Cassazione Penale, Sez. 4, 11 novembre 2014, n. 46437 - Caduta mortale e violazioni di due coniugi in materia di sicurezza
- Datore di Lavoro
- Dirigente e Preposto
- Dispositivo di Protezione Individuale
- Informazione, Formazione, Addestramento
- Lavoratore e Comportamento Abnorme
- Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Presidente -
Dott. PICCIALLI Patrizia - rel. Consigliere -
Dott. ZOZO Liana Maria T. - Consigliere -
Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere -
Dott. IANNELLO Emilio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
S.E. N. IL (Omissis);
C.M.A. N. IL (Omissis);
avverso la sentenza n. 411/2010 CORTE APPELLO di POTENZA, del 19/04/2012;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/09/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Uditi i difensori Avv.ti (Ndr: testo originale non comprensibile) del Foro di Potenza per S. ed Antonio (Ndr: testo originale non comprensibile) che hanno concluso per l'accoglimento dei ricorsi.
Fatto
Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Potenza confermava quella di primo grado con la quale S.E. e C.M. A. erano stati ritenuti responsabili del reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore O.G. (fatto risalente all'(Omissis)) e, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, condannati alla pena di anni due mesi sei di reclusione.
Il reato veniva contestato alla S., in qualità di rappresentante legale della ditta B. per conto della quale lavorava l'operario deceduto ed al C., nella qualità di datore di lavoro di fatto dell' O..
Dal capo di imputazione e dalla sentenza impugnata emerge che il giorno del'infortunio, O.G. mentre si trovava a livello del sesto piano a smontare i singoli elementi metallici del ponteggio - per poi rimontarli a ridosso di altra parte - e con la mano destra cercava di afferrare il braccio della carrucola, distante circa 70 cm, che doveva trasportare l'elemento al piano terra, si sporgeva troppo, e, perso l'equilibrio, precipitava al suolo da un'altezza di metri 14,33, decedendo quasi nella immediatezza.
Ad entrambi gli imputati, legati da rapporto di coniugio, veniva contestato di avere omesso di vigilare e di pretendere che il lavoratore utilizzasse i presidi antinfortunistici, in particolare la cintura di sicurezza con bretelle collegate alla fune di trattenuta.
Propongono ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, entrambi gli imputati.
S.E. deduce la carenza della motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità. Si sostiene che i giudici di merito non avevano tenuto conto del legittimo affidamento dell'imputata sulla condotta del coimputato, responsabile della sicurezza e gestore effettivo dell'impresa, come accertato nella sentenza impugnataci richiama il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299 che ha codificato il principio di effettività in base al quale occorre fare riferimento alle mansioni disimpegnate in concreto e non alla qualificazione astratta del rapporto.
C.M.A. articola sei motivi.
Con il primo motivo lamenta la contraddittorietà della motivazione laddove la Corte di merito aveva attribuito al C. la qualità di dirigente di fatto che lo stesso avrebbe assunto mantenendo una autonomia decisionale e gestionale inerente all'attività della ditta, mentre lo stesso, oltre ad avere assunto il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione era addetto, nella qualità di impiegato tecnico, alle funzioni di raccordo tra la società ed i lavoratori.
Con il secondo deduce la manifesta illogicità della motivazione che aveva individuato un profilo di colpa nella omessa formazione ed informazione del lavoratore senza consentire l'escussione del teste a difesa sul punto e senza tener conto che l' O. era stato fornito di idonea cintura di sicurezza che aveva utilizzato nei giorni precedenti all'incidente.
Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui aveva escluso l'abnormità della condotta del lavoratore, che avrebbe deciso, secondo la tesi difensiva, di smontare il ponteggio verso la fine della giornata lavorativa senza aver ricevuto alcuna disposizione in tal senso ma solo quella di stendere le reti al nuovo impalcato, montato in sede diversa rispetto a quella in cui si era verificato l'incidente. Tale circostanza sarebbe stato dimostrata dal fatto che nell'occasione dell'incidente non vi fosse nessuno dei due responsabili del cantiere.
Con il quarto motivo si lamenta che la percentuale di concorso di colpa dell' O., fissata al 10% era troppo bassa avuto riguardo alla condotta in concreto tenuta dal lavoratore.
Con il quinto motivo si duole della mancanza assoluta di motivazione in merito alla richiesta del riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante.
Con il sesto motivo lamenta l'insufficienza della motivazione in merito alla invocata modifica delle statuizioni civili.
Diritto
I ricorsi sono infondati.
La sentenza impugnata non presenta vuoti motivazionali nè è caratterizzata dalle asserite illogicità e violazioni di legge.
Entrambi gli imputati hanno contestato il giudizio di responsabilità con argomentazioni dirette sia a valorizzare reciprocamente la posizione di garanzia dell'altro sia l'abnormità della condotta del lavoratore (sotto quest'ultimo profilo le censure sono proposte nel ricorso del C.).
Quanto al primo profilo, la Corte di appello ha tenuto conto degli elementi acquisiti e ha affermato, con motivazione conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità, la sussistenza della posizione di garanzia di entrambi gli imputati: la S. come legale rappresentante della ditta B., alle cui dipendenze era il lavoratore deceduto ed il C., legato alla prima da rapporto di coniugio, come datore di lavoro di fatto, in conformità agli elementi probatori emergenti dagli atti processuali.
Il nucleo della colpa addebitata agli imputati è costituito dalla non appropriata organizzazione aziendale, che trascurava la sicurezza dei lavoratori con riguardo alla situazione di pericolo determinata dalla omessa istruzione dei dipendenti sull'uso delle cinture di sicurezza e sulla omessa verifica dell'effettivo uso delle predette cinture da parte dei lavoratori. E' significativo in tal senso quanto sottolineato nella sentenza impugnata sulla condotta del C., il quale, in occasione "dei rari e frettolosi sopralluoghi in cantiere", allorchè sorprendeva l' O. privo delle cinture di sicurezza, si allontanava dal cantiere, limitandosi a formulare una semplice raccomandazione.
La motivazione è in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia (v. Sezione 4, 9 febbraio 2012, Pezzo, rv. 253859; 3 novembre 2011, P.G. in proc. di Carlantonio ed altro, rv. 252149).
Nel contesto della sicurezza del lavoro sono, infatti, individuabili diverse posizioni di garanzia e quindi di responsabilità collegate ai diversi rischi che si presentano in relazione alle differenti situazioni lavorative.
Certamente la prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro, il quale ha la responsabilità della organizzazione aziendale o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa, come definito dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 2, lett. b), in vigore dal 15 maggio 2008, che ha recepito la definizione contenuta nel precedente assetto normativo e quella fatta propria dalla giurisprudenza.
Di rilievo, l'obbligo imposto al datore di lavoro di fornire al prestatore d'opera dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui questi è destinato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività, nonchè l'ulteriore obbligo di promuovere la cooperazione ed il coordinamento ai fini dell'attuazione delle misure precauzionali, attraverso l'elaborazione di un unico documento di valutazione dei rischi da allegare al contratto d'opera che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non sia possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze.
In tal senso, il datore di lavoro è espressamente onerato di formare il lavoratore all'impiego delle attrezzature e di informarlo dei rischi cui questi è esposto durante il relativo uso (cfr. D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 73). Si tratta di una specificazione degli obblighi del datore di lavoro di informazione, formazione e addestramento di cui agli artt. 36 e 37 del decreto cit. (a loro volta richiamati, in termini ancora più generali, anche dal precedente art. 18, comma 1, lett. l)).
Di grande interesse, e rilevante nel caso in esame, è l'art. 299 del citato decreto (esercizio di fatto di poteri direttivi), che contiene una delle più importanti novità introdotte nel sistema penale. La norma prevede, infatti, che titolari delle posizioni di garanzia individuate nell'art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e) debbono essere considerati anche i soggetti i quali, pur sprovvisti di regolare investitura, esercitino in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi menzionati.
Le qualifiche richiamate sono quelle di datore di lavoro, dirigente e preposto, già nominate, senza però essere distintivamente delineate, nel D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4 (oggi abrogato) e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 bis, che incarnano distinte funzioni e distinti livelli di responsabilità (v. Sezione 4, 28 giugno 2007, Bezzi ed altro e 8 aprile 2008, De Santis ed altri).
Alla luce di tali principi va rilevato che la sentenza di merito coglie efficacemente, alla luce di significative acquisizioni probatorie, l'esistenza all'interno del cantiere, ove si è verificato l'incidente, di un grave e concreto rischio afferente l'omessa informazione dei lavoratori e l'omessa adozione da parte degli stessi delle cinture di sicurezza sui ponteggi, di allarmante gravità, soprattutto considerata la necessità di una continuata attività lavorativa di smontaggio e montaggio del ponteggio in altra zona, stante l'accertata insufficienza delle strutture rispetto alle esigenze del cantiere. Tale rischio, al momento del sinistro, non era adeguatamente governato e ciò ha avuto una sicura efficienza causale rispetto al sinistro.
In questa prospettiva i motivi di ricorso in punto di responsabilità sono entrambi infondati.
Quanto alla S., è agevole arrivare alla conclusione, alla luce dei principi sopra esposti, che l'inadempimento all'obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori nonchè a quello di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa, investiva, indubbiamente, la responsabilità del datore di lavoro.
Nulla è emerso, del resto, che possa escludere la posizione di garanzia che fonda l'imputazione causale ex art. 40 cpv. c.p., avendo i giudici di merito escluso che fosse operante una delega di funzioni nei confronti di alcuno.
Nè l'asserita gestione di fatto della società da parte del coniuge della S., coimputato in questo procedimento, può valere come esonero di responsabilità della medesima.
I giudici di merito hanno ritenuto che costui si ingerisse attivamente nella gestione della sicurezza del lavoro e che la circostanza, emergente dal documento di valutazione dei rischi, che lo stesso fosse anche stato nominato responsabile del servizio di prevenzione e protezione costituisse ulteriore conferma della gestione nella sostanza della impresa.
La motivazione, che pure ha troppo sinteticamente sovrapposto i ruoli separati di garante della sicurezza e di responsabile del servizio di prevenzione ( gravato di ruolo consultivo nei confronti del datore di lavoro), è sostanzialmente corretta laddove evidenzia le funzioni gestionali direttamente svolte dall'imputato, il quale viene definito il vero dominus dell'impresa, facendo carico sul medesimo le direttive organizzative ed operative sul cantiere e gli accordi con le imprese fornitrici.
Ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 299, il C. ha acquisito la figura di garante a seguito dell'esercizio in concreto di poteri giuridici spettanti al dirigente che, nella gestione del rischio, si colloca in un livello di responsabilità intermedio ed è colui che dirige appunto, ad un qualche livello, l'attività produttiva, un suo settore o una sua articolazione: tale soggetto non porta le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, ma ha poteri posti ad un livello inferiore, solitamente rapportati anche all'effettivo potere di spesa; si può definire l'alter ego del datore di lavoro, nell'ambito delle competenze a lui attribuite e nei limiti dei poteri decisionali e di spesa conferitigli.
Per mera completezza espositiva va rilevato che il preposto si colloca in un terzo livello di responsabilità ed è colui che è tenuto a sovrintendere alle attività, svolgendo, quindi, funzioni di supervisione e controllo sulle attività lavorative svolte.
Come il datore di lavoro, anche il dirigente ed il preposto sono infatti indubbiamente destinatari diretti (iure proprio) delle norme antinfortunistiche, prescindendo da una eventuale "delega di funzioni" conferita dal datore di lavoro. Che si tratti di una responsabilità diretta lo si ricava, del resto, dal disposto del D.Lgs. n. 81 del 2008, artt. 55 e 56, laddove, rispettivamente per il dirigente e per il preposto, sono stabilite le sanzioni per l'inosservanza alla normativa precauzionale di cui sono direttamente onerati.
Va sottolineato che la previsione di cui al citato art. 299 ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. Ne deriva che la codificazione della c.d. "clausola di equivalenza" avvenuta con il predetto D.Lgs. n. 81 del 2008 non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all'introduzione del citato articolo, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale (v. Sezione 4, 7 febbraio 2012, Corsi, rv. 252676).
Parimenti sono infondate le censure che rimarcano la condotta colposa del lavoratore per dedurne che essa costituisca fattore eccezionale interruttivo del nesso causale.
Come evidenziato dal giudice di merito, il lavoratore, che non indossava la cintura di sicurezza, stava smontando il ponteggio alla fine della giornata lavorativa per poi rimontarlo in altra zona dell'edificio e tale sequela delle fasi lavorative era abituale per l'insufficienza dei ponteggi ed era a conoscenza del C., il quale, sia pure sporadicamente, accedeva al cantiere.
Con motivazione logica e coerente è stato, pertanto, escluso che l'iniziativa di salire sul ponteggio fosse stata assunta estemporaneamente ed imprevedibilmente dal lavoratore ed è stato ritenuto che la condotta posta in essere dall'operaio fosse del tutto compatibile con le mansioni affidategli.
Siffatte conclusioni sono state fondate sulla valorizzazione delle plurime e convergenti dichiarazioni testimoniali di altri lavoratori presenti nel cantiere.
Ritiene il Collegio che i giudici di merito abbiano fatto corretta applicazione della legge e dei principi consolidati di questa Corte, secondo i quali è da escludere che presenti le caratteristiche dell'abnormità il comportamento, pur imprudente, del lavoratore che non esorbiti completamente dalle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli e mentre vengono utilizzati gli strumenti di lavoro ai quali è addetto, essendo l'osservanza delle misure di prevenzione finalizzata anche a prevenire errori e violazioni da parte del lavoratore, trattandosi di comportamento "connesso" all'attività lavorativa o da essa non esorbitante e, pertanto, non imprevedibile (cfr., per utili riferimenti, tra le altre, Sezione 4, 16 febbraio 2012, n. 10712, Mastropietro).
Con la sentenza della Sezione 4, 10 novembre 2009, parte civile Iglina ed altro in proc. Brignone ed altri si è esteso il concetto di "abnormità", ammettendo che questo possa ravvisarsi anche in situazioni e in comportamenti "connessi" con lo svolgimento delle mansioni lavorative. In tale occasione, la Corte di legittimità, riprendendo alcuni spunti giurisprudenziali (cfr. Sezione 4, 3 giugno 2004, Giustiniani; nonchè, Sezione 4, 27 novembre 1996, Maestrini), ha puntualmente precisato che il carattere dell'abnormità può essere attribuito non solo alla condotta tenuta in "un ambito estraneo alle mansioni" affidate al lavoratore e, pertanto, concettualmente al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, ma anche a quella che pur "rientrando nelle mansioni proprie" del lavoratore sia consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente lontano dalle pur ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nell'esecuzione del lavoro.
Ciò che conta, in sostanza, è la considerazione della prevedibilità/imprevedibilità della condotta del lavoratore, che può presentarsi negli stessi termini anche quando si discuta di attività strettamente connesse con lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Da un'altra angolazione, strettamente connessa alla prima, la condotta abnorme del lavoratore può ritenersi interruttiva del nesso di condizionamento quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è "interattivo" non perchè eccezionale ma perchè eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (v. Sezione 4, 23 novembre 2012, n. 49821, Lovison ed altro).
Per converso, l'ipotesi tipica di comportamento "abnorme" è quella del lavoratore che provochi l'infortunio ponendo in essere, colposamente, un'attività del tutto estranea al processo produttivo o alle mansioni attribuite, realizzando in tal modo un comportamento "esorbitante" rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile (ed evitabile) per il datore di lavoro (come, ad esempio, nel caso che il lavoratore si dedichi ad un'altra macchina o ad un altro lavoro, magari esorbitando nelle competenze attribuite in esclusiva ad altro lavoratore) v. in tal senso, in epoca risalente la casistica di interesse,Sezione 4, 13 novembre 1984, Accettura, rv. 172160; 7 maggio 1985, Bernardi, rv. 171215; 18 marzo 1986, Amadori, rv. 174222; 8 novembre 1989, Dell'Oro, rv. 183199; 11 febbraio 1991, Lapi, rv. 188202; 25 settembre 1995, Dal Pont; 14 giugno 1996, Ieritano, rv. 206012; 10 novembre 1999, Addesso, rv. 183633; 25 settembre 2001, Intrevado, rv. 221149; ed in epoca più recente 21 ottobre 2008, n. 40821, Petrillo; 16 febbraio 2012, n. 10712, Mastropietro).
Il percorso di rigore qui patrocinato, perchè l'unico coerente con i principi della responsabilità personale colpevole, evita di trasformare la posizione di garanzia in una sorta di fonte automatica di responsabilità oggettiva, basata solo sulla "posizione" giuridica del soggetto, e consente, nel contempo, di attribuire il giusto rilievo alla nozione del "comportamento abnorme" del lavoratore che, come tale, non può che essere concettualmente "residuale" ed eccezionale proprio perchè rilevante per recidere il nesso di causalità ex art. 41 c.p., comma 2, mentre la prevalente, tralaticia interpretazione finisce con il trasformarla quasi in una vuota affermazione retorica tanto che è evocata, pressochè sempre, in una prospettiva negativa, ossia per affermare, e mai per escludere, la responsabilità del datore di lavoro.
Il caso in esame, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore dell'imputato, per quanto sopra esposto in fatti, non consente soluzioni liberatorie per il datore di lavoro, sia pure "di fatto", proprio alla luce della richiamata interpretazione giurisprudenziale.
La sentenza impugnata ha infatti correttamente individuato, alla stregua delle risultanze istruttorie, non solo le norme cautelari violate da parte del datore di lavoro, ma ha anche escluso lo svolgimento da parte del lavoratore di un'attività stravagante rispetto alle proprie specifiche mansioni, tale cioè da rilevare come causa interruttiva del nesso eziologico.
Del tutto destituita di fondamento è la doglianza afferente la indicata percentuale di concorso di colpa della vittima nella produzione dell'evento.
Sul punto va ricordato che le statuizioni del giudice di merito in ordine alla quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe dell'imputato e della vittima costituiscono apprezzamento di fatto incensurabile in Cassazione, laddove la sentenza impugnata formuli il proprio giudizio in base alla valutazione causale del comportamento colposo di ciascuno dei corresponsabili (v. da ultimo, Sezione 4, 20 giugno 2013, p.c. e Sparapani, rv. 258083).
Siffatta valutazione è stata compiuta dai giudici di merito con motivazione incensurabile, rimarcando l'evidente preponderanza della colpa dei prevenuti, per avere attribuito al lavoratore compiti e mansioni lavorative in difetto delle più elementari norme di sicurezza rispetto a quella della vittima, individuata nell'avere omesso di indossare la cintura, che in ogni caso non avrebbe consentito di evitare l'evento, mancando la fune di scorrimento cui agganciare la cintura, al fine di consentire lo spostamento sul ponteggio.
Anche il motivo afferente la mancanza di motivazione in merito alla richiesta del riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante è infondato.
Sul punto si richiama la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. da ultimo, Sezione 3, 22 novembre 2013, Trovato, rv. 258147) secondo la quale, in tema di concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti, se la sentenza di primo grado abbia adeguatamente e correttamente adempiuto all'obbligo di motivazione in ordine al giudizio di comparazione tra le stesse, e l'imputato abbia in sede di gravame reiterato la richiesta di prevalenza delle attenuanti sulla base dei medesimi elementi ritenuti inidonei nella sentenza impugnata, i giudici di appello non sono tenuti alla esposizione analitica delle ragioni che li hanno indotti a confermare l'equivalenza piuttosto che la prevalenza essendo sufficiente, in tal caso, il richiamo anche implicito a quelle esposte dai primi giudici.
Il principio è applicabile al caso in esame in cui il giudice di primo grado, nel motivare il diniego del giudizio di prevalenza, aveva fatto esplicito riferimento alla gravità complessiva dell'episodio ed ai molteplici aspetti di colpa ravvisabili nella condotta degli imputati.
Infondate sono anche le censure afferenti le statuizioni civili. In proposito va rilevato che secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte. Il provvedimento di liquidazione della provvisionale non è ricorribile per cassazione, in quanto non ha valore vincolante di giudicato, in sede civile, essendo destinato ad essere travolto - per il suo carattere di provvisorietà e per la sua natura meramente delibativa - dalle statuizioni definitive sul risarcimento del danno (v. da ultimo, Sezione 5, 25 maggio 2011, Mapelli ed altri, rv. 250934).
Per le considerazioni svolte i ricorsi devono essere rigettati.
Al rigetto consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2014