Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 dicembre 2016, n. 26159 - Caduta dall'impalcatura e mancanza di cinture di sicurezza. Onere della prova del lavoratore?


 

La Corte afferma che:

"L’impugnazione nel suo complesso mira a riproporre la lettura che della vicenda oggetto del giudizio ha accolto il giudice di prime cure, concludendo nel senso dell’assenza di un collegamento causale tra le violazioni della normativa di prevenzione riscontrate all’esito dell’accertamento e l’infortunio occorso al lavoratore: convincimento che si fonda sulla ritenuta esclusione dell’obbligo per il datore di lavoro di dotare il lavoratore, quale misura di prevenzione dell’evento poi verificatosi, di cinture di sicurezza (con bretelle collegate e fune di trattenuta) per lo svolgimento di attività implicanti il rischio di caduta dall’alto per essere questo svolto con l’ausilio di un impalcato provvisto di parapetto e che il primo giudice desume dalla dichiarazione dell’ispettore dello SPISAL incaricato dell’accertamento, derivandone l’essere l’infortunio dovuto ad una mera casualità se non ad un comportamento anomalo del lavoratore.
Ebbene è appunto tale convincimento che la Corte territoriale giunge a confutare, assumendo la necessità della dotazione di cinture di sicurezza in relazione alla ritenuta inidoneità dell’impalcato utilizzato ed in particolare del parapetto di cui era provvisto, di altezza insufficiente ad impedire una eventuale caduta e facendone discendere l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza e la responsabilità per l’evento occorso a prescindere dal comportamento in concreto tenuto dal lavoratore.
A fronte di tale ricostruzione le censure sollevate dal ricorrente non colgono nel segno. Risulta, infatti, inconferente la critica avanzata dai ricorrenti con riguardo all’orientamento interpretativo, che, peraltro, questo Collegio ritiene di dovere condividere, per cui il lavoratore/creditore non è tenuto ad allegare ed a fornire la prova del fatto negativo dell’inadempimento, e dunque tanto del fatto materiale quanto delle regole di condotta che assume essere state violate, ben potendo identificarsi nella specie il fatto in cui si sostanzia l’inadempimento nella mancata dotazione delle cinture di sicurezza imposto dall’art. 10 del d.P.R. n. 164/1956, per non ricorrere le condizioni di esonero dall’osservanza dell’obbligo ivi previste."


 

Presidente: DI CERBO VINCENZO Relatore: DE MARINIS NICOLA Data pubblicazione: 19/12/2016

 

Fatto

 


Con sentenza del 16 marzo 2011, la Corte d’Appello di Venezia, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale di Treviso, accoglieva la domanda proposta da T.C. nei confronti della DB. Lino e Figli s.n.c. ora D.B. System dei F.lli DB. Loris, Luca e Davide s.n.c. nonché dei Sig.ri Lino, Loris, Luca, Livia DB. e della SARA Assicurazioni S.p.A. quanto all’accertamento della responsabilità per l’infortunio sul lavoro occorso all’istante, peraltro limitando ad euro 559.652,75 la condanna, pronunciata in una con quella al ristoro delle spese mediche sopportate, al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal lavoratore con declaratoria dell’obbligo della SARA Assicurazioni S.p.A. a tenere indenne la Società in relazione alla somma dovuta nei limiti del massimale contrattuale.
La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto, sulla scorta dell’orientamento di recente accolto da questa Corte per cui il creditore che agisce per il risarcimento del danno deve provare la fonte del suo diritto, il danno e la sua riconducibilità al titolo dell’obbligazione, limitandosi alla mera allegazione dell’inadempimento della controparte, tenuto, viceversa, a provare l’assenza di colpa, che il soggetto datore di lavoro non avesse fornito la predetta prova liberatoria e pertanto dovuto il risarcimento nelle sole componenti del danno biologico da quantificarsi secondo le tabelle in uso e del danno morale con esclusione del danno da diminuita capacità di lavoro generica e specifica.
Per la cassazione di tale decisione ricorrono la Società in una con i Sig.ri DB. Lino, Loris, Luca e Livia, affidando l’impugnazione a tre motivi cui resiste, con controricorso T.C., il quale a sua volta propone ricorso incidentale, articolato su due motivi, relativamente al quale i ricorrenti principali non svolgono alcuna attività difensiva. Entrambe le parti hanno presentato memoria.
 

 


Diritto

 

Con il primo motivo la Società ricorrente principale, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1218, 2697 e 1453 c.c., deduce l’erroneità dell’orientamento interpretativo accolto dalla Corte territoriale in base al quale la stessa ha ritenuto di esonerare il lavoratore dall’onere della prova del fatto costituente l’inadempimento imputato al soggetto datore.
Nel secondo motivo l’analoga censura relativa all’erroneità dell’orientamento interpretativo accolto dalla Corte territoriale è riferita all’art. 10 del d.P.R. 7.1.1956 n. 164 in relazione all’art. 12 delle Preleggi avendo la Corte territoriale individuato l’inadempimento del soggetto datore nel non aver dotato il lavoratore impegnato sull’impalcatura mobile di cinture di sicurezza laddove la norma citata nella sua chiara formulazione testuale impone un simile obbligo solo nell’ipotesi, qui a suo dire non riscontrabile, in cui non fosse possibile disporre impalcati di protezione o parapetti.
Con il terzo motivo è dedotto un vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione che la Società ricorrente principale assume risiedere nell’incongruenza tra il riferimento quale causa dell’infortunio ad un comportamento del lavoratore dato dal suo eccessivo sporgersi dall’impalcatura mobile che ben avrebbe potuto essere spostata così favorendo un più agevole svolgimento del compito affidato e l’accertamento di responsabilità ad esclusivo carico del soggetto datore, legittimandosi in relazione al predetto comportamento, se non l’esonero da responsabilità di questi, non potendosi in esso individuare la sola causa efficiente dell’evento, almeno il concorso di colpa del lavoratore.
Dal canto suo il ricorrente incidentale, con il primo motivo, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c. anche in relazione agli artt. 3, 32 e 111 Cost„ lamenta a carico della Corte territoriale la violazione dei criteri di determinazione del danno risarcibile per aver applicato ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale, in luogo delle tabelle del Tribunale di Milano, le tabelle in uso presso il proprio Tribunale ed altresì erroneamente quanto all’individuazione del valore del punto in rapporto all’età dell’infortunato e per non aver dato adeguato rilievo agli elementi di personalizzazione del danno.
Nel secondo motivo del ricorso incidentale si deduce, invece, un vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione alla statuizione intesa ad escludere la risarcibilità del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, statuizione che si fonda sulla ritenuta carenza di prova in ordine alla consequenzialità tra infortunio e abbandono della propria attività lavorativa, esclusa, a detta dal ricorrente, dallo stato di assoluta inabilità al lavoro in cui il medesimo versa, stato, peraltro, asseverato dall’espletata CTU.
I tre motivi del ricorso principale, che, in quanto strettamente connessi possono essere qui trattati congiuntamente, non meritano accoglimento.
L’impugnazione nel suo complesso mira a riproporre la lettura che della vicenda oggetto del giudizio ha accolto il giudice di prime cure, concludendo nel senso dell’assenza di un collegamento causale tra le violazioni della normativa di prevenzione riscontrate all’esito dell’accertamento e l’infortunio occorso al lavoratore: convincimento che si fonda sulla ritenuta esclusione dell’obbligo per il datore di lavoro di dotare il lavoratore, quale misura di prevenzione dell’evento poi verificatosi, di cinture di sicurezza (con bretelle collegate e fune di trattenuta) per lo svolgimento di attività implicanti il rischio di caduta dall’alto per essere questo svolto con l’ausilio di un impalcato provvisto di parapetto e che il primo giudice desume dalla dichiarazione dell’ispettore dello SPISAL incaricato dell’accertamento, derivandone l’essere l’infortunio dovuto ad una mera casualità se non ad un comportamento anomalo del lavoratore.
Ebbene è appunto tale convincimento che la Corte territoriale giunge a confutare, assumendo la necessità della dotazione di cinture di sicurezza in relazione alla ritenuta inidoneità dell’impalcato utilizzato ed in particolare del parapetto di cui era provvisto, di altezza insufficiente ad impedire una eventuale caduta e facendone discendere l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza e la responsabilità per l’evento occorso a prescindere dal comportamento in concreto tenuto dal lavoratore.
A fronte di tale ricostruzione le censure sollevate dal ricorrente non colgono nel segno. Risulta, infatti, inconferente la critica avanzata dai ricorrenti con riguardo all’orientamento interpretativo, che, peraltro, questo Collegio ritiene di dovere condividere, per cui il lavoratore/creditore non è tenuto ad allegare ed a fornire la prova del fatto negativo dell’inadempimento, e dunque tanto del fatto materiale quanto delle regole di condotta che assume essere state violate, ben potendo identificarsi nella specie il fatto in cui si sostanzia l’inadempimento nella mancata dotazione delle cinture di sicurezza imposto dall’art. 10 del d.P.R. n. 164/1956, per non ricorrere le condizioni di esonero dall’osservanza dell’obbligo ivi previste. E ciò sulla base di una interpretazione di tale disposizione da parte della Corte territoriale che deve dirsi pienamente corretta se, come implicitamente ammettono gli stessi ricorrenti laddove riportano il testo della disposizione, addirittura evidenziando l’inciso “quando non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti”, l’esonero previsto dalla disposizione in parola ricorre solo quando non vi sia disponibilità di quei mezzi o, il che è lo stesso, quando quei mezzi non risultino idonei, come qui ritenuto dalla Corte territoriale con valutazione qui neppure fatta oggetto di censura. Il giudizio attributivo della responsabilità in capo al datore di lavoro si sottrae altresì ai rilievi sollevati dai ricorrenti in ordine alla sua congruità logica, non ravvisandosi alcuna contraddittorietà dell’iter argomentativo seguito dalla Corte territoriale in relazione all’identificazione da parte della stessa di un comportamento del lavoratore non improntato ad estrema prudenza quale causa prossima dell’evento, atteso che, a fronte dell’inadempimento del datore, concretatosi nella mancata fornitura delle cinture di sicurezza, sul cui utilizzo correttamente la Corte medesima ha ravvisato la colpevole assenza di direttive preventive e vigilanza successiva, il comportamento colposo del lavoratore, come ancora puntualmente osservato dalla Corte territoriale, se può incidere sulla misura del risarcimento, non esclude la responsabilità del datore, responsabilità, che del resto, gli stessi ricorrenti mostrano di riconoscere, non essendosi mai spinti fino ad affermare la completa responsabilità del lavoratore nella determinazione dell’evento dannoso.
Parimenti insuscettibili di accoglimento si rivelano i due motivi su cui si articola il ricorso incidentale.
L’affermato diritto alla rideterminazione del danno secondo le tabelle del Tribunale di Milano risulta correttamente rigettato, difettando il relativo conteggio di adeguato supporto probatorio in considerazione dell’omessa produzione delle tabelle medesime e della mancata puntuale confutazione della non conformità alle prime di quelle assunte a riferimento dalla Corte territoriale; mentre le ulteriori censure sollevate in ordine alla quantificazione operata dalla Corte territoriale in conseguenza dell’erronea od omessa considerazione delle varie componenti di danno risultano indimostrate (oltre che inficiate dal difetto di autosufficienza per la mancata allegazione delle tabelle di riferimento), generiche e comunque inconferenti come in particolare è a dirsi per quella relativa alla mancata liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, con la quale il ricorrente incidentale, lungi dal confutare le ragioni su cui la Corte territoriale ha basato la relativa statuizione, ovvero l’assenza di prova del collegamento causale tra l’infortunio e la scelta di “altra attività lavorativa”, si è limitato a contrapporre, senza dame dimostrazione, un presupposto di fatto del tutto diverso, ovvero quello per cui il medesimo, in quanto impossibilitato, non aveva svolto né poteva svolgere alcuna attività lavorativa. Tanto il ricorso principale quanto il ricorso incidentale vanno dunque rigettati con compensazione delle spese del presente giudizio, in considerazione della reciproca soccombenza.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta entrambe i ricorsi e compensa tra le parti le spese del presente giudizio Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 settembre 2016