Cassazione Penale, Sez. 4, 22 giugno 2015, n. 26294 - Macchinario manomesso dai lavoratori dell'opificio. Responsabilità degli amministratori della società datrice di lavoro
Presidente: ROMIS VINCENZO Relatore: IANNELLO EMILIO Data Udienza: 04/06/2015
Fatto
1. Con sentenza del 26/11/2007 il Tribunale di Avellino condannava M.F. e P.B. alla pena di € 1.500,00 di multa per il reato di lesioni colpose gravi, aggravate dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in relazione all'infortunio occorso al dipendente P.F. in data 19/2/2001, allorquando quest'ultimo, adibito alla lavorazione del pellame su di una macchina Aletti 800, entrava con la mano destra in contatto con il rullo in carta vetro in movimento della stessa, venendone trascinato all'interno quasi con l'intero braccio.
L'evento era ascritto ai predetti, quali amministratori della B.F. s.n.c. e datori di lavoro nonché proprietari delle attrezzature, per colpa generica e specifica, quest'ultima consistita nella violazione degli artt. 374 e 389 lett. b) d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, per aver consentito che lo spazio lasciato nella zona di imbocco del pellame di lavorazione nella macchina suddetta fosse pari a 5-6 cm anziché a 14-16 mm come prescritto dalla casa costruttrice e come comunque necessario per evitare il trascinamento della dita del lavoratore.
Il Tribunale condannava altresì gli imputati al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2. Interposto gravame da parte degli imputati, la Corte d'appello di Napoli, con sentenza del 21/11/2013, dichiarava non doversi procedere in ordine al reato loro ascritto perché estinto per intervenuta prescrizione e condannava gli stessi in solido al pagamento delle spese del grado in favore della costituita parte civile.
In motivazione i giudici campani, dato atto della intervenuta maturazione del termine prescrizionale, procedevano comunque alla valutazione nel merito della vicenda «ai sensi e per gli effetti dell'art. 129, comma 2, c.p.p.», concludendo per l'impossibilità di ritenere evidente l'insussistenza dei fatti contestati ovvero la non ascrivibilità degli stessi agli imputati.
Al riguardo, nel richiamare integralmente la motivazione della sentenza impugnata, espressamente ritenuta «condivisibile ed esauriente», rilevavano che dall'istruzione acquisita emergeva che la causale dell'infortunio era da individuare nell'anomalo funzionamento del macchinario, manomesso dai dipendenti dell'opificio al fine di aumentare lo spessore di apertura della zona di imbocco delle pelli. Tale manomissione, secondo la Corte, era stata resa possibile dalla non adeguata registrazione di uno specifico dispositivo di sicurezza che, se correttamente posizionato, avrebbe segnalato l'anomala apertura del carter con conseguente bloccaggio immediato del macchinario.
Soggiungevano che eventuali corresponsabilità dell'operaio nella causazione del sinistro non varrebbero comunque ad elidere l'efficienza causale delle gravi omissioni ascritte, non potendosi considerare la condotta del dipendente inopinabile o esorbitante dal processo lavorativo, poiché anzi finalizzata alla sua accelerazione. Osservavano ancora che, contrariamente a quanto dedotto dagli appellanti, il datore di lavoro era tenuto a una sorveglianza penetrante che gli imponeva di essere presente sul posto di lavoro al fine di controllare l'operato dei dipendenti.
3. Avverso tale decisione ricorrono per cassazione entrambi gli imputati, per mezzo del loro difensore, sulla base di due motivi.
3.1. Con il primo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta loro responsabilità.
Affermano che contraddittoriamente la Corte, pur riconoscendo che l'incidente si era verificato a seguito dell'allargamento dello spessore di apertura della zona di imbocco delle pelli nell'apparecchiatura smerigliatrice, ha poi ritenuto che tale operazione, posta in essere per esclusiva iniziativa e responsabilità dello stesso dipendente, fosse del tutto prevedibile e ordinaria per quella tipologia di lavoro e che incombesse quindi al datore di lavoro un dovere di sorveglianza sull'operato del dipendente.
Sostengono di contro che la manomissione del macchinario era riconducibile esclusivamente all'imprudenza e al comportamento negligente dello stesso lavoratore e che doveva ritenersi inesigibile una condotta del datore di lavoro consistente nel seguire de visu materialmente l'attività dell'operaio.
Deducono che pertanto avrebbe dovuto pervenirsi al proscioglimento nel merito di essi ricorrenti, pur a fronte della maturata prescrizione.
3.2. Con il secondo motivo deducono violazione dell'art. 578 cod. proc. pen..
Lamentano che la Corte d'appello, nell'applicare la prescrizione intervenuta nelle more, ha omesso di provvedere «in modo formale ed esplicito alla conferma delle statuizioni civili» ai fini dell'art. 578 cod. proc. pen., non potendosi ritenere equipollente la condanna alle spese legali, costituendo -questa - pronuncia meramente accessoria rispetto a quella della eventuale conferma della condanna al risarcimento dei danni pronunciata dal giudice di primo grado.
Diritto
4. È infondato il primo motivo di ricorso.
È noto che, secondo costante insegnamento di questa Corte, poiché le norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza e imperizia, il comportamento anomalo del lavoratore può acquisire valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, tanto da escludere la responsabilità del datore dì lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, solo quando esso sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante e imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore. Tale risultato, invece, non è collegabile al comportamento, ancorché avventato, disattento, imprudente, negligente del lavoratore, posto in essere nel contesto dell'attività lavorativa svolta, non essendo esso, in tal caso, eccezionale ed imprevedibile (v. ex multis Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Millo, Rv. 250710; Sez. 4, n. 15009 del 17/02/2009, Liberali, Rv. 243208; Sez. 4, n. 25532 del 23/05/2007, Montanino, Rv. 236991; Sez. 4, n. 25502 del 19/04/2007, Scanu, Rv. 237007; Sez. 4, n. 47146 del 29/09/2005, Riccio, Rv. 233186).
Tanto premesso, del tutto plausibile è l'accertamento che hanno compiuto i giudici di merito circa la non abnormità del comportamento del F., in quanto le modalità esecutive del lavoro adottate nell'occorso, se pure imprudenti e pericolose, rientrano nel novero delle violazioni comportamentali che i lavoratori perpetrano quando ritengono di aver acquisito piena competenza e abilità nelle mansioni da svolgere, tanto da consentire, a loro giudizio, l'adozione di tecniche e procedure operative diverse da quelle normalmente seguite. In quanto tali sono ben prevedibili e devono essere neutralizzate attraverso gli opportuni accorgimenti.
L'assenza, nella specie, di tali precauzioni e, per converso, l'esistenza di uno stretto collegamento funzionale, rispetto alle mansioni da eseguire, della improvvida procedura operativa adottata dalla vittima (tale dunque da non potersi comunque considerare, nei sensi predetti, comportamento abnorme ovvero del tutto esorbitante e imprevedibile), sono ben evidenziate nella sentenza di merito laddove si rileva che «l'allargamento dello spessore di apertura della zona di imbocco delle pelli, finalizzato a un comprensibile intendimento di accelerazione delle attività di lavorazione del pellame, costituiva operazione del tutto prevedibile ed ordinaria per quella tipologia di lavoro».
Tale argomentazione, ancorata ad emergenze istruttorie puntualmente richiamate, non è fatta segno in sé di alcuna specifica critica da parte dei ricorrenti, i quali si limitano a contrapporvi l'inconferente e apodittica asserzione secondo cui la manomissione è attribuibile a iniziativa esclusiva e imprevedibile del lavoratore, non essendo nemmeno affermato, peraltro, che si sia trattato di iniziativa estemporanea e non piuttosto risalente nel tempo, come invece postulato in sentenza.
A fronte di tale contesto argomentativo, è appena il caso poi di rilevare l'infondatezza della tesi difensive secondo cui non competerebbe al datore di lavoro un obbligo di stretta vigilanza diretto a prevenire e comunque a impedire anche i comportamenti imprudenti dei lavoratori, pericolosi per la loro stessa incolumità.
Al riguardo giova rammentare che, in tema di sicurezza antinfortunistica, il compito del datore di lavoro, o del dirigente, cui spetta la sicurezza del lavoro, è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori vi si adeguino e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il responsabile della sicurezza, sia egli o meno l'imprenditore, deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore ed ha perciò il preciso dovere non di limitarsi a assolvere formalmente il compito di informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare «sino alla pedanteria», che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (Sez. 4, n. 6486 del 03/03/1995, Grassi, Rv. 201706; ma vds. anche, nello stesso senso, Sez. 4, n. 13251 del 10/02/2005, Kapelj, Rv. 231156, secondo cui «in tema di infortuni sul lavoro, il compito del datore di lavoro è articolato e comprende l'istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinate attività, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, il controllo, continuo ed effettivo circa la concreta osservanza delle misure predisposte per evitare che esse vengano trascurate e disapplicate, il controllo infine sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione»).
Tale tema, sviluppato nella sentenza impugnata, non è dai ricorrenti affrontato con argomenti frontali e decisivi, tali da inficiare la validità e coerenza logica delle conclusioni che ne sono tratte, limitandosi essi ad una contrapposizione meramente assertiva e generica della tesi contraria.
5. Va disatteso anche il secondo motivo di ricorso.
L'omessa presa in considerazione di un motivo di gravame (quello, cioè, relativo alla impugnazione della sentenza di appello anche ai fini civili), non necessariamente determina incompletezza della motivazione della sentenza.
Tanto, in particolare, non si verifica «allorquando, pur in mancanza di espressa disamina, la censura debba considerarsi implicitamente disattesa perché incompatibile con la struttura e con rimpianto della motivazione, nonché con le premesse essenziali, logiche e giuridiche, che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima: di tal che, in una simile evenienza, non può propriamente parlarsi di omessa pronuncia su un motivo di impugnazione» (v. Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221283; Sez. 5, n. 17700 del 05/02/2010, Carbone, Rv. 247582).
In altri termini, il fatto che l'appello abbia dato luogo - nel dispositivo letto in udienza - alla implicita esclusione del proscioglimento nel merito ed alla applicazione della causa estintiva sopravvenuta, è del tutto in linea, come parimenti la motivazione esibita dimostra, con una implicita reiezione dei motivi di appello anche ai fini civili.
Deve aversi riguardo, in tale prospettiva, al fatto che il giudice di appello ha dato atto della presenza nel processo di appello della parte civile; al carattere doveroso della statuizione sule relative spese ai sensi dell'art. 578 c.p.p.; infine, al carattere comune che l'impianto della sentenza di secondo grado può assumere e nella specie ha assunto, ai fini civili e penali, come si desume anche dalla accurata disamina e alla reiezione degli stessi leggibile nella motivazione, della quale il giudice civile - adito dall'interessato - non potrebbe non tenere conto.
6. In definitiva i ricorsi vanno rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 4/6/2015