Cassazione Penale, Sez. 4, 17 settembre 2014, n. 38100 - Delega di funzione e obblighi indelegabili del datore di lavoro
- Atmosfera esplosiva
- Datore di Lavoro
- Delega di Funzione
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
- Valutazione dei Rischi
Presidente Zecca – Relatore Massafra
Fatto
Ricorre per cassazione il difensore di fiducia di T.R. avverso la sentenza emessa in data 16.1.2013 dalla Corte di Appello di Trieste che, in parziale riforma di quella resa all'esito del giudizio abbreviato condizionato dal Tribunale di Udine Sezione distaccata di Palmanova, in data 11.3.2011, dichiarava non doversi procedere nei confronti del predetto in ordine alla contravvenzione ascrittagli (art. 4 comma 2, 88 quinquies e 88 novies d.lgs. n. 626 del 1994) perchè estinta per prescrizione confermando la condanna alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione sostituita con quella pecuniaria di € 1.520 di multa, in ordine al reato di lesioni colpose con violazione delle norme a tutela degli infortuni sul lavoro in danno in danno del dipendente G.Y. (fatto del 24.5.2006).
Secondo l'imputazione, il T., quale presidente del Consiglio di amministrazione della società Europolimeri spa con sede in San Giorgio di Nogaro avente ad oggetto la produzione di prodotti chimici, attività a rischio di incidente rilevante ai sensi dell'art 8 d.lgs 334/99 (c.d normativa anti Seveso) e P.F. quale delegato in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro in forza di delega a firma T. dd 6.12.2004 e successiva procura notarile dd 15 febbraio 2005 (entrambe non indicanti il budget di spesa a disposizione dei delegato, che patteggiava la pena) nonché quale gestore dello stabilimento ai sensi del d.lgs 334/1999 (analogamente, designazione priva di indicazione dei poteri di spesa), per colpa consistita nella violazione di norme in materia di prevenzione infortuni, cagionavano lesioni personali gravi (pericolo di vita e comunque durata superiore ai 40 giorni) al dipendente G. Y.: questi, assunto come operaio il 2.5.2006, dopo aver ricevuto il giorno stesso due sole ore di informazione-formazione, nel turno di notte del 24.5.2006 verso le ore 04.00 si trovava all'interno della ed area 200 dello stabilimento, intento a travasare dentro reattore R235, precisamente dal boccaporto posto sulla sommità del predetto reattore (contenente liquidi infiammabili, vale a dire formanti miscela di vapori infiammabili) un sacco in polietilene contenente polvere di DBTO (dibutilossido di stagno), anch'esso altamente infiammabile come evidenziato nelle schede tecniche dei prodotto ("la polvere forma miscele esplosive con l'aria", "in forma pulverulenta o granulare è possibile l'esplosione della polvere miscelata con aria. Se secca, può caricarsi elettronicamente per movimento vorticoso, trasporto pneumatico, travaso ecc..."), peraltro senza adeguati dispositivi di protezione individuale, e durante lo scuotimento del sacco, con movimento vorticoso della polvere e/o sfregamento della polvere stessa contro il sacco in polietilene, causa cariche elettrostatiche che fungevano da innesco dei vapori presenti all'interno del reattore, veniva investito da una fiammata, così riportando ustioni di 2° e 3° grado sul 60% del corpo (volto, torace e arti superiore).
In particolare, al T. era contestata la violazione dell'art. 4 comma 2, 88-quinques e 88-novies d.lgs. 19 settembre 1994 n. 626 per non aver redatto un documento di valutazione dei rischi derivanti dalle atmosfere esplosive, nonché le relative misure di prevenzione e protezione (in particolare, i documenti di valutazione del rischio atmosfere esplosive relativi all'impianto 200 non risultavano rappresentativi della situazione e delle modalità lavorative in atto al momento dell'evento lesivo e non contenevano la valutazione del rischio atmosfere esplosive nell'aria deposito materie prime), incombente di cui era specificamente onerato il T. e che non poteva essere oggetto di delega.
Mentre le ulteriori violazioni riportate nell'imputazione riguardavano il coimputato patteggiante P..
Il ricorrente deduce:
1. la violazione di legge in relazione all'art. 1, comma 4 dei D.lgs. n. 626/1994, assumendo che la norma doveva essere interpretata secondo il principio ad impossibilia nemo tenetur, dovendosi ritenere che la valutazione del rischio era indelegabile solo nel senso che il datore di lavoro, che nel caso di specie doveva occuparsi di quattro distinte aziende di cui una in Germania e l'altra negli USA), deve preoccuparsi che la valutazione sia fatta e non che non potesse in ciò avvalersi dell'opera di terzi (come appunto aveva fatto il T. che aveva affidato il compito alla Artes s.r.l., coadiuvata dal P.).
In caso di adesione all'interpretazione sposata dalla Corte territoriale, secondo la quale il datore di lavoro deve curare personalmente la valutazione dei rischi, dovendosi ritenere tale l'obbligo non sia in rerum natura possibile rispettare, invoca la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale per la valutazione dell'art. 1 comma 4 sopra richiamato, se esso sia, nella detta interpretazione adottata dai giudici di merito, rispettoso dell'art. 27 Cost.
2. La carenza motivazionale in ordine al motivo di appello con il quale veniva esposta una diversa interpretazione dell'art. 1 del d.lgs 626/94.
3. La contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione laddove la Corte, dopo avere affermato che l'obbligo di valutazione dei rischi è indelegabile, subito dopo afferma che il datore di lavoro, che sia consapevole delle proprie competenze e conoscenze, deve ricorrere all'ausilio di professionisti specializzati.
4. Il vizio motivazionale laddove la Corte territoriale, nel rigettare il secondo motivo d'appello, aveva tratto dalle prescrizioni presenti sulla scheda di sicurezza del prodotto (tipo di DPTO adoperato per la lavorazione nella quale era rimasto ferito il lavoratore) conseguenze illogiche ed immotivate.
5. La violazione di legge, ed in particolare dell'art. 43 c.p., per aver il giudice a quo ricostruito la regola cautelare sulla base di conoscenze acquisite ex post anziché in base a valutazioni di prevedibilità ed evitabilità effettuate ex ante.
6. La violazione di legge ed in particolare dell'art. 43 c.p., per aver la Corte territoriale escluso l'applicabilità del principio dell'affidamento.
Diritto
Il ricorso è infondato e va respinto.
Sub 2. Si deve evidenziare che (Cass. pen. Sez. IV, 24.10.2005, n. 1149, Rv. 233187) nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata e ravvisare, quindi, la superfluità delle deduzioni suddette. Ne consegue che la diversa interpretazione offerta dalla difesa dell'art. 1 del D.lgs 626/94, deve ritenersi sia stata implicitamente disattesa dalla Corte territoriale.
Sub 1, 4 e 5. Premesso che in tema di prevenzione infortuni ed igiene del lavoro, sussiste continuità normativa tra le fattispecie penali in materia di luoghi di lavoro (prima previste dall'art. 32, comma primo, lett. b) D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, dall'art. 13, comma decimo, d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 e dagli artt. 20 e 21, d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303) e quelle, più gravemente punite, oggi contemplate per il datore di lavoro dall'art. 68, comma primo, lett. b) D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (recante "Attuazione dell'art. 1 L. 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro") (Cass. pen. Sez. III, n. 41367 dei 10.10.2008 Rv. 241536), la sentenza impugnata (pagg. 17 e 18), ha richiamato l'art. 4 ter del d.lgs. n. 626 del 1994 laddove stabilisce che il datore di lavoro non può delegare gli adempimenti previsti all'art. 4, commi 1, 2, 4 lett. a) e 11 primo periodo e l'art. 4 D.lgs. cit. che precisa che spetta al datore di lavoro effettuare la valutazione dei rischi ed elaborare il documento di valutazione dei rischi indicando le relative misure di prevenzione e protezione e, in ossequio all'orientamento di questa Corte, ha correttamente ritenuto che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro in virtù della sopra richiamata normativa (oggi sostituita dall'art. 17 D.Lgs. n. 81 del 2008) il datore di lavoro non può delegare, neanche nell'ambito d'imprese di grandi dimensioni, l'attività di valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi (Cass. pen. Sez. IV, n. 4123 del 10.12.2008, Rv. 242480, citata dal giudice a quo).
E come correttamente ha ritenuto la Corte territoriale, il rischio era insito nella pericolosità fisica e chimica del prodotto DBTO (in forma di polvere bianca) e nelle modalità di lavorazione (l'operazione di sversamento poteva determinare, come appunto accadde, la formazione di polveri che miscelate con l'aria contenuta nel reattore e idonee a caricarsi elettrostaticamente per effetto dello stesso movimento di sversamento e connesso strofinio delle polveri contro la superficie del sacco potevano provocare una scintilla sufficiente ad innescare, con la potente miscela di sostanze infiammabili già presenti nel reattore, la fiammata ed il conseguente infortunio) che avrebbero dovuto essere considerate, e non lo erano state, in una appropriata scheda di valutazione dei rischi e di adozione delle relative precauzioni, dal datore di lavoro al quale è inibito delegarle ad altri: tale divieto imponendosi anche a tutela della salute ed incolumità della popolazione residente nei dintorni dell'azienda. Ne è conseguito insomma l'omesso l'inserimento nel documento dei rischi di indicazioni previste dalla letteratura mondiale in materia.
Sub 3. "II responsabile del servizio di prevenzione e protezione è una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi ed elaborazioni sono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo è chiamato a rispondere delle eventuali negligenze del primo" (Cass. pen. Sez. IV, n. 1841 del 16.12.2009, Rv. 246163). Infatti il ricorso all'ausilio di professionisti specializzati non implica alcuna possibilità di scaricare sugli stessi ogni responsabilità di cui è espressamente onerato il datore di lavoro ma significa solo che questi può avvalersi, facendole proprie, delle segnalazioni, raccomandazioni, consigli precauzionali e prevenzionali espressi dagli specialisti medesimi in relazione alla specifica attività lavorativa per la quale è stato sollecitato il loro intervento. È utile ricordare, in proposito, ulteriori principi affermati da questa Corte in tema di delega del datore di lavoro.
È vero che nelle imprese di grandi dimensioni si pone la delicata questione, attinente all'individuazione del soggetto che assume su di sè, in via immediata e diretta, la posizione di garanzia, la cui soluzione precede, logicamente e giuridicamente, quella della (eventuale) delega di funzioni. In imprese di tal genere, infatti, non può individuarsi questo soggetto, automaticamente, in colui o in coloro che occupano la posizione di vertice, occorrendo un puntuale accertamento, in concreto, dell'effettiva situazione della gerarchia delle responsabilità all'interno dell'apparato strutturale, così da verificare la eventuale predisposizione di un adeguato organigramma dirigenziale ed esecutivo il cui corretto funzionamento esonera l'organo di vertice da responsabilità di livello intermedio e finale (così, esattamente, Sezione IV, 9.7. 2003, Boncompagni; Sezione IV, 27.3. 2001, Fornaciari, nonché Sezione IV, 26.4.2000, Mantero). In altri termini, nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire senz'altro all'organo di vertice la responsabilità per l'inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre apprezzare l'apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all'interno di questo, al responsabile di settore.
Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l'addebitare all'organo di vertice quasi una sorta di responsabilità oggettiva rispetto a situazioni ragionevolmente non controllabili, perché devolute alla cura ed alla conseguente responsabilità di altri. È altrettanto vero che il problema interpretativo ricorrente è sempre stato quello della individuazione delle condizioni di legittimità della delega: questo, per evitare una facile elusione dell'obbligo di garanzia gravante sul datore di lavoro, ma, nel contempo, per scongiurare il rischio, sopra evidenziato, di trasformare tale obbligo in una sorta di responsabilità oggettiva, correlata in via diretta ed immediata alla posizione soggettiva di datore di lavoro. Sul punto, costituisce affermazione consolidata che il datore di lavoro è il primo e principale destinatario degli obblighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione antinfortunistica. Ciò dovendolo desumere, anche a non voler considerare gli obblighi specifici in tal senso posti a carico dello stesso datore di lavoro dal decreto legislativo in commento, dalla "norma di chiusura" stabilita nell'art. 2087 c.c., che integra tuttora la legislazione speciale di prevenzione, imponendo al datore di lavoro di farsi, in quanto tale, garante dell'incolumità dei lavoratore.
Va, quindi, ancora una volta, ribadito che il datore di lavoro, proprio in forza delle disposizioni specifiche previste dalla normativa antinfortunistica e di quella generale di cui all'art. 2087 c.c., è il "garante" dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale del lavoratore, con la già rilevata conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo gli viene addebitato in forza del principio che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo" (art. 40 c.p., comma 2).
Altrettanto consolidato è il principio che la delega non può essere illimitata quanto all'oggetto delle attività trasferibili. In vero, pur a fronte di una delega corretta ed efficace, non potrebbe andare esente da responsabilità il datore di lavoro allorché le carenze nella disciplina antinfortunistica e, più in generale, nella materia della sicurezza, attengano a scelte di carattere generale della politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza (v., tra le altre, Sez. IV, 6.2.2007, Proc. gen. App. Messina ed altro in proc. Chirafisi ed altro).
È da ritenere, quindi, senz'altro fermo l'obbligo per il datore di lavoro di intervenire allorché apprezzi che il rischio connesso allo svolgimento dell'attività lavorativa si riconnette a scelte di carattere generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato alla sicurezza. Tali principi hanno trovato conferma nel D.Lgs. n. 81 dei 2008, che prevede, infatti, gli obblighi del datore di lavoro non delegabili, per l'importanza e, all'evidenza, per l'intima correlazione con le scelte aziendali di fondo che sono e rimangono attribuite al potere/dovere del datore di lavoro (v. art. 17).
Trattasi: a) dell'attività di valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza al fine della redazione del documento previsto dal cit. Decreto legislativo, art. 28, contenente non solo l'analisi valutativa dei rischi, ma anche l'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate; nonché b) della designazione dei responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (RSPP). L'eccezione di incostituzionalità, formulata n via residuale sub 1, è manifestamente infondata, dal momento che l'art. 27 Cost. non implica alcuna limitazione ovvero predisposta interpretazione delle norme penali.
Sub 6. Non può parlarsi di affidamento in tema di causalità, quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione, con la conseguenza che qualora, anche per l'omissione del successore, si produca l'evento che una certa azione avrebbe dovuto e potuto impedire, "esso avrà due antecedenti causali, non potendo il secondo configurarsi come fatto eccezionale, sopravvenuto, sufficiente da solo a produrre l'evento" (Cass. pen. Sez. IV, n. 692 del 14.11.2013, Rv. 258127).
E' appena il caso di rilevare che il termine prescrizionale del reato contestato (di anni sette e mesi sei) non è ad oggi decorso poiché, a causa del rilevato periodo di sospensioni di un anno, sei mesi e giorni 24, verrà a scadere il 25.5.2015. Consegue il rigetto delle ricorso e, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dl ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 3.6.2014.