Cassazione Civile, Sez. Lav., 13 settembre 2006, n. 19559 - Operaio delle ferrovie dello Stato sale al volo sul carrello trasportatore. Amputazione degli arti inferiori ma al datore di lavoro non può esser mosso alcun rimprovero
Fatto
1. M.L. con ricorso fondato su due motivi chiede la Cassazione della sentenza con la quale il Tribunale di Bologna, pronunziando nei confronti delle Ferrovie dello Stato s.p.a, convenuta, e delle Assicurazioni Generali s.p.a, chiamate in causa, ha confermato la sentenza del Pretore della stessa sede che aveva rigettato le domande proposte dall'attuale ricorrente per la condanna delle (allora) Ferrovie dello Stato s.p.a. a pagargli L. 1.007.482.171, con interessi rivalutazione, a titolo di risarcimento del danno sopportato in conseguenza di infortunio sul lavoro in data 18 luglio 1988, a seguito del quale egli aveva subito l'amputazione degli arti inferiori.
2. La domanda è stata rigettata sulla considerazione che nel giudizio penale in cui il M. si era costituito parte civile i responsabili della struttura aziendale sede dell'infortunio (Officina Grandi Riparazioni) erano stati assolti perchè "il fatto non costituisce reato", ossia con una formula dotata di efficacia preclusiva nel giudizio civile per le parti che abbiano partecipato al giudizio penale o siano state poste in grado di farlo, quando l'illecito civile sotto il profilo psicologico sia stata caratterizzato in maniera identica all'illecito penale ed il Giudice del dibattimento abbia proceduto ad un accertamento in concreto del fatto. In sede penale era stato acclarato che l'ambiente di lavoro dell'Officina era totalmente conforme alle prescrizioni in materia di sicurezza e che l'infortunio era avvenuto a causa di una condotta anomala e colposa dello stesso M., il quale, violando tutti i divieti indicati nei cartelli esposti, era salito "al volo" sul carrello trasportatore, aggrappandosi ad una maniglia e scivolando successivamente sulla rotaia. La conformità alle prescrizioni in materia di sicurezza era stata in ogni caso ulteriormente confermata dalla consulenza tecnica svolta in sede civile. Non poteva pertanto ravvisarsi nel caso di specie un residuo di colpa a carico del datore di lavoro, e conseguentemente non era invocabile l'art. 2087 c.c., che non configura una forma di responsabilità oggettiva ma presuppone la colpa, sia pure lieve.
3. La Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. (già Ferrovie dello Stato società di trasporti di servizi S.p.A. e le Assicurazioni Generali S.p.A. resistono con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.
Diritto
4. Il primo motivo di ricorso formalmente rubricato come denunzia di "contraddittorietà ed illogicità della motivazione" addebita alla sentenza impugnata di aver riconosciuto alla sentenza di assoluzione efficacia preclusiva senza considerare che il giudizio penale non si era svolto contro il legale rappresentante delle Ferrovie, sicchè era illogico utilizzare gli accertamenti concernenti il profilo psicologico dell'illecito penale in favore di un soggetto nei cui confronti non era avvenuta nessuna indagine.
5. Il motivo è infondato.
5.1. La sentenza penale di assoluzione con la formula "perchè il fatto non costituisce reato" ha valore di giudicato interno in ordine all'accertamento dei fatti materiali che furono oggetto del processo penale, all'accertamento del nesso causale e a tutte le statuizioni sulla responsabilità civile, qualora il giudizio civile si sia incardinato nel procedimento penale, con la costituzione di parte civile e la partecipazione ad esso delle controparti. In caso invece di mancata costituzione di parte civile, la sentenza penale può essere utilizzata dal Giudice civile per trarre elementi di giudizio, pur se non vincolanti.(Cass. 6 agosto 2002, n. 11773). E, di recente, ribadita la premessa secondo cui in materia di rapporti fra giudizio penale e giudizio civile - come disciplinato dal vigente codice di procedura penale del 1988 (ai sensi degli artt. 652 e 654), a differenza di quello previgente (art. 25) l'azione civile per danni è preclusa dal giudicato penale che rechi un effettivo e specifico accertamento circa l'insussistenza o del fatto o della partecipazione dell'imputato, si è ulteriormente precisato che l'autorità del giudicato (anche penale) copre sia il dedotto che il deducibile, ovvero non soltanto le questioni di fatto e di diritto investite esplicitamente dalla decisione (c.d. "giudicato esplicito"), ma anche le questioni che - sebbene non investite esplicitamente dalla decisione - costituiscano comunque presupposto logico essenziale ed indefettibile della decisione stessa (c.d. "giudicato implicito"), restando salva ed impregiudicata soltanto la sopravvenienza di fatti e di situazioni nuove, che si siano verificate dopo la formazione del giudicato o, quantomeno, che non fossero deducibili nel giudizio, in cui il giudicato si è formato. Pertanto, alla stregua dei suddetti principi, il giudicato penale di assoluzione - con la formula "perchè il fatto non sussiste" - preclude la proposizione, nel giudizio di civile di risarcimento del danno derivante dal medesimo fatto-reato, di una ricostruzione della vicenda che postuli, sotto altra prospettazione, l'esistenza di elementi di fatto, che risultino esclusi - sia pure implicitamente - dal giudicato penale. (Cass. 20 aprile 2006, n. 9235, che, nella specie, con riguardo all'azione di un lavoratore infortunato per il risarcimento del cd. "danno differenziale, ha rigettato il motivo di ricorso e confermato sul punto la sentenza impugnata con la quale correttamente era stato ritenuto che la predetta azione doveva considerarsi preclusa dal giudicato penale di assoluzione, dal reato di lesioni colpose, del legale rappresentante della società datrice di lavoro, per insussistenza del fatto, in dipendenza della ravvisata carenza del nesso causale tra condotta dell'imputato ed evento pregiudizievole, che copriva, quantomeno implicitamente, anche l'addebito di "omessa adozione delle misure di sicurezza prescritte dalla legge).
5.2. Poichè sulla base del giudicato penale il Giudice civile ha escluso la violazione delle norme di sicurezza tale accertamento concerne innanzitutto il fatto in se considerato e si risolve nella affermazione che nell'ambiente di lavoro le norme di sicurezza erano state rispettate. Consequenziale a tale accertamento è l'assoluzione dei due dipendenti preposti all'Officina Grandi Riparazioni, ma l'accertamento vale in sè ed esclude quindi la possibilità di una ulteriore indagine nei confronti dei vertici della società, mancando il presupposto stesso di una loro responsabilità a qualsiasi titolo.
6. Il secondo motivo di ricorso, rubricato come "falsa applicazione dell'art. 2087 c.c." addebita alla sentenza impugnata di non aver considerato che, in base alla norma richiamata, il datore di lavoro ha il dovere di predisporre qualunque mezzo per assicurare la tutela della integrità fisica e morale dal lavoratore sicchè non era sufficiente l'indagine sulla condotta colposa del M., essendo necessario verificare il pieno adempimento degli obblighi del datore, tanto più che la c.t.u aveva accertato che l'uso del carrello da parte del M. rispondeva ad un prassi tollerata e che, comunque, lo stato delle buche con scala di accesso alle rotaie dei carrelli, luogo in cui era avvenuto l'infortunio, non poteva ritenersi in linea con i principi di sicurezza.
7. Il motivo è infondato.
7.1. Conviene anzitutto precisare che i rilevi che vi si leggono in relazione alle risultanze della ctu propongono questioni di fatto inammissibili in questa sede perchè - contrariamente a quanto ribadito in memoria - non accompagnate dalla appropriata denunzia di vizio motivazionale e dalla necessaria puntuale indicazione delle parti di ctu che darebbero conforto alle censure, con trascrizione del contenuto dei documenti e delle testimonianze, indicati invece, gli uni e le altre, in modo del tutto generico, e con una sorta di riassunto di tali censure. Vale ricordarne al proposito che la parte che deduce il vizio di carenza di motivazione (che, nella specie è il vizio in sostanza addebitato alla sentenza per l'aspetto che qui rileva) ha l'onere di indicare in modo autosufficiente (non solo "per relationem", bensì con specificazione completa ed idonea a consentire, attraverso il solo ricorso e senza rendere necessario l'esame degli atti del processo, la chiara e completa cognizione delle argomentazioni) gli elementi di cui lamenta l'omessa o insufficiente valutazione nella loro consistenza materiale, nella loro pregressa indicazione (in sede di merito) e nella loro rilevanza processuale (come potenziale idoneità' a condurre ad una diversa decisione) al fine di consentire al Giudice di legittimità1 di accertare il verificarsi della carenza e di valutarne la decisività.
(v. fra le molte, Cass. 13 aprile 2000, n. 4759).
7.2. Nella parte in cui contiene censure ammissibili il motivo si riduce quindi al quesito se, accertata da un lato la piena conformità dell'ambiente di lavoro alle prescrizioni antinfortunistiche e dall'altro il carattere del tutto anomalo della condotta del lavoratore, contraria ad un divieto espresso, secondo l'accertamento di fatto del Giudice di merito, residui ancora una area di responsabilità del datore.
7.3 La risposta è negativa.
Questa Corte è solita affermare con indirizzo costante, che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore. Ma alla regola così formulata fanno eccezione i casi nei quali la condotta del lavoratore presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, in relazione al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento. In tale caso vi è esonero totale del datore da ogni responsabilità (v. fra le più recenti, Cass. 24 marzo 2004, n. 5920; che nella specie, relativa all'infortunio occorso all'interno di un caseificio ad un lavoratore che, per controllare la temperatura del siero bollente contenuto in una vasca sopraelevata, era scivolato all'interno di questa riportando gravi ustioni, ha riformato la decisione di merito che aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro, in base all'imprevedibilità della condotta del dipendente, senza tuttavia accertare le modalità "tipicamente" seguite nel procedimento lavorativo nonchè l'esistenza di direttive datoriali per il controllo del siero; nello stesso senso Cass. 8 marzo 2006, n. 4980, che ha confermato la sentenza di merito che, con motivazione logica ed adeguata, aveva verificato che, in presenza di un'acclarata situazione di pencolo esistente al momento dell'infortunio mortale dovuto al brusco innalzamento di un braccio operatore che aveva schiacciato il cranio del dipendente contro il tettuccio della macchina che stava manovrando e riconducibile all'elusione del meccanismo di sicurezza, la società datrice di lavoro non aveva provato che tale elusione fosse dovuta all'iniziativa del lavoratore, precisando, peraltro, che, anche in nell'eventualità della sussistenza di tale circostanza, non si sarebbe potuta escludere la responsabilità datoriale, atteso che la "tipicità" di un procedimento lavorativo pericoloso, nel quale l'operatore, per maggiore libertà di movimento, manovri la macchina dopo aver reso inoperante i meccanismi di sicurezza, non escludeva, nè riduceva, la colpa dell'imprenditore; Cass. 14 marzo 2006, n. 5493 che ha ritenuto che il Giudice di merito avesse fatto corretta applicazione del principio sopraenunziato, escludendo la configurabilità di un comportamento abnorme nel fatto del dipendente che accedeva alla macchina cui era addetto - una pressa- da un lato non previsto giungendo ad inserire le mani nella macchina per estrarre un pezzo rimasto incastrato, in quanto tale zona non era dotata di adeguate protezioni, atte ad evitare la possibilità di tale comportamento imprudente da parte de lavoratore). Alla luce del criterio sopraindicato è agevole osservare che nel fatto, come ricostruito dal Giudice di merito, ci si trova sostanzialmente fuori della ipotesi di un comportamento elusivo delle norme di sicurezza da parte del lavoratore posto in essere nell'ambito di uno specifico compito affidatogli, e si tratta invece di una iniziativa assunta dal lavoratore per spostarsi in modo del tutto anomalo e imprevedibile nell'ambito della zona di lavoro, "un tentativo" - come si legge del resto nello stesso ricorso "di utilizzare il carrello trasportatore come mezzo di trasporto personale". Diversamente dai casi, cui si riferiscono Cass. 5493/06 e 4980/06, sopra menzionate, nei quali il "gesto lavorativo" non conforme alle regole di sicurezza si inseriva comunque in una attività implicante comunque un certo rischio, sicchè si è addebitato al datore di lavoro il mancato apprestamento di meccanismi idonei ad evitare una deviazione pericolosa dalla sequenza normale, o ad escludere la possibilità di soppressione da parte del lavoratore dei meccanismi di sicurezza, per maggiore comodità o speditezza del lavoro, nel caso in esame, per quanto risulta dalla sentenza impugnata, non vengono in questione profili di sicurezza attinenti al mezzo in se o a modalità di uso evitabili mediante meccanismi appropriati. E'stato, per contro, accertato che rispetto ad una utilizzazione anomala del mezzo, quale il salirvi in velocità aggrappandosi ad una maniglia, ossia rispetto ad una condotta che non poteva esser evitato incidendo sul mezzo in se, erano anche stati approntati anche gli opportuni cartelli di avvertimento. Quindi l'unico ambito nel quale sarebbe stata ipotizzabile una eventuale responsabilità del datore di lavoro restava quello della eventuale tolleranza abituale nei confronti dell'uso anzidetto, pur nella consapevolezza della sua pericolosità, problema posto nel ricorso, ma, come detto in premessa, in modo inammissibile. Una volta accertato che in definitiva al datore di lavoro non poteva esser mosso alcun rimprovero, l'affermazione di una sua responsabilità trasformerebbe la fattispecie normativa di cui all'art. 2087 c.c., in una forma di responsabilità oggettiva, risultato costantemente negato dalla giurisprudenza di questa Corte (v. fra le molte Cass. 14 gennaio 2005, n. 644; 20 febbraio 2006, n. 3650).
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare le spese del giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2006