Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 luglio 2015, n. 14492 - Assenze connesse al coinvolgimento in una rapina in banca: licenziamento per superamento periodo di comporto


 

Presidente: STILE PAOLO Relatore: DE MARINIS NICOLA Data pubblicazione: 10/07/2015


Fatto


Con sentenza del 23 maggio 2014, la Corte d'Appello di Firenze, confermava la decisione resa dal Tribunale di Grosseto in sede di opposizione all'ordinanza pronunciata dallo stesso Tribunale nella fase sommaria del giudizio promosso, con ricorso ex art. 1, comma 48,1. n. 92/2012 da PC.P. nei confronti di BNL Banca Nazionale del Lavoro, sua datrice di lavoro, di rigetto della domanda del lavoratore avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Banca datrice per superamento del periodo di comporto.
La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto computabili ai fini del superamento del periodo di comporto le assenze connesse all'episodio qualificato come infortunio sul lavoro del suo coinvolgimento in una rapina all'agenzia della Banca cui era addetto e ciò per non essere stata raggiunta la prova sia della responsabilità della Banca datrice in ragione dell'idoneità delle misure di prevenzione adottate sia del nesso di causalità tra le assenze in questione e l'infortunio occorso.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il PC.P. affidando l'impugnazione a cinque motivi, cui resiste, con controricorso, la BNL. Entrambe le parti hanno presentato memoria.

Diritto

 

I cinque motivi su cui il ricorrente articola la proposta impugnazione sono tutti intesi a censurare il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine al mancato assolvimento da parte dell'odierno ricorrente dell'onere della prova, ritenuto gravante sul medesimo, del nesso eziologico tra il pregiudizio fisico determinate in tutto o in parte le assenze, dalla cui sommatoria è poi derivato il superamento del periodo di comporto, posto a base del licenziamento intimato dalla Banca datrice al ricorrente medesimo, e l'evento lavorativo qualificato come infortunio sul lavoro, nella specie la rapina all'agenzia della Banca cui era addetto il ricorrente che lo aveva visto personalmente coinvolto, di cui si alleghi e provi l'imputabilità al datore.
Sennonché i formulati motivi si limitano alla confutazione della statuizione resa dalla Corte territoriale sull'aspetto logicamente e giuridicamente antecedente dell'imputabilità al datore dell'evento pregiudizievole occorso, censurando la conclusione raggiunta dalla Corte medesima in ordine alla carenza di prova della responsabilità della Banca datrice circa il verificarsi di quell'evento.
In effetti, con il primo motivo, sotto la rubrica "violazione dell'art. 61 e 116 c.p.c. nonché dell'art. 2967 cc. in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c. e degli artt. 2087 cc. e 3 e 4 d.lgs.n. 626/1994 in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c", il ricorrente imputa alla Corte territoriale l'omesso esame di risultanze istruttorie che assume decisive ai fini dell'accertamento della responsabilità del datore; con il secondo motivo, rubricato "violazione dell'art 2967 cc e dell'art. 116 c.p.c, in relazione all'art. 360, n. 4, c.p.c.", addebita alla Corte medesima il malgoverno delle regole sull'onere della prova avendo ritenuto gravante sul lavoratore la dimostrazione della mancata adozione da parte della Banca di idonee misure di sicurezza e prevenzione; nel terzo motivo i vizi di nullità del procedimento e omesso esame di un fatto decisivo nonché la violazione degli art. 2087 cc. e 3 e 4 d.lgs. n. 626/1994 sono denunciati con riferimento alla ritenuta irrilevanza ai fini della prova dell'adempimento degli obblighi di sicurezza della mancata produzione da parte della Banca datrice del documento di valutazione dei rischi; con il quarto la censura, riassunta in rubrica nella violazione dell'art. 61 c.p.c. in relazione all'art. 360, nn 4 e 5, c.p.c, si sostanzia nell'imputare alla Corte territoriale la mancata ammissione di una CTU ai fini della valutazione dell'idoneità tecnica delle misure adottate; il quinto motivo, rubricato "violazione degli artt. 1 l. n. 604/1966 e 18 l. n. 300/1970 in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c. nulla aggiunge alle precedenti censure, risolvendosi nell'addebitare alla Corte territoriale la mancata pronunzia dell'illegittimità del recesso.
Di qui l'inammissibilità dei cinque motivi formulati dal ricorrente, che, per quanto detto, è opportuno qui trattare congiuntamente, inammissibilità che supera la ragione, pur decisiva ed assorbente, per la quale la denuncia del vizio di motivazione, in cui si risolvono le censure di nullità della pronunzia per omesso esame o imprudente apprezzamento di fatti decisivi, non è più proponibile in questa sede, stante le modifiche apportate alla formulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c, dal d.l. n. 83/2012 convertito nella legge n. 134/2012.
L'inammissibilità dei formulati motivi si appalesa, infatti, già in relazione alla mancata impugnazione dell'effettiva ratio decidendi che supporta la pronunzia resa dalla Corte territoriale ed espressa in motivazione nel passo in cui si si legge "...non può non sottolinearsi come il tempo trascorso in servizio effettivo dal PC.P. dopo la rapina e prima di iniziare ad assentarsi per malattia ansiosa, affievolisca in maniera significativa la verosimiglianza della pretesa connessione causale (tra infermità determinante l'assenza e evento lavorativo in ipotesi imputabile al datore)". Senza contare poi l'assenza di qualsiasi accenno all'ulteriore rilievo espresso dalla Corte territoriale circa la mancata impugnazione da parte dell'odierno ricorrente già in sede di gravame dell'argomentazione svolta dal Tribunale sulla ritenuta congruità dell'intervallo temporale intercorso tra la maturazione del comporto e l'intimato recesso, argomentazione con la quale evidentemente il Tribunale intendeva ritenere assorbita in quell'ulteriore arco temporale la rilevanza delle assenze che l'odierno ricorrente assumeva non computabili in quanto ricollegabili all'infortunio imputabile al datore e perciò idonea a fondare la ben più radicale tesi della formazione di un giudicato interno sul complessivo thema decidendum relativo alla legittimità del recesso. Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi oltre spese generali e altri accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 16 aprile 2015.