Cassazione Penale, Sez. 4, 23 gennaio 2017, n. 3304 - Caduta mortale durante l'operazione di saldatura della gabbia di ferro intorno ad un pilastro. Omessa valutazione del rischio
Presidente: BIANCHI LUISA Relatore: PICCIALLI PATRIZIA Data Udienza: 01/12/2016
Fatto
M.A. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, riformando quella di primo grado, revocava le statuizioni civili, confermando il giudizio di responsabilità per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno del lavoratore I.M..
Questi, secondo quanto ricostruito in sede di merito, mentre era intento ad effettuare l'operazione di saldatura della gabbia di ferro intorno ad un pilastro, a circa m. 1,80 dal suolo, in posizione di estrema instabilità (appoggiato ad un tubo metallico della recinzione del cantiere), cadeva al suolo, riportando gravi lesioni a seguito delle quali decedeva.
Così ricostruito in fatto l'infortunio, l'addebito colposo contestato all'M.A., nella qualità di legale rappresentante della O. s.a.s. e datore di lavoro della vittima, veniva principalmente basato sulla omessa valutazione dei rischi derivanti dalla lavorazione di cerchiatura del pilastro da eseguire in altezza e sull'omessa fornitura al lavoratore dell'attrezzatura idonea per eseguire tale lavoro, in violazione degli articoli 35 d.lvo 626/94 e 12, comma 3, d.Lvo 494/96, che avevano determinato l'improvvida manovra posta in essere dallo stesso infortunato.
Il giudicante escludeva, in ogni caso, così corrispondendo a specifica doglianza difensiva, l'abnormità del comportamento del lavoratore, alla luce della concrete circostanze in cui stava operando il lavoratore all'atto dell'infortunio e delle attrezzature che il datore di lavoro gli aveva messo a disposizione per lo svolgimento dei compiti assegnatigli. In particolare, l'I.M. eseguiva le operazioni di saldatura ad un'altezza superiore ai due metri in posizione di precario equilibrio in quanto lo spazio tra la recinzione del cantiere ed il pilastro di soli 80 cm non era sufficiente al posizionamento del trabatello presente sul posto, largo circa 120 cm. Veniva, infine, ritenuta infondata la doglianza difensiva secondo la quale la posizione di garanzia del M.A. era da escludersi per l'autonomia decisionale che contrassegnava il ruolo svolto in concreto dal lavoratore deceduto, tale da conferirgli la qualifica di "preposto", sul rilievo che, a prescindere dalla mancata dimostrazione di tale circostanza, l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari della posizione di garanzia.
Con il ricorso si articola un unico motivo con il quale si lamenta che il giudice di appello aveva disatteso le doglianze mosse alla sentenza di primo grado afferenti la imprevedibilità della condotta del lavoratore e la posizione di garanzia dallo stesso rivestita nella qualifica di preposto con motivazione esattamente sovrapponibile a quella di primo grado.
Diritto
Il ricorso è manifestamente infondato.
In tema dell'interruzione del nesso causale vale il principio, qui correttamente applicato, secondo cui ai fini dell'apprezzamento dell'eventuale interruzione del nesso causale tra la condotta e l'evento (articolo 41, comma 2, cod.pen.), il comportamento successivo può avere valenza "interruttiva" non perché "eccezionale", ma perché "eccentrico rispetto al rischio" che il garante è chiamato a governare: in effetti, tale eccentricità potrà rendere in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento, ma ciò è una conseguenza accidentale, in quanto l'effetto interruttivo può e deve essere individuato in qualsiasi circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che, appunto, il garante è chiamato a governare. In questa prospettiva, in cui è la teoria del rischio a guidare nell'apprezzamento dell'eventuale effetto interruttivo, anche il fatto illecito altrui non esclude in radice l'imputazione dell'evento al primo agente, che avrà luogo fino a quando l'intervento del terzo, in relazione all'intero concreto decorso causale della condotta iniziale all'evento, non abbia soppiantato il rischio originario; cosicché l'imputazione non sarà invece esclusa quando l'evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente (di recente, Sez. IV, n.33329 del 05/05/2015, Sorrentino, Rv. 264365).
La decisione di merito si è mossa in modo aderente a questo principio, evidenziando come il comportamento del lavoratore, sviluppatosi nell'ambito delle mansioni conferitegli, non poteva assurgere a causa eccezionale dell'evento, la cui causa doveva apprezzarsi esistente proprio nell'assoluta carenza delle attrezzature che l'imputato aveva posto a disposizione del dipendente, costretto ad eseguire il cerchiaggio di un pilastro, ad un'altezza superiore a mt.2,30, in posizione di precario equilibrio, con i piedi sopra il tubo innocenti posto alla sommità di una rete di recinzione.
Il trabatello, presente sul posto, era, infatti troppo largo per essere collocato nello spazio tra la recinzione ed il pilastro.
In ogni caso, come rilevato dai giudici di merito, il M.A. non aveva rispettato le prescrizioni antinfortustiche previste in caso di lavori svolti ad un'altezza superiore ai mt. 2 ( v. art. 16 d.P.R. 164/56, applicabile ratione temporis al caso in esame).
E' proprio questa attenta disamina della colpa del datore di lavoro che impedisce di poter apprezzare i principi evocati dalla difesa in punto di abnormità della condotta del lavoratore.
E' esatto, infatti, che, in tema di infortuni sul lavoro, il principio in forza del quale l'addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, salvo che ci si trovi in presenza di comportamenti abnormi, come tali eccezionali ed imprevedibili (cfr. articolo 41, comma 2, cod.pen.), deve comunque tenere conto dell'altro principio secondo cui, per poter formalizzare il giudizio di responsabilità, occorre in ogni caso accertare la "colpa" del datore di lavoro, la quale è pur sempre il presupposto dell'addebito.
Ciò significa che, una volta compiuta l'indagine causale, il giudice di merito deve procedere, in maniera distinta ma ugualmente imprescindibile, all'accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, anche nell'ipotesi in cui la condotta imprudente del lavoratore non soddisfi i caratteri dell'esorbitanza o dell'abnormità e, dunque, sia irrilevante in una prospettiva causale, come si è ritenuto nel caso di specie.
In altre parole, è necessario accertare che a seguito di tale indagine sia comunque formulabile un rimprovero a carico del datore di lavoro, ovvero stabilire con giudizio ex ante se il datore di lavoro avrebbe potuto, nel caso concreto, prevedere l'evento lesivo verificatosi con quelle specifiche modalità, o se invece si sia concretizzato un rischio diverso da quello che il datore di lavoro, con tutta la diligenza, prudenza e perizia richiesta, avrebbe dovuto e potuto evitare ( v. in tal senso Sez.4, n. 9200/14 del 03/12/2013, Cecchini, Rv. 259087).
Nella specie, senza alcun automatismo, il giudicante si è soffermato proprio sui profili di "colpa" del datore di lavoro, tali, per quanto interessa, non solo da elidere la rilevanza della condotta del lavoratore, ma addirittura da porsi come "causa" della imprudente condotta che la vittima ebbe a porre in essere, salendo sulla rete ed appoggiandosi in equilibrio precario sulla recinzione.
Anche la doglianza, incentrata sulla esclusione della posizione di garanzia del datore di lavoro per l'autonomia decisionale che contrassegnava il ruolo di "preposto"svolto in concreto dal lavoratore deceduto è manifestamente infondata.
La tesi difensiva, peraltro indimostrata- come affermato dai giudici di merito- non tiene conto del consolidato principio affermato da questa Corte, secondo il quale, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro ( v. da ultimo, Sez.4, n. 4367/15 del 21/10/2014, Ottino, Rv. 263200).
Alla inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost., sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), consegue la condanna del ricorrente medesimo al pagamento delle spese processuali e di una somma, che congruamente si determina in duemila euro, in favore della cassa delle ammende.
P. Q. M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 2000,00 euro in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 01/12/2016