del nesso causale tra la sua insorgenza e la durata e quantità di esposizione della stessa alle polveri di amianto e dell'omissione da Nuova Sacelit s.r.l. delle misure di sicurezza all'epoca adottabili in base allo stato delle conoscenze tecniche, in violazione degli artt. 2087 c.c. e 21 d.p.r. 303/56.
Essi sono tutti infondati.
Quanto al profilo relativo all'eziopatogenesi professionale del mesotelioma contratto da S.G. , oggetto del quarto (assenza di correlazione tra dose inalata e sviluppo del mesotelioma pleurico) e del sesto motivo (rilevanza, nella patogenesi del mesotelioma, della predisposizione individuale della vittima) formulati come denuncia di vizio di motivazione, occorre premettere un'osservazione che vale anche per gli altri (primo e terzo). Con una tale censura non si può contrapporre alla ricostruzione dei fatti operata dal giudice un diverso convincimento soggettivo della parte, che in particolare prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, posto che tali aspetti del giudizio, interni alla discrezionalità valutativa degli elementi di prova e all'apprezzamento dei fatti, riguardano il libero convincimento del giudice e non i possibili vizi del suo percorso formativo rilevanti ai fini in oggetto; diversamente risolvendosi tale motivo di ricorso in un'istanza inammissibile di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e quindi nella richiesta di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394). La valutazione delle risultanze delle prove, il giudizio sull'attendibilità dei testi e la scelta, tra le varie, delle risultanze probatorie ritenute più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, libero di attingere il proprio convincimento dalle prove che gli paiano più attendibili, senza alcun obbligo di esplicita confutazione degli elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412).
Tale insegnamento deve essere tenuto presente nello scrutinio dei mezzi in esame, alla luce di un percorso motivo della Corte bresciana attento ai dati istruttori emersi ed esauriente nell'illustrazione dei passaggi argomentativi, logicamente congruente e giuridicamente corretto, esente dai vizi denunciati.
In particolare riferimento al quarto, essa ha dato puntuale conto delle argomentazioni difensive della società, sia in riferimento alle sue deduzioni in appello, richiamanti l'elaborato del prof. Ch. (come illustrato a pgg. da 43 a 46 del suo ricorso), sia alle note autorizzate 11 maggio 2006, sempre nel solco del contributo scientifico del predetto (secondo il richiamo fattone a pgg. 47 e 48 del ricorso) ed ancora alle note controperitali anche in base alla relazione del prof. R. (nell'ampio stralcio riportato a pgg. da 49 a 51 del ricorso), offrendone una persuasiva confutazione critica: sugli essenziali rilievi di compatibilità del periodo di latenza del mesotelioma pleurico (anche di dieci anni) con quello del rapporto di lavoro di S.G. (iniziato nel 1963 e cessato nel 1970, con costituzione in suo favore di una rendita per asbestosi già nel 1981), delle caratteristiche della patologia contratta e della decisiva rilevanza, nel processo di cancerogenesi, della durata dell'esposizione alle polveri di amianto (così a pgg. da 6 a 10 della sentenza impugnata).
Quanto al sesto, la Corte territoriale ha efficacemente confutato la tesi del prof. Ch. sulla rilevanza, nella patogenesi del mesotelioma, della predisposizione individuale della vittima, sulla base di studi pubblicati nell'anno 2000, successivi a quelli richiamati dal predetto, fondati su modelli matematici di analisi delle indagini epidemiologiche (ancora a pgg. da 7 a 10 della sentenza).
E le stesse ragioni di infondatezza valgono per i due residui mezzi denuncianti vizi di motivazione: per il primo, sulla possibilità di prevenzione del mesotelioma all'epoca di esposizione di S.G. all'amianto; per il terzo, sulla mancata adozione di misure di sicurezza congrue alla riduzione al minimo del rischio di contrazione di malattie amianto - correlate. Ed essi si collegano logicamente a quelli denuncianti violazioni di legge, in riferimento alla (in)sussistenza di nesso causale tra insorgenza della patologia e durata e quantità di esposizione della lavoratrice alle polveri di amianto e all'omissione da Nuova Sacelit s.r.l. delle misure di sicurezza all'epoca adottabili.
Anche qui, la Corte bresciana ha dato puntuale ed esauriente risposta alle critiche sollevate dalla società, con il primo motivo, sulla possibilità (da escludere) di prevedere e tanto meno di evitare il mesotelioma pleurico (con richiamo, a pgg. 16 e 17 del suo ricorso, delle argomentazioni svolte nell'atto di appello) e sulla scarsa considerazione della rilevanza patogenetica delle fibre microscopiche di amianto e della concreta inesigibilità di idonee misure preventive ad esse relative, specialmente negli anni 1963/1970 (con richiamo delle note controperitali del prof. Ch. e della relazione controperitale del prof. R. , a pgg. da 19 a 23 del ricorso), con le argomentate ragioni confutative di accertato deposito nei tessuti mesoteliali esaminati di fibre di diametro e lunghezza superiori rispetto a quelle definite "ultrafini", comunque risultato di frammentazione di fibre maggiori, anche all'epoca evitabile con l'immediata riduzione delle polveri, alla cui prolungata esposizione invece la lavoratrice soggetta, con ribadita decisiva influenza nell'insorgenza e nello sviluppo della patologia (a pgg. da 15 a 17 della sentenza).
E parimenti ha fatto, quanto al terzo motivo ancora di censura dell'ignorata inesigibilità in concreto di pertinenti misure di sicurezza, congrue al fine di riduzione al minimo del rischio di contrazione di malattie amianto-correlate (con richiamo della deduzione in appello di circostanze di fatto sul grado di concentrazione delle polveri in base a indagini della società datrice, a pgg. da 35 a 40 del ricorso e della dichiarazione del teste P.F. , a pgg. da 40 a 42 del ricorso), con le inconfutabili argomentazioni relative all'accertamento delle inquietanti condizioni di "elevatissima polverosità dell'ambiente di lavoro" (a pgg. 11 e 12 della sentenza).
Venendo ora ai motivi di denuncia di violazione di legge, occorre subito rilevare come il settimo (violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione agli artt. 2697 c.c. e 116, primo comma c.p.c., sulla prova datoriale della possibilità di contrazione dell'asbestosi a dosi di esposizione minime o di predisposizione individuale di S.G. ) neppure sia configurabile come tale, non consistendo in una denuncia di norme di diritto violate. Essa è piuttosto meramente enunciata senza neppure una loro puntuale deduzione, in assoluta mancanza di una verifica di correttezza dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, né nella sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell'ipotesi normativa (Cass. 28 novembre 2007, n. 24756); tanto meno, con specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina: così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla corte regolatrice di adempiere al proprio compito istituzionale di verifica del fondamento della violazione denunziata (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
Ed in ogni caso, esso ridonda nel profilo di contestata esistenza di un nesso causale tra l'insorgenza della patologia e la durata e quantità di esposizione della stessa alle polveri di amianto, oggetto dell'ottavo motivo, denunciante violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione agli artt. 40 c.p. e 1223 c.c..
La deduzione della censura è tuttavia generica (esclusione del nesso di causalità, secondo la prospettata accezione civilistica di probabilità relativa rispondente alla logica del "più probabile che non", sulla base delle acquisizioni scientifiche come sopra confutate) e non inficia la corretta applicazione delle norme denunciate da parte della Corte territoriale, che, in esito al coerente ragionamento argomentativo svolto, ha fondatamente ritenuto la prova del nesso causale fra mesotelioma e durata e quantità della esposizione alle polveri di amianto ed escluso quella delle allegate circostanze interruttive di predisposizione individuale alla malattia e di possibilità di contraria per inalazione di dosi minime di polveri (a pgg. 17 e 18 della sentenza). E ciò nel rispetto del principio di regolarità causale vigente in materia civile e di probabilità qualificata nel caso di malattia professionale ad eziologia multifattoriale, necessitante di una concreta e specifica dimostrazione (come ancora ribadito da questa Corte, su analoga controversia in cui parte proprio Nuova Sacelit s.r.l., con sentenza 24 gennaio 2014, n. 1477, con richiamo di precedenti conformi in parte motiva, cui si rinvia).
Quanto, infine, all'omissione da Nuova Sacelit s.r.l. delle misure di sicurezza all'epoca adottabili in base allo stato delle conoscenze tecniche, in violazione degli artt. 2087 c.c. e 21 d.p.r. 303/56 essa pure deve essere ritenuta, così disattendendo le censure di: inidoneità della mancata adozione di meccanismi di aspirazione o riduzione delle polveri, stabiliti dalla seconda norma, all'integrazione di un comportamento antidoveroso della società datrice, anche con riferimento a tipologie di polveri (quali le ultrafini, dotate di efficacia patogenetica decisiva a fini di insorgenza del mesotelioma pleurico), per le quali esclusa dalle acquisizioni tecniche di causa l'esistenza all'epoca di rimedi preventivi adeguati (oggetto del secondo motivo); insussistenza di un obbligo della stessa società, non assolto, di adozione di misure idonee ad evitare l'esposizione, in assenza di certezza scientifica dell'efficienza di una riduzione dell'esposizione ad amianto, diversa da una radicale eliminazione (oggetto del quinto).
Ed infatti, la Corte bresciana, nell'attenta verifica di adozione, nello stabilimento di Nuova Sacelit s.r.l., di tutte le misure di sicurezza disponibili all'epoca idonee ad abbattere significativamente la polverosità (fonte della patologia contratta dalla lavoratrice) ha fatto corretta applicazione norme di legge denunciate (per le argomentazioni svolte in particolare a pgg. 13 e 14 della sentenza), in relazione alla accertata condizione, di grave e pericolosa nocività, dell'ambiente lavorativo (a pgg. 11 e 12 della sentenza) e pure di disinformazione in cui tenuti i lavoratori sul rischio di esposizione alle polveri di amianto fino alla prima metà degli anni settanta (primo capoverso di pg. 15 della sentenza), con corretta istituzione del collegamento normativo dell'art. 2087 c.c. con l'art. 21 d.p.r. 303/56 (a pg. 5 della sentenza).
La decisione è pertanto conforme ai principi applicati in materia, secondo cui la responsabilità dell'imprenditore, ai sensi dell'art. 2087 c.c. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Sicché, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia (Cass. 3 agosto 2012, n. 13956; Cass. 1 febbraio 2008, n. 5491; Cass. 14 gennaio 2005, n. 644).
Se allora incombe al lavoratore, che lamenti di avere subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, qualora egli abbia fornito la prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (Cass. 29 gennaio 2013, n. 2038; Cass. 20 febbraio 2006, n. 3650).
D'altro canto, dal dovere di prevenzione imposto al datore di lavoro dall'art. 2087 cod. civ. (che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva) non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile e innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che un danno si sia comunque verificato, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (Cass. 1 giugno 2004, n. 10510).
Ed in particolare è opportuno sottolineare la diversa modulazione di contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o da altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 25 maggio 2006, n. 12445).
Nel caso di specie, pure in assenza di norme specifiche per il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte con d.p.r. 10 febbraio 1982, n. 15), era tuttavia imposta l'adozione di misure idonee a ridurre il rischio di esposizione dei lavoratori alle polveri, in virtù dell'art. 21 d.p.r. 303/1956: facente obbligo al datore, nei lavori normalmente fonte di polveri di qualunque specie, di adottare provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne la diffusione nell'ambiente di lavoro (primo comma) e, in caso di impossibilità di sostituzione del materiale di lavoro polveroso, di adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi o muniti di sistemi di aspirazione e raccolta delle polveri per impedirne la dispersione (terzo comma); ed ancora, quando inattuabili tali misure tecniche di prevenzione e possibile per la natura del materiale polveroso, di provvedere all'inumidimento del materiale (quarto comma); infine, qualunque sistema adottato per la raccolta e l'eliminazione delle polveri, di impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro (quinto comma). Ed è stato accertato che nessuna di tali misure sia stata adottata da Nuova Sacelit s.r.l. (a pgg. 14 e 15 della sentenza).
Quanto poi al nono e al decimo motivo, rispettivamente relativi a nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia e carenza di motivazione sulla subordinata contestazione della determinazione del danno biologico e morale del tribunale, essi sono inammissibili.
La censura di omessa pronuncia sulla subordinata contestazione di determinazione del quantum del danno biologico e morale liquidato dal tribunale non comporta nullità della sentenza, ma si esaurisce, insieme con il relativo vizio di motivazione (pure contraddittorio per la concorrente deduzione con il difetto di pronuncia: Cass. s.u. 24 luglio 2013, n. 17931; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882), in una vaga deduzione di manifesta eccessività, senza neppure indicazione dell'importo contestato, con richiesta di riduzione ad equità.
Essa è pertanto assolutamente generica, non consentendo neppure di apprezzare quale sia stata l'allegazione non esaminata, con sua conseguente inammissibilità a norma dell'art. 366, n. 4 c.p.c.: dovendo il ricorso contenere, a pena di ciò appunto, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass. 17 luglio 2007, n. 15952; Cass. 6 giugno 2006, n. 13259; Cass. 8 febbraio 2006, n. 2811; Cass. 4 luglio 2003, n. 10576).
Dalle superiori argomentazioni discende coerente la reiezione del ricorso, con la condanna di Nuova Sacelit s.r.l. alla rifusione delle spese, liquidate come in dispositivo, a parti resistenti, secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna Nuova Sacelit s.r.l. alla rifusione, in favore dei resistenti, delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 10.000,00 per compenso professionale, oltre accessori di legge.