Cassazione Penale, Sez. 4, 26 maggio 2015, n. 22033 - Lavori sul tetto e ponteggio incompleto. Responsabilità


 

 

 

Presidente: BRUSCO C. GIUSEPPE Relatore: DOVERE SALVATORE Data Udienza: 20/02/2015


Fatto

1. Il 5 settembre 2007 G.C. precipitava al suolo dal tetto di una villetta in costruzione presso il cantiere attivo in Robbiate, in proprietà della "Il D. S.r.l.", società facente capo ai fratelli G. e C. B. e che vedeva nella DMF costruzioni S.r.l. il soggetto al quale la proprietaria committente aveva appaltato i lavori di edificazione di complessive sei villette. Per rispondere delle lesioni patite dal G.C., socio della G.C.  s.n.c, alla quale la DMF aveva subappaltato i lavori di copertura dei tetti, venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Lecco N.F., B.G., D.A.M., B.C. e C.A.. All'esito del giudizio di primo grado il Tribunale ricostruiva l'accaduto nel modo che segue. Il G.C. aveva terminato prima della pausa estiva i lavori di copertura della villetta teatro del sinistro (d'ora in avanti identificata come villetta n. 6) e pertanto il ponteggio che era stato collocato nei pressi della villetta medesima era stato smontato per essere installato presso un diverso manufatto, cosicché quando, alla ripresa dei lavori a settembre al G.C. era stato richiesto di riallineare le tegole non perfettamente collocate, questi si era portato sul tetto e durante gli spostamenti effettuati era scivolato ed era caduto nel vuoto, stante la mancanza di metà del ponteggio nella zona in cui doveva essere sistemata la copertura. Ad avviso del Tribunale del fatto doveva rispondere innanzitutto il N.F., quale coordinatore per la progettazione e l'esecuzione nominato dalla ditta committente, in quanto egli non aveva eseguito alcuna concreta azione di coordinamento. Nell'esaminare il piano di sicurezza e di coordinamento il Tribunale ravvisava incongruenze definite "sorprendenti", come quella di prevedere la realizzazione di una sola villetta, laddove nella realtà ne erano in costruzione ben sei.
Quanto al D.A.M. anche a questi veniva addebitato il fatto perché il giudice riteneva accertato che egli fosse una persona che per conto della ditta appaltatrice aveva svolto nel cantiere mansioni direttive; in particolare proprio con riferimento alla sistemazione delle tegole non allineate, era stato specificamente il D.A.M. insieme a M.B., figlio di G., a dare disposizioni al G.C. di provvedere all'allineamento della copertura. Inoltre, al D.A.M. oltre che a B.G., doveva essere ricondotta la scelta di smontare i ponteggi della villetta n. 6.
Infine veniva ritenuto responsabile del sinistro anche B.G. che in qualità di committente era anche di fatto ingerito nell'esecuzione dei lavori di copertura del tetto, fornendo le attrezzature utilizzate ed intervenendo con istruzioni e diretto controllo sull'attività dei lavoratori, avvicendandosi in cantiere con il figlio M..
Venivano invece assolti C.A. e B.C..
2. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza testé descritta dichiarando non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati per i reati contravvenzionali loro ascritti perché estinti per prescrizione e rideterminando la pena in complessivi mesi cinque di reclusione per ciascuno degli imputati, confermando nel resto l'impugnata sentenza.
3. Avverso tale decisione ricorre per cassazione N.F. a mezzo dei difensori di fiducia, avvocati Omissis.
3.1. Con un primo motivo si deduce inosservanza della legge penale con riferimento al combinato disposto dagli articoli 590 cod. pen. e 10, 16 e 68 d.p.r. n. 164 del 1956 ed, ancora, inosservanza degli articoli 521 e 522 cod. proc. pen. nonché vizio motivazionale.
Gli esponenti lamentano che la Corte di appello abbia ritenuto di poter qualificare le lesioni subite dalla persona offesa come gravi e quindi di correggere in tal senso la contestazione, che faceva riferimento a lesioni gravissime; a loro avviso il giudice di secondo grado avrebbe dovuto annullare la sentenza del Tribunale di Lecco perché l'articolo 604 cod. proc. pen. prevede tale esito quando vi sia stata l'applicazione di una circostanza ad effetto speciale non contestata.
Con ulteriore censura gli esponenti lamentano la violazione della legge penale sostanziale laddove la Corte di appello ha ritenuto di non condividere la tesi della non ricorrenza di una continuità normativa tra il decreto legislativo n. 81/2008 ed il d.p.r. n. 164 del 1956. In sostanza si lamenta che al N.F. sia stata attribuita la violazione degli articoli 10,16 e 68 del citato d.p.r. ancorché egli, già nella prospettazione accusatoria, fosse il coordinatore dei lavori in fase di progettazione e di realizzazione. Orbene, le menzionate disposizioni non si applicano al coordinatore per la sicurezza ma al datore di lavoro; solo con il decreto legislativo n. 494 del 1996 è stata prevista la figura del coordinatore per l'esecuzione dei lavori. Pertanto sono state applicate all'imputato disposizioni, quelle intervenute nel 1996 e nel 2008, che non erano state oggetto di addebito. Con l'atto di appello si era rilevato che qualora il giudice di primo grado avesse voluto rinvenire nelle più recenti norme il fondamento della responsabilità del N.F., egli avrebbe dovuto avvalersi del potere-dovere di cui all'articolo 521, comma 1 cod. proc. pen. Pertanto l'operato del Tribunale concretizzava tanto la violazione del menzionato articolo 521 che una violazione del diritto di difesa poiché l'imputato non ha mai avuto la possibilità di difendersi dalla contestazione di aver violato i doveri propri della funzione di coordinatore dei lavori, visto che si era dovuto difendere dalla contestazione di aver violato i menzionati articoli 10, 16 e 68. L'intera problematica non ha trovato alcuna risposta nella sentenza redatta dalla Corte di appello.
4. Ricorre per cassazione D.A.M. con atto personalmente sottoscritto e con un primo motivo deduce violazione degli articoli 113 e 590 cod. pen., rilevando che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza di primo grado, egli non era stato legale rappresentante della DMF SrL e non aveva rivestito una posizione formale di capocantiere all'interno del cantiere di Robbiate; che non deve essere attribuita alcuna rilevanza probatoria alle testimonianze sulla scorta delle quali la Corte di appello ha affermato che egli gestiva di fatto le attività del cantiere; che egli è stato condannato quale capocantiere ancorché l'imputazione gli contestasse di essere legale rappresentante della DMF; lamenta inoltre che sia stato trascurato il ruolo avuto da G.C. nella causazione dell'evento, non avendo questi adottato alcuna misura di sicurezza nello svolgimento dei lavori ancorché legale rappresentante della società artigiana in nome collettivo alla quale erano stati affidati i lavori di copertura del tetto; lamenta che la provvisionale stabilita dal giudice di prime cure e confermata dalla Corte di appello sia del tutto sproporzionata rispetto al danno effettivamente patito dalla parte civile e l'assoluta carenza di motivazione sia in ordine alla concessione della provvisionale sia in ordine alla sua entità; deduce, ancora, violazione di legge e vizio motivazionale in merito alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, apparendogli eccessivamente severo e sproporzionato il trattamento sanzionatorio che gli è stato applicato perché non tiene conto dello stato di incensuratezza e del ruolo del tutto marginale del ricorrente.
5. Con atto sottoscritto dal difensore, avvocato Omissis, ricorre per cassazione B.G. articolando i seguenti motivi:
1) violazione delle disposizioni di quegli articoli 2 e 3 del decreto legislativo n. 494/1996 e mancanza di motivazione in ordine alla responsabilità dell'imputato per la violazione dei relativi obblighi. Le decisioni di merito sono viziate con riguardo sia alla corretta individuazione degli obblighi facenti capo all'imputato che alla loro presunta violazione. Il Tribunale ha ritenuto che il B.G., quale responsabile dei lavori, avesse l'obbligo di predisporre e di fare osservare i presidi di sicurezza richiesti dalla legge per l'esecuzione dei predetti lavori, a nulla rilevando la compresenza di un coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione, a sua volta titolare di una autonoma posizione di garanzia; la Corte di appello, dal canto suo, si è limitata ad affermare che il B.G. era titolare di tutti i doveri datoriali e di garanzia previsti dalle norme specifiche, oltre che dei doveri di perizia e di prudenza nell'assegnazione e nella gestione dei lavori di cui si sta parlando.
A fronte di tali affermazioni il ricorrente lamenta che le sentenze abbiano omesso di chiarire adeguatamente quali siano gli obblighi violati dal B.G. e come la violazione di tali obblighi sia da porre in relazione causale con lo specifico evento occorso.
2) Omessa motivazione in ordine alle doglianze difensive specificamente indicate nei motivi di appello e contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta ingerenza dell'imputato. I giudici di merito hanno ricollegato la responsabilità dell'imputato ad una asserita generale situazione di ingerenza nella gestione dell'attività di cantiere, ma tale affermazione non è stata oggetto di adeguata e congrua motivazione, anche in considerazione dei motivi di appello nei quali si richiamavano le dichiarazioni del coimputato N.F. (dalle quali emergeva che B.G. aveva svolto un'attività sostanzialmente commerciale) e si segnalava come il Tribunale avesse attribuito tale attività al fratello C., giungendo sulla scorta di tale malinteso alla assoluzione di quest'ultimo. Inoltre le dichiarazioni del N.F. spiegavano quale fosse la finalità della presenza fisica nel cantiere di B.G., che quindi non poteva essere automaticamente tradotta in una forma di ingerenza qualificata quale quella che può dar luogo a responsabilità penale. Nell'atto di appello si rilevava inoltre che quando il B.G. aveva interagito con il titolare della ditta G.C. la situazione del ponteggio era del tutto regolare, considerato che esso era stato smontato solo dopo la posa delle tegole, ed il B.G. si era limitato a richiedere al G.C. di completare l'intera copertura prima del periodo feriale. Inoltre l'intromissione di B.M. aveva concretizzato una inaspettata circostanza, che collide con la necessità, ai fini della sussistenza di un'ingerenza del committente, che questi abbia avuto l'immediata percepibilità della situazione di pericolo.
La Corte di appello ha omesso di motivare in ordine a ciascuna delle deduzioni mosse con l'atto di appello e non ha peraltro colto la contraddittorietà della motivazione di primo grado con riguardo al mancato riferimento a B.G. delle emergenze probatorie utilizzate per assolvere il fratello C., determinandosi in tal modo un travisamento della prova sia davanti al Tribunale che alla Corte di appello. Mentre riposa su presupposti fattuali insignificanti ai fini dell'ingerenza l'affermazione secondo la quale l'imputato sarebbe intervenuto con istruzioni e diretto controllo sull'attività dei lavoratori.
3) violazione degli artt. 62bis e 133 cod. pen. ed omessa motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio. Non sono state assolutamente prese in considerazione né l'incensuratezza dell'imputato né la sua età non più giovanissima ed il fatto che, pur avendo esercitato per un notevole arco temporale l'attività di imprenditore nell'ambito immobiliare ed edile, egli non era mai incorso in alcuna violazione di norme, nemmeno colposa. D'altro canto, la critica all'atteggiamento processuale mantenuto dall'imputato non è legittima, essendo quello espressione del diritto di difesa anche quando si tratta di attribuzione di responsabilità ad altri soggetti, sempre che si rimanga nell'ambito della liceità. Anche in ordine alla severità del trattamento sanzionatorio la Corte d'appello ha omesso di pronunciarsi sul punto sviluppato in apposito motivo di appello.
6. In data 19 novembre 2014 l'INAIL ha depositato memoria difensiva con la quale si assume l'inammissibilità dei ricorsi perché essi propongono le medesime questioni già avanzate con l'appello e tendono ad una nuova valutazione dei fatti e del contenuto delle prove.

Diritto


7. Il ricorso di N.F. é fondato, nei termini di seguito precisati.
7.1. Il primo motivo di ricorso é infondato. Esso germina dal fatto che la contestazione del delitto colposo ascrive la causazione di "lesioni gravissime giudicate guaribili in gg. 90" senza però fare riferimento ad una malattia certamente o probabilmente insanabile, alla perdita di un senso o di un arto, dell'uso di un organo o della capacità di procreare o una permanente grave difficoltà della favella o, infine, ad una deformazione o ad uno sfregio permanente del viso, secondo l'elencazione che delle lesioni gravissime fa l'art. 583, co. 2 cod. pen.
Dal canto suo, il Tribunale aveva inflitto al N.F., per il delitto (in questa sede non rilevano le pene relative alle contravvenzioni), la pena di anni uno di reclusione, senza specificare se si trattasse di pena riferita a lesioni gravi - come indicato dalla durata della malattia - o a lesioni gravissime. Di qui la censura dell'appellante, che lamentava di esser stato condannato alla pena prevista per le lesioni gravissime nonostante gli fossero state contestate - in fatto - lesioni gravi. La Corte di Appello ha replicato alla censura affermando che l'imputazione era del tutto chiara, anche nell'evidenziare l'errore 'di qualifica' del tipo di lesioni patite dal G.C..
Orbene, tale affermazione é del tutto legittima, atteso che le lesioni personali gravi, commesse con violazione di norme prevenzionistiche, secondo la legge del tempo (l'art. 590, co. 2 cod. pen. nella versione introdotta dall'art. 2, co. 2 l. n. 102/2006) sono punite nel massimo con un anno di reclusione; sicché è ben possibile che il primo giudice abbia inteso infliggere il massimo della pena previsto per le lesioni gravi e non il minimo previsto per le lesioni gravissime (punite, quando commesse con violazione di norme prevenzionistiche con la reclusione da uno a tre anni). Conseguentemente, la Corte di Appello ha ben potuto operare una mera riqualificazione del reato, rimarcando che la contestazione in fatto atteneva a lesioni personali gravi; e ben ha potuto ridurre la pena inflitta per tale reato facendo uso dei propri poteri in ordine alla commisurazione della pena, ritenendo eccessiva la sanzione inflitta dal primo giudice per le lesioni gravi.
Peraltro, la lettura della intera sentenza di primo grado mette in evidenza che il Tribunale nell'argomentare in merito alla domanda di rivalsa dell'Inail recepì l'indicazione di un grado di inabilità del 30% (demandando alla sede civile l'esatta quantificazione dell'ammontare del danno subito dall'istituto per la necessità di previo accertamento dell'incidenza della condotta della persona offesa); ed anche argomentando in ordine alla domanda di risarcimento del danno avanzata dalla parte civile fece riferimento alla percentuale di invalidità permanente quantificata dall'Inail. Tuttavia, da ciò non può ricavarsi che per il Tribunale il sinistro esitò in una invalidità permanente del G.C., secondo quanto previsto dall'art. 583, co. 2 cod. pen. Infatti, l'indebolimento permanente di un senso o di un organo previsto dal n. 2 del primo comma dell'art 583 cod. pen. e le condizioni previste dal capoverso dello stesso articolo ai fini della sussistenza delle lesioni gravissime attengono alla menomazione dell'integrità fisio-psichica; ne deriva che non necessariamente vi è coincidenza tra la invalidità personale prevista dall'art 583 cod. pen. e l'invalidità da infortunio sul lavoro prevista dalla legge 17 agosto 1935 n. 1765, attenendo quest'ultima alla riduzione totale o parziale della capacita lavorativa (Sez. 4, n. 6257 del 08/03/1979 - dep. 07/07/1979, Frigerio, Rv. 142506). Inoltre, l'indebolimento permanente di un senso o di un organo non concreta lesioni gravissime; sicché la sentenza di primo grado, a ben vedere, non offre alcun appiglio alla ricostruzione degli esponenti.
In conclusione, la Corte di Appello ha preso atto della divaricazione formale tra l'indicazione di lesioni 'gravissime' e la loro descrizione, provvedendo a denominarle correttamente ed ha ridotto la pena già inflitta dal primo giudice.
Non é ravvisabile, con riferimento alla sentenza di primo grado, alcuna condanna per una circostanza aggravante ad effetto speciale non contestata. Ne consegue la superfluità di rammentare a quali condizioni può affermarsi ricorrente la violazione del principio di correlazione.
7.2. Il ricorso é però fondato sotto altro aspetto.
Ancorché il ricorso del N.F. lamenti una impossibile continuità normativa tra le norme del d.p.r. n. 164/1956 e quelle del d.lgs. n. 494/96 (sulla scorta, d'altronde, della sentenza di primo grado) non é in questione la estraneità alla vicenda in esame del fenomeno della successione di norme penali. Il fatto ascritto al N.F. é stato commesso il 5.9.2007, quindi sotto la vigenza del d.lgs. n. 494/1996, al cui art. 5 i giudici di merito hanno attinto quale fonte dei doveri violati dal N.F., nella qualità (cfr., in particolare, pg 10 e seg. Della sentenza del Tribunale) Pertanto, ove all'imputato fosse ascritto di aver violato i doveri posti dal d.lgs. n. 494/96 non si verificherebbe alcuna violazione del principio di irretroattività della norma incriminatrice.
Il tema é, invece, indubitabilmente quello della legittimità dell'ancoraggio del giudizio di responsabilità del N.F. agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 494/96 nonostante i capi di imputazione facciano riferimento agli artt. 10, 16 e 68 d.p.r. n. 164/56. Si verte pertanto - ancora una volta - in tema di correlazione tra contestazione e sentenza e di rispetto del diritto di difesa.
Com'è noto, nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l'imputato -non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico. Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale "ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 c.p.p. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione" (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 - dep. 29/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278). Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa. Mentre nei reati dolosi - in specie commissivi - la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l'obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest'ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica).
Com'è evidente, l'una e l'altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l'agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare. Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex multis, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013 - dep. 20/12/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902). L'accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza - nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione - un approccio fondato sulla tipologia dell'intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifa alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l'ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica). Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l'estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto). La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della "narrazione" prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente.
7.3. Calando tali premesse nella vicenda in esame risulta che il Tribunale, dopo aver richiamato le norme del d.lgs. n. 494/96 come fonte degli obblighi di coordinamento e di controllo del N.F., ha preso in esame "la censura inerente la prospettata inapplicabilità a N.F. di talune delle norme contravvenzionali oggetto di specifica contestazione", replicando ad essa con la sottolineatura che era stata "discussa e ridefinita la portata dell'addebito colposo, pur sempre contestato sotto il profilo della 'negligenza ed imprudenza"'.
Tale affermazione nel caso di specie non é corretta. Infatti, la ricostruzione delle fondamenta della responsabilità del N.F. è stata ampiamente tributaria del richiamo agli obblighi che il d.lgs. n. 494/96 poneva in capo al coordinatore per l'esecuzione, che é stato evocato ed applicato come se la contestazione facesse riferimento ad esso, mentre così non è. Neppure appare legittimo fare appello alla colpa generica per sostenere che vi é stata contestazione (di condotte che concretano il nucleo di colpa specifica), perché proprio la positivizzazione di quelle condotte esclude che essa restino ancora nell'alveo delle generiche regole di prudenza e diligenza. D'altronde al N.F. si é ascritto di non aver operato alcun coordinamento; e ciò non risulta in nessun modo contenuto nelle condotte descritte nelle imputazioni.
La Corte di Appello, dal canto suo, dinanzi alla quale era stata censurata la violazione del principio di correlazione per essere state contestate al N.F., nella qualità di coordinatore, tre violazioni non riferibili a tale figura ed il connesso delitto contro la persona, e ciò nonostante condannato per violazioni degli obblighi su di lui gravanti come coordinatore, non ha minimamente preso in considerazione tale rilievo, sviluppando qualche breve ed inconferente considerazione sulla continuità normativa tra compendi normativi.
Per contro, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto verificare se la ricostruzione del comportamento trasgressivo del N.F. fosse stata preceduta da un procedimento nel quale questi fosse stato messo in condizioni di difendersi dall'accusa di esser venuto meno agli obblighi specificatamente posti in capo al coordinatore, in modo da esplicitare se la indubbia asimmetria tra contestazione formalizzata con il decreto che dispone il giudizio e motivazione della condanna fosse stata elaborata nel contraddittorio delle parti.
Nel silenzio della Corte di Appello vi é il vizio di motivazione che impone l'annullamento della sentenza limitatamente alla posizione del N.F., con rinvio alla Corte di Appello di Milano per nuovo esame.
8. Il ricorso del D.A.M. é infondato.
8.1. Per larga parte il ricorrente formula affermazioni che descrivono una ricostruzione dell'accaduto diversa da quella che i giudici di merito hanno ritenuto confermata dall'accertamento processuale. Il D.A.M. infatti, é stato ritenuto esercente in fatto di poteri direttivi ed organizzativi dei lavori del cantiere ove avvenne l'infortunio. E ciò anche sulla scorta delle sue stesse dichiarazioni dibattimentali. Né la Corte distrettuale ha mancato di rilevare che fu proprio il D.A.M. a decidere di smontare i ponteggi della villetta n. 6 omettendo di adottare contestualmente misure atte a prevenire lo svolgimento di lavori sulla falda del tetto.
Si tratta di affermazioni che, espresse senza alcuna manifesta illogicità e con aderenza ai materiali acquisiti, non possono essere censurate in questa sede.
Occorre rammentare che compito di questa Corte non è quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata, oppure dall'aver assunto dati inconciliabili con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass. Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, P.M. in proc. Napoli, Rv. 233460; Cass. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Cass. Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Capri ed altri, Rv. 233775; Cass. Sez. 6, n. 38698 del 26/09/2006, imp. Moschetti ed altri, Rv. 234989).
8.2. La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che la pronuncia circa l'assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile, mentre la determinazione dell'ammontare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice del merito che non è tenuto a dare una motivazione specifica sul punto.
Ne consegue che il relativo provvedimento non è impugnabile per cassazione in quanto, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato, è destinato ad essere travolto dall'effettiva liquidazione dell'integrale risarcimento (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014 - dep. 25/11/2014, Patricola e altro, Rv. 261054); Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010 - dep. 27/09/2010, Mazzamurro, Rv. 248348; Sez. 5, n. 40410 del 18/03/2004 - dep. 15/10/2004, Farina ed altri, Rv. 230105).
8.3. Il motivo concernente la pena inflitta é manifestamente infondato.
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 - dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv. 248244).
Nel caso che occupa la Corte di Appello ha posto in evidenza l'assenza di elementi concreti che dessero il segno di una resipiscenza.
9. Infondato é anche il ricorso proposto nell'interesse del B.G..
Non coglie il segno la censura che denuncia l'omessa esplicazione degli obblighi violati dal B.G. e come la violazione di essi sia da porre in relazione causale con lo specifico evento occorso. Il B.G. é stato identificato come il soggetto 'responsabile dei lavori', intendendosi con ciò indicare il soggetto per conto del quale si eseguiva l'opera (pertanto il committente); ma, di più, egli é stato nella sostanza individuato come diretto gestore dei lavori, essendosi egli "anche concretamente ingerito nella gestione dell'attività di cantiere" (cfr. pg. 17). Orbene, la concreta direzione ed organizzazione dei lavori riconduceva in capo al B.G. i doveri propri del datore di lavoro della ditta esecutrice e pertanto del tutto correttamente gli é stato ascritto (anche ex art. 2087 cc.) di non aver predisposto l'utilizzo di un ponteggio adeguato per dimensioni alla complessità dei lavori o di prevederne l'andamento in modo che fosse assicurata la presenza dell'opera provvisionale lì dove si eseguivano i lavori e sino al loro compimento; senza che assuma rilievo alcuno che i lavori venissero svolti da lavoratori subordinati o lavoratori autonomi quali il G.C..
9.2. A riguardo dell'affermata ingerenza non ricorre il vizio motivazionale denunciato dalla difesa. La Corte di Appello ha enunciato le fonti dalle quali ha tratto il porprio convincimento: le dichiarazioni del N.F., che indicavano nella committenza il diretto gestore del cantiere; la deposizione del Ch., concernente la presenza in cantiere di B.G. e di B.M.; la dichiarazione del teste Fé, che indicava la presenza in cantiere di un geometra che dava direttive per conto della committenza; le dichiarazioni del D.A.M. e la circostanza della fornitura dei ponteggi ad opera di una ditta riconducibile al B.G..
La Corte di Appello, quindi, ha dato ampio conto delle fondamenta sulle quali ha poggiato l'identificazione di B.G. nel committente concretamente ingeritosi nella gestione dei lavori.
Tale connotazione rende privo di rilievo la conoscenza della specifica circostanza dell'intervento aggiuntivo del G.C. per la sistemazione della copertura del manufatto e l'intervento di B.M.; al B.G., infatti, é stato ascritta una carenza di carattere strutturale, della quale si é sopra fatta menzione.
Le residue doglianze descrivono sostanzialmente un travisamento della prova, il quale, tuttavia, può essere dedotto con il ricorso per cassazione quando la decisione impugnata abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", essere superato il limite costituito dal "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009 - dep. 08/05/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007 - dep. 21/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007 - dep. 07/02/2007, Medina ed altri, Rv. 236130), o il caso in cui entrambi i giudici di merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie (Sez. 4, n. 44756 del 22.10.2013, Buonfine ed altri, n.m.).
9.3. Vale, a riguardo del terzo motivo del ricorso in favore del B.G., quanto già osservato al superiore paragrafo 8.3; v'è solo da precisare che la critica all'atteggiamento processuale mantenuto dall'imputato non è stata fatta per censurarne la legittimità ma per evidenziare l'assenza di resipiscenza.
10. In conclusione, i ricorsi proposti nell'interesse del D.A.M. e del B.G. devono essere rigettati e tali ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata nei confronti di N.F. con rinvio alla Corte di Appello di Milano per nuovo esame.
Rigetta i ricorsi di B.G. e D.A.M. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 20/2/2015.