Cassazione Penale, Sez. 4, 14 giugno 2017, n. 29728 - Lavori in altezza su coperture di dubbia resistenza: dispositivi di protezione collettiva. Nessun comportamento abnorme del lavoratore che sgancia volontariamente la linea vita


 


Pur dando atto della grave imprudenza del lavoratore, il Giudice di primo grado - dopo aver ribadito che il D.S. si trovava sul tetto del capannone per svolgere le mansioni attribuite dal proprio datore di lavoro ed era tornato indietro su ordine del preposto - ha rilevato che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalle stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze del lavoratore alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.


Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: GIANNITI PASQUALE Data Udienza: 08/03/2017

 

 

Fatto

 

l. In data 22 maggio 2010 la società C.V.M. s.p.a. conferiva alla Despe s.p.a. l'incarico di procedere a lavori urgenti di messa in sicurezza della copertura dello stabilimento di Parona Lomellina, lavori consistiti nella rimozione/bonifica di lastre in plexiglas e di lastre in cemento amianto, nonché nella demolizione/smontaggio dei copponi di copertura interna.
La ditta Despe affidava alla CLF Italia s.r.l. i lavori di rimozione delle lastre in cemento amianto e plexiglas, mentre subappaltava alla ditta Gavi s.r.l. i lavori di assistenza alla demolizione e di pulizia del cantiere.
La committente C.V.M. nominava quale responsabile dei lavori l'ing L.T., il quale a sua volta nominava il Coordinatore per la sicurezza in progettazione nella persona dell'ing. B.G. e il Coordinatore per l'esecuzione dei lavori nella persona dell'arch. S.A..
La copertura del capannone era costituita in parte da copponi in cemento armato della larghezza di mt 2,50, intervallati da lastre in vetroresina con funzione di lucernaio; in altra parte da lastre in cemento-amianto (eternit) a loro volta rivestite da ondolux in vetroresina.
I lavori iniziarono il 26 maggio 2010 previa redazione del piano di sicurezza e coordinamento da parte della committente C.V.M., del piano operativo di sicurezza da parte dell'appaltatrice Despe e della subappaltatrice Gavi e formulazione del giudizio di idoneità di quest'ultimi piani operativi da parte del S.A..
Verso le ore 8 di domenica 30 maggio 2010 i lavoratori V.C., D.S. (dipendenti di Gavi), P.B., P.C. e G.V. (dipendenti di Despe) salivano sulla copertura dello stabilimento a mezzo di una scala interna, già utilizzata nei giorni precedenti rispetto al sollevatore con cestello impiegato all'inizio dell'opera per raggiungere la quota. Dopo di che gli operai, sotto la direzione del G.V., agganciavano la imbracatura individuale ad una delle linee vita presenti sulla copertura e raggiungevano l'area di lavorazione camminando per un primo tratto su una passerella in ferro, per un secondo tratto sui lastroni in cemento armato e per un terzo tratto sulle lastre in cemento-amianto.
Giunti in loco, il D.S. riceveva la telefonata di tale M.G. (fratello di M.V.) il quale voleva informazioni sulla strada per raggiungere il cantiere. Al che il G.V. ordinava al D.S. di scendere a terra, di far sottoporre il M.G. ad un corso di addestramento per quel tipo di lavorazione e di riaccompagnarlo in quota. Il D.S., quindi, tornava indietro e, una volta scomparso alla vista dei compagni di lavoro, sfondava una lastra in vetroresina (a circa tre metri dalla scala che intendeva utilizzare per scendere) precipitando così a terra da una altezza di m. 9,60, riportando gravi lesioni. A tale riguardo il D.S., nel verbale di sommarie informazioni del 30 giugno 2010, dichiarava di aver lavorato in quel cantiere anche nei due giorni precedenti dopo aver frequentato un apposito corso sulla sicurezza; di avere, il giorno del sinistro, agganciato l'imbracatura alla linea vita posta a fianco al luogo ove era sbarcato in quota; di aver raggiunto il luogo di lavorazione sulla base delle indicazioni ricevute dal G.V. in quanto il tetto "non era tutto eguale" e mancavano percorsi segnalati ovvero parapetti che imponessero di seguire un certo itinerario. Quanto alla dinamica del sinistro, il teste dichiarava di ricordarsi solo che era dovuto scendere per andare a prendere un altro lavoratore arrivato in cantiere ed aggiungeva: "non ricordo con precisione cosa sia successo. So che ci siamo sempre legati, altrimenti V. (id est: il G.V.) ci avrebbe cacciato. Forse, tornando indietro e visto che ero quasi arrivato, mi sono sganciato".
Sulla base di tali presupposti i funzionari della ASL rilevavano che l'esecuzione dei lavori su lucernai, tetti e coperture postula - a norma dell'art. 148 del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 - l'impiego di mezzi di protezione collettiva «in uno» con i mezzi di protezione individuale anticaduta. Nel caso di specie nei piani operativi di Despe e Gavi non erano state individuate misure di protezione in aggiunta all'uso dell'imbracatura allacciata alla linea vita, sì da evitare il rischio da caduta per sfondamento verticale. In particolare, a fronte di una copertura di dubbia resistenza in quanto costituita in parte da pannelli in plexiglas, non era stato previsto: a) di collocare, sotto l'area interessata alla lavorazione, sottopalchi o reti di protezione; b) di separare materialmente l'area pedonabile da quella non calpestabile; c) di individuare chiaramente il percorso che i lavoratori avrebbero dovuto seguire per raggiungere l'area di lavorazione dal luogo di sbarco in quota.
In relazione ai suddetti fatti venivano tratti a giudizio P.S. (amministratore delegato di Despe), G.V. (preposto di Despe), M.V. (amministratore unico di Gavi) e S.A. (coordinatore per l’esecuzione dei lavori per conto della committente C.V.M.) per rispondere del reato di lesioni colpose aggravato dalla violazione della normativa antifortunistica.
2. Il Tribunale di Pavia con sentenza 19/11/2013 emessa ad esito di giudizio abbreviato dichiarava P.S., quale amministratore delegato Desple spa, M.V., quale amministratore unico della Gavi srl, nonché S.A., quale coordinatore per l'esecuzione dei lavori, colpevoli per aver cagionato, con condotte autonome, in cooperazione colposa tra loro ed in violazione della normativa di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali gravissime a D.S., dipendente di Gavi srl; mentre assolveva da detta imputazione G.V., quale preposto della Despe spa.
3. Avverso la suddetta sentenza proponevano appello tutti gli imputati. In particolare, l'odierno ricorrente P.S. deduceva: a) in punto di responsabilità, che: il percorso previsto per il raggiungimento del punto di attività di demolizione e ricostruzione, era quello maggiormente sicuro, dotato di segnaletica, e le linee vita lungo l'intero cammino; quanto alla possibilità di posizionare ponteggi al di sotto del punto di caduta della persona offesa, il CT B. aveva evidenziato - pag. 14 della consulenza - come la presenza di impianti al di sotto dell'area interessata, ne avrebbe impedito il posizionamento; inoltre, "una corretta valutazione contro fattuale doveva essere tesa evitare l'evento caduta, e quindi l'evento lesioni. Inoltre la caduta da 2 m (altezza stimata tra il percorso gli operai ed eventuali sottopalchi) avrebbe potuto comunque comportare lesioni di pari gravità, o anche più gravi, in presenza di spigoli dei tubi che l'impalcatura necessariamente avrebbe presentato, e che il pavimento del capannone viceversa, non presentava. In definitiva, non era certo il posizionamento dei soppalchi impalcature, la soluzione che avrebbe evitato l'evento, laddove tra l'altro, teoricamente, la sua realizzazione avrebbe comportato rischi anche maggiori"; c) il PSC prevedeva l'adozione di sistemi protettivi solo in fase di posa della nuova copertura, e non di demolizione, proprio perché il rischio di caduta era inesistente nella fase della demolizione; d) l'infortunio inoltre, era avvenuto fuori dal cantiere, lungo il tragitto che dal cantiere portava alla scala di salita e discesa; i) in realtà, era la condotta della parte offesa la causa esclusiva, eccezionale e imprevedibile, che aveva permesso il verificarsi dell'infortunio. Il D.S. aveva improvvisamente e volontariamente scelto di sganciarsi dall'imbracatura, e di scavalcare la copertura in plexiglas. Comportamento questo inopinato e improvviso, e senza possibilità di prevenirne le gravi conseguenze. L'infortunio pertanto, non poteva essere ascritto a lui, che aveva fornito alla parte offesa i dispositivi di protezione individuale necessari, si era accertato della presenza della linea vita lungo il percorso; aveva informato attentamente i lavoratori del comportamento da tenere in quota ed il percorso da effettuare, aveva posto in essere una completa e attenta vigilanza, attraverso il proprio preposto  G.V..
4. La Corte di appello di Milano con la sentenza impugnata ha integralmente confermato la sentenza 19/11/2013 del Tribunale di Pavia.
5. Avverso la sentenza della Corte territoriale, tramite difensore di fiducia, propone ricorso l'imputato P.S., il quale, dopo aver ripercorso la vicenda processuale, articola 7 motivi di ricorso.
5.1. Nel primo si denuncia violazione dell'art. 41 comma 2 c.p., anche in riferimento al disposto di cui all'art. 20 del d. lgvo n. 81/2008, in punto di ritenuta non abnormità della condotta del lavoratore infortunato.
Il ricorrente rileva che il citato art. 20 - nel prevedere che i lavoratori debbano: a) osservare le disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale; b) utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione; c) non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo - attribuisce ai lavoratori un ruolo attivo nella prevenzione degli infortuni. Deduce che la Corte territoriale è incorsa nelle suddette violazioni di legge laddove aveva ritenuto non abnorme la condotta del lavoratore D.S., nonostante che lo stesso si era allontanato, senza alcun motivo, dal consueto percorso, usualmente seguito secondo le specifiche disposizioni impartitegli; si era volontariamente sganciato, attraverso un complesso movimento, dalla linea vita; ed aveva deviato completamente dal percorso stabilito, decidendo di saltare da un corridoio all'altro, puntando un piede sul lucernaio in plexiglass. Rileva ancora che il comportamento abnorme del lavoratore aveva interrotto il nesso di causalità tra il comportamento antidoveroso a lui contestato e l'evento lesivo verificatosi.
5.2. Nel secondo si denuncia vizio di motivazione nella parte in cui la Corte ha ritenuto non abnorme e non eccentrica la condotta del lavoratore infortunato.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale, nel escludere l'abnormità della condotta del lavoratore, ha motivato in maniera manifestamente illogica laddove ha affermato che il comportamento dello stesso era tale da non potersi escludere a priori e che lo stesso era astrattamente possibili; mentre ha motivato in maniera contraddittoria rispetto agli atti processuali, come emergenti dal testo delle stesse sentenze di merito, affermando che detto comportamento era assolutamente prevedibile. Deduce altresì che il D.S. - se si fosse attenuto alle istruzioni impartite e alla formazione ricevuta, ed avesse omesso di porre in essere anche solo uno dei due comportamenti attuati in violazione delle stesse (ad es. proseguendo lungo il marciapiede ed omettendo di deviare completamente dal tracciato), e non avesse disattivato, attraverso una articolata operazione, i mezzi di protezione di cui era stato dotato - l'evento non si sarebbe certo verificato. 
5.3. Nel terzo si denuncia violazione degli artt. 40, 41 comma 2 e 43 c.p. in punto di affermata sussistenza di un suo comportamento antidoveroso.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale è incorsa nelle suddette violazioni di legge laddove ha ritenuto che lui, quale datore di lavoro: a) non aveva adottato cautele volte ad evitare il comportamento del lavoratore, in tesi difensiva eccentrico ed abnorme, e, quindi, imprevedibile; b) avrebbe dovuto proteggere il tratto di copertura sul quale il lavoratore non doveva transitare, così affermando la sua responsabilità pur in presenza di un rischio non governabile. In definitiva, secondo il ricorrente, un diverso opinare significherebbe affermare la sussistenza di una responsabilità per colpa prescindendo dalla esatta valutazione in ordine al rischio governabile, nonché alla concreta prevedibilità dell'evento, ed affermare l'antidoverosità della condotta sulla scorta di prescrizioni imposte ex post.
5.4. Nel quarto si denuncia violazione del combinato disposto di cui agli artt. 40, 41 comma 2 e 43 c.p. in punto di ritenuta possibilità di realizzare le opere di protezione collettiva contestate.
Il ricorrente si lamenta del fatto che la Corte territoriale aveva desunto la prova della possibilità di realizzare le opere di protezione collettiva contestate dal fatto che lui aveva successivamente provveduto ad adempiere alle prescrizioni dell'Asl. La Corte, così procedendo, avrebbe desunto dal suo comportamento, successivo al fatto, la valutazione ex ante della prevedibilità del comportamento (in tesi difensiva eccentrico ed abnorme) del lavoratore.
5.5. Nel quinto si denuncia vizio di motivazione in punto di ritenuta possibilità di realizzare le opere di protezione collettiva contestate.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale - nel ritenere la possibilità di realizzare le opere di protezione collettiva contestate, per avere egli provveduto ad adempiere alle prescrizioni dell'Asl - ha motivato in maniera contraddittoria rispetto agli atti processuali, come emergenti dal testo delle stesse sentenze di merito, laddove le opere richiamate in sentenza, per come precisato nella consulenza tecnica di parte (resa ex art. 233 c.p.p. dall'ing. B.) erano state realizzate sul cantiere (e non sul luogo dove si era verificato l'infortunio).
5.6. Nel sesto si denuncia violazione dell'art. 148 del d. lgs. n. 81/2008 in punto di ritenuta necessità di realizzare le opere di protezione collettiva contestate.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale aveva ritenuto che fosse necessario realizzare le opere di protezione collettiva, oggetto di contestazione; mentre dette opere non erano tecnicamente realizzabili, e, d'altra parte, l'art. 148 non era applicabile, in quanto il luogo, dove si era verificato l'infortunio, non era inerente l'esecuzione di «lavori su lucernari, tetti, coperture e simili», come invece previsto dalla norma.
5.7. Nel settimo si denuncia violazione degli artt. 158 bis e 168 ter c.p. (in riferimento all'art. 3 Cost., all'art. 7 Convenzione EDU ed all'art. 49 della Carta di Nizza) in punto di mancata ammissione alla messa alla prova.
Il ricorrente si lamenta che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che l'istituto della messa alla prova è applicabile soltanto nel giudizio di primo grado, essendo istituto alternativo alla celebrazione del giudizio, ed ha conseguentemente rigettato la richiesta di ammissione che lui aveva fatto nel giudizio di appello sospensione del procedimento e di sua messa alla prova. Al riguardo fa presente che questa Sezione con ordinanza n. 1449 del 2014 ha rimesso alle Sezioni Unite il quesito sull'applicabilità in grado di appello dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato.
6. In vista dell'odierna udienza, sempre tramite difensore di fiducia, l'imputato articola 2 motivi aggiunti.
6.1. Nel primo motivo aggiunto, ad integrazione del terzo motivo di ricorso, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in punto di omessa valutazione del rischio, quale prima asserita causa delle lesioni personali contestate. Il ricorrente, dopo aver premesso la normativa tecnica di riferimento, sottolinea che la prima fonte normativa - che distingue catene, funi e cinghie - è successiva all'evento per cui è processo. Inoltre la distinzione non stabilisce criteri di scelta, ma si limita ad indicare le caratteristiche che siffatti strumenti devono possedere.
6.2. Nel secondo motivo aggiunto, ad integrazione del quarto motivo di ricorso, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in punto di ritenuta mancata formazione del lavoratore fortunato, quale seconda asserita causa delle lesioni personali contestate. Il ricorrente fa presente che nessuna disposizione vigente al tempo imponeva l'uso di una imbragatura specifica ovvero escludeva valutazione discrezionale del lavoratore esperto e formato nell'utilizzo della macchina, come era per l'appunto il D.S.. D'altra parte, osserva il ricorrente, l'art. 71 comma 7 d. lgvo n. 81 non prevede alcun parametro che definisca in concreto quando le attrezzature messe a disposizione da parte del datore di lavoro (nel caso di specie, ad un esperto manutentore), esorbitino dalle conoscenze e responsabilità dell'addetto, in relazione al suo inquadramento ed esperienza concreta, ovvero escluda qualunque margine di scelta per addetti esperti, in relazione all'utilizzo delle attrezzature messe a loro disposizione.

 

Diritto

 


l. Il ricorso non è fondato.
2. Non fondati sono i primi due motivi di ricorso, che qui si trattano congiuntamente in quanto entrambi relativi alla pretesa condotta abnorme del lavoratore infortunato D.S..
2.1. In tema di cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l'offesa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che possano considerarsi tali quelle che diano luogo a una serie causale, sebbene non del tutto autonoma rispetto a quella riferibile all'agente, che si atteggi in termini di assoluta anomalia, eccezionalità e imprevedibilità (Sez. 4, sent. n. 13939 del 30/01/2008, Bauwens, Rv. 239593).
In particolare, è stato chiarito (Sez. 4, sent. n. 7267 del 10/11/2009, 2010, Iglina, Rv. 246695) che la condotta colposa del lavoratore infortunato non esclude la responsabilità dell'imprenditore, poiché il datore di lavoro è destinatario delle norme antinfortunistiche proprio per evitare che il dipendente compia scelte irrazionali che, se effettuate, possano pregiudicarne l'integrità psico-fisica: l'imprenditore è esonerato da responsabilità soltanto nel caso in cui il comportamento del dipendente sia eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile (e non anche nel caso in cui l'irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo, risolvendosi nel fare proprio il contrario di quello che si dovrebbe fare per non incorrere in infortuni).
Con particolare riferimento alla sicurezza sul luogo di lavoro, la giurisprudenza di legittimità ritiene che presenti efficacia interruttiva del rapporto causale esistente tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l'offesa soltanto il comportamento abnorme del lavoratore che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro (Sez. 4, sent. n. 14440 del 05/03/2009, Ferraro, Rv. 243881).
In tale senso è abnorme soltanto la condotta del dipendente infortunato che esuli dai limiti delle attribuzioni proprie del segmento di lavoro ad esso attribuito, non insistendo nell'area di rischio della lavorazione svolta.
In ogni caso, quand'anche sussista una condotta colposa del lavoratore, questa non potrà comunque spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti destinatari di obblighi di sicurezza che abbiano violato prescrizioni in materia antinfortunistica (Sez. 4, sent. n. 12115 del 03/06/1999, Grande, Rv. 214999), in quanto le disposizioni prevenzionistiche hanno la funzione primaria di eliminare o almeno ridurre i rischi per l'incolumità física dei lavoratori intrinsecamente connaturati ai processi produttivi dell'attività di impresa, anche nelle ipotesi in cui siffatti rischi derivino da condotte colpose dei prestatori di lavoro.
Nel caso di specie, dei suddetti principi di diritto risultano aver fatto buon governo entrambi i giudici di merito.
2.2. Invero, il Tribunale di Pavia, quale Giudice dell'abbreviato, ha ritenuto provato sulla base degli accertamenti svolti dai funzionari della Asl, delle deposizioni dei colleghi di lavoro e delle stesse dichiarazioni rese dall'infortunato nella immediatezza del fatto, che il D.S., nel tornare indietro per andare a prendere M.G., aveva sganciato l'imbracatura dalla linea vita (presente su tutto il percorso) e quindi scavalcato un lucernaio in plexiglas la cui capacità di sorreggere il peso era quantomeno dubbia.
Pur dando atto della grave imprudenza del lavoratore, il Giudice di primo grado - dopo aver ribadito che il D.S. si trovava sul tetto del capannone per svolgere le mansioni attribuite dal proprio datore di lavoro Gavi s.r.l. ed era tornato indietro su ordine del preposto G.V. - ha rilevato che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalle stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze del lavoratore alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa.
2.3. La Corte territoriale ha preso in esame la tesi del "comportamento abnorme, ma cosciente e volontario del lavoratore", che sganciandosi dalla linea vita, avrebbe posto in essere una condotta eccezionale e imprevedibile, causa esclusiva dell'evento, ed elemento interruttivo della responsabilità degli imputati; ma l'ha disattesa, in quanto:
-in via generale, non sono riconducibili a un'ipotesi di comportamento abnorme, gli incidenti sul lavoro determinati da colpa del lavoratore, poiché le prescrizioni poste a tutela dei lavoratori mirano a garantire l'incolumità degli stessi anche nell'ipotesi in cui, per stanchezza, imprudenza, inosservanza di istruzioni, malore od altro, essi si siano venuti a trovare in situazione di particolare pericolo; del pari, il datore di lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa; la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del lavoratore che presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile; mentre,
-nel caso in esame, non era assolutamente imprevedibile che il D.S. (che il giorno del grave infortunio era in cantiere, al proprio posto di lavoro, nell'orario di attività, intento a svolgere le mansioni a lui demandate), nel percorrere il lungo tratto tra il luogo dei lavori e la scala di discesa al piano terreno, in totale assenza di una precisa indicazione del percorso esatto da tenere indefettibilmente, potesse scegliere un diverso cammino e quindi tenere addirittura una rotta diagonale, ovviamente più breve di quella consueta, ancorché più pericolosa, in quanto imponeva di oltrepassare il lucernaio di plexiglas; a tale considerazione si aggiungeva il fatto, astrattamente possibile, di distacco dalla linea vita. Condotta antidoverosa da parte del lavoratore, ma da non potersi escludere a priori;
- se fossero state presenti le opere provvisionali previste per legge, il D.S. non avrebbe riportato le gravissime lesioni conseguite alla caduta da oltre 9 metri di altezza: invero, nell'ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione (che, nel caso in esame, si era sostanziato nel mancato approntamento dei sottoponti e reti di protezione), nessuna dirimente efficacia causale, per escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.
Secondo la Corte di merito: i dispositivi di protezione collettiva erano perfettamente attuabili e, pertanto, erano assolutamente esigibili; una deviazione dal percorso tipico era possibile, proprio in quanto non c'erano strutture che lo rendessero pienamente obbligatorio; una simile digressione era infine plausibile, dato che poteva abbreviare il percorso; nulla aveva reso abnorme o eccentrica la condotta del lavoratore, che per ottemperare all'ordine testé ricevuto dal suo superiore, di andare incontro a un altro addetto ai lavori, aveva pensato di accorciare il cammino, sganciandosi dalla linea vita, e oltrepassando il lucernaio di plexiglas. D'altronde l’articolo 20 TUSL relativo agli "obblighi dei lavoratori" rende quest'ultimi corresponsabili dell’ottemperanza alle norme prevenzionali e antinfortunistiche; ma non esime in alcun modo i titolari di posizioni di garanzia, dalle loro responsabilità derivanti da eventuali violazioni di obblighi di legge. Nel caso in esame, quindi, la condotta del D.S. era rilevante per determinare l'entità della sanzione penale da applicare, ma non sollevava da responsabilità.
2.4. In definitiva, entrambi i giudici di merito, pur affermando la condotta colposa del lavoratore infortunato, hanno escluso l'abnormità della stessa con motivazione che, in quanto congrua e coerente con i principi di diritto affermati da questa Corte, è incensurabile in sede di legittimità.
3. Non fondati sono il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivi di ricorso, nonché i due motivi aggiunti, che qui si trattano congiuntamente in quanto tutti relativi ai ritenuti profili di colpa nella condotta tenuta dal P.S. ed al nesso di causalità tra il sinistro e le contestate violazioni alla disciplina antinfortunistica.
3.1. Al riguardo, occorre in primo luogo precisare il perimetro del sindacato, ammissibile nella presente sede di legittimità.
Orbene, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l’adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (in tal senso, tra le tante, Sez. 3, sent. n. 4115 del 27.11.1995, 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Sotto altro profilo è stato precisato che la Corte di cassazione, nel momento del controllo di legittimità, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, sent. n. 1004 del 30/11/1999, 2000, Moro, Rv. 215745).
Si deve infine ribadire, per condivise ragioni, l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; ed il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito, non potendosi il giudice di legittimità sostituirsi ad esso (Sez. 5, Sent. n. 16959 del 12/04/2006, dep. 17/05/2006, Rv. 233464).
3.2. Precisato nei termini che precedono l'orizzonte dello scrutinio di legittimità, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito - che, concordando nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) - evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all'apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice.
A) Invero, il Giudice di primo grado - dopo aver ricordato che nella giurisprudenza di legittimità (peraltro puntualmente richiamata) è consolidato il principio per cui il datore di lavoro risponde del comportamento colposo del lavoratore ove l'evento sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento - si è posto il quesito di verificare, con un giudizio controfattuale, se l'adozione di misure di protezione, diverse ed ulteriori rispetto alla imbracatura da ancorare alla linea vita, avrebbe impedito la verificazione dell'evento.
A detto quesito il Tribunale di Pavia ha dato una risposta positiva sulla base delle seguenti considerazioni:
- l'art. 148 del decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede che, in caso di compimento di lavori su lucernari, tetti e coperture di dubbia resistenza, ai dispositivi di protezione individuale anticaduta «vengano associati» mezzi di protezione collettiva quali tavole da collocare sul piano di calpestio ovvero sottopalchi da apporre al di sotto della zona pericolosa;
- non poteva essere condiviso l'assunto difensivo (secondo il quale l’infortunio non si era verificato nell’area dove si stavano svolgendo le lavorazioni, e, comunque, il consulente ing. A.B., nel dare atto che la Despe aveva in seguito ottemperato alla prescrizione della ASL di collocare piani di lavoro al di sotto della copertura, aveva evidenziato che l’antefatta installazione di tali opere provvisionali non solo non avrebbe avuto alcuna utilità, ma addirittura sarebbe stata in parte preclusa dalla presenza degli impianti sottostanti), in quanto le misure di protezione collettiva dovevano preservare i lavoratori da qualsiasi rischio di caduta, intendendosi per tale non solo quello insito nel luogo in cui avrebbero dovuto rimuovere le lastre della copertura, ma anche quello cui erano esposti per raggiungere il luogo di lavorazione. Per tale ragione, come le linee guida dovevano assistere (come in effetti assistevano) l'intero percorso a partire dal luogo di sbarco in quota, tutte le parti della copertura di dubbia resistenza -fra le quali, soprattutto, i lucernai in plexiglas,- avrebbero dovuto essere "protette" da dispostivi anticaduta;
- neppure potevano essere condivise le altre argomentazioni dell'ing. A.B. (secondo il quale la presenza degli impianti avrebbe impedito di collocare in alcune parti i c.d. sottopalchi; mentre nelle altre parti essi avrebbero potuto essere installati ad una altezza non inferiore a metri due dalla copertura), in quanto, premesso che dalla relazione del consulente non risultava con chiarezza se gli impianti produttivi fossero collocati proprio sotto il lucernaio attraversato dal D.S., una caduta con uno spazio di precipitazione di soli due metri avrebbe provocato conseguenze di gran lunga inferiori a quelle cagionate da una caduta da metri 9,60 di altezza;
-era comunque assorbente il rilievo che il datore di lavoro ben avrebbe potuto collocare una rete anticaduta a "protezione" delle parti della copertura non in grado di sorreggere il peso di una persona, misura la cui adozione non avrebbe sicuramente interferito con gli impianti produttivi sottostanti. E, se era vero che il PSC (piano di sicurezza e coordinamento) prevedeva l'uso delle reti anticaduta solo per la posa della nuova copertura; era altrettanto vero che tale prescrizione doveva essere riferita, secondo logica, anche alle opere di demolizione, la cui esecuzione comportava il medesimo rischio di precipitazione verticale. D'altronde, la locuzione "sottopalchi" utilizzata dall’art. 148 cit. non ha natura tassativa, ma solo esemplificativa dei mezzi di protezione da utilizzare per garantire l’incolumità dei lavoratori esposti al rischio di caduta dall'alto. E l'impiego di reti anticaduta era comunque dettato anche da norme di comune prudenza e diligenza.
Sulla base delle considerazioni che precedono il Giudice dell'abbreviato ha ritenuto che la collocazione di opere provvisionali, quanto meno in corrispondenza delle lastre traslucide, era condotta attuabile da parte dei soggetti tenuti a garantire l'incolumità del lavoratore, che era chiamato ad eseguire una prestazione altamente rischiosa, in considerazione della ragguardevole quota dal piano terra.
Il Tribunale di Pavia ha quindi osservato che il piano operativo di sicurezza (cfr. paragrafo rischio caduta dall'altro, p. 45) redatto dalla Despe s.p.a., di cui P.S. era l'amministratore delegato, prevedeva che le misure di protezione collettiva (fra cui le reti anticaduta e i ponteggi) venissero utilizzate alternativamente e non cumulativamente con i mezzi di protezione individuale. D'altra parte, il P.S., anche nella qualità di direttore tecnico, non aveva in concreto disposto la collocazione di opere provvisionali in corrispondenza dei tratti non portanti della copertura, misura questa che era imposta anche da ordinari criteri di prudenza.
Alla luce di quanto precede e ribadito che l'uso di mezzi di protezione collettiva avrebbe impedito il tragico evento, è stata affermata la penale responsabilità dell'odierno ricorrente, al quale era fatto obbligo di predisporre tale misura per l'esecuzione di lavori di elevata pericolosità.
B) E la Corte territoriale - dopo aver sottolineato (anche sulla base di alcune fotografie del luogo dell'Infortunio, incorporate nella sentenza proprio al fine di favorire una maggiore comprensione dell'evento) che l'urgenza della messa in sicurezza della copertura del capannone della C.V.M. s.p.a. era derivata dalla caduta (non delle lastre in plexiglas, che erano punti luce sul soffitto dell'opificio, ma) delle lastre in cemento (o parti di esse), c.d. copponi; e che detta caduta aveva interessato proprio la zona centrale del reparto fonderia - ha in primo luogo proposto uno schema della piramide datoriale, afferente al caso in esame, precisando i ruoli all'interno della società Committente (la C.V.M. spa), della impresa appaltatrice (la Despe s.p.a., il cui amministratore delegato era per l'appunto l'odierno ricorrente) e della impresa subappaltatrice (la Gavi srl, alle cui dipendenze lavorava D.S.). Dunque, il P.S., quale amministratore delegato della Despe spa (cioè della ditta esecutrice dei lavori), si poneva come appaltatore, sul quale incombevano precisi doveri, che, nel caso in esame, derivavano anche dalla piena interferenza che Despe esercitava diuturnamente nei lavori in esecuzione tramite il preposto (dipendente Despe) G.V..
Quindi, la Corte d’Appello - dopo aver rilevato come la sentenza di primo grado si presentava: accurata ed esaustiva, nell'analisi di tutte le emergenze processuali; corretta ed aggiornata, nella individuazione delle norme applicate e nei richiami giurisprudenziali; logica, consequenziale e completa, nell'applicazione delle norme individuate ai fatti in esame ed ai soggetti coinvolti
- ha aggiunto alle motivazioni portate nella sentenza di primo grado le seguenti argomentazioni:
-quanto all'interpretazione dell'art. 148 TUSL: non era condivisibile l'assunto difensivo (secondo il quale la locuzione "costruzioni edilizie" posta quale titolo della Sezione VII , vorrebbe dire che tutte le norme ricomprese in tale sezione si riferiscono esclusivamente alla fase di edificazione, e non a qualsiasi altra fase prodromica, successiva o complementare, quale, con riferimento al caso che occupa, quella relativa alla demolizione delle parti ammalorate del tetto della C.V.M.), in quanto: a) la locuzione "costruzioni edilizie" posta quale titolo della Sezione VII, nel quale detto articolo è collocato, non ha valore normativo specifico; d'altra parte, la Sezione VII è inserita nel Capo II, intitolato "Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota"; e nel medesimo Capo II (quale sotto settore del Capo stesso), è inserita la Sezione Vili, intitolata "Demolizioni"; b) la sfera di operatività di tutte le disposizioni del Capo II è resa chiara dal primo articolo del capo stesso (art 105), ove si spiega che "le norme del presente capo si applicano alle attività che, da chiunque esercitate e alle quali siano addetti lavoratori subordinati o autonomi, concernono la esecuzione dei lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali costituiscono, inoltre, lavori di costruzione edile o di ingegneria civile gli scavi, e il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o di ingegneria civile. Le norme del presente capo si applicano i lavori in quota di quel presente capo e ad ogni altra attività lavorativa"; quindi, la locuzione "costruzioni edilizie" di cui al titolo della Sezione VII, si riferisce (non a un momento 'dinamico' dell'attività relativa alle costruzioni, bensì) all'oggetto di qualsiasi attività lavorativa, e cioè a qualunque manufatto attinente a edifici di qualsiasi genere (case, chiese, scuole, caserme, ponti, torri, cabine elettriche, capannoni, strutture portuali, ecc ecc ecc). Significa cioè che, quando si abbia a lavorare intorno a simili 'costruzioni edilizie', si devono seguire le norme del TUSL; c) le disposizioni delle singole "sezioni" sono quelle più specifiche e particolari, che regolamentano i singoli settori delle attività dei lavori in quota, senza però che tali disposizioni assumano carattere esclusivo e discriminatorio rispetto alla comune applicabilità - a tutta l'attività da svolgersi in quota - del complesso delle norme contenute all'interno del capo medesimo. In definitiva, secondo la Corte di merito, l'espressione "costruzioni" deve ritenersi comprensiva di tutte le attività funzionali alla realizzazione di una costruzione e, dunque, anche alle operazioni demolitorie;
-quanto al luogo ed alle modalità dell'Infortunio: non era condivisibile l'assunto difensivo (secondo il quale: l'infortunio sarebbe avvenuto al di fuori dell'area di cantiere; il percorso previsto, per il raggiungimento del punto di attività di demolizione e ricostruzione, sarebbe stato quello maggiormente sicuro, dotato di segnaletica, e le linee vita lungo l'intero cammino; le aziende avrebbero messo in opera tutte le misure antinfortunistiche necessarie e idonee a salvaguardare l'incolumità dei lavoratori), in quanto: a) l'intero percorso all'interno della struttura ove si debbano eseguire lavori edili di qualsiasi tipo, soggiace alle norme poste a tutela degli addetti ai lavori, ed i soggetti titolari di posizioni di garanzia debbano porre in essere le opere provvisionali necessarie: non soltanto risponde a un criterio logico della tutela sul posto di lavoro, ma trova una primo richiamo espresso nell'articolo 95 comma 1 lett. b) TUSL , che dispone che il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti delle imprese affidatane (DESPE spa) e delle imprese esecutrici (GAVI srl) 'predispongono l'accesso alla recinzione del cantiere con modalità chiaramente visibili e individuabili'; b) nel caso in esame, dalla relazione dei funzionari ASL e dalle fotografie dei luoghi si desumeva come il lungo tratto sui vastissimi tetti dei capannoni della C.V.M. spa, che doveva essere percorso da lavoratori, non era affatto segnalato con modalità visibili, né tanto meno delimitato con strutture fisse (parapetti o altro); avuto riguardo ai tratti della copertura dello stabilimento che i lavoratori avrebbero dovuto impegnare per raggiungere il luogo dello smontaggio dei cc.dd. copponi, la passerella in ferro copriva soltanto una parte minimale del tragitto necessario; c) trattandosi di lavori in quota, il fatto che tale percorso fosse quello maggiormente sicuro, dotato di segnaletica, e con linee vita lungo l'intero cammino, non esimeva in alcun modo dall'adottare «congiuntamente» le misure indicate dalla legge, come indispensabili a prevenire le cadute dall'alto; d) anche a prescindere dalla puntuale identificazione dall'area di cantiere, con ciò intendendosi la piccola zona specificamente interessata dai lavori di ristrutturazione in atto, ciò che imponeva l'adozione delle misure di protezione collettiva e individuale dei lavoratori, era proprio l'articolo 148 TUSL, applicabile all'intera area ove prestavano la loro opera i lavoratori; d'altra parte, le 'misure generali di tutela nei luoghi di lavoro', previste dall'articolo 15 TUSL, mettono in chiaro (comma 1 lett. I) il dovere di assegnare "priorità delle misure di protezione collettiva (DPC) rispetto le misure di protezione individuale (DPI)";
-quanto alle conclusioni di cui alla relazione del consulente ing. A.B. (che, nel dare atto che la Despe aveva in seguito ottemperato alla prescrizione della ASL di collocare piani di lavoro al di sotto della copertura, aveva evidenziato che l'anteatta installazione di tali opere provvisionali non avrebbe avuto alcuna utilità, oltre ad essere in parte preclusa dalla presenza degli impianti sottostanti), le stesse non potevano essere condivise, oltre che per per le ragioni esposte dal giudice di primo grado, anche dalle seguenti ulteriori ragioni: a) il capitale umano e la salute dei lavoratori sono la prima e più importante risorsa di qualsiasi impresa commerciale e della società intera; con la conseguenza che qualsiasi attività lavorativa che non si possa svolgere senza porre in serio pericolo la vita dei lavoratori, semplicemente non deve essere svolta o deve essere svolta in modo radicalmente differente; b) l'argomento speso all'ingegner A.B. (per cui i sottopalchi o le reti anticaduta non potevano essere posti in opera) era destituito di fondamento, se era vero, come era vero, che dopo l'incidente tali opere provvisionali erano state effettivamente collocate, come richiesto dall'ASL; c) le opere di rifacimento del tetto erano state rese indispensabili proprio dal crollo di parte di un coppone. Cosicché era da ritenersi inconfutabile che, sotto alla copertura di copponi, non era possibile lavorare in sicurezza. Ragione di più per la quale collocare ponteggi di protezione di caduta dall'alto, sia di materiale (sugli operai che operavano al piano terreno dell'opificio), che dei lavoratori addetti al ripristino della copertura del capannone: attività indispensabile, possibile e doverosa; d) l'ulteriore argomento proposto dal consulente delle parti (secondo cui le misure di protezione collettiva non avrebbero eliminato il rischio di caduta dall'alto, e addirittura avrebbero aggravato il pericolo per i lavoratori) era parimenti infondato, in quanto: se era vero che il solo dispositivo di protezione collettiva sottoponti/reti anticaduta non sarebbe stato sufficiente a scongiurare in via assoluta qualsiasi infortunio; era anche vero che tale traguardo sarebbe stato raggiunto mediante l'utilizzo congiunto dei DPC e dei DPI; e) una caduta di 2 metri sarebbe stata infinitamente meno lesiva di una precipitazione da oltre 9 metri di altezza; f) se fosse stata vera la 'dubbia resistenza dei copponi' (sostenuta nella consulenza di parte, p. 36), non si comprendeva per quale ragione una lunga parte del cammino degli operai era stata prevista e consentita sopra di essi; g) se i copponi erano malfermi o non resistenti, allora andava scelto un percorso totalmente diverso, oppure andava approntato un camminamento su ponteggi autonomi dai copponi, ancorati a strutture solide e non pericolanti; h) i dispositivi di protezione in esame avevano costi non secondari, sia in termini economici, che di tempo di esecuzione. E pertanto, non porli in essere aveva comportato un consistente risparmio.
L'assunto difensivo - secondo il quale i lavori di rimozione dovevano eseguirsi necessariamente al di sopra della copertura - contrastava con le puntuali indicazioni dell'articolato PSC dell'Ing. B.G., documento di valutazione dei rischi che - ai sensi dell'art 100 del tu n 81 del 2008 - dev'essere rispettato dai datori di lavoro delle imprese esecutrici e dal coordinatore per l'esecuzione dell'opera; l'art. 100 facoltizza i datori di lavoro ad interloquire con il coordinatore per la progettazione ai fini di eventuali modifiche o integrazioni del PSC, per cui - se le prescrizioni del PSC fossero state da loro reputate non idonee ai fini della sicurezza - avrebbero dovuto prospettare al coordinatore le eventuali modifiche da introdurre in tal senso; cosa che non era stata fatta, per cui ogni considerazione svolta solo a posteriori, a fini difensivi, perdeva rilevanza in quanto si scontrava con il dovere di tutti i protagonisti dell'area di cantiere di rispettare le singole prescrizioni del PSC.
3.3. La congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito - che, concordando nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) - evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all'apprezzamento del compendio probatorio, che risulta non soltanto immune da censure rilevabili da questa Corte regolatrice, ma anche conforme a principi di diritto più volte affermati nella giurisprudenza di legittimità (e in particolare a principio per cui, in tema di prevenzione degli incidenti sul lavoro, per "zona di lavoro" si deve intendere tutta l'area del cantiere ove può accedere il singolo lavoratore: Sez. 4, sent. n. 11933 del 21/06/1991, Dell'Acqua, Rv. 188761).
4. Non fondato, se non inammissibile, è infine il settimo motivo di ricorso, concernente la mancata ammissione alla messa alla prova.
Invero la Corte di merito non ha accolto i motivi nuovi con i quali il P.S. chiedeva di essere ammesso all’istituto della messa alla prova, proprio perché la giurisprudenza prevalente della Corte di Cassazione (peraltro puntualmente richiamata) escludeva l’applicabilità dell’istituto nei processi d’appello o di Cassazione, in quanto si tratta di un "iter” procedimentale tutto particolare, che per sua natura deve trovare applicazione già nel processo di primo grado, perché in sé alternativo alla celebrazione del giudizio in quanto tale. E, d'altra parte, non vi sono disposizioni transitorie che regolamentino l’istituto per i processi pendenti alla data della sua entrata in vigore.
Sul punto, è sufficiente osservare che non si tratta di giurisprudenza prevalente, ma di giurisprudenza consolidata (cfr., tra le più recenti, Sez. 4, sent. n. 43009 del 30/09/2015, Zoni, Rv. 265331), che qui si ribadisce per condivise ragioni.
5. Per le ragioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.