Cassazione Penale, Sez. 3, 05 maggio 2017, n. 21938 - Infortunio occorso all'apprendista per il riavvio accidentale di un macchinario per la fabbricazione di mole abrasive da parte della collega. Nessun comportamento abnorme
Presidente: SAVANI PIERO Relatore: MENGONI ENRICO Data Udienza: 01/03/2017
Fatto
1. Con sentenza del 3/11/2015, la Corte di appello di Brescia - provvedendo in sede di rinvio in esito alla decisione assunta da questa Corte Suprema il 23/4/2015 ed in riforma della pronuncia assolutoria di cui alla medesima Corte di appello a data 10/6/2014 - confermava la condanna già irrogata dal Tribunale di Brescia a carico di T.B., F.B., L.B. e M.B., condannandoli alla pena di tre mesi di reclusione ciascuno; agli stessi, nelle rispettive qualità all'interno della "ABRA BETA s.p.a.", erano contestati profili di colpa quanto all'utilizzazione - da parte dei dipendenti - di una macchina per la fabbricazione di mole abrasive, dal cui funzionamento, comunque addebitabile agli imputati, era derivato un grave infortunio a danno di R.P., addetta alla produzione, tale da cagionare le lesioni meglio descritte nel capo di imputazione e giudicate guaribili in 142 giorni. A giudizio della Corte, in estrema sintesi, l'infortunio si era verificato a causa dell'assenza - nel macchinario - di un meccanismo che ne impedisse comunque il riavvio dall'esterno allorquando un addetto vi operava all'interno; meccanismo successivamente introdotto e tale da superare quello precedente che, pur arrestando il macchinario stesso all'ingresso del lavoratore nell'area di rischio, non impediva - sempre e comunque - che potesse esser riavviato, magari inavvertitamente e per qualsivoglia ragione, da altro lavoratore postosi alla pulsantiera esterna.
2. Propongono diffuso e comune ricorso per cassazione i quattro imputati, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione: la Corte di appello avrebbe riformato la pronuncia assolutoria in forza di plurimi travisamenti della prova e con un percorso argomentativo gravemente viziato. In estrema sintesi, 1) non risulterebbe affatto provato che l'ingresso all'interno del macchinario (per operazioni di rimozione, riposizionamento pezzi od altro) fosse frequente, come invece affermato in sentenza, risultando al massimo un intervento ogni 54 minuti; 2) la pressa in oggetto - pacificamente nuovissima, a norma e perfettamente funzionante - rispondeva a tutti i requisiti di sicurezza, prevedendo che, una volta fermata, potesse esser riavviata soltanto attraverso una pulsantiera esterna, con pressione di due diversi pulsanti di sicurezza e con piena visibilità dell'area di pericolo, posta a meno di un metro; 3) del tutto indimostrata risulterebbe l'affermazione per cui chiunque avrebbe potuto accedere al macchinario, risultando per contro che pochissimi dipendenti avessero la capacità tecnica per operarvi. Palesemente illogica, inoltre, sarebbe l'affermazione per cui la responsabilità dei ricorrenti dovrebbe esser affermata per il sol fatto che un terzo, dall'esterno, avesse riattivato il macchinario, anche in modo volontario, atteso che, in questo caso, evidente sarebbe l'assenza di ogni possibile addebito. Del pari, la tesi - più volte definita "immaginifica" - per cui il riavvio del macchinario sarebbe avvenuto per un gesto accidentale, automatico ed irriflesso della collega A., addirittura con successiva rimozione del ricordo, risulterebbe del tutto illogica ed immotivata, trattandosi di un atto materialmente impossibile, nonché, peraltro, giammai provato nel corso dell'istruttoria, che non avrebbe mai accertato la reale causa della ripartenza del macchinario, allorquando la R.P. vi era entrata. Tale "dissociazione" mentale dell'A., peraltro, quand'anche provata, non potrebbe comunque esser addebitata ai ricorrenti, apparendo evidente l'assoluta straordinarietà ed eccezionalità del gesto, tale da interrompere l'eventuale nesso causale; gesto, pertanto, non prevedibile e non evitabile, anche alla luce delle caratteristiche tecniche di sicurezza del macchinario, come sopra riportate, tali da consentire all'operatore della pulsantiera piena visibilità sull'area di pericolo. In forza di quanto precede, con il secondo motivo si contesta poi l'assenza di ogni profilo di addebitabilità della condotta, nei termini della prevedibilità/evitabilità della stessa, atteso il carattere palesemente eccezionale della condotta dell'A. (anche a volerla ritenere provata), che in nessun modo i ricorrenti avrebbero potuto impedire con valutazione ex ante; valutazione, invero, non compiuta dalla Corte di appello, che si sarebbe erroneamente posta soltanto in un'ottica ex post, ricavando dall'infortunio in sé la responsabilità dei ricorrenti e senza valutare le concrete circostanze del caso. In conclusione, quindi, l'infortunio si sarebbe prodotto per mero caso fortuito, in nessun modo riferibile agli imputati; nel corso della cui trentennale attività, peraltro, mai un evento del genere si era prodotto, a conferma della costante attenzione per la normativa di sicurezza (quel che la sentenza non ha considerato).
- nelle more della odierna discussione, peraltro, il reato si è estinto per prescrizione.
Diritto
3. I ricorsi risultano manifestamente infondati, in forza delle considerazioni che seguono.
Con riguardo innanzitutto alle doglianze in punto di responsabilità, che ben possono esser trattate in modo congiunto, attesane la sostanziale identità di ratio, osserva il Collegio che la Corte di appello - nel confermare la sentenza del Tribunale di Brescia - ha sviluppato un percorso argomentativo particolarmente congruo e diffuso, fondato su oggettive emergenze istruttorie e privo di qualsivoglia illogicità manifesta o contraddittorietà; come tale, dunque, non censurabile, specie attraverso un riesame delle emergenze dibattimentali - testimoniali e documentali - che i ricorrenti invocano in numerosi passi dei gravami, anche riportando stralci di deposizioni, ma che non è consentito a questa Corte. Sul punto, infatti, giova richiamare il costante e condiviso indirizzo ermeneutico in forza del quale il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l'oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
4. Ciò riportato, si osserva che la sentenza di appello - in esito ad un approfondito e motivato esame dell'intera vicenda processuale - ha dapprima richiamato numerosi esiti istruttori che costituiscono la premessa della impugnata decisione, e quindi ne ha fatto oggetto di una sintesi coerente e priva dei vizi denunciati; in particolare, ha rilevato che: 1) il macchinario teatro dell'infortunio era dotato di un sistema di sicurezza che ne comportava il blocco totale, all'ingresso del lavoratore al suo interno, ma non impediva che lo stesso potesse esser in ogni momento riattivato dall'esterno, sia pur ad opera di un diverso lavoratore e con la successiva pressione di due distinti pulsanti. Soltanto successivamente all'infortunio, la pressa in esame era stata dotata di un meccanismo che - ad operario presente all'interno - impediva comunque il possibile riavvio dalla pulsantiera esterna; 2) l'intervento sul macchinario, e quindi l'ingresso nello stesso, risultava prassi estremamente frequente, ben più di quanto previsto nel manuale di istruzioni (e senza che rilevi, sul punto, la censura - puramente fattuale, quindi inammissibile - secondo cui l'istruttoria avrebbe accertato al più un accesso ogni 54 minuti, atteso che ciò giustificherebbe comunque il riconoscimento di una condotta "frequente", tale cioè da ripetersi diverse volte all'interno di ciascun turno di otto ore); 3) il macchinario - pur concepito per un solo lavoratore - era risultato più volte impiegato da due operai, come nel caso di specie (la persona offesa era un'apprendista, giusta contratto di somministrazione, ed era stata affidata alla collega A. affinché questa le insegnasse il funzionamento dello strumento). Un uso congiunto, pertanto, che non poteva ritenersi evento eccezionale ed imprevedibile, come dedotto dai ricorrenti, rientrando per contro nelle espresse direttive aziendali in forza delle quali i neo assunti dovevano esser istruiti da addetti più anziani ed esperti, operando direttamente - ed in coppia con questi - sullo stesso macchinario che avrebbero poi utilizzato da soli.
5. In ragione di questi elementi - che i ricorsi contestano invocando un generico travisamento della prova, e senza allegare in modo compiuto le dichiarazioni che sarebbero a fondamento della doglianza - la Corte di appello ha quindi concluso che il macchinario in oggetto mancava di un dispositivo di sicurezza che rilevasse la presenza del lavoratore nella zona pericolosa e, pertanto, ne bloccasse ogni movimento meccanico, a prescindere dall'eventuale condotta di un terzo alla pulsantiera esterna; e senza che rilevi, sul punto, il richiamo in sentenza alla volontarietà/involontarietà di tale possibile gesto, atteso che la Corte di merito, lungi dal riferirne comunque la responsabilità al datore di lavoro, ha inteso soltanto evidenziare il funzionamento della macchina, che tale riavvio pacificamente ammetteva anche ad operaio "presente".
6. Ancora - e con sicuro rilievo nell'ottica della pronuncia adottata - la sentenza ha escluso che l'infortunio potesse esser addebitato ad una causa diversa dall'accidentale condotta dell'A.; anche sul punto, infatti, la motivazione risulta congrua e non manifestamente illogica, atteso che nessuna emergenza istruttoria aveva consentito di affermare che l'improvvisa messa in movimento del macchinario fosse riferibile ad un guasto od a malfunzionamento. E fermo restando, peraltro, che la stessa dipendente aveva affermato di aver parlato con la R.P. poco prima dell'infortunio e di non poter escludere - senza però ricordarlo con precisione - di aver proprio lei pigiato i due pulsanti di riattivazione della pressa.
Un percorso motivazionale adeguato ed ancorato alle prove assunte, dunque, non certo "immaginifico", come dedotto, che impone allora il rigetto della tesi secondo cui l'istruttoria non avrebbe dimostrato la reale causa dell'infortunio, rimasta ignota; ed invero, a fronte di un argomento pienamente logico impiegato dalla sentenza sul punto, i gravami si sviluppano su linee astratte e generiche, ossia evocando una possibile, diversa causa del sinistro (od anche due), quale il malfunzionamento del macchinario, che però non risulta aver trovato alcuna conferma in sede dibattimentale.
7. Date tutte queste premesse, la Corte di appello ha quindi concluso per la responsabilità dei ricorrenti, per aver gli stessi consentito l'utilizzo di uno strumento che - per quanto nuovo e debitamente marchiato - non impediva comunque la situazione di pericolo sopra più volte richiamata (e, peraltro, giammai negata in sé nei presenti gravami); da "leggere" - la stessa - in uno con la notevolissima frequenza con la quale i dipendenti si recavano all'interno della zona di rischio (varie volte per ciascun turno di lavoro) e, soprattutto, con la presenza congiunta alla pressa medesima di due lavoratori (anziché uno, come d'ordinario), da intendersi quale circostanza tutt'altro che anomala, abnorme od imprevedibile, poiché legata - si ribadisce - al normale iter formativo dei neo assunti per come organizzato nella società (la R.P. era seguita dalla A. da tre giorni e, il pomeriggio dell'infortunio, si trovava alla prima esperienza da sola).
Una verifica, dunque, che - contrariamente all'assunto di cui ai ricorsi - la sentenza di appello ha compiuto con valutazione ex ante e sulla base di un esame concreto della fattispecie (legato, in particolare, alla presenza congiunta di due lavoratori alla pressa, ancorché l'uno nella veste di apprendista, ma comunque operativo il giorno dell'infortunio); una verifica, ancora, conforme ai consolidati canoni ermeneutici in materia, in forza dei quali, ai fini del giudizio di imputazione causale dell'evento, il Giudice deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità del caso di specie, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto dall'ordinamento, quale - nella vicenda specifica - l'adozione del meccanismo solo dopo installato sul macchinario (per tutte, Sez. 4, n. 21028 del 4/5/2011, Signorelli, Rv. 250325: nell'occasione, la Corte ha anche precisato che nell'indagine causale, da effettuarsi "ex post", assumono rilievo le basi nomologiche note al momento de! giudizio, mentre nell'indagine sulla colpa, da effettuarsi "ex ante", occorre valutare il comportamento posto in essere dall'agente, e, pertanto, assumono rilievo unicamente le basi nomologiche note all'agente nel momento di realizzazione della condotta; tra le altre, successivamente, Sez. 4, n. 7783 dell'11/2/2016, Montaguti, Rv. 266356).
8. Gli stessi riscontri, di seguito, hanno quindi condotto il Collegio di merito all'accertamento anche dell'elemento soggettivo del reato, ancora individuato con una motivazione non manifestamente illogica e, pertanto, non censurabile. In particolare, la sentenza ha sottolineato che il riavvio accidentale del macchinario da parte della A. (laddove l'accidente stava nell'aver la stessa agito sovrappensiero, non ricordando la presenza dell'apprendista nell'area di rischio, e pur potendola vedere) non poteva ritenersi circostanza abnorme, eccezionale e, pertanto, non addebitabile ai ricorrenti; proprio l'abitudine ad operare da sola sul macchinario, in uno con la notevolissima frequenza del gesto (bloccare la pressa, anche solo passando sopra le cellule fotoelettriche, per entrare nel meccanismo e rimuovere o sistemare qualche pezzo; quindi uscire e sbloccare), rendevano del tutto prevedibile che la lavoratrice - anche in presenza di un'apprendista, a lei assegnata dalla stessa società - potesse intervenire sui pulsanti anche meccanicamente, in automatico, nella inconscia consapevolezza che, trovandosi all'esterno, non correva alcun rischio e che il macchinario, fermo, doveva esser riattivato. Un profilo di colpa, quindi, che la Corte ha individuato facendo buon governo del principio - di costante affermazione - secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l'osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionaiità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (tra le molte, Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014, Bonelli, Rv. 261946; Sez. 4, n. 22249 del 14/3/2014, Enne, Rv. 259227). Quel che non è dato riscontrare nel caso di specie.
9. Un profilo di colpa, ancora, che la Corte di appello ha congruamente ribadito pur a fronte di un'ulteriore circostanza fattuale, più volte richiamata nei ricorsi, ossia la perfetta visibilità di cui godeva l'operatore della pulsantiera rispetto all'area dell'incidente, posta a poche decine di centimetri; ed invero, la sentenza ha sottolineato che proprio il carattere automatico, meccanico, ripetitivo del gesto della A., in uno con il fatto che era la prima volta che la persona offesa operava da sola sul macchinario (sì che la sua presenza era stata verosimilmente dimenticata dall'altra), rendeva non decisivi i riferimenti logistici appena indicati, atteso che la donna - notando fermo il macchinario - lo aveva riattivato con un gesto sì colposo, ma non certo abnorme ed imprevedibile, specie in presenza di un meccanismo che - come pacificamente emerso - ne consentiva la messa in moto pur in presenza di un lavoratore nella zona di sicurezza, con evidente pericolo per lo stesso.
10. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00. I ricorrenti, del pari, debbono esser condannati alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile costituita INAIL, che si liquidano in complessivi tremila euro, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di parte civile, che liquida in complessivi tremila euro, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 1° marzo 2017