Cassazione Civile, Sez. Lav., 23 maggio 2003, n. 8204 - Amianto: nesso causale tra attività lavorativa e insorgenza del mesotelioma pleurico
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Lavoro
Composta dai magistrati:
Salvatore Senese - Presidente
Alberto Spanò - Consigliere
Corrado Guglielmucci - Consigliere
Pasquale Picone - Relatore Consigliere
Giuseppe Cellerino - Consigliere
ha pronunziato la seguente
SENTENZA
sul ricorso principale proposto da N.S. SpA, in persona del consigliere delegato G.S., elettivamente domiciliata in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. 326, presso l'avv. Omissis, che, unitamente all'avv. Omissis, la difende con procura speciale apposta a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
C.R. e M.P., M. e F., tutti eredi di A. M., elettivamente domiciliati in Roma, via Bergamo, n. 3, presso gli avv.ti , che, unitamente agli avv.ti Omissis, li difendono con procura speciale apposta a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- resistenti -
e sul ricorso incidentale proposto
da
C.R. e M.P., M. M. e F., tutti eredi di A. M., come sopra rappresentati, domiciliati e difesi;
- ricorrenti -
contro
N.S. SpA, come sopra rappresentata domiciliata e difesa;
- resistente -
per la cassazione della sentenza del Tribunale di Bergamo n. 27 in data 25 gennaio 2000 (R.G. 3103-98);
sentiti, nella pubblica udienza del 1 ottobre 2002: il cons. Pasquale Picone che ha svolto la relazione della causa; l'avv. Omissis; il Pubblico ministero nella persona del sostituto procuratore generale Massimo Fedeli che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.
Fatto
Il Tribunale di Bergamo ha confermato, rigettando gli appelli della N.S. SpA e degli eredi di A. M., rispettivamente, principale e incidentale, la sentenza, del Pretore della stessa sede, che aveva condannato la società al pagamento di L 530.887.000 a titolo di risarcimento del danno biologico subito dal dipendente A. M., al quale, rimasto esposto per lungo tempo all'inalazione di polveri di amianto, era stato diagnosticato "mesotelioma pleurico destro" il 23 novembre 1990 ed era poi deceduto il 15 marzo 1991 per "cachessia neoplastica".
I motivi dell'appello (principale) della società sono stati giudicati infondati con le seguenti argomentazioni: a) il nesso causale tra attività lavorativa e insorgenza del mesotelioma pleurico doveva affermarsi in base alla teoria cd. "probabilistica", atteso che era provata l'esposizione ad alti livelli di concentrazione di fibre unitamente alla mancata adozione di adeguati mezzi di protezione, sicché il rischio, ancorché non eliminabile del tutto in relazione ad infermità che può derivare dall'inalazione, anche occasionale, di minime quantità di polveri, doveva considerarsi particolarmente aggravato; b) sussisteva la colpa dell'azienda datrice di lavoro in quanto il M. negli anni dal 1968 al 1983 era stato esposto alle polveri di amianto in maniera rilevante senza le necessarie cautele e senza che fossero forniti tutti gli idonei mezzi di protezione individuale e date agli addetti alla lavorazione adeguate informazioni, adottando inoltre strumenti di protezione generalizzata insufficienti ad eliminare la polverosità degli ambienti di lavoro; nè poteva ritenersi che la malattia fosse stata contratta negli anni sessanta, quando non era ancora noto che l'amianto fosse cancerogeno, essendo, invece, statisticamente probabile il periodo compreso tra il 1968 e il 1983 (epoca di cessazione del rapporto di lavoro), nel quale il rischio da amianto era già noto, almeno secondo risultati scientifici che avrebbero dovuto essere tenuti presenti per ottemperare al dovere di rispettare i livelli diligenza qualificata richiesti al datore di lavoro in quanto responsabile della sicurezza dei dipendenti; c) il danno biologico era stato correttamente determinato dal Pretore facendo riferimento alla vita media senza considerare la data del decesso del M., in quanto la determinazione andava fatta con riferimento al verificarsi dell'evento, restano prive di rilievo le vicende successive.
Al rigetto dell'appello incidentale degli eredi di A. M. contro il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno morale, il Tribunale è pervenuto sul rilievo che era stato chiesto dagli eredi il risarcimento del danno sofferto iure proprio (richiesta sulla quale il Pretore si era dichiarato funzionalmente incompetente) e non di quello sofferto dal defunto e spettante a titolo successorio.
La cassazione della sentenza è domandata dalla N.S. SpA con ricorso per tre motivi, al quale resistono con controricorso gli eredi di A. M. proponendo ricorso incidentale per un unico motivo. Al ricorso incidentale resiste con controricorso la società.
Le parti hanno anche depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
Diritto
1. Preliminarmente, la Corte riunisce i ricorsi proposti contro la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.). 2. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 2043 e 2087 c.c., nonché degli art. 2697 c.c. e 115 c.p.c. in relazione agli art. 40 e 41 c.p.; carenza e contraddittorietà di motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia. 2.1. Si afferma che il Tribunale aveva dichiarato di fare applicazione della teoria cd. probabilistica, secondo la quale l'evento si considera cagionato allorché si possa ritenere che non si sarebbe verificato senza il comportamento dell'agente secondo probabilità logica e credibilità razionale di alto grado, ma poi, contraddittoriamente, aveva affermato la sussistenza del nesso causale pur in difetto delle condizioni richieste dalla stessa premessa. Tale nesso, infatti, doveva ritenersi escluso, o comunque non provato in base alla regola di riparto dell'onere probatorio, sulla base di una serie di elementi: la presenza di una predisposizione individuale alla patologia che aveva colpito il M.; l'indipendenza del mesotelioma pleurico dall'intensità dell'esposizione polveri; lo sviluppo dell'infermità in soggetto che non aveva contratto l'asbestosi, dal che si deduceva che le dosi di esposizione all'amianto non erano state di carattere medio - alto. Di conseguenza, perdeva ogni validità il discorso del Tribunale circa la causalità omissiva, poiché non si individuava quale comportamento avrebbe dovuto tenere l'azienda per evitare l'evento, se non quello dell'abolizione dell'uso industriale dell'amianto (come poi disposto dal legislatore dieci anni dopo la cessazione del rapporto di lavoro del M., sulla base di successive conoscenze scientifiche). 3. Il secondo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., anche in relazione agli art. 2697 c.c. e 115 c.p.c.; carenza e contraddittorietà di motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia. 3.1. La sentenza impugnata è criticata nella parte in cui ha ritentato la sussistenza della colpa del datore di lavoro, in realtà giungendo a configurare un'ipotesi di responsabilità oggettiva. 3.2. Si afferma che il Tribunale non aveva individuato quali comportamenti avrebbe dovuto adottare il datore di lavoro per evitare l'evento (o ridurre le probabilità del suo verificarsi), nell'impossibilità (ammessa dallo stesso Tribunale) di fissare scientificamente un livello al di sotto del quale l'esposizione all'amianto non fosse rischiosa. 3.3. Si deduce, in particolare, che nessuna confutazione conteneva la sentenza alle osservazioni della consulenza di parte, secondo le quali solo nel corso degli anni '70 il rapporto amianto - cancro si era delineato a livello di probabilità scientifica; che si addebitava all'azienda la circostanza che solo nel 1977 fosse stata compiuta la prima indagine ambientale volta ad accertare i livelli di concentrazione delle fibre di amianto, tralasciando di considerare il contenuto delle difese dell'azienda, secondo cui la prima indagine era del 1974 ("complessivamente si dispone di 7 indagini ambientali effettuate tra il 1974 e il 1989, 4 dall'azienda e tre da enti pubblici..."), mentre quella eseguita dall'Università di Pavia non era in grado di fornire dati attendibili, in difetto, tra l'altro, di certezza circa l'esistenza di fibre libere di amianto. 4. L'inerenza di tutto il complesso delle argomentazioni svolte dai suesposti motivi del ricorso principale alla questione del nesso di causalità tra l'evento e la violazione di determinati obblighi di comportamento, che sia anche imputabile al datore di lavoro (cfr. Cass. 7 agosto 1998, n. 7792), ne rende opportuna la trattazione congiunta. 4.1. La società ricorrente non contesta l'impostazione giuridica adottata dal Tribunale per la risoluzione della questione del nesso di causalità tra lavorazione e infermità e, nella sostanza, si limita a denunciare vizi di motivazione che in realtà non si riscontrano nella sentenza, cosicché le censure si risolvono nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) della valutazione di merito.
I due motivi, pertanto, non possono trovare accoglimento. 4.2. Va, preliminarmente, richiamato il precedente della Corte che, nel cassare per vizio di motivazione la pronuncia di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno degli eredi di un lavoratore, già addetto alla lavorazione dell'amianto, deceduto per mesotelioma - rigetto basato sul rilievo che il lavoratore non si era ammalato di asbestosi e che il datore di lavoro non aveva violato la specifica disciplina antinfortunistica ex art. 21 d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 - ha enunciato il principio di diritto secondo cui, allorché venga in rilievo la responsabilità civile del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. (non operando l'esonero dalla predetta responsabilità ai sensi dell'art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965), la natura di norma di chiusura del sistema infortunistico fa si che sia imposto al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, il dovere di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l'integrità fisica del lavoratore (Cass., 9 maggio 1998, n. 4721) 4.3. Non si è discostato da tale principio il Tribunale con l'affermazione che, se tutte le prescrizioni cautelative (in particolare, quelle concernenti la riduzione di fumi o polveri nocive e comunque dei rischi), possibili all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa, fossero state rispettate, si sarebbe, alla stregua di un giudizio probabilistico, sicuramente ridotto il rischio di assumere la dose innescante e quindi di contrarre la malattia. 4.4. Ne discende che, l'affermazione del ricorrente, secondo la quale il nesso di causalità avrebbe dovuto escludersi in relazione alla contrazione della malattia da parte di un soggetto predisposto e che non aveva contratto l'asbestosi, si risolve in diretta contestazione del giudizio di merito, giudizio motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come si è detto, al probabile aumento del rischio. 4.5. Con specifico riferimento all'imputabilità per colpa delle omissioni di cautela, il Tribunale ha diffusamente precisato le fonti del raggiunto convincimento (riportando i risultati della prova testimoniale in ordine alle lavorazioni cui era stato adibito il M. e alle loro caratteristiche) circa la notevole esposizione alle polveri di amianto e l'insufficienza e inidoneità dei mezzi di protezione generalizzata (impianti di depurazione) e individuale (maschere, tute). 4.6 Anche in relazione al punto concernente le indagini ambientali, il Tribunale non ha trascurato fatti decisivi per la soluzione della controversia, ponendo invece in rilievo il ritardo con il quale si procedette ad indagini realmente idonee ad accertare la situazione e menzionando anche le indagini successive alla cessazione del rapporto, da cui si evincevano ulteriori elementi per qualificare colpevole il ritardo. 4.7. Giudizio di fatto incensurabile è anche quello che, sulla base dei risultati della consulenza tecnica, ha ritenuto dimostrato con sufficiente grado di probabilità che la malattia fosse stata contratta dal M. nel corso del rapporto di lavoro, al pari di quello, scientificamente plausibile, concernente la conoscibilità del rischio nel medesimo periodo temporale alla stregua dei risultati raggiunti dagli studi più accreditati in materia, con le conseguenti valutazioni sfavorevoli circa il comportamento aziendale in ordine all'adozione di misure protettive e all'acquisizione dei dati ed informazioni, necessarie soprattutto per farne partecipi i lavoratori. 5. Il terzo motivo del ricorso principale denuncia violazione e falsa applicazione degli art. 2043 e 2087 c.c. in relazione all'art. 32 Cost. e 1223 c.c.; carenza e contraddittorietà di motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia. 5.1. Si sostiene che la nozione di danno biologico come danno evento è stata superata dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994, che ha precisato come l'entità del danno in questione debba essere individuata in concreto ai sensi dell'art. 1223 c.c. e commisurato alla perdita del valore personale. Donde il principio, dal quale il Tribunale si è discostato, secondo cui il decesso del danneggiato non consente di configurare danno biologico risarcibile in assenza delle potenziali utilità connesse al bene salute, cosicché non poteva farsi riferimento alla durata della vita media, ma si doveva liquidare il danno limitatamente all'effettiva durata di essa, stante il decesso del M. avvenuto il 15 marzo 1991. 6. Anche questo motivo del ricorso principale non può trovare accoglimento.
La lettura conforme alla Costituzione delle norme che disciplinano la responsabilità civile impone di interpretarle nel senso che, in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona, il rimedio del risarcimento del danno non possa essere negato per il fatto che il pregiudizio sofferto non sia di natura patrimoniale, e ciò in via generale e non alla stregua della circoscritta previsione dell'art. 2459 c.c..
Tale principio si è consolidato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 1984, recante l'interpretazione in senso costituzionalmente orientato dell'art. 2043 c.c., norma che tutela anche e soprattutto i diritti fondamentali della persona, quale il diritto alla salute, ed impone di risarcire il danno per il fatto stesso della lesione, indipendentemente dal verificarsi anche di pregiudizi di ordine patrimoniale in termini di danno emergente o di lucro cessante. 6.1. Peraltro, la stessa Corte costituzionale ha successivamente chiarito (sentenza n. 372 del 1994) che il danno biologico non è presunto, siccome identificabile col fatto illecito lesivo della salute, giacché, se è indiscutibile che la prova della lesione è, in re ipsa, anche prova dell'esistenza del danno, è pur sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno stesso, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere commisurato. 6.2. E tuttavia tale precisazione non comporta la conseguenza che la ricorrente principale pretende di trarne, che cioè l'entità del danno vada commisurata alla durata effettiva della vita. Infatti, come esattamente sottolinea la sentenza impugnata, va considerata l'entità della lesione del bene salute prodotta dall'evento, senza che possa attribuirsi rilievo a vicende successive. 6.3. È insegnamento costante della giurisprudenza della Corte che il danno biologico risarcibile (inteso come danno conseguenza rispetto al danno evento della lesione) consiste nella perdita per il danneggiato di utilità dell'esistenza determinata dalla lesione del bene della salute; mentre non costituisce danno biologico la lesione diretta del bene della vita (indipendentemente da quell'intervallo di tempo che pur sempre, anche se minimo e se comporta sofferenza per l'individuo, intercorre tra la causa della morte e la morte stessa), cosicché, perché sia ipotizzabile un danno biologico risarcibile agli eredi iure hereditatis, occorre che tra la lesione e la morte sia intercorso un lasso di tempo sufficiente perché si concretizzi quella perdita di utilità fonte dell'obbligazione risarcitoria, atteso che solo in tal caso nasce nel patrimonio del defunto il diritto di credito (cfr., tra le numerose decisioni, Cass. 29 maggio 1996, n. 4991; tra le più recenti: Cass. 25 gennaio 2002, n. 887; 14 marzo 2002, n. 3728). 6.4. Peraltro, in ordine alla valutazione del danno, numerosi precedenti della Corte affermano la necessità di riferirlo al periodo intercorso tra l'evento lesivo e la morte del leso (Cass. 27 dicembre 1994, n. 11169; 28 novembre 1995, n. 12229; 14 marzo 1996, n. 2117; tra le più recenti: Cass. 3 gennaio 2002, n. 24), ancorché alcune sembrino limitare il principio - del riferimento alla durata effettiva e non a quella probabile della vita futura del soggetto - al caso di morte nel corso del giudizio di liquidazione per causa indipendente dalla lesione di cui il convenuto è chiamato a rispondere (Cass. 7 aprile 1998, n. 3561; 20 gennaio 1994, n. 489; 9 agosto 2001, n. 10980). 6.5. In questo modo, però, la determinazione concreta del danno viene resa immediatamente dipendente dai tempi del giudizio di liquidazione (particolarmente significativa è Cass. 489-1999, cit., con riferimento ad ipotesi di decesso intervenuto dopo la precisazione delle conclusioni e ignorato dal giudice del merito) ed inoltre, quale necessario, coerente, sviluppo logico, dovrebbe anche comportare una riduzione del risarcimento ove, proprio in conseguenza del fatto lesivo, sia diminuita la speranza di vita futura del danneggiato (il che è decisamente escluso Cass: 9 maggio 2000, n. 5881, sul rilievo che non sarebbe concepibile che il danneggiante benefici di una riduzione del risarcimento tanto maggiore quanto più grave è il danno causato). 6.6. In realtà, il rilievo accordato alla successiva morte del soggetto, accertata nel giudizio di liquidazione, non considera adeguatamente il fatto che la scelta del valore monetario del punto di invalidità in relazione alla speranza di vita futura costituisce puramente e semplicemente un criterio, un semplice metodo, per la determinazione (equitativa) del danno arrecato al bene della salute al momento dell'evento; mentre, ove si facesse riferimento alla durata concreta della vita, si adotterebbe un criterio contrastante sotto il profilo logico - giuridico con l'essenza di danno non patrimoniale, consistente nel quantum di menomazione dell'integrità psico - fisica, siccome è solo la perdita patrimoniale che va calcolata in relazione all'incidenza sulla capacità di produrre reddito in futuro. 7. L'unico motivo del ricorso incidentale denuncia contraddittorietà della motivazione e violazione e falsa applicazione degli art. 1223, 2056 e 2059 c.c.. 7.1. Si sostiene che nel ricorso introduttivo era stato chiesto il risarcimento del danno morale spettante al defunto, non il danno morale iure proprio; per giungere a ritenere diversamente la sentenza impugnata aveva valorizzato il mero errore materiale consistito nel qualificare danno morale spettante al defunto quello che era in realtà il danno biologico, richiamato al solo fine di quantificare il danno morale, errore facilmente riconoscibile perché si chiedeva a tale titolo la somma di L 265.443.500, corrispondente alla metà della richiesta relativa al danno biologico. 8. Anche il ricorso incidentale deve essere rigettato.
Va considerato che, nella specie, non denunciandosi l'omesso esame di una domanda o la pronuncia su domanda non proposta, si verte fuori dell'ambito dell'error in procedendo costituito dalla violazione dell'art. 112 c.p.c. ed in quello della contestazione dell'interpretazione del contenuto e ampiezza della domanda, di attività del giudice del merito, quindi, che integra un tipico accertamento in fatto, sindacabile dalla Corte di cassazione esclusivamente sotto il profilo del vizio della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass. 1998-10101; 3094-2001; 3016-2001; 6066-2001). 8.1. La domanda di risarcimento del danno morale cagionato al M. dal fatto illecito costituente reato è stata ritenuta non proposta, in quanto i ricorrenti avevano dichiarato di agire anche per il risarcimento del danno biologico subito iure proprio per effetto del decesso del congiunto, senza poi precisare che il danno morale era chiesto iure hereditario e domandando, anzi, a tale titolo una somma pari alla metà "del danno morale che sarebbe spettato al defunto". 8.2. Si è in presenza di una motivazione sufficiente e logica, cosicché il risultato interpretativo si sottrae al sindacato di legittimità, essendo precluso alla Corte l'esame dell'atto onde verificare se realmente fossero state impiegate espressioni inesatte per formulare una domanda di risarcimento del danno morale spettante al de cuius, senza che l'erronea formulazione valesse ad impedire l'esatta ricognizione della volontà espressa. 9. In ordine alla regolazione delle spese del giudizio di cassazione, in considerazione dell'esito della lite si compensa tra le parti un terzo delle spese, ponendo a carico della N.S. SpA i restanti due terzi, liquidati nella misura di cui in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa nella misura di un terzo le spese del giudizio di cassazione e condanna la N.S. SpA al pagamento dei restanti due terzi, liquidati in euro 39,00 per spese e in euro 4000 per onorari Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2002