Cassazione Penale, Sez. 4, 09 maggio 2017, n. 22599 - Infortunio mortale a seguito di caduta dal ponteggio provvisorio: la qualifica dirigenziale di direttore tecnico comporta l'assunzione della posizione di garanzia
Presidente: ROMIS VINCENZO Relatore: MICCICHE' LOREDANA Data Udienza: 09/02/2017
Fatto
1. La Corte d'Appello di Catania, con sentenza del 3 maggio 2016, in riforma della sentenza del locale Tribunale condannava P.G., nella qualità di datore di lavoro, e P.C., nella qualità di direttore tecnico e dirigente della P.G. s.n.c., incaricata di eseguire lavori di ristrutturazione di un immobile, per il reato di cui all'art. 113, 589, commi 1 e 2 cod pen, poiché per negligenza, imprudenza e imperizia, nonché per colpa consistita nella violazione dell'art. 27, comma 1, DPR 547/1955 (non avendo provveduto a proteggere tutti i luoghi di lavoro e di passaggio sopraelevati dal pericolo di caduta dall'alto mediante istallazione di regolari parapetti) nonché nella violazione dell'art. 12, comma 1, lett. b) D.Lgs 626/1994 (non avendo designato, per detto cantiere, un lavoratore incaricato di dare attuazione alle misure di primo soccorso) - cagionavano la morte del lavoratore P.F.. Quest'ultimo, cadendo da un ponteggio provvisorio da lui stesso apprestato, decedeva per shock emorragico conseguente a grave lesione dell'arteria omerale dell'arto anteriore destro.
2. Ricorre per Cassazione P.G. a mezzo del proprio difensore di fiducia lamentando, con unico motivo, mancanza di motivazione in ordine al diniego di concessione delle attenuanti generiche. La Corte d'appello aveva usato una mera formula di stile limitandosi ad osservare che non sussistevano ragioni valide per giustificare l'applicazione delle attenuanti generiche, così contravvenendo al proprio onere motivazionale.
3. Ricorre altresì P.C. a mezzo del proprio difensore di fiducia, lamentando, con il primo motivo, vizio di motivazione in relazione alla intervenuta riforma della pronuncia assolutoria di primo grado ed in assenza di rinnovazione della istruttoria dibattimentale. A fronte della compiuta motivazione del Tribunale, secondo cui non vi era prova alcuna circa l'altezza del ponteggio (ai fini della regola di prevenzione ritenuta violata) nonché dello svolgimento, in concreto, di una attività di intervento nel cantiere da parte del P.C., a fronte di una autonoma figura di direttore dei lavori, la Corte territoriale aveva invece fondato l'affermazione di colpevolezza rivalutando le dichiarazioni dell'ispettore del lavoro, secondo cui sarebbe emerso da elementi certi ed univoci che tale ruolo era concretamente rivestito anche dal P.C., senza dare alcuna contezza circa i rilievi già sollevati dalla difesa circa l'assenza di validi riscontri alla deposizione predetta. Risultava, in proposito, che il ruolo si risolveva in una attività di consulenza e assistenza amministrativa, come emergeva dall'organigramma della società e da altre testimonianze acquisite; che, a fronte di tali rilievi, la Corte territoriale non aveva speso alcuna argomentazione, così violando l'obbligo di motivazione "rafforzata" in caso di ribaltamento di sentenza assolutoria. In più, la Corte d'appello era andata in contrasto con i principi elaborati dalla CEDU, e in particolare contro il recente orientamento espresso dalle Sezioni Unite, in base al quale l'istruttoria dibattimentale doveva essere rinnovata in caso di rivalutazione di prove dichiarative ritenute decisive; così come si era verificato nel caso in esame. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell'art. 27, comma 1 DPR 547/1955 (ora art. 122 d.lgs n.81/2008); nonché della carenza ed illogicità della motivazione in relazione dei relativi presupposti applicativi. Presupposto fondante la contestazione è la sussistenza di un " lavoro in quota", inteso - a mente dell'art. 122 Tu n.81/2008 - come lavoro che espone il lavoratore a un rischio di caduta da una altezza superiore a due metri. La Corte, pur dando atto della poca chiarezza delle risultanze istruttorie, atteso che il ponteggio era stato smontato, aveva - erroneamente richiamando arresti di legittimità - calcolato, ai fini della determinazione della "quota", l'altezza partendo dal piano di appoggio fino a quello della lavorazione effettiva; laddove il calcolo deve essere effettuato in partendo dal piano di appoggio del ponteggio fino a quello di calpestio. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza della qualifica di dirigente o preposto, in mancanza di delega degli obblighi di garanzia sottesi alla gestione della sicurezza, in conformità a quanto disposto dall'art. 16 del Tu n.81/2008 e così come chiarito dalle recenti posizioni della giurisprudenza di legittimità. Nella specie, la Corte aveva del tutto omesso di valutare un dato documentale acquisito al processo, consistente nel Piano Operativo di Sicurezza relativo al cantiere nel quale si era verificato l'evento, dal quale emergeva che la posizione di direttore tecnico ascritta al P.C. riguardava il mero organigramma aziendale, ma non lo specifico cantiere.
4. Hanno presentato memoria le costituite parti civili, rilevando come la sentenza impugnata avesse fatto corretta applicazione dei principi sostenuti dalla giurisprudenza di legittimità; in particolare facendo leva sugli obblighi di protezione gravanti sul P.C. in quanto titolare della qualifica dirigenziale, risultante proprio dal POS che contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, era stato correttamente valutato dalla Corte; del pari, la Corte aveva fatto applicazione del consolidato principio per cui, ai fini della individuazione del lavoro in quota, si fa riferimento all'altezza alla quale il lavoro vene eseguito e non alla posizione del lavoratore; infine, quanto alla lamentata assenza di delega specifica, si rilevava che la posizione di garanzia derivava , per legge, dalla qualifica dirigenziale rivestita.
Diritto
1. Il primo e il terzo motivo di ricorso di P.C., che per connessione logica possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.
2. Con i suddetti motivi, il ricorrente lamenta la violazione dell'obbligo della cd. "motivazione rafforzata" nonché dell'obbligo di rinnovazione dell'istruttoria, in base ai principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27620 del 28/04/2016 Rv. 267486, Dasgupta. La Corte d'Appello, secondo il ricorrente, aveva ritenuto sussistente la posizione di garanzia sulla base della diversa lettura del compendio probatorio acquisito in primo grado, e, in particolare, della rivalutazione della deposizione dell'ispettore del lavoro Ing. A..
3. Contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, si evidenzia che la sentenza impugnata ha correttamente ravvisato la posizione di garanzia non già sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni dell'ispettore del lavoro, ma in accoglimento dei motivi di gravame del Procuratore Generale. Nel ritenere fondato l'appello del Procuratore Generale, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione sia delle norme di legge, sia dei principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, rilevando l'errore in diritto compiuto dal primo giudice, secondo cui la mera qualifica dirigenziale rivestita nell'impresa non sarebbe stata sufficiente ad attribuire la posizione di garanzia, senza lo svolgimento, in concreto, di una attività all'interno del cantiere, che nella specie era stata esercitata dal Direttore dei lavori. Come invece esattamente rilevato nella sentenza impugnata, la disciplina di settore (e cioè gli artt. 17, 18 e 19 del d.lgs n.81/2008) individua quali destinatari delle norme antinfortunistiche i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti: pertanto, l'assunzione della qualifica dirigenziale all'intemo dell'impresa pone, ai sensi dell'art. 18 del d.lgs n.81/2008, precisi e pregnanti obblighi di garanzia in ordine alla sicurezza sul lavoro, senza che peraltro, all'interno dei cantieri mobili, detti obblighi possano ritenersi automaticamente trasferiti al direttori dei lavori (Sez. 4, n. 49462 del 26/03/2003, Rv. 227070; Sez. 3, n. 1471 del 14/11/2013 Rv. 257922; Sezione 4, 13 febbraio 2014, n. 18459, n.m.; sez. 4, 17/6/2015, n.29792, n.m). I principi di cui alle norme positive, così come interpretate costantemente dalla Corte di legittimità, conducono quindi a considerazioni opposte rispetto a quelle sostenute dal ricorrente e correttamente disattese nella sentenza impugnata. E' la qualifica dirigenziale di direttore tecnico - posseduta dal P.C. e risultante dall'organigramma aziendale - che comporta l'assunzione della posizione di garanzia in ordine alla applicazione e rispetto della normativa antinfortunistica; l'espletamento di specifiche attività nei cantieri mobili ( quale quella di direttore dei lavori), lungi dal trasferire automaticamente la posizione di garanzia facente capo al dirigente, può comportare l'assunzione degli obblighi imposti dall'art. 18 d.lgs n. 81/2008 solo in presenza di un positivo accertamento riguardante il grado di ingerenza del direttore dei lavori nella organizzazione del cantiere. Né è conforme agli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati la tesi del ricorrente secondo cui la posizione di garanzia in ordine alla normativa antinfortunistica sorgerebbe - pur rivestendosi la qualifica dirigenziale - solo in presenza di espressa e formale delega. Il dirigente, in base alle legge, si colloca in un livello di responsabilità intermedio tra datore di lavoro e preposto ed è chiamato ad attuare le direttive datoriali, nonché chiamato a cooperare con il datore di lavoro nell'assicurare l'osservanza della disciplina legale (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261108, Espenhahn). Se può affermarsi che tale ruolo si svolge nell'ambito dei poteri gestionali conferiti, è comunque acquisito che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il direttore tecnico è certamente destinatario dell'obbligo di dare attuazione alle norme dettate in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 24055 del 01/04/2004, Rv. 228587; Sez. 4, n. 39606 del 28/06/2007, Rv. 237878).
4. Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole della erroneità della ritenuta violazione della normativa antinfortunistica relativa alle prescrizioni per i lavori in quota. Va in primo luogo rilevato che non si ravvisa, nella specie, alcuna violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata, non essendovi, su punto, alcuna decisione contrastante tra le sentenze di primo e di secondo grado. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello, invero, hanno fatto corretta applicazione del principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ai fini della applicazione della disposizione di cui all'art. 16 del DPR n.164/1956 ( ora art. 122 D. Lgs.n.81/2008) relativo alla prescrizioni riguardo ai cd " lavori in quota", rileva in concreto l'altezza alla quale si stanno svolgendo i lavori e non quella del piano di calpestio del lavoratore (Sez. 4, n. 43987 del 28/02/2013 Rv. 257693). Pertanto, sia la ricostruzione operata dal consulente di parte civile ing. DC. e fatta propria dal primo giudice (secondo cui il ponteggio sul quale era posizionata la vittima si trovava a mt.2,18 dal piano stradale); sia la valutazione compiuta dall'ispettore del lavoro ing. A. ( secondo cui il lavoratore stava operando su un piano di lavoro posto a mt. 3,97 dal suolo), recepita dalla Corte d'Appello portano, in applicazione del principio sopra indicato, citato in ambedue le pronunce, alla affermazione della sussistenza delle condizioni di operatività della normativa antinfortunistica prescritta per i lavori in quota, trattandosi di altezza superiore ai due metri.
5. Parimenti infondato è il ricorso di P.G..
6. Va ricordato che la concessione o meno delle circostanze attenuanti generiche risponde ad una facoltà discrezionale del giudice, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del decidente circa l'adeguamento della pena in concreto inflitta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Tali attenuanti non vanno intese, comunque, come oggetto di una "benevola concessione" da parte del giudice, né l'applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento dell'esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737, Straface). Da queste premesse, pur dovendosi apprezzare la sinteticità del diniego, vi è da rilevare che neppure nei motivi di appello risultano spiegati e dimostrati specifici elementi, riconducibili ai parametri di cui all'articolo 133 c.p., che avrebbero dovuto essere positivamente considerati dalla Corte territoriale, In proposito, l'unico elemento in proposito prospettato è lo stato di incensuratezza dell'imputato che, dopo la modifica dell'art. 62 bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, non è più bastevole, da solo, ai fini della concessione della diminuente. Pienamente congrua e corretta risulta dunque la motivazione offerta dalla sentenza impugnata, secondo cui, in ragione della gravità dei fatti ascritti all'imputato, le attenuanti generiche non potevano concedersi (Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv. 260610).
7. Si impone quindi il rigetto dei ricorsi. I ricorrenti vanno altresì condannati alla refusione delle spese processuali nei confronti delle costituite parti civili, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; li condanna altresì a rimborsare alle parti civili costituite le spese dalle stesse sostenute per questo giudizio che liquida in complessivi €.5. 500,00, oltre accessori come per legge.
Roma, 9 febbraio 2017