- Infortunio sul Lavoro
- Appalto e Contratto d'opera
- Coordinatore per la Sicurezza
- Datore di Lavoro
- Responsabile dei lavori
Responsabilità di committente, appaltatore nonchè direttore dei lavori e subappaltatore dei lavori edili per infortunio sul lavoro occorso ad operaio, dipendente dell'impresa subappaltatrice dei lavori per la realizzazione di un immobile a destinazione industriale, il quale, mentre era impegnato ad eseguire lavori di scavo di un terreno, riportava gravissime lesioni mortali in conseguenza dello schiacciamento cranico e toracico cagionato dal ribaltamento della pala meccanica cui era addetto - Sussiste.
La Corte nel rigettare i ricorsi afferma innanzitutto che "il motivo, afferente la sostenuta inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie in esame del D.Lgs. n. 494 de 1996 entrato in vigore in data 24 marzo 1997, è infondato."
"Analoghe considerazioni valgono con riferimento all'altra censura, con la quale si sostiene che in ogni caso non poteva essere attribuita al committente alcuna responsabilità per la mancata nomina del coordinatore per la progettazione e l'esecuzione, sull'asserito presupposto che la fattispecie in questione esulerebbe dall'ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 494 del 1996, artt. 3.
La Corte di appello ha argomentato sul punto in modo puntuale, corrispondendo alle doglianze avanzate con il gravame dal G..
In particolare, a base dell'affermato giudizio di colpevolezza i giudici di secondo grado hanno posto l'inadempimento del committente all'obbligo di nominare il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, previsto obbligatoriamente anche nell'ipotesi, come quella in esame, in cui dopo l'affidamento dei lavori ad una impresa l'esecuzione degli stessi sia poi affidata a più imprese (v. D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 3, comma 4 bis).
Non è infatti dubitabile, la posizione di garanzia in cui si trovava il G., il quale, nella qualità di committente, era tenuto alla nomina del coordinatore per l'esecuzione dei lavori - figura introdotta dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, in attuazione della direttiva 92/57/CEE sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute nei cantieri temporanei o mobili, il quale deve assicurare, nel caso della effettuazione dei lavori, il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine di realizzare la migliore organizzazione ed ha il compito di adeguare il piano di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori, di vigilanza sul rispetto del piano stesso e di sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni, segnalando al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni di cui al citato decreto.
Nè la responsabilità dell'appaltatore esclude, in caso di infortunio, la configurabilità della responsabilità anche del committente."
Parimenti non è dubitabile la posizione di garanzia del Gu., nella qualità di appaltatore, pur in presenza di subappalto, in quanto anch'egli destinatario delle disposizioni antinfortunistiche, qualora abbia assunto il rischio inerente all'esecuzione dei lavori e la responsabilità d'organizzare il cantiere con propri mezzi e con personale da lui assunto."
"HTML clipboardinfatti, in caso di subappalto dei lavori, ove questi si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall'appaltatore, in esso inserendosi anche l'attività del subappaltatore per l'esecuzione di un'opera parziale e specialistica, e non venendo meno l'ingerenza dell'appaltatore e la diretta riconducibilità (quanto meno anche) a lui dell'organizzazione del (comune) cantiere (non cessando egli di essere investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria predetta qualità), sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza ed alla dovuta sorveglianza al riguardo. "
"Deve, pertanto, affermarsi che, in caso di infortunio, è sempre stato ammesso che possano aversi "intrecci di responsabilità" coinvolgenti anche il committente (v. sul punto, Sezione 4, 17 gennaio 2008, n. 13917, Cigalotti ed i riferimenti in essa contenuti, rv. 239590, 239591) come può desumersi dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, laddove si pongono gli specifici obblighi del datore di lavoro in caso di affidamento dei lavori, all'interno dell'azienda, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi.
Il datore di lavoro, in tal caso, è tra l'altro tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione ed a fornire alle imprese appaltatrici ed ai lavoratori autonomi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro.
Può anzi ben dirsi che tali obblighi comportamentali determinano a carico del datore di lavoro una posizione di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche del lavoratore dipendente dell'appaltatore e, a fortiori, del lavoratore autonomo operante nell'impresa."
"Come è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera.
In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa".
"Nè potrebbe valere, in senso contrario, l'invocata causa di esclusione della responsabilità, fondata su un'asserita condotta abnorme del lavoratore, peraltro affermata solo assertivamente senza indicare in che cosa siffatta condotta si sarebbe sostanziata, così introducendo per la prima volta in questa sede una inammissibile diversa ricostruzione dei fatti."
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MORGIGNI Antonio - Presidente -
Dott. BIANCHI Luisa - Consigliere -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
1) G.F., n. (OMISSIS);
2) GU.Se., n. (OMISSIS);
3) T.G., n. a (OMISSIS);
4) avverso la sentenza in data 30 ottobre 2007 della Corte di Appello di Napoli;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Patrizia Piccialli;
udito il Procuratore generale nella persona del Sostituto Proc. Gen. Dott. Vincenzo Geraci, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza nei confronti di G.F. ed il rigetto
dei ricorsi proposti nell'interesse del T. e del Gu.;
uditi i difensori, entrambi del Foro di Nola, avv.to Luigi Travaglino, per le parti civili costituite, il quale conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi e l'avv.to BIZZARRO Raffaele per l'imputato G., che conclude per l'accoglimento del ricorso.
Trattavasi di un infortunio sul lavoro occorso in data 20 giugno 1998 all'operaio M.S., dipendente dell'impresa Terracciano, subappaltatrice dei lavori edili per la realizzazione di un immobile a destinazione industriale, il quale, mentre era impegnato ad eseguire lavori di scavo di un terreno, riportava gravissime lesioni mortali in conseguenza dello schiacciamento cranico e toracico cagionato dal ribaltamento della pala meccanica cui era addetto.
Il G., il Gu. ed il T. erano stati chiamati a risponderne in qualità, rispettivamente, di committente, appaltatore nonchè direttore dei lavori e subappaltatore dei lavori edili in questione, essendosi ravvisati a loro carico profili di colpa, sia generica, sub specie dell'imprudenza e della negligenza, sia specifica, fondata, quest'ultima, sull'inosservanza del disposto del D.P.R. n. 164 del 1956, artt. 13 e 14, avendo gli stessi omesso di assicurare che il M. adottasse le cautele ivi previste nell'ipotesi di scavi in terreni la cui consistenza non dava sufficiente garanzia di stabilità, provvedendo all'applicazione di idonee armature di sostegno ed evitando di accumulare sul ciglio dello scavo, in contrasto con l'esplicito divieto della normativa di settore, un deposito dei materiali di risulta, dai quali il lavoratore veniva travolto.
Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione G.F., Gu.Se. e T.G., articolando i seguenti motivi.
Il G. ed il Gu. con il primo ed il secondo motivo, partendo dalla premessa che la sentenza impugnata aveva erroneamente fondato il giudizio di responsabilità su di una consulenza tecnica inutilizzabile perchè effettuata oltre il termine previsto dall'art. 407 c.p.p., lamentano che il giudice di appello aveva erroneamente legittimato l'operato del G.U.P., il quale, dichiarata l'inutilizzabilità della richiamata CTU, con ordinanza disponeva la trasmissione degli atti al P.M. per la redazione di nuova consulenza al fine di provvedere a completare le indagini mediante la rinnovazione della consulenza tecnica, ricorrendo ai poteri di cui all'art. 421 bis c.p.p..
I ricorrenti lamentano l'abnormità dell'ordinanza per i seguenti motivi:
1) violazione dell'art. 421 bis cod. proc. pen., in quanto il G.U.P. aveva ritenuto una "carenza d'indagine" ciò che invece era un atto inutilizzabile, così tentando di sanare contra legem con provvedimento abnorme un vizio procedurale;
2) la nullità del procedimento di acquisizione della prova anche nella sua successiva articolazione testimoniale, perchè acquisita in violazione dell'art. 191 c.p.p., comma 1;
3) la nullità della prova, per violazione del diritto di difesa dell'imputato;
4) la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'applicabilità nel caso di specie dell'art. 421 bis c.p.p., laddove la Corte di merito, al fine di legittimare l'uso del potere da parte del G.U.P., aveva ritenuto incomplete le indagini (perchè la precedente consulenza si sarebbe limitata a valutazioni meramente ipotetiche ed era necessario che fossero ricostruiti i fatti in maniera esaustiva), così facendo riferimento alla decisività della prova, tipica del potere previsto dall'art. 422 c.p.p.;
Tale modo di procedere avrebbe violato il principio di irretrattabilità dell'azione penale, avendo il giudice inciso sull'iniziativa del P.M. nell'esercizio dell'azione penale.
Con il terzo motivo, i ricorrenti si dolgono, nel merito, dell'errata interpretazione del D.Lgs. n. 494 del 1996, artt. 3, 4, 5 e 6, che prescrivono gli obblighi del committente e del responsabile dei lavori e del coordinatore per la progettazione e l'esecuzione dei lavori.
Lamentano, in particolare, l'illogicità della motivazione nella parte in cui i giudici di appello hanno ritenuto l'applicabilità alla fattispecie del D.Lgs. n. 494 de 1996, entrato in vigore il 24 marzo 1997, disattendendo la tesi difensiva fondata sulla circolare ministeriale n. 41/97, secondo la quale, si argomenta, l'operatività della normativa citata andava ancorata al momento del conferimento dell'incarico di progettazione che doveva essere successivo al 24 marzo 1997.
Sotto altro profilo, con lo stesso motivo, lamentano la violazione anche del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 12, assumendo che, anche nel caso si fosse dovuto ritenere il piano di sicurezza esigibile, nessuna responsabilità poteva essere attribuita al committente per la mancata nomina del coordinatore per la progettazione e l'esecuzione, esulando la fattispecie dall'ipotesi prevista dall'art. 3 del cit. decreto (cantieri con entità presunta e pari o superiore a 200 uomini-giorno, oppure in cui i lavori presentano i rischi particolari elencati nell'allegato 10).
Si sostiene in particolare che al committente nei cantieri piccoli non sono imposti gli obblighi di cui al D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 4, comma 1, e art. 5, comma 1.
Nessun profilo di responsabilità sarebbe, pertanto, configurabile a carico del committente G., dovendosi escludere ogni sua responsabilità rispetto alla presunta inadeguata attività di scavo da ascriversi esclusivamente alla ditta che lo stava eseguendo.
Con altro e ultimo motivo lamentano la carenza di motivazione in merito alla concessione delle attenuanti generiche.
Il T., subappaltatore dei lavori e datore di lavoro della vittima (al quale era stato contestato di non avere provveduto all'adozione delle cautele necessarie per l'utilizzo della pala meccanica nonchè di non avere preveduto il franamento del terreno, causa del ribaltamento del mezzo) articola i seguenti motivi.
In primo luogo, censura la sentenza nella parte in cui, aderendo acriticamente a quella di primo grado, avrebbe ritenuto sussistente la violazione di cui al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12, sul presupposto che lo scavo in corso di realizzazione fosse profondo mt.1,60.
Siffatta conclusione, fondata sulla seconda consulenza svolta dal P.M., sulla scorta degli accertamenti svolti dai Carabinieri intervenuti sul luogo del sinistro, illogicamente non avrebbe tenuto conto delle altre fonti probatorie presenti nel processo, che deponevano per una profondità dello scavo inferiore a mt. 1,50 e, pertanto, non richiedente interventi di puntellatura.
Si sottolinea, in particolare, che tutte le risultanze istruttorie convenivano nel ritenere che l'incidente si era verificato per un errore di manovra da parte del lavoratore, il quale avrebbe posto in essere un comportamento eccezionale ed imprevedibile.
Analoghe censure sono svolte con riferimento alla contestazione di cui all'art. 4 del richiamato decreto, sul rilievo che la Corte di merito non avrebbe tenuto conto che l'ispettore del lavoro aveva escluso ratione temporis l'applicabilità alla fattispecie del D.Lgs. n. 494 del 1996, in quanto i lavori erano iniziati in epoca antecedente al 24 marzo 1997.
Con un altro motivo, si censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe concesso le attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestate aggravanti e si chiede, pertanto, previa riformulazione del giudizio de quo, l'annullamento della sentenza per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione.
I ricorsi sono infondati.
Con riferimento al primo ed al secondo motivo proposti dal G. e dal Gu., rispettivamente committente ed appaltatore, che hanno presentato un ricorso comune, il Collegio condivide l'orientamento già espresso da questa Sezione con la sentenza in data 21 novembre 2003, n. 702, Amabile, rv. 227089, fatto proprio dal giudice di appello.
In quella occasione la S.C. ha in effetti affermato che è illegittimo il provvedimento del giudice dell'udienza preliminare, il quale, a norma dell'art. 421 bis cod. proc. pen., dichiari l'inutilizzabilità di un atto compiuto dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, restituendogli gli atti "affinchè provveda a completare le indagini mediante la rinnovazione dell'atto", ciò in quanto l'integrazione prevista dal citato art. 421 bis c.p.p. riguarda esclusivamente gli adempimenti istruttori, e non si estende alla sanatoria dei vizi procedurali.
E pur tuttavia, la citata decisione ha anche escluso che tale provvedimento possa considerarsi "abnorme", in quanto non si tratta di atto che, sotto il profilo strutturale, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, nè che, sotto il profilo funzionale, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo.
La decisione richiamata merita piena condivisione.
Fuor di dubbio è l'illegittimità del provvedimento adottato dal G.U.P., invocando l'art. 421 bis cod. proc. pen., per "sanare" l'intervenuta inutilizzabilità della consulenza disposta dal P.M. al di fuori dei termini di cui all'art. 407 cod. proc. pen., perchè la possibilità di integrare una lacuna istruttoria, quale attribuita al giudice dal citato art. 421 bis cod. proc. pen. non riguarda l'ipotesi in cui si discuta di nullità, inutilizzabilità, o comunque di un qualsivoglia vizio processuale di un atto di indagine.
Il provvedimento del G.U.P., invero, non è abnorme.
Come è noto, la nozione di provvedimento "abnorme", come tale censurabile con il ricorso in sede di legittimità, costituisce una categoria concettuale di costruzione giurisprudenziale, in forza della quale la Cassazione, pur a fronte delle regole generali della tipicità e tassatività dei casi di nullità (art. 177 cod. proc. pen.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p., comma 1), consente di rimuovere quel provvedimento giudiziario che risulti affetto da vizi in procedendo o in iudicando, assolutamente imprevedibili per il legislatore (che quindi non avrebbe potuto prevederli e regolamentarli, sanzionandoli a pena di nullità), che ne minano alla base la "struttura" o la "funzione".
Sotto il primo profilo, dovendosi considerare abnorme il provvedimento giudiziale che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale (cosiddetta "abnormità strutturale"); sotto il secondo profilo, dovendosi considerare tale il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere dell'organo che lo ha prodotto, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, si da determinare una stasi irrimediabile del processo con conseguente impossibilità di proseguirlo, ovvero un'inammissibile regressione ad una fase ormai esaurita (cosiddetta "abnormità funzionale").
In entrambi i casi, si sostiene, la rimozione dalla realtà giuridica non può che passare attraverso la denuncia dell'abnormità davanti al giudice di legittimità: in particolare, poichè proprio l'atipicità del vizio non consentirebbe il ricorso ad uno specifico e predeterminato mezzo di gravame, l'esigenza di giustizia può essere appagata, ai sensi dell'art. 111 Cost., mediante il ricorso immediato per cassazione per violazione di legge.
Ebbene, nessuna delle due ipotesi ricorre nella specie, in cui il giudice, rimettendo gli atti al P.M., ha fatto uso - anche se errato - di un potere integrativo pur sempre conferitogli da una precisa disposizione legislativa, e cioè dal citato art. 421 bis cod. proc. pen., e non ha emesso, quindi, un provvedimento che, sotto il profilo strutturale, si ponga fuori dal sistema organico della legge processuale, o che, sotto il profilo funzionale, abbia determinato la stasi del processo tanto che questo, all'evidenza, è proseguito, non solo attraverso il conferimento del nuovo incarico da parte del P.M. allo stesso consulente, che nello stesso giorno depositava la consulenza già dichiarata inutilizzabile, ma anche mediante l'acquisizione in dibattimento dell'elaborato peritale dopo l'audizione del consulente in qualità di teste, nel contraddicono delle parti e con la possibilità per la difesa di interloquire.
Anche il terzo motivo, afferente la sostenuta inapplicabilità ratione temporis alla fattispecie in esame del D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, entrato in vigore in data 24 marzo 1997, è infondato.
La ricostruzione della difesa che prospetta l'accoglimento di tale doglianza sostenendo assertivamente che il conferimento dell'incarico di progettazione era avvenuto in epoca antecedente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo, presupporrebbe la rivalutazione del merito del compendio probatorio acquisito da parte della Corte di merito e valutato non illogicamente.
Sul punto, la sentenza partendo dal dato obiettivo che le richieste per ottenere le concessioni edilizie ai fini della realizzazione di un ampliamento di un opificio industriale erano state presentate tra l'ottobre ed il dicembre 1997 aveva ritenuto logico supporre che l'incarico di progettazione per una opera non complessa fosse stato conferito non molto tempo prima della presentazione della richiesta di concessione e, quindi, in epoca successiva al marzo 1997.
E' stato, inoltre, correttamente sottolineato la non rilevanza della questione ai fini della decisione, sul rilievo che in ogni caso il dettaglio progettuale necessario per la presentazione del progetto alla commissione comunale era stato redatto e prodotto in epoca in cui la normativa era in vigore.
La linea difensiva che insiste anche in questa sede sull'inapplicabilità del D.Lgs. n. 494 del 1996 sconta i limiti del giudizio di cassazione, non potendo certo questa Corte, una volta verificato l'iter logico della motivazione, rivalutare il materiale probatorio afferente l'epoca di conferimento dell'incarico di progettazione.
Rivalutazione, peraltro, non solo non consentita, ma altresì inutile per quanto sopra esposto con riferimento alle considerazioni in merito alla redazione del dettaglio progettuale necessario per la presentazione del progetto alla commissione comunale.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento all'altra censura, con la quale si sostiene che in ogni caso non poteva essere attribuita al committente alcuna responsabilità per la mancata nomina del coordinatore per la progettazione e l'esecuzione, sull'asserito presupposto che la fattispecie in questione esulerebbe dall'ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 3.
La Corte di appello ha argomentato sul punto in modo puntuale, corrispondendo alle doglianze avanzate con il gravame dal G..
In particolare, a base dell'affermato giudizio di colpevolezza i giudici di secondo grado hanno posto l'inadempimento del committente all'obbligo di nominare il coordinatore per l'esecuzione dei lavori, previsto obbligatoriamente anche nell'ipotesi, come quella in esame, in cui dopo l'affidamento dei lavori ad una impresa l'esecuzione degli stessi sia poi affidata a più imprese (v. D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 3, comma 4 bis).
Non è infatti dubitabile, la posizione di garanzia in cui si trovava il G., il quale, nella qualità di committente, era tenuto alla nomina del coordinatore per l'esecuzione dei lavori - figura introdotta dal D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 5, in attuazione della direttiva 92/57/CEE sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute nei cantieri temporanei o mobili, il quale deve assicurare, nel caso della effettuazione dei lavori, il collegamento tra impresa appaltatrice e committente al fine di realizzare la migliore organizzazione ed ha il compito di adeguare il piano di sicurezza in relazione alla evoluzione dei lavori, di vigilanza sul rispetto del piano stesso e di sospendere, in caso di pericolo grave ed imminente, le singole lavorazioni, segnalando al committente o al responsabile dei lavori, le inosservanze alle disposizioni di cui al citato decreto.
Nè la responsabilità dell'appaltatore esclude, in caso di infortunio, la configurabilità della responsabilità anche del committente.
Questi, infatti, in termini generali, è corresponsabile qualora l'evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione e ciò avviene, ad esempio, quando abbia consentito l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose, come nel caso in esame, in cui erano in esecuzione nel cantiere opere di escavazione verticale del terreno - che non si presentava compatto - ad opera di pale meccaniche senza l'approntamento di un adeguato puntellamelo del fronte dello scavo.
Inoltre, il committente può essere chiamato a rispondere dell'infortunio qualora l'omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte sia immediatamente percepibile cosicchè il committente medesimo sia in grado di accorgersi dell'inadeguatezza delle stesse senza particolari indagini; mentre, in questa evenienza, ad escludere la responsabilità del committente, non sarebbe sufficiente che questi abbia impartito le direttive da seguire a tale scopo, essendo comunque necessario che ne abbia controllato, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservanza (v. Sezione 4, 29 aprile 2008, n. 22622, Barzagli ed altro, non massimata sul punto).
Deve, pertanto, affermarsi che, in caso di infortunio, è sempre stato ammesso che possano aversi "intrecci di responsabilità" coinvolgenti anche il committente (v. sul punto, Sezione 4, 17 gennaio 2008, n. 13917, Cigalotti ed i riferimenti in essa contenuti, rv. 239590, 239591) come può desumersi dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7, laddove si pongono gli specifici obblighi del datore di lavoro in caso di affidamento dei lavori, all'interno dell'azienda, ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi.
Il datore di lavoro, in tal caso, è tra l'altro tenuto a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione ed a fornire alle imprese appaltatrici ed ai lavoratori autonomi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro.
Può anzi ben dirsi che tali obblighi comportamentali determinano a carico del datore di lavoro una posizione di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche del lavoratore dipendente dell'appaltatore e, a fortiori, del lavoratore autonomo operante nell'impresa (cfr. la citata sentenza Cigalotti).
Si tratta, come si vede, di una normativa molto rigorosa, che dimostra con chiarezza l'intendimento di assicurare al massimo livello un ambiente di lavoro sicuro, con conseguente "estensione" dei soggetti onerati della relativa "posizione di garanzia" nella materia prevenzionale allorquando l'omessa adozione delle misure antinfortunistiche prescritte risulti la conseguenza del rilevato omesso coordinamento.
Parimenti non è dubitabile la posizione di garanzia del Gu., nella qualità di appaltatore, pur in presenza di subappalto, in quanto anch'egli destinatario delle disposizioni antinfortunistiche, qualora abbia assunto il rischio inerente all'esecuzione dei lavori e la responsabilità d'organizzare il cantiere con propri mezzi e con personale da lui assunto.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v., tra le altre, Sezione 4, 15 dicembre 2005, n. 5977, Cimenti, rv. 233245, 233246), infatti, in caso di subappalto dei lavori, ove questi si svolgano nello stesso cantiere predisposto dall'appaltatore, in esso inserendosi anche l'attività del subappaltatore per l'esecuzione di un'opera parziale e specialistica, e non venendo meno l'ingerenza dell'appaltatore e la diretta riconducibilità (quanto meno anche) a lui dell'organizzazione del (comune) cantiere (non cessando egli di essere investito dei poteri direttivi generali inerenti alla propria predetta qualità), sussiste la responsabilità di entrambi tali soggetti in relazione agli obblighi antinfortunistici, alla loro osservanza ed alla dovuta sorveglianza al riguardo.
Una esclusione di responsabilità dell'appaltatore è configurabile, invece, solo nel caso in cui al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorchè determinati e circoscritti, che, però, svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all'appaltatore, non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell'appaltatore dall'organizzazione del cantiere (la Corte in quella occasione aveva altresì precisato che, nella ricorrenza delle anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell'appaltatore, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi e il subappaltatore).
La sentenza impugnata ha applicato correttamente i suddetti principi riconducendo la responsabilità del Gu. all'omessa valutazione concreta dei rischi presenti sul cantiere di lavoro ed alla mancata adozione di misure idonee al fine di prevenire detti rischi, avuto conto che i lavori di scavo, oggetto di subappalto, si svolgevano nello stesso cantiere ove continuava ad operare l'appaltatore. Tale situazione di interdipendenza dei lavori svolti trova ulteriore conferma nella inesistenza di un contratto formale di subappalto tra le parti, con la evidente conseguenza, esattamente rilevata dal giudice di secondo grado, della impossibilità di prospettare un diverso conferimento di delega per la sicurezza del cantiere.
Manifestamente infondata è la censura afferente sia l'omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche, concesse a tutti gli imputati, con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti sia la valutazione compiuta dalla Corte di merito nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen..
Sotto tale profilo, è da osservare che l'obbligo di motivazione sull'adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità degli imputati è stato ampiamente assolto facendo riferimento all'obiettiva gravità del fatto ed alla mancanza di elementi di valutazione positiva.
Anche il ricorso proposto dal T. è infondato.
Infondato è il primo motivo, che si risolve in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della vicenda come ricostruite dal giudice di merito, pur in presenza di una motivazione coerente e logica.
La sentenza di merito appare infatti, congruamente motivata in relazione a tutti i profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di accertamento della colpa e di nesso di causalità.
In particolare, a base dell'affermato giudizio di colpevolezza i giudici d'appello hanno posto l'apprezzata carenza organizzativa addebitale all'imputato che, nella sua qualità di datore di lavoro della vittima e subappaltatore, aveva trascurato di assicurare l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi al lavoro di escavazione di buche profonde oltre 1 metro e 50, in un terreno la cui consistenza non dava sufficienti garanzia di stabilità.
La posizione di garanzia ricoperta dal T. (in ossequio agli obblighi comportamentali impostigli dalla legge: D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12) gli imponeva di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurandosi che si provvedesse al puntellamelo o rinforzo del terreno man mano che procedeva lo scavo di taglio verticale che già in assenza di sovraccarico, come logicamente affermato dalla Corte di merito, determina lo scorrimento verso valle della parte superiore di terreno, con il conseguente distacco del masso terroso se sul bordo dello stesso vi opera una pala meccanica che determina vibrazioni e percussioni.
La ricostruzione operata in sentenza, con l'individuazione dell'addebito colposo riconducibile al T. e della rilevanza causale di detto addebito rispetto alla verificazione dell'evento mortale, non offre spazi per potere qui recepire l'assunto difensivo che pone ancora una volta in discussione l'applicabilità del citato D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12 al caso in esame, sul rilievo che lo scavo avesse una profondità inferiore a m. 1,50.
A prescindere dalla inammissibilità della censura che imporrebbe una rinnovata valutazione dei fatti e degli elementi di prova, non consentita in questa sede a fronte di una motivazione logica ed in linea con il quadro probatorio in atti, il ricorrente dimentica di considerare che l'addebito di colpa specifica, al di là del richiamo operato in sentenza al D.P.R. n. 164 del 1956, art. 12, è stato ricondotto dai giudici di merito al dovere gravante sul datore di lavoro e sulle altre figure previste dal D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 di porre in essere adeguate forme di controllo idonee a prevenire i rischi della lavorazione.
La decisione gravata, confermativa di quella di primo grado, appare corretta siccome adottata in piena aderenza a quello che, per assunto pacifico, è il contenuto precettivo dell'art. 2087 cod. civ..
Come è noto, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2.
Ne consegue che il datore di lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l'opera.
In altri termini, il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa: tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40 c.p., comma 2, (v. Sezione 4, 29 aprile 2008, Barzagli ed altri, sopra citata).
E' in questo quadro normativo che si pone correttamente la sentenza impugnata, laddove ravvisa la colpa, e il conseguente nesso eziologico con l'evento dannoso, del T. nel non aver questi adottato le doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi al lavoro di escavazione in un terreno la cui consistenza non dava sufficienti garanzia di stabilità, così determinando le condizioni per il franamento del terreno ed il conseguente ribaltamento della pala meccanica.
Da questa premessa, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza della colpa e del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile.
Nè potrebbe valere, in senso contrario, l'invocata causa di esclusione della responsabilità, fondata su un'asserita condotta abnorme del lavoratore, peraltro affermata solo assertivamente senza indicare in che cosa siffatta condotta si sarebbe sostanziata, così introducendo per la prima volta in questa sede una inammissibile diversa ricostruzione dei fatti.
Con riferimento agli altri motivi di ricorso (l'inapplicabilità ratione temporis del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 4 e l'omessa concessione con giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche) vale quanto sopra esposto in relazione ai medesimi motivi di ricorso presentati dagli altri ricorrenti.
Dal rigetto del motivo afferente la mancata concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla contestata aggravante consegue il rigetto della richiesta di dichiarare l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione non ancora maturata.
Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili in questo grado di giudizio.
condanna altresì gli stessi anche al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili costituite M.I. e M.C., spese che liquida in complessivi Euro 1.700,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2008