Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 luglio 2014, n. 16495 - Pulizia dei treni e delle stazioni. Onere del lavaggio degli indumenti di lavoro
... Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell'attività lavorativa prestata ed al rimborso delle spese sostenute, per la pulizia degli indumenti di protezione, forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che, sostituita di diritto dalle stesse norme inderogabili, concorre a conformare i contratti individuali di lavoro, sui quali si fondano i diritti alla retribuzione ed al rimborso spese dei lavoratori. Ne consegue che quand'anche la contrattazione collettiva avesse inteso addossare ai lavoratori le spese di lavaggio dei DPI (il che nella specie deve escludersi, perchè prevedere che il lavoratore debba avere cura della buona conservazione degli indumenti non significa di per sè che debba provvedere al loro lavaggio), una siffatta previsione, siccome contraria a norme imperative, non potrebbe comunque esonerare il datore di lavoro dall'onere delle spese di cui qui si controverte.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STILE Paolo - Presidente -
Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - rel. Consigliere -
Dott. BALESTRIERI Federico - Consigliere -
Dott. DORONZO Adriana - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 23206-2009 proposto da:
G.G. S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 504, presso lo studio dell'avvocato IELPO NICOLA, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrente -
contro C.A. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI
tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BERTOLONI ANTONIO N. 27, presso lo studio dell'avvocato Omissis, che li rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrenti -
e contro S.G., + ALTRI OMESSI;
- intimati -
avverso la sentenza n. 1208/2008 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 07/11/2008 R.G.N. 421/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2014 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;
udito l'Avvocato Omissis;
udito l'Avvocato Omissis;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di Milano, accoglieva, nei limiti della prescrizione decennale, la domanda dei lavoratori in epigrafe, proposta nei confronti della società G.G., della quale erano stati dipendenti con mansioni di pulizia dei treni e delle stazioni, avente ad oggetto la condanna di controparte al pagamento dell'importo corrispondente al valore della prestazione resa per provvedere al lavaggio degli indumenti da lavoro forniti dal datore di lavoro che costituivano l'unica protezione individuale contro agenti atmosferici, chimici, biologici, sostanze nocive, tossiche o corrosive.
La Corte del merito, accertato che i lavoratori erano esposti nell'espletamento delle loro mansioni ad agenti esterni, riteneva che la tuta di cotone fornita dal datore di lavoro fosse da considerare dispositivo di protezione individuale in quanto rappresentante pur sempre uno schermo verso agenti patogeni e, conseguentemente, riconosceva, nei limiti della prescrizione decennale e a titolo di risarcimento del danno per l'eseguito lavaggio da parte dei lavoratori delle menzionate tute, un importo equivalente a un' ora di lavoro straordinario diurno a settimana.
Avverso questa sentenza la società G.G. ricorre in cassazione sulla base di sei censure, illustrate da memoria.
Resistono con controricorso, illustrato da memoria, i lavoratori ad eccezione di S.G., M.V., Ma. M., e R.M.S. che non svolgo attività difensiva.
La società G.G. deposita osservazioni scritte sulle conclusioni del Pubblico Ministero.
Diritto
Con il primo motivo la società, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e art. 115 c.p.c., pone il seguente interpello: "se a norma degli artt. 2727 e 2729 c.c. e art. 115 c.p.c., nella controversia in atti, possa essere assunta come fatto notorio l'esistenza di rischi per la salute dei lavoratori causati da non meglio identificati agenti patogeni presenti nello svolgimento delle mansioni, indicati nella sentenza impugnata, ovvero se ciò esorbiti dalle nozioni di comune esperienza e debba essere accertato in fatto a mezzo degli ordinari strumenti processuali, segnatamente a mezzo di CTU sanitaria che accerti tecnicamente se le mansioni espletate abbiano esposte necessariamente il lavoratore agli agenti patogeni e se perciò fosse necessario dotarli sempre e contemporaneamente di tuta DPI".
Con la seconda censura la società ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 - 43, D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 377 - 379 e art. 39 CCNL 24 aprile 2001 del settore degli addetti alle Imprese fornitrici di servizi operanti nel settore ferroviario e dei trasporti anche con riferimento all'art. 1362 c.c., formula il seguente interpello:"se ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 40 - 43D.P.R. n. 547 del 1955, artt. 377 - 379 e art. 39 Con coll. citati in rubrica, nella presente fattispecie siano DPI gli indumenti forniti ai sensi dell'art. 39 Con. Coll. lett. a) e se, viceversa, siano semplici indumenti con funzione distintiva e di decoro. Se nella presente fattispecie qualsiasi indumento utilizzato dai lavoratori per il solo fatto che venga indossato durante un'attività a rischio di contatto con agenti patogeni costituisca DPI a prescindere dalle caratteristiche e dalla qualità di protezione intrinseche dell'indumento stesso ed anzi anche quando ne sia accertata la inidoneità o se, viceversa, sia necessario che gli indumenti possiedano le necessarie qualità tecniche per espletare la funzione di DPI. Se a mente dei succitati articoli, sempre a mente dei succitati articoli, il lavaggio e la stiratura di indumenti privi dei requisiti tecnici per potere svolgere la funzione di DPI rientrino nel concetto di manutenzione di dispositivo di protezione individuale e come tali debbano essere a carico del datore di lavoro, ovvero se tali attività rientrino nel concetto di cura e come tali rimangano ex art. 39 CCNL di categoria a carico del lavoratore".
Con il terzo motivo la società, allega violazione dell'art. 39 CCNL 24 aprile 2001 del settore degli addetti alle Imprese fornitrici di servizi operanti nel settore ferroviario e dei trasporti anche con riferimento all'art. 1362 c.c. e difetto totale di motivazione.
Indica la società quale "punto decisivo" la "inesistenza del diritto dei lavoratori di vedersi risarcite le prestazioni di mero lavaggio e stiratura di indumenti privi di caratteristiche protettive ma utilizzati in prestazioni che presentino rischi e di esposizione agli agenti patogeni tenendo conto dell'accollo in capo al lavoratore dell'obbligo di curare la buona conservazione degli indumenti di lavoro originariamente forniti a mente dell'art. 39 CCNL lett. a)".
Formula la società, poi, il seguente quesito: "se alla luce dell'art. 39 CCNL di categoria, il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno ed al rimborso spere per il lavaggio della tuta anche quando l'attività sia consistita in semplice lavaggio e stiratura ed abbia riguardato semplici indumenti di lavoro privi della caratteristiche di DPI, ancorchè utilizzati in protezioni a rischio di esposizione di agenti patogeni, ovvero se in tal caso il corrispettivo di tale attività sia già compreso nella determinazione della retribuzione concordata in sede di CCNL tenendo conto dell'accollo in capo al lavoratore dell'obbligo di curare la buona conservazione degli indumenti di lavoro originariamente forniti a mente dell'art. 39 CCNL, lett. a)".
Con la quarta critica la società ricorrente, prospettando violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 - 1226 c.c., formula il seguente quesito: "se la quantificazione del danno subita dai lavoratori di G.G. debba essere riferita al mero danno emergente pari ai costi vivi sostenuti dal danneggiato a causa della inadempienza rilevata, ovvero debba comprendere anche il lucro cessante del quale non sia stata fornita alcuna prova neppure generica, ed essere altresì parametrata ad un valore,ad esempio la paga oraria, per lavoro straordinario, sproporzionata e non omogenea rispetto al costo effettivo della attività anzidetta".
Con la quinta censura la società, denunciando difetto totale di motivazione, indica quale "punto" decisivo la "liquidazione equitativa del danno rapportato alla retribuzione oraria per lavoro straordinario anzichè al costo effettivo di lavaggio di una tuta da lavoro ordinaria ed al tempo necessario per eseguirlo quale risultante dal progetto B.D. (doc. 2 della produzione G.G. in primo grado) non esaminato dalla Corte territoriale".
Con il sesto motivo la società ricorrente, deducendo violazione degli artt. 2946 - 2948 c.c., sostiene che, partendo la decisione impugnata dall'erroneo presupposto che la tuta da lavoro sia equiparabile agli indumenti DPI e essendo, invece, tale equiparazione inammissibile, non si sarebbe dovuto affermare la sussistenza di un inadempimento contrattuale, ma piuttosto parlare di attribuzione a ciascun lavoratore di "una ulteriore retribuzione per avere eseguito una prestazione non prevista in contratto", con conseguente applicazione della prescrizione quinquennale ex art. 2948 c.c., n. 4.
I motivi dei ricorsi, che vanno trattati unitariamente per la loro stretta connessione dal punto di vista logico-giuridico, sono infondati.
Mette conto, innanzitutto, osservare che quanto alla questione del fatto notorio - concernente l'esistenza dei rischi per la salute dei lavoratori trova applicazione il principio, reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 9961/1996; Cass., nn. 2700/1997; 26081/2005), secondo cui in tema di prova per presunzioni (la quale rappresenta uno strumento, normativamente concesso al giudice, che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione, attraverso un procedimento logico)non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l'esistenza del fatto ignoto come l'unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità; nè, a tal riguardo, l'apprezzamento del giudice di merito circa l'esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici; ciò nella specie, non è dato riscontrare.
Va,poi, annotato che la Corte territoriale ha accertato in fatto la funzione protettiva svolta dagli indumenti per cui è causa, con una valutazione in concreto che prescinde dalla loro avvenuta qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali richiamate dalle ricorrenti, sicchè le critiche svolte, anche sotto il profilo della violazione di legge e di contratto collettivo, si risolvono nell'inammissibile richiesta di un riesame di circostanze fattuali già vagliate dai Giudici del merito, con motivazione coerente con i dati acquisiti ed immune da vizi logici; peraltro i relativi quesiti di diritto presentano altresì evidenti motivi di inammissibilità, presupponendo a sua volta i suddetti accertamenti fattuali non consentiti in questa sede di legittimità.
Mette conto evidenziare, inoltre quanto agli altri profili di censura, che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, i lavoratori hanno diritto alla retribuzione dell'attività lavorativa prestata ed al rimborso delle spese sostenute, per la pulizia degli indumenti di protezione, forniti dal datore di lavoro, risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative, la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo che, sostituita di diritto dalle stesse norme inderogabili, concorre a conformare i contratti individuali di lavoro, sui quali si fondano i diritti alla retribuzione ed al rimborso spese dei lavoratori (cfr., ex plurimis, Cass., n. 14712/2006; 18537/2007; 11729/2009; 23314/2010; cfr., altresì, Cass., n. 11139/1998). Ne consegue che quand'anche la contrattazione collettiva avesse inteso addossare ai lavoratori le spese di lavaggio dei DPI (il che nella specie deve escludersi, perchè prevedere che il lavoratore debba avere cura della buona conservazione degli indumenti non significa di per sè che debba provvedere al loro lavaggio), una siffatta previsione, siccome contraria a norme imperative, non potrebbe comunque esonerare il datore di lavoro dall'onere delle spese di cui qui si controverte.
Nè è avallabile la tesi secondo la quale il danno da inadempimento non dovrebbe essere quantificato alla luce della perdita subita dal danneggiato quale conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (cfr., art. 1223 c.c.), bensì alla stregua dei costi di cui sarebbe stato onerato il soggetto inadempiente se avesse adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni. A tanto aggiungasi che, in ogni caso, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, neppure sono state indicate le fonti probatorie relative agli i elementi di conteggio della spesa occorrente per il lavaggio degli indumenti.
Circa la liquidazione equitativa è assorbente la considerazione che il relativo motivo, così come il quesito svolto, sono inammissibili, sia perchè fanno riferimento ad un ipotetico risarcimento da lucro cessante di cui non vi è traccia nella sentenza impugnata, sia perchè presuppongono un accertamento di fatto sulla sproporzione del risarcimento liquidato, senza che sia neppure fornita l'indicazione delle fonti probatorie che dovrebbero sostenere tale assunto.
Da ultimo va osservato, per quanto concerne la questione della prescrizione, che il motivo, come l'interpello di diritto che allo stesso accede, sono inammissibili, siccome fondati su un presupposto contrario all'accertamento fattuale svolto dai Giudici del merito (irretrattabile alla luce del mancato accoglimento delle relative e già esaminate doglianze), ossia che gli indumenti de quibus non fossero qualificabili come DPI; nella quale insussistente ipotesi, del resto, difettando l'inadempimento datoriale, neppure avrebbe potuto essere accolta la pretesa azionata.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato, rimanendo, nelle svolte considerazioni, assorbite tutte le ulteriori critiche.
L'ineludibile opinabilità insita nelle valutazioni fattuali rilevanti ai fini del decidere, di cui è testimonianza l'esito tra loro difforme, delle pronunce di merito, consiglia la compensazione delle spese fra le parti costituite.
Non è luogo a provvedere al riguardo nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità fra le parti costituite; nulla per le dette spese riguardo alle parti rimaste intimate.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2014