Cassazione Penale, Sez. 4, 14 luglio 2015, n. 30349 - Infortunio all'occhio durante l'uso di un trapano a colonna. Il datore di lavoro deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria il rispetto delle norme di sicurezza da parte del lavoratore


 

Presidente: BRUSCO CARLO GIUSEPPE Relatore: CIAMPI FRANCESCO MARIA Data Udienza: 17/02/2015


Fatto


Con l'impugnata sentenza resa in data 22 novembre 2013 la Corte d'Appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Piacenza in data 1 aprile 2011, appellata dall'imputato P.R., dichiarava non doversi procedere nei suoi confronti per essere il reato ascrittogli (lesioni colpose gravi aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica) estinto per prescrizione, confermando le statuizioni civili. Avverso tale decisione ricorre a mezzo del difensore di fiducia il P.R. deducendo violazione di legge e contradditorietà ed illogicità della motivazione con riferimento all'utilizzo degli strumenti di prevenzione ed alla pretesa anormalità e delicatezza dell'operazione da compiere.

Diritto


Al P.R. è stato contestato il reato di cui all'art. 590 comma 3 cod. pen. perché nella qualità di titolare dell'officina meccanica, cagionava con colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia e violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali gravi a G.M., segnatamente ferita perforante al bulbo oculare sx, da cui derivava indebolimento permanente dell'organo della vista e malattia giudicata guaribile in oltre quaranta giorni, in particolare mentre stava effettuando lavorazioni avvalendosi di un trapano a colonna, la punta dello stesso si spezzava colpendo in viso l'infortunato. Come può leggersi nel capo di imputazione risultano oltre a profili di colpa generica, violazione di norme volte a prevenire infortuni sul lavoro, segnatamente la violazione dell'art. 4 d.P.R. n. 626/1994 per non aver messo a disposizione adeguati mezzi di protezione individuali e controllato sull'utilizzo di quelli esistenti e dell'art. 75 d.P.R. n. 547/1955 essendo la macchina priva di chiusura o schermo idoneo ad evitare che il lavoratore addetto potesse essere colpito da schegge.
4. Il ricorso è infondato. Con il primo motivo il ricorrente sostiene che l'adozione degli occhiali antinfortunistici sarebbe stata confortata dalla produzione delle fatture di acquisto di detti strumenti, idonei a salvaguardare i lavoratori in quanto capaci di poter resistere all'urto di una sfera di acciaio di sei millimetri con massa di 0,86 gr proiettata ad una velocità fino a 162 km orari, mentre nella specie il frammento della punta del trapano che aveva colpito il G.M. all'occhio non superava la velocità di 1.13 km orari
I giudici di merito hanno in realtà accertato, oltre alla circostanza che sul trapano a colonna utilizzato dalla persona offesa non era applicato al momento dell'infortunio del lavoratore alcuno schermo di protezione (la cui necessità era peraltro confermata dal suo successivo posizionamento dopo l'infortunio), che il G.M. comunque non indossava gli occhiali protettivi, pure presenti presso la ditta. Sul punto poi il teste C. ha riferito che il G.M. spesso non li indossava e che non ricordava alcun episodio specifico in cui il P.R. avesse rimproverato il G.M. per il mancato utilizzo. Mette conto innanzi tutto evidenziare che il ricorrente ha sostanzialmente riproposto le tesi difensive già sostenute in sede di merito e disattese dal Tribunale prima e dalla Corte d'appello poi. E va altresì evidenziato che il primo giudice aveva affrontato e risolto le questioni sollevate dalla difesa seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti agli elementi probatori acquisiti e rilevanti ai fini dell'esame della posizione dei P.R.; di tal che, trattandosi di conferma della sentenza di primo grado, questa si integra con il percorso motivazionale seguito dai giudici di seconda istanza, i quali non hanno mancato di fornire autonome valutazioni a fronte delle deduzioni dell'appellante: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione ("ex plurimis", Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. - dep. 23/04/1994 - Rv. 197497). Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta dunque formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti l'infortunio oggetto del processo* la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (dinamica dell'infortunio, posizione di garanzia del P.R., nesso di causalità tra la condotta contestata e l'evento) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità dell' odierno ricorrente. La Corte territoriale ha puntualmente ragguagliato il giudizio di fondatezza dell'accusa al compendio probatorio acquisito a fronte del quale non possono trovare spazio le deduzioni difensive, per lo più finalizzate a sollecitare una lettura del materiale probatorio diversa da quella operata dalla Corte distrettuale, ed in quanto tale non proponibile in questa sede. Ed invero, in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, dandone una corretta e logica interpretazione, con esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; se abbiano, quindi, correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). E poiché il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o - a seguito della modifica apportata all'art. 606.1, lett. e), c.p.p. dall'art. 8 della L. 20.2.2006, n. 46 - da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame", tanto comporta, quanto al vizio di manifesta illogicità, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (dr. Cass., Sez. Un., 27.9.1995, n. 30; id., Sez. Un., 30.4.1997, n. 6402; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24; in termini sostanzialmente identici, ancorché con riferimento alla ma teria cautelare, Sez. Un., 19.6.1996, n. 16; e non dissimilmente, Sez. Un., 27.9.1995, n. 30; id., Sez. Un., 25.10.1994, n. 19/1994; e, con riguardo al giudizio, Sez. Un., 13.12.1995, n. 930/1996; id., Sez. Un., 31.5.2000, n. 12). Inoltre, l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606.1, lett. e), c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, proprio perché l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi - come s'è detto - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. Un., 24.9.2003, n. 47289; id., Sez. Un., 30.11.2000, n. 5854/2001; id., Sez. Un., 24.11.1999, n. 24). Per completezza argomentativa va altresì rilevato che secondo il consolidato indirizzo affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte, "le prescrizioni poste a tutela del lavoratore sono intese a garantire l'incolumità dello stesso anche nell'ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, egli si sia venuto a trovare in situazione di particolare pericolo" (in termini, Sez. 4, n. 114/86, ud. 6/5/1985, RV. 171538). Il compito dei datore di lavoro è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori - e dalla conseguente necessità di adottare certe misure di sicurezza - alla predisposizione di queste misure (con obbligo, quindi, ove le stesse consistano in particolari cose o strumenti, di mettere queste cose, questi strumenti, a portata di mano del lavoratore), e, soprattutto, al controllo continuo, pressante, per imporre che i lavoratori rispettino quelle norme, si adeguino alla misure in esse previste e sfuggano alla superficiale tentazione di trascurarle. Il datore di lavoro deve avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dalla integrità del lavoratore, e non deve perciò limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro (cfr., Sez IV, 3 marzo 1995, Grassi). Sul punto ebbero modo di intervenire anche le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un, n. 6168 del 21/05/1988 Ud. - dep. 21/04/1989 - Rv. 181121) enunciando il principio secondo cui "al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati ex art. 4 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza' (conf. Sez. IV, 25.9.1995, Morganti, secondo cui le norme antinfortunistiche impongono al datore di lavoro una continua sorveglianza dei lavoratori allo scopo di prevenire gli infortuni e di evitare che si verifichino imprudenze da parte dei lavoratori dipendenti).
5. Il ricorso va pertanto rigettato; ne consegue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili G.M. e G.S. che liquida in complessivi € 2000,00 oltre accessori come per legge per ciascuno di essi

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre ali rifusione delle spese in favore delle parti civili G.M. e G.S. che liquida il complessivi € 2000,00 oltre accessori come per legge per ciascuno di essi. cosi deciso nella camera di consiglio del 17 febbraio 2015