Cassazione Penale, Sez. 4, 14 marzo 2017, n. 12191 - Infortunio mortale del lavoratore: anche ove si fosse trattato di un lavoratore autonomo, non per questo sarebbero venuti meno gli obblighi di prevenzione e protezione del committente
- Committente
- Contratti d'appalto, d'opera e di somministrazione
- Lavoratore Autonomo
- Lavoratore e Comportamento Abnorme
... "Qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto di appalto o di un contratto d'opera, non per questo viene meno la responsabilità del committente per gli infortuni subiti dal medesimo, atteso che il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica esclusivamente con riguardo ai rischi specifici delle attività proprie dell'appaltatore o del prestatore d'opera (Sez.4, n. 12348 del 29 gennaio 2008, Rv.239252), ovvero con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Sez.5, n. 12228 del 25 febbraio 2015, Rv.262757; Sez.4, n. 1511 del 28 novembre 2013, Rv.259086).
La posizione di garanzia dell'imprenditore rispetto ad un lavoratore autonomo è stata però richiamata dalla Corte unicamente in risposta alle ragioni di gravame, nel senso che, anche ove si fosse trattato di un lavoratore autonomo, non per questo sarebbero venuti meno gli obblighi di prevenzione e protezione gravanti sul committente."
Nel caso in esame, con valutazione in fatto immune da censure, la Corte ha però enucleato una serie di elementi, di cui si è più sopra detto, da cui desumere l'inserimento della vittima nell'organizzazione dell'impresa, e dunque un suo rapporto di dipendenza, sia pure temporanea, con gli odierni imputati, suoi datori di lavoro.
Ed allora non appare viziata la impugnata sentenza laddove ha affermato la responsabilità degli imputati per la mancata predisposizione, nel cantiere in cui la vittima era stata chiamato a svolgere la sua prestazione lavorativa, di tutte le misure idonee ad evitare le cadute dall'alto, consentendo che il lavoro affidatogli venisse eseguito in condizioni di pericolosità evidente ed immediatamente percepibile, in ragione ancor più del fatto che la vittima non operava con mezzi materiali propri nell'esecuzione dell'incarico, ma si avvaleva delle strutture in dotazione dell'impresa, nella specie di una semplice scala a pioli.
Infine, poiché l'infortunio è stato originato dall'assenza delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, essendo questo da ricondurre alla mancanza di quelle cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato proprio il rischio di siffatto comportamento.
Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: MENICHETTI CARLA Data Udienza: 11/01/2017
Fatto
1. La Corte di Appello di Ancona confermava la condanna resa dal Tribunale di Fermo nei confronti di C.G., B.D. e S.O. per il reato di omicidio colposo ai danni del lavoratore C.L., caduto da un'altezza superiore a due metri mentre stava effettuando su una scala a pioli lavori di saldatura di una condotta per la fornitura di gas metano commissionatigli dalla T. S.r.l., società della quale gli imputati erano responsabili legali e soci titolari.
2. La Corte territoriale qualificava in primo luogo il rapporto tra le parti, come da acquisita documentazione, "di tipo saltuario e di sola prestazione di manodopera", dal quale era comunque derivata una posizione di garanzia in capo agli imputati, tenuti al rispetto della normativa antinfortunistica.
Ricostruiva poi la vicenda - sulla scorta di quanto descritto nella sentenza di primo grado - esponendo che il C.L., mentre effettuava su incarico della T. dei lavori di saldatura relativi ad un impianto di metano in un cantiere allestito presso la sede della ditta Word Jeans di Grottammare, operando su una scala priva di qualsiasi meccanismo di blocco o di ancoraggio ad un'altezza di circa mt.3,8 dal suolo, era precipitato, subendo a causa dell'impatto con il terreno gravissimi traumi con inarrestabile emorragia interna, dai quali era derivato l'immediato decesso.
Riteneva provata - sia sotto il profilo materiale che sotto quello soggettivo dell'illecito - la responsabilità degli imputati i quali, nonostante espressa previsione nel POS relativo al cantiere del rischio specifico di caduta dall'alto, non avevano poi istruito i lavoratori sulle corrette procedure da seguire e le attrezzature da adoperare, ed avevano messo a disposizione due soli trabattelli ed una scala: ciò in base alle dichiarazioni testimoniali richiamate in sentenza.
Escludeva infine ogni interruzione del nesso di causalità tra la condotta colposa dei datori di lavoro, per la mancata predisposizione di misure di prevenzione, e l'evento dannoso, come conseguenza di un asserito comportamento imprudente della vittima, sul rilievo che nel caso in esame non si versava affatto in ipotesi di comportamento abnorme e imprevedibile, posto al di fuori di ogni possibilità di controllo dei garanti, ma dell'esecuzione proprio del lavoro che era stato affidato al C.L. e che rientrava nella sua competenza professionale.
3. La sentenza è stata impugnata dagli imputati, tramite il comune difensore di fiducia, con un unico ricorso nel quale si prospettano tre motivi: violazione di legge, mancata assunzione di una prova decisiva, e vizio di motivazione.
Si sostiene che doveva essere disposta una perizia, necessaria ad accertare la reale causa del decesso; che il rapporto tra le parti andava qualificato come contratto d'opera o appalto, in relazione al quale non era ravvisabile alcuna posizione di garanzia degli imputati, poiché in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro tale tipologia di contratto determina il trasferimento dal committente all'appaltatore della responsabilità nell'esecuzione dei lavori, e comunque il C.L. lavorava in maniera autonoma, aveva scelto di servirsi della scala a pioli, e nulla potevano fare gli imputati per opporsi a tale modalità operativa poiché quel giorno erano assenti dal cantiere; che andava ritenuta una colpa esclusiva o concorrente del lavoratore, che aveva volontariamente eluso l'adozione del trabattello per eseguire l'opera.
Ulteriore questione attiene alla legittimazione passiva del responsabile civile Vittoria Assicurazioni S.p.a., originariamente citata in giudizio dall'INAIL su autorizzazione del Tribunale. La posizione del responsabile civile era stata poi definita con una pronuncia di non accoglimento delle richieste risarcitorie avanzate dall'INAIL per carenza di legittimazione della società assicuratrice, sul rilievo che l'art.185 c.p. si riferisce solamente ai casi di responsabilità civile che trovano fonte nella legge e non in un titolo contrattuale, cioè in un'obbligazione convenuta tra soggetti privati. La Corte d'Appello, pronunciando sullo specifico motivo di gravame proposto sul punto dagli imputati, ha ritenuto palesemente infondata la richiesta affermazione di responsabilità della Vittoria Assicurazioni, condividendo le argomentazioni svolte in prime cure. Con l'odierno ricorso gli imputati criticano la lettura dell'art.185 c.p. operata dai giudici di merito proponendone una lettura costituzionalmente orientata ovvero, in difetto, sollecitando un intervento della Corte Costituzionale.
In relazione a tale profilo di doglianza il responsabile civile ha depositato memoria, con cui chiede dichiararsi l'inammissibilità del motivo di gravame, per carenza di legittimazione ad impugnare in capo all'imputato e per violazione dell'art.606 c.p.p. per carenza dei requisiti di specificità ed autosufficienza; in subordine deduce l'infondatezza della censura nel merito e ne chiede il rigetto.
L'INAIL ha depositato memoria volta alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, siccome basato su censure in fatto non consentite nel giudizio di legittimità.
Diritto
1. I ricorsi non sono fondati e vanno perciò rigettati.
2. Il primo aspetto da esaminare è quello relativo alla qualificazione del rapporto intercorrente tra gli imputati e il C.L..
Evidenzia la Corte territoriale che questi era titolare di una ditta individuale di riconosciuta esperienza professionale nel campo delle saldature e che per tale motivo era stato ingaggiato dalla T. ed indicato nel POS come lavoratore autonomo. Dalla dichiarazione in atti a firma degli imputati risultava la definizione del rapporto di lavoro "di tipo saltuario e di sola prestazione di manodopera, retribuito a giornate con emissione di fatture": si trattava quindi di un rapporto dai contorni non ben delineati, poiché, se da un lato il C.L., per le sue specifiche competenze professionali, aveva una certa libertà d'azione nella scelta delle modalità tecniche con cui operare, tuttavia si recava al lavoro con il mezzo aziendale della T., seguiva l'orario lavorativo degli altri dipendenti e le direttive di massima impartite quotidianamente dai responsabili della committente circa l'ordine e l'avanzamento dei lavori, ed utilizzava le attrezzature messe a disposizione dalla stessa T., circostanze queste che assimilavano indiscutibilmente il suo intervento ad un rapporto di lavoro subordinato, sia pure a tempo determinato. Per tali ragioni - si afferma nell'impugnata sentenza - gli imputati, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica, avevano assunto una precisa posizione di garanzia nei confronti del C.L., il quale lavorava in autonomia per la sola prestazione di manodopera qualificata per l'esecuzione di saldature relative ad impianti termoidraulici, cioè per l'attività di sua competenza a cui era stato incaricato, ma non aveva alcun onere di predisporre le misure di prevenzione sul luogo di lavoro, che si svolgeva all'interno di un cantiere allestito dalla T. e mediante attrezzature dalla medesima fornite.
Il ragionamento è immune da censure dal punto di vista logico e giuridico.
In tema di normativa antinfortunistica si é detto più volte che il datore di lavoro è titolare di una posizione di garanzia e di controllo dell'integrità fisica anche dei lavoratori autonomi operanti nell'impresa, poiché ai sensi dell'art.7 D.Lgs.n.626 del 1994 è tenuto, tra l'altro, a cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione ed a fornire ai lavoratori autonomi dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente di lavoro (Sez.4, sent.n.13917 del 17 gennaio 2008, Rv.239591). Sul lavoratore autonomo gravano precisi obblighi, quali in particolare quello di utilizzare dispositivi di protezione individuale ed attrezzature di lavoro connessi all'attività da svolgere, in conformità alle prescrizioni di cui al decreto legislativo n.626/1994. Tuttavia, l'imprenditore che si avvale della sua opera, quale operaio specializzato inserito nella propria organizzazione di cantiere, deve garantire le condizioni di sicurezza dell'ambiente di lavoro in cui l'opera viene prestata, fornire idonee attrezzature ed informarlo dei rischi esistenti, ravvisandosi, in caso di inosservanza di tali obblighi, una responsabilità colposa a suo carico. Ne deriva - in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro - che qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto di appalto o di un contratto d'opera, non per questo viene meno la responsabilità del committente per gli infortuni subiti dal medesimo, atteso che il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica esclusivamente con riguardo ai rischi specifici delle attività proprie dell'appaltatore o del prestatore d'opera (Sez.4, n. 12348 del 29 gennaio 2008, Rv.239252), ovvero con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine (Sez.5, n. 12228 del 25 febbraio 2015, Rv.262757; Sez.4, n. 1511 del 28 novembre 2013, Rv.259086).
La posizione di garanzia dell'imprenditore rispetto ad un lavoratore autonomo è stata però richiamata dalla Corte unicamente in risposta alle ragioni di gravame, nel senso che, anche ove si fosse trattato di un lavoratore autonomo, non per questo sarebbero venuti meno gli obblighi di prevenzione e protezione gravanti sul committente.
Nel caso in esame, con valutazione in fatto immune da censure, la Corte ha però enucleato una serie di elementi, di cui si è più sopra detto, da cui desumere l'inserimento del C.L. nell'organizzazione dell'impresa, e dunque un suo rapporto di dipendenza, sia pure temporanea, con gli odierni imputati, suoi datori di lavoro.
Ed allora non appare viziata la impugnata sentenza laddove ha affermato la responsabilità degli imputati per la mancata predisposizione, nel cantiere in cui il C.L. era stato chiamato a svolgere la sua prestazione lavorativa, di tutte le misure idonee ad evitare le cadute dall'alto, consentendo che il lavoro affidatogli venisse eseguito in condizioni di pericolosità evidente ed immediatamente percepibile, in ragione ancor più del fatto che la vittima non operava con mezzi materiali propri nell'esecuzione dell'incarico, ma si avvaleva delle strutture in dotazione dell'impresa, nella specie di una semplice scala a pioli e, come già detto, era inserito, sia pure temporaneamente, nell'organizzazione dell'impresa stessa. A nulla rileva l'assunto difensivo che richiama la comprovata esperienza professionale del C.L., poiché quale saldatore non aveva assunto il rischio specifico del lavoro in quota, che era stato peraltro espressamente previsto nel POS relativo al cantiere, senza però una corretta istruzione e vigilanza sulle corrette procedure da seguire (in tal senso le deposizioni testimoniali indicate nell'impugnata sentenza ed il riscontro di due soli trabattelli ed una scala).
3. Con un altro motivo si è eccepito il comportamento oltremodo imprudente del lavoratore, che avrebbe eliso il nesso di causalità tra le accertate violazioni della normativa di sicurezza e l'evento mortale.
Anche tale doglianza, già disattesa dalla Corte di merito, è infondata.
Il rispetto delle norme prevenzionali ha infatti lo scopo di ridurre al minimo il rischio di incidenti che è fisiologico possano avere alla base l'errore dell'operatore, generato anche da imprudenza. Proprio al fine di scongiurare tali eventi nefasti, evitabili rispettando gli standard di sicurezza imposti dalla legge, vi sono soggetti chiamati al ruolo di garanzia in favore degli operatori esposti al rischio antinfortunistico: essi non possono pretendere esonero di responsabilità in caso di condotta inadeguata del lavoratore, fatto salvo il contegno abnorme, che si configura in caso di comportamento anomalo, assolutamente estraneo alle mansioni attribuite, esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere (Sez.4, 5 marzo 2015 n.16397, Rv.263386; Sez.4, 14 marzo 2014 n.22249, Rv.259228) e non anche quando il lavoratore compia un'operazione che, seppure imprudente, non risulti eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate (Sez.4, n.18202 del 22 aprile 2016, imp. Ganau).
In ogni caso, poiché l'infortunio è stato originato dall'assenza delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, essendo questo da ricondurre alla mancanza di quelle cautele che, se adottate, avrebbero neutralizzato proprio il rischio di siffatto comportamento.
4. Lamentano ancora i ricorrenti il mancato espletamento di una perizia sulle cause del decesso del lavoratore.
La censura è priva di pregio poiché - come riscontrato dai giudici di merito in base agli accertamenti in atti - il lavoratore, precipitato al suolo, aveva subito a causa dell'impatto con il terreno gravissimi e plurimi traumi, con inarrestabile emorragia interna che ne aveva determinato l'immediato decesso. Un eventuale infarto come causa ultima dell'evento mortale è stato perciò ritenuto irrilevante, essendo incontrovertibile il nesso di causalità ex artt.40 e 41 c.p.
5. Il relazione al difetto di legittimazione passiva della società assicuratrice non è stato articolato uno specifico motivo di ricorso, ma è stata sollecitata una lettura costituzionalmente orientata dell'art.185 c.p. e ritrascritta l'istanza di rimessione alla Corte Costituzionale contenuta nell'atto di appello, senza una precisa contestazione rispetto a quanto deciso nell'impugnata sentenza.
La pronuncia della Corte territoriale sul punto, ed ancor prima del Tribunale, non si presta ad alcuna valida critica.
Questa Corte si è già pronunciata nel senso che a parte l'ipotesi di responsabilità civile derivante dall'assicurazione obbligatoria prevista dalla legge 24 dicembre 1969 n.990, in riferimento alla quale l'assicuratore può essere citato nel processo penale a richiesta dell'imputato - stante la modifica apportata all'art.83, comma 1, c.p.p. dalla sentenza additiva della Corte Costituzionale n.112 del 1998 - nella generalità delle ipotesi risarcitorie l'imputato non è, invece, legittimato a chiamare in giudizio il responsabile civile e neppure ad opporsi, in sede di impugnazione, all'eventuale estromissione del responsabile civile dal processo penale (Sez.4, sent.n.23944 del 17 aprile 2013, Rv.255462). Tale approdo interpretativo è stato ulteriormente ribadito dal Giudice delle leggi, con successive pronunce (sentenza n.75/2001 e 300/2004). Nelle quali ha chiarito che i principi affermati con la sentenza n.112 del 1998 sono intimamente saldati, sul piano logico e strutturale, con la particolare ipotesi della responsabilità civile derivante dall'assicurazione obbligatoria di veicoli e natanti, e non possono essere automaticamente trasferiti ad altre figure di responsabilità civile da reato, quale appunto quella in esame.
Vi sono dunque plurimi profili che rendono infondata la prospettazione dei ricorrenti, primo tra i quali la carenza di legittimazione ad impugnare il capo della sentenza relativo alla estromissione del responsabile civile, citato nel processo ai sensi dell'alt.83 c.p.p. dalla parte civile.
6. Alla luce di tali considerazioni i ricorsi vanno rigettati ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali ed al rimborso di quelle sostenute daN'INAIL, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese della parte civile INAIL per questo giudizio di legittimità, liquidate in 2.500,00 euro oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio dell'11 gennaio 2017