Cassazione Penale, Sez. 6, 07 maggio 2014, n. 18832 - Atti vessatori e reato di maltrattamenti
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MILO Nicola - Presidente -
Dott. DI STEFANO P. - Consigliere -
Dott. CAPOZZI Angelo - Consigliere -
Dott. DE AMICIS Gaetan - Consigliere -
Dott. PATERNO' RADDUSA B - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.F. N. IL (OMISSIS);
nei confronti di:
C.D. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 322/2012 GIP TRIBUNALE di ASTI, del 25/09/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. BENEDETTO PATERNO' RADDUSA;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. D'Ambrosio l'annullamento con rinvio (Ndr: testo originale non comprensibile) del fatto in (Ndr: testo originale non comprensibile);
Udito il difensore per l'imputato Avv. Mirante che si richiama alle memorie difensive depositate in atti.
FattoDiritto
1. S.F. propone ricorso per Cassazione avverso la sentenza con la quale il GUP presso il Tribunale di Asti ha dichiarato ex art. 425 c.p.p. non doversi procedere nei confronti di C.D. per i reati di maltrattamenti ex art. 572 e diffamazione continuata assertivamente posti in essere ai danni della ricorrente come da denunzia querela dalla stessa articolata.
2. La decisione assunta riposa sulla considerazione in forza alla quale gli elementi acquisiti non consentivano di ritenere configurabile il reato di maltrattamenti, perchè insussistente quel rapporto para-familiare che deve correre tra datore di lavoro e lavoratore (per ricondurre alla fattispecie incriminatrice contestata i comportamenti di emarginazione e discriminazione posti in essere dal primo ai danni del secondo nell'ambito lavorativo. Quanto alla diffamazione segnalando che nessuno dei soggetti sentiti a sommarie informazioni ha confermato i contenuti della denunzia querela sporta dalla persona offesa in punto alle affermazioni denigratorie poste a supporto della imputazione di cui al capo B.
3. Con il ricorso si lamenta vizio di motivazione assente e illogica e contraddittoria. Il Giudice avrebbe omesso di valutare correttamente tutti gli elementi di costante denigrazione, emarginazione minaccia posti in essere dal C. ai danni della lavoratrice in ragione del periodo di malattia e convalescenza giustificati dalla grave patologia che la aveva afflitta. Finendo per negare la sussistenza del rapporto di para familiarità, che deve connotare l'ambito lavorativo per giustificare la applicabilità dell'art. 572 c.p. (facendo leva su elementi quali la dislocazione della S. in una sede secondaria ed in altra città rispetto alla sede principale della impresa nonchè l'assenza di contatti diretti tra il datore di lavoro e la persona offesa, sistematicamente mediati dalle colleghe di quest'ultima, laddove sia il trasferimento che la emarginazione di rapporti diretti con il C. costituivano momenti della condotta illecita posta in essere dall'imputato in esito alla malattia della ricorrente. Piuttosto, proprio la collaborazione e la fiducia reciproca che in precedenza avevano connotato il rapporto lavorativo prima dell'insorgere della malattia costituivano il coerente presupposto della configurabilità del reato contestato.
In punto alla diffamazione poi la decisione resa riposava sulle deposizioni di soggetti diversi dalla G.F. la quale, sentita a sit, ebbe a confermare le frasi diffamatorie pronunziate dal C. ai danni della S., comunque ricavabili dal tenore delle ulteriori dichiarazioni erroneamente valutato dal GUP.
4. Con memoria depositata in atti, il C., tramite il difensore di fiducia, ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del gravame o procedersi alla reiezione dello stesso.
5. Il ricorso è infondato.
Nel provvedimento impugnato non si esclude che il C. possa aver tenuto comportamenti di emarginazione lavorativa nei confronti della persona offesa; piuttosto si è ritenuto che gli stessi non potevano comunque dare corpo al reato ipotizzato in linea con il costante orientamento di questa Corte in forza al quale da ultimo cfr Cassazione penale sez. 6 05/03/2014 nr 13088; Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012,1., Rv. 252609; Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, R. e altro, Rv. 252607) non ogni fenomeno di mobbing - e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio - attuato nell'ambito di un ambiente lavorativo, integri gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla L. n. 172 del 2012 è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare perchè connotato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, da una situazione di soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia; rapporto di soggezione anche psicologica che può assumere siffatte caratteristiche para-familiari in ragione delle peculiarità dell'attività lavorativa prestata ovvero delle dimensioni e della natura organizzativa del luogo di lavoro, cioè in situazioni nelle quali è possibile riconoscere quella sottoposizione all'altrui autorità ovvero quell'affidamento per l'esercizio di una professione o di un'arte, cui fa espresso riferimento l'art. 572 c.p.. In linea con tanto, dunque, il delitto in esame non è configurabile, anche in presenza di una chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche, ad esempio se la vicenda si sia verificata nell'ambito di una realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella "stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, (che determina una comunanza di vita assimilabile a quella (del) consorzio familiare" (così, in particolare, Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P.G. in proc. P. e altro, Rv. 244457), i cui interessi la norma incriminatrice de qua ha inteso proteggere.
7. Ne consegue che, guardando al caso di specie, se, per un verso, il GUP, nel negare le connotazioni soggettive del rapporto si richiama ad elementi in fatto che (per certi versi) finiscono con il sovrapporsi alle vessazioni lamentate dalla lavoratrice, per altro verso è incontrovertibile, guardando al tenore della vicenda per come emergente dalla complessiva motivazione del provvedimento nonchè dal gravame, che nel caso i contegni posti in essere dal C. siano riferibili ad ambiti lavorativi connotati da una ampia dimensione strutturale, organizzativa e soggettiva (società con sedi dislocate in ambiti territoriali diversi e con diversi dipendenti) che mal si attagliano alla ipotesi di reato contestata. E del resto la stessa difesa, nel lamentare la erronea motivazione addotta, altro non segnala che i profili di collaborazione e fiducia connotanti i detti rapporti tra lavoratore e datore prima della crisi sfociata nei fatti denunziati; elementi questi che colorano di norma ogni rapporto di dipendenza positivamente instaurato ma che non costituiscono indici di quel rapporto para-familiare sopra descritto utile a giustificare il reato contestato.
8. Quanto infine alla diffamazione, il controllo sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere in sede di legittimità non può avere per oggetto gli elementi acquisiti dal P.M., ma solo la giustificazione adottata dal giudice nel valutarli, e quindi la riconoscibilità del criterio prognostico adottato per escludere che l'accusa sia sostenibile in giudizio. E nel caso non sembra possa muoversi censura alcuna alla argomentazione sottesa alla decisione contestata considerando peraltro che il dato istruttorio eventualmente travisato perchè tralasciato dal GUP soffre nel caso di una assoluta genericità della relativa deduzione (non risulta allegata nè tantomeno trascritta la detta deposizione in sede di sit).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 8 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2014