Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 settembre 2016, n. 18503 - Polveri di amianto nei freni e nelle resistenze del motore elettrico della gru

 


 

 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: RIVERSO ROBERTO Data pubblicazione: 21/09/2016

 

 

 

Fatto

 


I La sentenza n.549/2010 della Corte d‘Appello sezione lavoro di cui al ricorso R.G. 01798/2011.
Con sentenza n.549/2010, pubblicata il 13.10.2012, la Corte d'Appello di Genova sez. lavoro, rigettava l'appello proposto da V.V. e S.M., eredi di S.L. - dipendente del Consorzio Autonomo del Porto deceduto per mesotelioma pleurico il 18.11.2001 - avverso la sentenza del tribunale di Genova che aveva respinto la loro domanda volta ad ottenere il risarcimento richiesto iure hereditatis a titolo di danno biologico e morale, sulla scorta della violazione dell'art. 2087 c.c. posto che la stessa patologia, già indennizzata dall'Inail con rendita all'80%, sarebbe stata contratta per colpa datoriale, oltre che nell'occasione ed a causa dell'attività lavorativa svolta dal loro congiunto. Attività che lo esponeva alle polveri di amianto presente nei freni e nelle resistenze del motore elettrico della gru alla quale era stato addetto dal 1963 al 1987. La Corte d'Appello, nel confermare il giudizio del primo giudice, premesso che in base alla sentenza della Corte Cost. 312/1996 la colpa del datore andasse misurata col criterio della "sicurezza generalmente praticata" in luogo di quello della "massima tecnologicamente possibile", ha sostenuto che all'epoca in cui S.L. aveva contratto il male non fosse ancora nota la particolare insidiosità dell'amianto, ed in particolare il fatto che anche una sola fibra potesse bastare ad innescare la malattia. Che, pertanto, in base agli standard di sicurezza generalmente applicati, considerata l'epoca di insorgenza ed i tempi lunghi dì latenza, per evitare il mesotelioma l'unica precauzione possibile sarebbe stata quella di abolire l'uso dell'amianto. Sosteneva inoltre che la normativa sulle polveri invocata dagli appellanti non fosse sufficiente allo scopo, perché non idonea ad impedire l'aspirazione delle polveri ultrafini. Rilevava che le stesse protezioni prescritte dalla normativa potessero essere invocate "ora per allora", "col senno di poi", solo qualora l'amianto fosse stato presente nell'ambiente sotto forma di polvere, secondo il significato comune del termine, e ne fosse avvertibile (visibile) la presenza; cosa che, invece, nel caso In esame era da escludere anche perché secondo la ctu espletata in primo grado "la presenza in sala macchine di prodotti di usura delle guarnizioni di amianto non poteva aver prodotto uno stato di polverosità, posto che il quantitativo di usura prodotto dalle frenature era complessivamente meno di un grammo ai giorno (0,812 g/giorno), sicché egli stesso esclude l'applicabilità alla fattispecie della normativa di cui all'art. 21 del DPR 303 del 1956 richiamata dall'appellante pertanto, a giudizio della Corte genovese, anche a voler ritenere sussistente il nesso causale con l'attività lavorativa, doveva essere comunque escluso che potesse configurarsi una colpa del datore di lavoro per la mancata adozione delle cautele esigibili all'epoca.
Avverso questa sentenza gli attori, eredi del lavoratore deceduto, hanno proposto ricorso per cassazione incentrato su un unico articolato motivo di impugnazione. L'Autorità Portuale di Genova e l'INA Assitalia hanno resistito con controricorso.
 

 

II La sentenza n. 875/2012 della Corte d’Appello di Genova sezione civile di cui al ricorso R.G. 02664/2013 
Con sentenza n.875/2012, pubblicata il 31.7.2012, la Corte d'Appello di Genova, sezione prima civile, rigettava l'appello proposto dall'Autorità Portuale di Genova avverso la sentenza del tribunale di Genova, che aveva accolto la domanda di V.V. e S.M., per la medesima morte per mesotelioma del congiunto S.L. dipendente dell'ex Consorzio Autonomo del Porto dal 1963 al 1987 (dapprima come manovratore di gru fino al 1980 e poi come addetto alla caldareria nell'officina per le riparazioni G., deceduto per mesotelioma pleurico il 18.11.2001); ed aveva condannato quindi l'Autorità Portuale al risarcimento del danno non patrimoniale spettante, iure proprio agli eredi (in qualità di moglie e figlio), in conseguenza della violazione degli art. 2043 e 2087 c.c. in quanto la stessa patologia, già indennizzata dall'Inail con rendita all'80%, era stata contratta per colpa datoriale.
La Corte d'Appello, nel confermare in toto il giudizio del primo giudice, sosteneva in primis che, in base alle risultanze istruttorie, la malattia che aveva condotto al decesso il lavoratore fosse causalmente collegata alle diverse fonti di esposizione ad amianto subite dal lavoratore nel corso dell'attività espletata presso il porto di Genova; affermava che non rilevasse invece sul piano causale l'attività da egli prestata alle dipendenze della Società Cantieri di Riva Trigoso (ora FINCANTIERI- CANTERI NAVALI ITALIANI SPA); e nemmeno quella svolta come motorista nella Marina Militare nel periodo del servizio militare, nel corso del quale era stato imbarcato per nove mesi; attività in relazione alle quali, la convenuta Autorità Portuale aveva chiesto ed ottenuto la chiamata in causa di FINCANTIERI SPA e del MINISTERO della DIFESA. Secondo la Corte, stante la mancanza di responsabilità dei terzi chiamati, era pure superfluo analizzare la tesi espressa dal primo giudice - e sottoposta a gravame - secondo cui gli appellati avevano rinunciato ad estendere la loro pretesa risarcitoria nei confronti dei terzi chiamati . Quanto alle fonti di esposizione all'amianto dello S.M. presso il CAP la Corte osservava che esse fossero da individuare nell'usura del sistema frenante delle gru, nel deterioramento delle lastre (o fodere) in amianto che separavano le resistenze elettriche, nella movimentazione dei carichi di amianto trasferiti dalle navi sulle banchine, nel fatto che i gruisti, nelle pause degli scarichi, si sedessero sui sacchi di amianto accatastati in banchina in attesa di immagazzinamento. Inoltre presso l'officina G. (dal 1975 al 1980 sempre come dipendente CAP) lo S.M. era stato esposto ad amianto nel corso dei lavori di manutenzione delle gru.
Per quanto concerne la colpa datoriale la Corte d'Appello rilevava che essa fosse presente ex artt. 2087 c.c., 43 c.p. e 21 dpr 303/56; anche perché all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa da parte di S.M. era ben nota l'intrinseca pericolosità dell'amianto. Né poteva escludersi la colpa del datore in base a quanto notato dalla sentenza della Corte d'Appello, sez lavoro, n.549 del 13.9.2010 per non essere nella fattispecie percepibile la presenza di amianto sotto forma di polvere nella cabina di guida della gru; atteso che nel procedimento civile, il collegio di quattro ctu nominati in primo grado non aveva escluso che la polvere esistente, secondo i testi, nella cabina della gru provenisse almeno in parte dall'amianto rilasciato dal sistema frenante; circostanza questa che era emersa, sempre in base alle prove testimoniali, in particolare per le gru di fabbricazione risalenti nel tempo ed inoltre per le polveri di amianto provenienti dalla banchina del porto, che entravano nella cabina dalle finestre della gru (laddove invece nella sentenza 549/2010 della Corte Appello Sez. Lav. non si faceva alcun riferimento a prove testimoniali che non risultavano invero neppure espletate). Risultava pure dalle prove testimoniali che sacchi di amianto in polvere fossero accatastati in banchina in attesa di immagazzinamento e che sopra gli stessi andassero pure a sedersi i gruisti.
Per quanto riguarda i danni, richiamata la pronuncia delle Sez. Un. 26972/2008, la Corte territoriale confermava che il danno morale, in quanto costituente un tipo di danno non patrimoniale, spettasse a prescindere dall'accertamento del fatto come reato; e che esso nel caso di specie fosse conseguente alla perdita del rapporto parentale e potesse desumersi correttamente dalle sofferenze patite dai supersiti in base all'esistenza dello stretto vincolo familiare; mentre l'intensità e le modalità del rapporto potevano incidere solo sui quantum.
Avverso questa sentenza, ha proposto ricorso principale l'Autorità Portuale di Genova, contenente cinque motivi di impugnazione allo scopo di ottenere la cassazione della sentenza.
Resistono con controricorso V.V. e S.M., ASSICURAZIONE GENERALI SPA, FINCANTIERI - CANTIERI NAVALI ITALIANI SPA; quest'uitima ha presentato anche ricorso incidentale condizionato illustrato da memoria ex art, 378 c.p.c..
Il Ministero della Difesa è rimasto intimato e non ha esercitato attività difensiva.
All'udienza del 20/4/2016 , riuniti i due giudizi, la causa è stata posta in decisione.
 

 

Diritto

 

III. La riunione dei ricorsi
Questo procedimento ha ad oggetto le domande azionate in giudizio da V.V. e S.M., rispettivamente, moglie e figlio del sig. S.L. deceduto il 18.11.2001 per mesotelioma pleurico e già dipendente dell'ex Consorzio Autonomo del Porto (CAP) dal 1963 al 1987. Si tratta di domande risarcitorie azionate nei confronti dell'Autorità Portuale di Genova in due distinti giudizi; quelle iure hereditatis con ricorso davanti al giudice del lavoro, quelle iure proprio con atto di citazione in sede civile. I due procedimenti hanno avuto, sia in primo grado che in appello, esiti contrastanti. I giudici del lavoro hanno concordemente rigettato le domande di risarcimento; quelli civili le hanno entrambi accolte.
I ricorsi per cassazione avverso le due sentenze hanno dato luogo a distinti procedimenti, assegnati uno (R.G. 01798/2011) alla Sezione lavoro, l'altro (R.G. 02664/2013) alla Sezione Civile e successivamente assegnato anch'esso alla Sezione lavoro.
Deve, in primo luogo, rilevarsi che l'assegnazione del ricorso RG 2664/2013 alla sezione lavoro di questa Corte non ha costituito violazione delle tabelle in vigore relative alla distribuzione delle materie tra le varie sezioni atteso che dette tabelle possono subire deroghe per esigenze derivanti dalla necessità di rispettare i principi del giusto processo di cui all'art. III Cost. della sua ragionevole durata. Nella specie tali esigenze sussistono considerata l'opportunità di una trattazione unitaria dei due giudizi attinenti alle conseguenze risarcitorie relative ad un medesimo fatto storico come sopra specificato.
I due procedimenti, pendenti entrambi davanti a questo Collegio, possono essere riuniti in applicazione analogica dell'art. 335 cpc . Questa Corte ha affermato , infatti, (cfr. Cass. SSUU n. 1521/2013, e nello stesso senso Cass. n. 7568/2014 , n. 10534/2015 ) che "La riunione delle impugnazioni, che è obbligatoria, ai sensi dell'art 335 cod. proc. civ., ove investano lo stesso provvedimento, può altresì essere facoltativamente disposta, anche in sede di legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti diversi ma fra loro connessi, quando la loro trattazione separata prospetti l'eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia processuale ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie".
Nella specie non è , all'evidenza, configurabile un' ipotesi di riunione obbligatoria dei procedimenti, che trae il suo presupposto nell’esistenza di una pluralità di impugnazioni contro una stessa sentenza (art. 335 c.p.c.), laddove l’oggetto delle censure dei ricorsi in esame riguarda due provvedimenti distinti.
Sussistono tuttavia le condizioni indicate nella citata pronuncia di questa Corte per potersi procedere alla riunione stante gli evidenti elementi di connessione fra i due provvedimenti impugnati e tale presupposto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, è sufficiente per consentire al giudice - anche in sede di legittimità - dì decidere discrezionalmente per la riunione dei procedimenti (Cass . 18050/2010, n.16405/2008, n. 18072/2002) e ciò anche allo scopo di garantire l'economia ed il minor costo del giudizio, oltre alla certezza del diritto evitando pronunce discordanti sullo stesso fatto storico; tutte esigenze tutelate dall'ordinamento.
L'assoluta ininfluenza ai fini del rito processuale da seguirsi in questa sede di legittimità, il quale non presenta scostamenti da quello da seguire dalle sezioni lavoro soprattutto ai fini della decisione, induce ad escludere, anche sotto tale profilo, la sussistenza di ostacoli alla riunione dei due giudizi.
 

 

IV. Sintesi e decisione dei motivi del ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d'Appello di Genova sez. Lavoro n. 549/2010.
1. Con l'unico articolato motivo di ricorso i ricorrenti censurano la sentenza d'appello, ai sensi dell'art.360 n. 3 c.p.c., per la violazione dell'art. 2087 c.c. Si sostiene che la sentenza sarebbe incorsa in plurime violazioni della norma codicistica allorché aveva erroneamente richiamato il principio della sicurezza generalmente praticata di cui alla sentenza della Corte Cost.  312/1996 in un caso in cui vi era stata un'assoluta inerzia prevenzionistica da parte del datore, il quale aveva omesso di assumere anche semplici precauzioni per separare l'impianto frenante della gru (munito di ferodi in amianto) dalla cabina dove stava il gruista o quantomeno di effettuare una semplice periodica pulizia della stessa. Si rileva, inoltre, l'erroneità della sentenza impugnata per aver affermato che all'epoca in cui S.L. aveva contratto il male non fosse nota la particolare insidiosità dell'amianto; ed anche laddove aveva attribuito rilevanza giuridica alla pretesa differenza tra fibre e polveri "visibili"; così come quando aveva limitato la propria valutazione in ordine alla sussistenza della colpa datoriale facendo riferimento alla sola produzione di polvere quotidiana (in 0,812 grammi), senza considerare che in mancanza dell'adozione di qualsivoglia misura di pulizia quella stessa dose diveniva nel tempo una quantità pericolosamente considerevole di polvere nociva.
1.2. - I diversi profili di censura, da valutarsi unitariamente per la connessione che li collega, sono fondati. Essi attengono al tema della colpa datoriale nelle malattie asbesto correlate.
1.3. - Com'è noto, nell'impianto di tutela della salute e della dignità del lavoratore all'interno del rapporto di lavoro, una valenza decisiva assume l'art. 2087 del codice civile il quale stabilisce che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell'Impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'Integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Secondo l'orientamento consolidato, espresso da una giurisprudenza risalente, la disposizione, "come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica", e pertanto "vale a supplire atte lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'uitima e di adeguamento di essa ai caso concreto" (Corte di Cassazione, sentenza n. 5048/1988). Perciò adottare "tutte le misure" significa che il datore non può ometterne nessuna tra quelle previste dall'ordinamento (siano esse misure oggettive o dispositivi personali di protezione; misure relative all'ambiente o obblighi strumentali riferiti al controllo o alla formazione dei lavoratori); e significa, inoltre, che per giudicare della completezza della protezione occorra servirsi del criterio della "massima sicurezza tecnologicamente possibile" in base al quale il datore deve adoperarsi per evitare o ridurre l'esposizione al rischio dei dipendenti aldilà delle specifiche previsioni dettate dalla normativa prevenzionale, conformando il proprio operato ad una diligenza particolarmente qualificata, che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell'esperienza e della tecnica.
Deve essere pure affermato, in base alla lettura costituzionalmente (art. 41,2 comma) e comunitariamente orientata (Direttiva 89/391) dell'art. 2087 c.c. e della legislazione prevenzionale, che la natura degli interventi protettavi da adottare non sia affidata alla mera discrezionalità del datore, essendo funzionale alla più efficace tutela dell'Integrità fisica e morale del lavoratore il rispetto di un ordine gerarchico che privilegi prima di tutto di quelli che mirano ad evitare i rischi, e poi (rispetto ai rischi che non possono essere evitati) quelli che mirino a combatterli alla fonte.
1.4. - Nella sentenza n.  312/2006, richiamata dalla Corte territoriale, la Corte Costituzionale ha affermato che nel caso di violazione dell'art. 2087 c.c., alla quale consegua l'applicazione dì una sanzione penale, "può essere penalmente censurata soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive".
Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è stato affrontato anche dalla Corte di Giustizia Europea con la sentenza del 15 novembre 2001 nella quale si è affermato che i rischi professionali oggetto di valutazione da parte del datore di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte ma si evolvono in funzione dello sviluppo, delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia.
Escluso che chi svolga attività rischiose, che richiedano conoscenze tecniche o scientifiche, possa addurre la propria ignoranza individuale, in caso di verificazione di eventi avversi; deve essere altresì negato che il criterio della "sicurezza generalmente praticata" possa consentire un abbassamento della soglia di prevenzione, in ragione di standards eventualmente non adeguati, praticati in una determinata cerchia di imprenditori, rispetto a quelli che sarebbe stato necessario adottare in ragione dello sviluppo tecnico concretamente disponibile (come afferma a proposito di mesotelioma e di amianto, la sentenza della Cass. pen. 43786/2010 richiamando l'"obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza ai meglio delle tecnologie disponibil).
1.5. Per la protezione dall'amianto, all'epoca della condotta, oltre all'art.2087 c.c. , valeva quanto disposto dal D.P.R. 19 marzo 1965 n. 303 il quale reca le norme generali per l'igiene sul lavoro, stabilisce i requisiti generali degli ambienti di lavoro e prescrive visite mediche obbligatorie preventive e periodiche per i lavoratori esposti all'azione di sostanze tossiche o comunque nocive.
In particolare all'interno del DPR 303/56 rileva anzitutto l'assolvimento del fondamentale obbligo di informazione stabilito a carico del datore (dall'art.4 ): "rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti". Notevole importanza rivestono anche: l'art. 9 del dpr. 303/56 riguardante l'areazione dei luoghi di lavoro; l'art. 15 che regola la pulizia dei locali ("Il datore di lavoro deve mantenere puliti ì locali di lavoro, facendo eseguire la pulizia, per quanto è possibile, fuori dell'orario di lavoro e in modo da ridurre ai minimo il sollevamento della polvere nell'ambiente, oppure mediante aspiratori"); l'art. 19 in materia di separazione dei lavori nocivi ("il datore di lavoro è tenuto ad effettuare ogni qualvolta è possibile in luoghi separati le lavorazioni pericolose o insalubri allo scopo di non esporvi senza necessità i lavoratori addetti ad altre lavorazioni”). Anche l'art. 387 del diverso D.P.R. 547/55 può essere invocato in questa materia dal momento che attiene ai mezzi di protezione personale contro le inalazioni e prescrìve che i lavoratori debbano essere dotati di maschere respiratorie: "I lavoratori esposti a specifici rischi di inalazioni pericolose di gas, polveri o fumi nocivi devono avere a disposizione maschere respiratorie o altri dispositivi idonei, da conservarsi in luogo adatto facilmente accessibile e noto al personale". La norma del DPR 303/56 che più direttamente è stata invocata a fondamento della responsabilità del datore di lavoro nel caso in esame è l'art. 21, che si intitola " difesa contro le polveri”. La norma disciplina in modo chiaro gli obblighi gravanti sui datori: " Nei lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare i provvedimenti atti ad impedirne o a ridurne per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambito di lavoro, nell'ambiente di lavoro.
Le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione nella atmosfera.
Ove non sia possibile sostituire il materiale di lavoro polveroso, si devono adottare procedimenti lavorativi in apparecchi chiusi ovvero muniti di sistemi di aspirazione e di raccolta delle polveri, atti ad impedirne la dispersione.
L'aspirazione deve essere effettuata, per quanto è possibile, immediatamente vicino al luogo di produzione delle polveri.
Quando non siano attuabili le misure tecniche di prevenzione indicate nel comma precedente, e la natura del materiale polveroso lo consenta, si deve provvedere all'inumidimento del materiale stesso.
Qualunque sia il sistema adottato per la raccolta e la eliminazione delle polveri, il datore di lavoro è tenuto ad impedire che esse possano rientrare nell'ambiente di lavoro.
Nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai comma precedenti, e non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai comma precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove sia necessario, mezzi personali di protezione.
I mezzi personali possono altresì essere prescritti dall'Ispettorato del lavoro, ad integrazione dei provvedimenti previsti al comma terzo e quarto del presente articolo, in quelle operazioni in cui, per particolari difficoltà d'ordine tecnico, i predetti provvedimenti non sono atti a garantire efficacemente la protezione dei lavoratori contro le polveri".
1.6. Nel caso di specie va escluso che il richiamato principio della "sicurezza generalmente praticata" potesse servire allo scopo di alleggerire il carico della diligenza esigibile dall'Autorità Portuale, non risultando, in base alla stessa sentenza impugnata, che essa abbia mai adottato alcuna misura di protezione dal rischio. Pur consistendo quelle prescritte dall'ordinamento (e fatta salva la sostituzione dei ferodi e delle resistenze in amianto con altre componenti non contenenti tale materiale, in quanto disponibili sul mercato) in semplici accorgimenti, da sempre disponibili. Ed alcune di intuitiva evidenza come la separazione della cabina della gru dal vano motore e dell'impianto frenante; la periodica pulizia ed asportazione della polvere; un sistema di areazione all'interno della cabina; l'adozione di idonee maschere protettive; l'informazione dovuta al lavoratore. Misure tutte idonee a diminuire l’entità delle fibre disperse nell'ambiente di lavoro e, come si dirà, a ridurre la probabilità di contrarre la malattia (come chiariscono bene le sentenze della Cassazione Sez. IV 38991/2010 e Cass. Sez. IV 43786/2010). Misure pure esigibili dal CAP il quale, in forza dell'attività svolta e dei richiamati principi, non poteva non essere a conoscenza della pericolosità dell'utilizzo dell'amianto contenuto nelle componenti delle gru e delle regole cautelari necessarie per garantire il suo uso con minimi rischi; ed in ogni caso aveva il dovere dì informarsi circa le più evolute metodologie di lavoro compatibili con la tutela della salute di lavoratori. "Questa Corte, del resto, ha recentemente avuto modo di considerare, proprio nel contesto dell'esposizione ad amianto, che nell'esercizio di attività rischiose l’agente garante ha l’obbligo di acquisire le conoscenze disponibili nella comunità scientifica per assicurare la protezione richiesta dalla legge" ( Cass. sez. IV. 43786/2010).
1.7. Al contrario, la Corte territoriale per negare l'esistenza della colpa datoriale, ha richiamato un proprio pronunciamento relativo ad un diverso lavoratore (D.C.) deceduto per mesotelioma, in periodi e per lavorazioni differenti; ed ha sostenuto, in modo apodittico, che (considerata una latenza media di oltre 30 anni), all'epoca in cui il lavoratore aveva contratto il male non fosse ancora nota la particolare insidiosità dell'amianto per le esposizioni a basse dosi: senza però indicare a quale epoca si riferisse e quale fosse quella da ritenere rilevante per il lavoratore S.L..
1.8. Al riguardo, per evidenziare l'erroneità dell'affermazione del giudice d'appello sugli aspetti cronologici della vicenda, è sufficiente considerare i seguenti dati. La domanda degli eredi del lavoratore si fonda sulla premessa che il proprio congiunto (deceduto il 18.il.2001) sia stato esposto all'amianto nel corso dell'attività di gruista espletata per il periodo dal 1963 sino ai primi anni 80 (1983-84). La conoscenza della nocività dell'amianto per la salute risale all'inizio del 1900 (se ne parla già nel r.d. 14.6.1909 n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri; idem, nel d.lgt. 6/81916 n.1136; e nel r.d.1720/1936). Secondo un'acquisizione, divenuta patrimonio comune della giurisprudenza dì merito e di legittimità, la conoscenza della pericolosità dell'esposizione all'amianto per il rischio di mesotelioma risale almeno ai primi anni sessanta, sia in ambito scientifico che imprenditoriale (tanto che, in relazione a tale ultimo ambito, si cita la nota/iniziativa delle ferrovie inglesi di bonificare le carrozze già nel 1968; cfr. Cass.Sez IV 43786/2010 e Cass, sez IV 38991/2010). Mentre l'asbestosi - pure essa una malattia mortale o comunque produttrice di una significativa abbreviazione della vita - è stata inserita nell'elenco tipizzato delle malattie professionali dalla legge 455/1943.
Inoltre, per individuare la condotta del datore da sottoporre alla valutazione della colpa nel caso concreto di esposizione professionale (prima di affermare semplicisticamente che per il mesotelioma basti una fibra di amianto, sposando la dibattuta tesi della trigger dose) occorreva semmai sciogliere la questione della individuazione delle dosi di amianto eziologicamente rilevanti nell'insorgenza e nello sviluppo delle patologie asbesto correlate; e quello, ancora più controverso, dal punto di vista scientifico, relativo alla rilevanza causale delle esposizioni successive a quelle di innesco della malattia.
In relazione alla medesima obiezione cronologica riferita all'epoca della conoscenza della nocività dell'amianto, andava poi pure tenuto conto del risalente e consolidato orientamento di legittimità (a partire da Cass. 27.6.1979; 14.4,1994 est, Battisti; 6858/90; 988/2003; 37432/2003; 988/2003; 37432/2003; 8204/2003; 7630/2005; Cass.Sez IV 43786//2010 e Cass. sez IV 38991/2010) secondo il quale l'accertamento di questa epoca non rileva ai fini della responsabilità del datore per mesotelioma pleurico, perché le misure protettive da adottare sarebbero state comunque quelle già prescritte dall'ordinamento per l'asbestosi (malattia anch'essa mortale e comunque gravemente invalidante) ossia quelle prescritte per tutelare il medesimo bene salute offeso (dall'una o dall'altra malattia). Ciò In quanto, ai fini del nesso causale tra colpa ed evento, quest'ultimo va considerato come grave danno alla salute del lavoratore e non inteso come specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass. IV, 5919/1991, Rezza; Cass. IV, 5037/2000, Camposano; Cass. IV, 4675/07 Bartalini; Cass. IV, 21513/09, Stocchi; Cass.Sez IV 43786//2010 e Cass. sez IV 38991/2010).
1.9. La Corte territoriale ha pure sostenuto l'insufficienza della stessa normativa contro le polveri ex art. 21 DPR 303/56, invocata dagli appellanti, a proteggere i lavoratori esposti ad amianto; in quanto normativa concepita per limitare l'esposizione dei lavoratori alle polveri tossiche e nocive, ma non idonea ad impedire l'aspirazione delle fibre c.d. ultra fini ed invisibili. Si tratta di una affermazione che non ha fondamento normativo. Sia perché la legge prevede il contrario (riferendo le misure protettive dell'art. 21 alle polveri di qualsiasi specie); ma anche perché - considerato che il datore di lavoro è sempre tenuto ad attivarsi per conoscere le situazioni di rischio e le fonti di pericolosità dell'attività lavorativa espletata, in base alle migliori conoscenze tecniche scientifiche - il lavoratore dovrebbe essere semmai ancor di più informato e protetto rispetto alla insidiosità di polveri ultrafini ed invisibili (anche sulla scorta dell'apparato prevenzionistico vigente all'epoca dei fatti).
In altri termini, è assurdo ipotizzare che le precauzioni stabilite dalla legge si applichino (o si applicassero) solo a polveri visibili e non a quelle invisibili (e di cui però si deve conoscere l'esistenza in quanto derivanti dall'utilizzo di un materiale pericoloso come l'amianto od anche dall'usura di componenti in amianto esistenti all'interno di una gru).
1.10. D'altra parte, in materia, la pretesa rilevanza della distinzione tra polveri e fibre è testualmente smentita dall'ordinamento; il quale, in più luoghi, sia dettando le misure di prevenzione (arti. 22 e 24 d.lgs. 277/1991), sia regolamentando le malattie professionali (all. 8 al t.u. 1124/1965 che considera l'asbestosi come malattia provocata da "lavori che espongono comunque all'inalazione di polvere d'amianto") definisce appunto come "polveri" le fibre d'amianto.
1.11. Di più, a proposito dello stesso rischio rappresentato dalle polveri d'amianto neppure manca nell'ordlnamento un esplicito richiamo all'obbligo del datore di osservare tutte le norme del D.P.R. 303/1956 (e quindi anche l'art.21). Il rispetto delle norme di igiene dettate dal D.P.R. 303/1956 è specificamente richiamato ed imposto per la protezione dalle malattie da asbesto ai sensi degli artt. 174 e 155 del D.P.R. 1124/65. Infatti l'art.155 stabilisce che "ferme restando nel resto le disposizioni degli artt. 10 e 11, la responsabilità civile del datore di lavoro permane solo quando la silicosi e l'asbestosi siano insorte o si siano aggravate per la violazione delle norme di prevenzione e di sicurezza di cui all'art. 173". Quest'ultima norma prevedeva in generale una delega per l'emanazione di disposizioni ministeriali particolari per tutte le malattie professionali. Ma il successivo art. 174 avvertiva la necessità di prescrivere specificamente che nel frattempo venisse rispettato il D.P.R. 303/1956 ("valgono le disposizioni protettive contenute ne! regolamento generale per l'igiene del lavoro approvato con dpr 19 marzo 1956 n. 303").
1.12. Ha pertanto errato la Corte territoriale nel ritenere che la prescrizione dell'impiego delle misure di precauzione (rispetto ad una esposizione che sarebbe durata dal 1963 all'1983-84) fosse frutto del senno di poi; o che essa fosse insufficiente a proteggere il lavoratore. Al contrario, è da sempre riconosciuta nell'ambito della giurisprudenza di legittimità l'idoneità delle misure menzionate a diminuire il rischio di contrarre il mesotelioma ed anche a ridurre la virulenza del male (ovvero a ridurre le dosi di esposizioni nocive e ad allungare, insieme al periodo di latenza della malattia, la vita dei lavoratori). Proprio per questo la Cass. pen. Sez. 4, Sentenza n. 38991 del 10/06/2010 ha affermato che "in tema di reati colposi, la regola cautelare di cui all'art. 21 d.P.R. n. 303 del 1956 non mira a prevenire unicamente l'inalazione di polveri moleste (di qualunque natura), ma anche a prevenire le malattie che possono conseguire all'inalazione".
1.13. Deve essere pertanto ribadito che, al contrario di quanto si sostiene nella sentenza impugnata, non è e non era prescritto dalla normativa, nemmeno all'epoca dei fatti, che ai fini dell'adozione delle misure protettive occorresse che le polveri nocive fossero presenti nell'ambiente in modo che fosse "avvertibile la presenza in tale consistenza" o per le sole lavorazioni in cui le polveri producessero "effetti visibili". Il lavoratore aveva invece diritto ad essere protetto in base alla legge da tutte le polveri di cui si doveva conoscere l'esistenza e la nocività (fini o ultrafini; visibili od invisibili che fossero). Anche perché come già detto il D.P.R. 303/1956 è esplicitamente richiamato per la protezione dall'amianto; e quelle prodotte dall'amianto sono testualmente definite dalle legge polveri; mentre il rischio di esposizione ad alte ed altissime concentrazioni non richiede necessariamente alcuna visibilità e consistenza materiale delle polveri. Altissime concentrazioni di amianto sono presenti anche in quantitativi relativamente bassi di polveri. E' perciò censurabile la conseguenza che il giudice d'appello ha tratto dalla ctu, escludendo, insieme ad "uno stato di polverosità", l'applicazione dell'art.21 cit. e di qualsiasi altra misura di prevenzione fra quelle prima menzionate. Ciò in quanto il ctu aveva rilevato che il quantitativo di usura prodotto dalle frenature producesse meno di un grammo al giorno di polvere (0,812 g/giorno). Ma, in tal modo applicando un criterio (quello della concentrazione quotidiana della polvere su base giornaliera) che non ha valore indicativo e tantomeno risolutivo ai fini del giudizio sulla colpa. Andava invece considerato che senza adeguati interventi di pulizia, nè accorgimenti protettivi di alcun tipo, il possibile accumulo delle polveri (per oltre 20 anni) all'interno dello spazio angusto dove era tenuto ad operare il lavoratore (le cabine di guida delle gru), avrebbe potuto ingenerare (ed ha ingenerato) un quantitativo considerevole e pericoloso di amianto nocivo. Va infatti evidenziato che la semplice intensità dell'esposizione quotidiana non esprime un valore apprezzabile in assoluto dovendo essere coniugata con la durata dell'esposizione (e con la valutazione del concetto di dose cumulativa).
1.14. Risulta con ciò chiarito che l'affermazione della responsabilità civile della datrice di lavoro non viene ad essere radicata sullo svolgimento di una mera attività pericolosa (in sé lecita ed autorizzata), comportante l'utilizzo di amianto, come sembra opinare la sentenza impugnata sostenendo la suggestiva tesi secondo cui, mentre quelle prescritte dalla legge sarebbero state cautele vane, l'unica cautela efficace per evitare l'evento sarebbe stata la totale abolizione dell'amìanto. Al contrario, deve affermarsi che la valutazione della responsabilità civile deve investire, anche nel caso di specie, non già l'attività di impresa in sé e per sé considerata, bensì soltanto il modo con cui essa è stata esercitata. E senza nessuna valutazione retrospettiva ("ora per allora" come pure afferma il giudice d'appello nella medesima sentenza); bensì avendo esclusivo riguardo alle norme in vigore al momento della condotta. La datrice di lavoro viene cioè chiamata a rispondere dell'omissione di cautele doverose, prescritte da norme di legge in vigore a quell'epoca; come accade per qualsiasi altra attività lavorativa sottoposta a verifica di legalità operata ai fini dell'affermazione della responsabilità civile.
1.15. Emerge in base a tutto quanto fin qui osservato che la sentenza impugnata non abbia fatto corretta applicazione delle regole da applicarsi nella materia, discendenti dalle norme di legge e dai principi richiamati. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata cassata in relazione alle censure accolte. Va quindi disposto il rinvio della causa ad altro giudice, designato in dispositivo, per l’ulteriore esame della controversia. Il giudice dei rinvio provvederà altresì, ex art. 385 cod. proc. civ., sulle spese del giudizio di legittimità.
 

 

V. Sintesi e decisione dei motivi dei ricorso proposto avverso la sentenza della Corte d'Appello di Genova sez. civile.
1. - Con il primo motivo il ricorso deduce un potenziale conflitto di giudicati e la violazione dei divieto del ne bis in idem; si chiede la riunione di procedimenti o in subordine la sospensione del giudizio ex art. 337 , 2 comma c.p.c., in relazione al procedimento pendente avanti questa Corte (R.G. 1798/2011) promosso con ricorso contro la sentenza n.549/2010 della Corte d'Appello di Genova sezione lavoro che aveva confermato il rigetto della domanda proposta da V.V. e S.M. iure hereditatis, sempre per la stessa morte del loro congiunto.
Il motivo rimane assorbito essendo superato dalla disposta riunione dei due procedimenti.
2. - Con il secondo motivo il ricorso denuncia l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360, 1° comma n. 5 c.p.c.) in ordine alla esclusione di responsabilità dei terzi chiamati (FINCANTIERI, Ministero della Difesa), che invece era smentita dalla ctu.
2.1. Il motivo è inammissibile e comunque infondato. Anzitutto perché omette di riportare testualmente in che termini la ctu smentisca le tesi affermate dal giudice di merito, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti della relazione peritale, al fine di consentire a questa Corte l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione.
2.2. In secondo luogo perché il giudizio formulato dal giudice d'appello è frutto di una valutazione complessiva ed unitaria della ctu e delle prove per testi. In ogni caso perché l'unico stralcio della ctu trascritto in ricorso, a sostegno del motivo, e nel quale, il collegio dei periti aveva attribuito all'attività svolta presso l'autorità portuale la percentuale del 50% nell'insorgenza del mesotelioma (sull'80% complessivo attribuita all'esposizione di natura professionale) - e solo il 15-20% a quella presso il servizio militare, mentre quella svolta presso i Cantieri Navali è stata stimata nel 10% - smentisce apertamente che il giudizio prognostico e probabilistico formulato dai periti possa inficiare l'individuazione della responsabilità operata in sentenza in capo alla ricorrente. Tanto più se si tiene conto che la valutazione peritale risulta integrata e corroborata dal giudice d'appello alla stregua di altri elementi di prova acquisiti nel procedimento. Talché, specularmente, il motivo di ricorso formulato in ricorso non deduce in realtà un difetto di motivazione, nei termini previsti dall'art. 360 n. 5 c.p.c. (ratione temporis applicabile), ma richiede una impossibile rivisitazione complessiva della motivazione della sentenza impugnata, con una nuova valutazione del fatti di causa; il che travalica i compiti di questo giudice in quanto la valutazione dei fatti esiste, è stata operata dal giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità poiché risulta scevra da vizi logici e giuridici.
2.3. Il giudice di merito infatti, in base a tutte le risultanze processuali ha escluso la responsabilità dei terzi chiamati perché, quanto a Fincantieri, ha accertato che l'attività svolta da S.M. presso questo datore di lavoro non avesse in realtà comportato esposizione ad amianto (né nell'attività di scaldachiodi, né nell'utillzzo di materiali accessori). E, quanto a quella svolta come motorista nella Marina Militare nei periodo del servizio militare, nel corso del quale era stato imbarcato per nove mesi, in quanto giudicata, in conformità alla perizia, "debolmente compatibile" con l'eziologia del mesotelioma a fronte di una esposizione "verosimilmente molto bassa"; ed inoltre perché non risultava alcuna prova della partecipazione del lavoratore ad interventi di manutenzione e riparazione sulle navi su cui era imbarcato.
2.4. Si tratta di una valutazione corretta e logica che si sottrae a qualsiasi censura da parte di questa Corte.
3. Col terzo motivo il ricorso deduce omessa ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) in ordine all’affermata esistenza, sul piano causale, della responsabilità dell'Autorità Portuale di Genova, in quanto sarebbe sufficiente leggere la ctu esperita in prime cure per smentire in toto la posizione assunta sul punto dalla Corte d'Appello. Il collegio dei periti avrebbe infatti escluso la presenza di polverosità nella cabina della gru; affermato che nessuna particolare rilevanza potesse avere avuto l'attività svolta come gruista; rilevato che i valori di esposizione accertati indicassero una presenza di amianto su base settimanale di 0,5 fibre per cm3 (che sarebbe un valore molto basso e largamente inferiore a quello prescritto all'epoca); negato la rilevanza dell'attività svolta presso l'officina G. negli anni 80 essendo troppo vicina allo sviluppo del mesotelioma. Inoltre la sentenza aveva contraddittoriamente trascurato l'esposizioni subite dallo S.M. presso i precedenti datori di lavoro, nonostante ai fini del mesotelioma fosse sufficiente una dose molto piccola di fibre. La diagnosi di mesotelioma era poi solo probabile e nemmeno certa.
3.1. Anche tale motivo è inammissibile e comunque infondato. Si devono richiamare, preliminarmente, le stesse carenze deduttive, già segnalate in precedenza, laddove nel motivo si rinvia alla ctu senza testuale trascrizione delle affermazioni dei periti; si contesta la diagnosi della malattia senza precisare quando, dove e come di tale contestazione fosse stato investito il giudice di merito; si cita uno stralcio della ctu ma decontestualizzato da tutto il resto; si dimentica che la conclusione del giudice d'appello è sostenuta da un esame integrato delle prove, anche testimoniali e dal richiamo del riconoscimento della malattia professionale effettuato anche in sede INAIL; si mira ad un riesame di merito dei fatti di causa.
3.2. Le stesse doglianze sono pure intrinsecamente contraddittorie, laddove trascurano di considerare il peso determinante che riveste, sul piano oggettivo del collegamento causale (rilevabile ex post) la presenza anche soltanto di una concentrazione di polveri di 0,5 fibre/cc (su base settimanale) rilevata dal collegio peritale (in considerazione della compattezza tipica dei materiali dei sistemi frenanti) all'interno dì una angusta cabina di guida. Nell'ambito della quale, oltre tutto, non è emerso venissero adottati interventi di pulizia di nessun genere; mentre pure non è emersa l'adozione di un qualsiasi intervento protettivo ed informativo a beneficio del lavoratore.
3.3. Del tutto infondate si rivelano poi le stesse censure se si valuta che in realtà il dato relativo alla concentrazione delle polveri, considerato dal collegio dei periti come proveniente dal sistema frenante - e ritenuto basso dalla ricorrente - è stato logicamente confutato e dichiarato espressamente "non utilizzabile" dalla Corte d'Appello (v. sentenza a pag. 26) in quanto tratto da misurazioni DIMEL dell'Università di Genova effettuate sulle gru negli anni 90, sulle quali però non risultava aver lavorato lo S.M.. Essendo per contro emerso che nel periodo di lavoro che qui rileva, l'Autorità Portuale avesse gru risalenti all'ultima guerra mondiale ed altre risalenti agli anni 65-75; mentre la prova testimoniale aveva pure consentito di accertare che proprio in relazione alle gru più vecchie "si determinassero presenze di polveri nella cabina di guida in quanto durante il lavoro si producevano forti temperature e quindi le fodere di amianto delle resistenze sfrigolavano".
3.4. Inoltre la stessa censura omette di riferire che, come già rilevato, i periti avessero attribuito una elevata percentuale di probabilità al fatto che a cagionare il mesotelioma fosse stata proprio l'esposizione professionale a fibre di amianto subita presso l'autorità portuale (il 50% su 80%); e che tale conclusione risulti ulteriormente supportata e rafforzata dalla Corte territoriale con la valutazione di altri elementi istruttori (e l'individuazione di ulteriori fonti espositive) e con l'esclusione dell'incidenza di fattori eziologici alternativi, rivestiti di pari spessore sul piano logico e statistico.
Sicché se si considera che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. SU 30328/2002, Franzese ), il nesso casuale con il singolo fatto (anche partendo dal dato statistico) debba essere sempre ricostruito secondo un fondamento logico probabilistico (mentre non serve allo scopo il mero possibilismo, nemmeno del fattore alternativo), non si vede come possa contestarsi che la conclusione assunta sul punto dai giudici di merito non sia idonea a sorreggere l'ascrivibilità del fatto all'attività lavorativa svolta alle dipendenze dei CAP ed a condurre alla responsabilità civile della ricorrente, atteso che, in base alla sentenza, la prova della correlazione causale tra fatto ed evento attinge nel singolo concreto caso ad un livello di alta probabilità logica.
4. Col quarto motivo si deduce omessa ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) in ordine all'affermata sussistenza della colpa dell'Autorità Portuale di Genova, anzitutto perché i fatti erano riconducibili ad un'epoca risalente (compresa fra il 1960 ed i primi anni 70) rispetto alla quale i periti avevano precisato che non si sapesse della pericolosità dell'amianto anche a minime dosi, né della sua relazione con il mesotelioma; ed inoltre perché all'epoca non fosse obbligatorio provvedere alla fornitura di dispositivi di protezione in caso di livelli di esposizione bassi; e non si potesse pertanto richiedere all'imprenditore la predisposizione di accorgimenti di sicurezza che peraltro mai sarebbero stati idonei, dato che solo il bando dell'amianto avrebbe potuto ragionevolmente evitare la malattia.
4.1. Il motivo è privo di fondamento. La Corte territoriale ha proceduto all'imputazione colposa dell'evento richiamando a supporto della pronuncia la "norma aperta" di cui all'art. 2087 c.c. e le specifiche norme di prevenzione, informative e di igiene dettate in materia dal DPR 303/1956 (artt. 9, 15, 18, 19, 20, 21, 25). Ha ricordato che all'epoca dello svolgimento dell'attività lavorativa da parte dello S.L. fosse ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre di amianto, considerate insalubri fin dai primi anni del secolo scorso. Ha pure osservato che non potesse avere rilievo alcuno quanto osservato, dal ctu e dalla sentenza 549/2010 nella causa decisa della Corte d'Appello sez. lavoro, sulla mancanza di uno stato di polverosità "percepibile" nella cabina, in quanto in base alle prove assunte all'interno dei processo civile (mentre nella causa di lavoro le prove orali non erano state neppure espletate) risultava provata la presenza di polveri di amianto nella cabina della gru in quanto provenienti almeno in parte dallo stesso consumo del sistema dei freni; così come era stato provato che il lavoratore fosse rimasto esposto alle polveri di amianto provenienti dallo sfrigolio delle resistenze e dai sacchi di amianto accatastati sulla banchina.
4.2 Premesso che anche nella causa civile esame non risulta che il CAP, all'epoca della condotta, abbia mai approntato nessuna misura di informazione e di prevenzione a tutela del lavoratore; occorre riconoscere che la soluzione offerta dal giudice di merito e' motivata in modo logico ed appare coerente con le disposizioni vigenti e con il consolidato orientamento dì legittimità che si è formato sul tema della colpa nelle malattie in discorso (cfr. Cass. sez IV 38991/2010; Cass. Sez. IV 43786/2010; Cass. IV, 4674/07, Bartalini; Cass. IV, 988/03, Macola; Cass. IV, 21513/09, Stocchi; Cass. IV, 16761/10, Catalano).
4.3 Invero la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità ha statuito che ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a provocare danni, ma non necessita che l’agente si prefiguri lo specifico evento concretamente poi verificatosi (Cass. IV, 5919/1991, Rezza; Cass. IV, 5037/2000, Camposano; Cass. IV, 4675/07 Bartalini; Cass. IV, 21513/09, Stocchi).
Il giudizio di prevedibilità dell'evento in materia di malattie asbesto correlate "non riguarda soltanto specifiche conseguenze dannose che da una certa condotta possono derivare, ma si riferisce a tutte le conseguenze dannose che possono derivare da una condotta che sia conosciuta come pericolosa per la salute" (Cass.sez. IV, 11.7.2002 n.988). Come si è visto, la conoscenza della nocività dell'amianto per la salute dell'uomo era nota e diffusa dall'inizio del 1900 (se ne parla già nel r.d. 14.6.1909 n. 442 in tema di lavori ritenuti insalubri; idem, nel d.lgt. 6/81916 n.1136; e nel r.d.1720/1936; v. pure la sentenza della Corte d'Appello di Torino del 1907 nella quale si scrive che «è cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura che l'aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell'amianto può essere maggiormente nociva» di altre polveri); mentre l'asbestosi - che è pure essa una malattia mortale o comunque produttrice di una significativa abbreviazione della vita - è stata inserita nell'elenco tipizzato delle malattie professionali dalla legge 455/1943. Inoltre dalla numerosa giurisprudenza di merito e legittimità pronunciatesi sul tema risulta che il nesso tra amianto e tumore polmonare fosse già noto almeno a partire dagli anni 50; mentre della relazione amianto mesotelioma si sa almeno dalla prima metà degli anni 60.
Da ciò consegue- secondo la stessa giurisprudenza Cass.sez. IV, 11.7.2002 n. 988- "che la mancata eliminazione, o la riduzione significativa, della fonte di assunzione comportava il rischio dei tutto prevedibile dell'insorgere di una malattia gravemente lesiva della salute dei lavoratori addetti. Se solo successivamente sono state conosciute altre conseguenze di particolare lesività (il mesotelioma pleurico, n.d.r.) non v'è ragione di escludere il rapporto di causalità con l'evento e il requisito di prevedibilità de! medesimo. E non v'è ragione di escluderlo in particolare perché le misure di prevenzione da adottare per evitare l'insorgenza della malattia erano identiche a quelle richieste per eliminare o ridurre i rischi anche non conosciuti; con la conseguenza , sotto il profilo obiettivo , che ben può affermarsi che la mancata adozione di 'quelle' misure ha cagionato l'evento e, sotto il profilo soggettivo, che l'evento era prevedibile perché erano conosciute conseguenze potenzialmente letali delta mancata adozione di quelle misure.
Pertanto, ai fini della responsabilità colposa, generica e specifica, per la morte di un lavoratore per mesotelioma, non è richiesto che il datore obbligato all'adozione di misure protettive, si sia rappresentato in modo specifico la prevedibilità dell'evento letale o addirittura il decorso causale attraverso cui si può giungere alla morte. "E' necessario e sufficiente che il soggetto agente abbia potuto prevedere che adottando le misure imposte dalla legge si sarebbe potuto evitare un grave danno alla salute o un danno alla vita".
4.4. Il punto è stato pure riaffermato da questa sez. lavoro con la sentenza n. 8655/2012 riconoscendosi (adeguato e coerente sostenere che) "una volta assodato che fin dagli inizi del 1900 vi era la consapevolezza della dannosità per la salute umana dell'amianto e la sua correlazione con le patologie tumorali non può ritenersi immune da responsabilità il datore di lavoro che non appronti tutte le cautele in chiave preventiva conosciute all'epoca di riferimento per il solo fatto che la patologia specifica (mesotelioma) non era stata ancora compiutamente correlata all'amianto perché, comunque, era conosciuta la pericolosità di detta sostanza (per la salute dell'uomo ndr) indipendentemente dalla patologia che ne è derivata".
4.5. Pertanto il datore di lavoro se vuol andare esente da colpa non può sostenere che non sapesse della nocività dell'amianto a basse dosi ma dovrebbe dimostrare cosa ha fatto in positivo; quali misure di prevenzione e di informazione ha adottato per proteggere i lavoratori e per abbattere le polveri, fra quelle che erano a disposizione all'epoca (ai sensi dell'art. 2087 c.c. e del d.p.r. 303/56). Misure che erano rivolte a proteggere la salute dei lavoratori dal rischio di esposizione alle polveri (anche da quelle prodotte dall' amianto); e che riguardavano perciò ogni possibile evento morboso per la salute e la vita dell'uomo.
4.6. Emerge da ciò che la responsabilità della datrice di lavoro non è stata riconosciuta in base alla mera esistenza della malattia, attraverso una presunzione di colpa automatica (che non può esistere nel penale, ma nemmeno nel civile). E nemmeno per la dipendenza della malattia dall'esposizione all'amianto tout court. Essa è stata invece affermata per un'esposizione avvenuta in modi non consentiti dall'ordinamento, vietati dallo stesso, condotta con violazione di regole cautelari dettate a protezione della salute dei lavoratori; imputata cioè a precisi comportamenti colposi. Non è stata confusa l'esistenza dei presupposti per l'erogazione dell'indennizzo INAIL (ai cui fini basta la malattia, addirittura con nesso causale presunto in base a tabelle), con l'esistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti per la responsabilità civile,
1 quali sono stati invece accertati in concreto in relazione a ciascuno di essi.
4.7. Non è stato considerato civilmente rilevante il mero svolgimento di un'attività lecita ed autorizzata; bensì la sola omissione di cautele doverose. Il mesotelioma che ha condotto al decesso S.M. è derivato dall'esposizione all'amianto subita presso il CAP, secondo il primo degli accertamenti probatori effettuato sui nesso di causalità, il quale impone una valutazione (ex post) di alta probabilità statistica e logica. Ma la responsabilità del CAP non è derivata dalla mera presenza o dall'utilizzazione dell’amianto, bensì soltanto dal non aver osservato le misure dettate (dall'art. 2087 c.c. e dal DPR 303/56) per la protezione dei lavoratori, all'epoca in cui è stata utilizzata la sostanza. E ciò, essendo lo stesso evento morboso prevedibile, perché , giova ribadirlo, lo era all'epoca della condotta rilevante (anni 60-80) e perché comunque a tal fine non è necessario che l’agente sì sia rappresentato o fosse in grado di rappresentarsi tutte le conseguenze della condotta posta in essere in violazione delle regole cautelari; ma è sufficiente che egli fosse in grado di potersi rappresentare la potenzialità lesiva e quindi una serie indistinta di danni alla salute ed alla vita dei lavoratori.
4.8. Anche qui dovendosi ribadire che a tal fine occorra fare riferimento al concetto di "agente modello" (homo ejusdem professionis et condicionis), sul presupposto che se un soggetto intraprende una attività, soprattutto se pericolosa, ha il dovere di informarsi preventivamente dei rischi ed ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza pericoli.
4.9. Neppure può essere accolta l'ulteriore obiezione con la quale, reclamandosi in sostanza l'assoluzione preventiva da ogni conseguenza civile, si sostiene che all'epoca della condotta mancassero i mezzi per evitare l'evento, potendo lo stesso evento essere cagionato anche dalla ingestione di poche fibre. Talché , mancando le misure protettive per le piccole dosi, se anche fossero state adottate quelle dettate per le dosi più elevate, l'evento non sarebbe stato evitato; mancherebbe perciò il nesso di causa tra omissione ed evento.
Sul punto la risposta della Corte genovese - col sostegno della giurisprudenza di legittimità ivi richiamata (cfr. pure, sul tema della colpa, Cass. sez IV 38991/2010; Cass. Sez, IV 43786/2010) - è stata correttamente formulata in termini opposti. Riconoscendo cioè che le misure omesse (quelle informative, igieniche, sanitarie) sarebbero state sicuramente utili ed avrebbero evitato l'insorgenza del mesotelioma, con un indice di seria probabilità (Cass. sez IV 38991/2010). Si tratta dì una affermazione che è tratta dall'esistenza di studi epidemiologici, i quali hanno dimostrato che ad una diminuzione nell'ambiente di lavoro della dose iniziale di esposizione ad amianto - attraverso la successiva introduzione di standard igienici e di sistemi di protezione vigenti al momento della condotta di cui si tratta - abbia corrisposto nei lavoratori una marcata riduzione nella frequenza delle malattie da amianto ed anche di mesoteliomi. Ma anche perché la stessa evidenza si desume dalla constatazione del numero di malati, incomparabilmente più elevato, presente tra i lavoratori rispetto agli esposti per motivi non professionali - numericamente assai estesi, in considerazione dell'ampio impiego dell'amianto (che ha conosciuto migliaia di utilizzazioni e che si potrebbe considerare praticamente un inquinante ubiquitario); un dato che indica quindi come il livello di pericolosità della sostanza aumenti in relazione alla dose, mentre riducendo la stessa si riducono le malattie. Ciò vale a dimostrare ulteriormente, per un verso, che la malattia sia correlata alla dose; e per altro verso che l'azione doverosa del datore di lavoro (le misure di igiene omesse) risulti causale rispetto all'evento (potendolo evitare o ritardare).
4.10 Non solo; ancorché la questione non rilevi nel caso di specie, essendo stata individuata una causa altamente probabile nell'insorgenza della malattia professionale in oggetto, va pure riferito che nella giurisprudenza di legittimità è stato considerato rilevante anche l'effetto accelleratore della latenza (in tema mesotelioma, Cass.sez.IV, 11.7.2002 n. 988, Macola , Cass.2 ottobre 2003, Monti; Cass. 4, 11 aprile 2008, Mascarin, in Rv. n. 240517; ed in tema di carcinoma al naso a seguito di esposizione a polveri di legno Cass. 4, 19 giugno 2003, Giacomelli). Ossia affermato (sopra tutto ai fini penali quando più sono gli imputati succedutesi nella posizione di garanti nel periodo di esposizione considerato) che le misure omesse rilevano anche perché avrebbero diminuito l'intensità dell'esposizione ed allungato certamente la vita; in quanto l'esposizione più intensa e massiccia diminuisce la latenza della malattia, ed influisce perciò sul più rapido decorso della malattia; che si manifesta prima. Mentre la minore esposizione allunga la latenza e quindi la vita; e diminuire la vita significa sempre cagionare, o concorrere a cagionare, l'evento morte, per il diritto.
4.11. Non si vede, in ogni caso, come sia possibile sostenere qui che le cautele dettate dal D.P.R. 303/56 potessero essere tranquillamente omesse dal datore di lavoro ricorrente. Quando, va ribadito, da una parte, neppure manca nell'ordinamento un esplicito richiamo alla necessità di osservare per la protezione contro le polveri dell'amianto, tutte le misure di protezione stabilite dal dpr 303/56 essendo tale richiamo contenuto negli artt.174 e 155 del TU 1124/65. E, dall'altra, va riconosciuto che la regola cautelare di cui all'art. 21 D.P.R. n. 303 del 1956 non miri a prevenire unicamente l’inalazione di polveri moleste (di qualunque natura) ma a prevenire proprio le malattie che possono conseguire all'Inalazione di polveri (come, in relazione a quelle di amianto, afferma Cass. Sez. 4, sentenza n. 38991 del 10/06/2010).
4.12. Un ulteriore vizio contenuto nel motivo di ricorso in esame è quello che - per avvalorare la tesi sulla mancanza di colpa - richiama i c.d. tlv (i valori limite di esposizione agli agenti chimici); sostenendo che all'epoca dei fatti detti limiti fossero assai più elevati di quelli prescritti successivamente. Sul punto va però rilevato che, come risulta dalla stessa lettura dell'art. 21, la norma non richieda alcun superamento di limiti per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte. Non è previsto ai fini dell'osservanza dell'art. 21 che sia accertata la presenza di determinati limiti espositivi, essendo solo sufficiente che si sviluppino polveri nocive di qualsiasi specie (visibili ed invisibili). Inoltre , la giurisprudenza ha sempre statuito che " l'inosservanza dei c.d. tlv non assurge ad elemento necessario per l'integrazione dei reati di cui agli artt. 20 e 21 dpr 303/56, dai momento che l'obbligo di prevenzione contro gli agenti chimici scatta a carico del datore di lavoro pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriore abbattimento (Cass. sez. IV 11.5,1998, in F.I. 1998,11,236 ss.) Di più, la stessa giurisprudenza di legittimità intende i valori limite come soglie d'allarme il cui superamento - fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per eliminare o ridurre al minimo i rischi - comporta l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione per proteggere alcuni lavoratori particolarmente esposti e per agire sui tempi di esposizione, in modo da favorire il rapido rientro in limiti meno rischiosi. Perciò, mai la tutela dei lavoratori alle polveri di amianto - con l'adozione delle misure via via, concretamente disponibili sul piano tecnico- è stata subordinata nel nostro ordinamento all'accertamento del superamento di determinate concentrazioni di polveri, nel senso che in mancanza di tale superamento il datore fosse esentato dalla legge dall'adozione delle misure dettate dalla legge in generale per tutti i lavoratori e per proteggere l'ambiente di lavoro.
4.13. Deve essere qui ricordato che, prima del d.lgs. 277/91, il superamento di valori limite (via via stabiliti dalla comunità scientifica) era richiesto nel nostro ordinamento soltanto per imporre il pagamento in sede assicurativa del premio supplementare per asbestosi a carico di alcuni datori di lavoro che svolgevano specifiche attività previste in tabella o che comunque esponevano al rischio alcuni lavoratori (in quantità tale da determinare il rischio). Obbligati al pagamento del premio erano solo alcuni datori di lavoro ed il premio doveva essere corrisposto prendendo in considerazione le retribuzioni corrisposte non a tutti i lavoratori esposti, bensì solo agli operai che erano fortemente esposti e per I quali l'esposizione poteva rappresentare un rischio diretto di contrarre l'asbestosi. Il limite della "concentrazione tale da determinare il rischio" nell'ambito del sistema assicurativo valeva perciò solo nell'ottica del premio assicurativo, nella logica del finanziamento del sistema, in ambito statistico attuariale; senza peraltro che lo stesso limite abbia mai esercitato alcun effetto ai fini della determinazione dell'ambito di operatività della tutela al lavoratore (come dice espressamente la tabella allegata al dpr 1124/65).
5. Col quinto motivo si deduce omessa ed insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.) in ordine al riconoscimento del danno morale iure proprio in capo agli attori, in mancanza dei presupposti previsti dall'art. 2059 c.c. stante l'assenza dell'accertamento del fatto come reato da parte del giudice penale.
Si tratta di un motivo inammissibile perchè non esplicita il fatto rilevante di cui si tratterebbe e perché semmai, sostenendo che l'art.2059 c.c. sia stato applicato quando non dovesse esserlo, fa riferimento ad un vizio del processo di sussunzione che risulta deducibile soltanto in iure, come erronea interpretazione di una norma (e pertanto come violazione di legge ex art. 360, 1° comma n. 3 c.p.c.).
Si tratta, in ogni caso, di un motivo infondato perché certamente non occorre il preventivo/accertamento di un fatto-reato da parte del giudice penale ai fini del riconoscimento del danno morale; essendo ogni accertamento in proposito effettuabile direttamente ed autonomamente in sede civile. D'altra parte, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 17092/2012; 1361/2014), non è più necessario nemmeno l'accertamento di un reato (neppure astrattamente) per riconoscere il danno morale, essendo questo tipo composito di pregiudizio appartenente alla categoria del danno non patrimoniale (ed afferente non solo alla sofferenza morale, ma anche all'offesa alla dignità della persona ex art. 2 Cost.); e pertanto risarcibile alle condizioni previste in generale dall'ordinamento per Il risarcimento della stessa categoria di danno.
6. Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso principale e di condannare la ricorrente, rimasta soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo in favore delle parti costituite. Nessuna pronuncia sulle spese va emessa nei confronti del Ministero della Difesa rimasto intimato.
Il ricorso incidentale proposto da FINCANTIERI - CANTIERI NAVALI ITALIANI SPA avverso la stessa sentenza rimane conseguentemente assorbito.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte riunisce i ricorsi R.G. 01798/2011 e R.G.02664/2013; accoglie il ricorso R.G. 01798/2011, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte d'Appello di Genova in diversa composizione anche per le spese del presente giudizio. Rigetta il ricorso R.G. 02664/2013, assorbito l'incidentale e condanna la ricorrente principale a pagare a ciascuno dei controricorrenti le spese processuali liquidate in 4100 euro di cui 4000 per compensi professionali , oltre al 15% di spese generali ed agli accessori di legge. Nulla per le spese per la parte rimasta intimata.
Così deciso in Roma, il 20 aprile 2016