Cassazione Penale, Sez. 4, 17 luglio 2017, n. 34878 - Infortunio in una falegnameria. Macchinario privo dei dispositivi di sicurezza. Diritto di difesa e di contradditorio


 

Presidente: DI SALVO EMANUELE Relatore: PEZZELLA VINCENZO Data Udienza: 08/06/2017

 

 

 

Fatto

 

1. Con sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Bari, emessa a seguito di giudizio abbreviato, in data 8 febbraio 2011, gli odierni ricorrenti S.V., e S.D., venivano assolti, con la formula 'perché il fatto non sussiste" dai reati di cui agli artt. 582 e 583 II comma n. 3) cod. pen., loro ascritto al capo a), perché, quali datori di lavoro, nonché soci amministratori della società in nome collettivo Scorano 1980", corrente in Bitetto, esercente attività di falegnameria, cagionavano al dipendente T.S., nelle circostanze che qui di seguito si indicheranno, lesioni personali gravissime.
Specificatamente, accadeva che T.S., operaio generico, dopo aver lavorato con l'impiego di una macchina profilatrice-scorniciatrice, si accingeva a ripulirla dalla segatura ivi accumulatasi, dopo averla preventivamente spenta. Senonché, sopraggiunto il dipendente-capo reparto S.N., costui, in modo del tutto inopinato, riaccendeva tale macchinario. Ma tale improvvisa riaccensione, essendo il macchinario sprovvisto dei prescritti dispositivi di sicurezza, in quanto disattivati per volontà del datore di lavoro al fine di velocizzare il lavoro, provocava al T.S., che era intento a pulire gli utensili intasati, l'amputazione di tre dita della mano destra. Attraverso la su descritta condotta, i predetti datori di lavoro accettavano il rischio del verificarsi di tali infortuni. Tant'è che in tali circostanze si verifica il detto incidente che cagionava al T.S. lesioni personali gravissime consistenti nella amputazione di tre dita della mano destra (indice, anulare e medio) e, perciò, importanti la perdita dell'uso della mano.
S.V., inoltre, veniva assolto, con la stessa formula, dal reato di cui egli artt. 56 e 610 a lui ascritto al capo b), perché, nell'accompagnare all'Ospedale il dipendente T.S. in occasione, dell'infortunio sul lavoro occorsogli il giorno 12 settembre 2008, tentava, con minacce varie, di costringerlo a dichiarare una diversa versione dell'accaduto. Specificatamente, nel minacciare al predetto di licenziarlo dal lavoro e di cercare il modo di mandarlo in galera, poneva in essere atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre T.S. a dichiarare alla competente Autorità che l'infortunio fosse avvenuto non già con le modalità descritte al capo a) dell'imputazione (ossia per fatto imputabile al datore di lavoro) bensì per fatto imputabile a se stesso.
In Bitetto, il 12 settembre 2008; querela del 15 ottobre 2008.
2. Avverso tale sentenza proponevano tempestivo e rituale appello sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari che la costituita parte civile, chiedendone la riforma. Il primo chiedeva la dichiarazione di penale responsabilità degli imputati in riferimento ai reati loro ascritti, con eventuale diversa qualificazione giuridica del reato ipotizzato al capo a), con conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia. La seconda chiedeva la condanna dei prevenuti al risarcimento dei danni in proprio favore con rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.
Con sentenza dell'11 febbraio 2016 La Corte di Appello di Bari, letto l'art. 605 cod. proc. pen., in riforma della sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Bari dell'8 febbraio 2011, appellata dalla costituita parte civile e dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e pronunciata nei confronti di S.V. e S.D., dichiarava questi ultimi penalmente responsabili del reato di cui agli artt. 110 e 590 II e III comma cod. pen., così diversamente qualificato il fatto loro ascritto al capo a) e, in concorso di circostanze attenuanti generiche equivalenti, li condannava alla pena di otto mesi di reclusione ciascuno (così in dispositivo, mentre in motivazione si parla di mesi due), con pena sospesa e non menzione per entrambi, nonché condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della costituita parte civile, nonché al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio verso l'Erario e verso la costituita parte civile.
Il giudice di secondo grado confermava nel resto (in relazione quindi all'asso-luzione per il reato di cui al capo b) la sentenza impugnata.
3. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione S.V. e S.D., a mezzo del comune difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
Con un primo motivo si deduce violazione di legge in relazione all'articolo 522 del codice di procedura penale per violazione del principio di correlazione con l'imputazione contestata.
Con ampio richiamo a giurisprudenza nazionale e sovranazionale il difensore ricorrente lamenta un insanabile vulnus al diritto di difesa degli imputati, i quali non avrebbero potuto contestare la diversa ipotesi di reato per la quale sono stati condannati, avendo basato l'intera strategia difensiva - ivi compresa la scelta per il rito alternativo - sull'imputazione di lesioni volontarie. Nel caso di specie, infatti, posto che si è trattato di un giudizio a prova contratta, la riqualificazione dell'ipotesi di lesione, da dolosa in colposa, verrebbe operata addebitando agli imputati un fatto diverso (e non già identico!) rispetto a quello originariamente contestato, non prevedibile, con conseguente violazione del diritto di difesa e del dettato dell'art. 441 bis cod. proc. pen. a mente del quale, in caso di modifica della contestazione ex art. 423, primo comma, cod. proc. pen. l'imputato può chiedere che il giudizio prosegua nelle forme ordinarie oppure articolare nuove prove.
Quanto compiuto dai giudici del gravame, peraltro, sarebbe in contrasto con i principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella nota sentenza 'Drassich' n. 25575 dell'11.12.2007, secondo cui "alla luce di un'interpretazione sistematica delle lett. a) e b) dell'art. 6, par. 3, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, quando il diritto nazionale preveda la possibilità di attribuire ai fatti contestati all'imputato una diversa qualificazione giuridica, l'imputato deve essere informato di tale qualificazione giuridica in tempo utile per poter esercitare i diritti di difesa riconosciuti dalla convenzione in modo concreto ed effettivo
Il principio di diritto testé enunciato - si rileva in ricorso- è stato riconosciuto anche da questa Suprema Corte, che lo ha ritenuto "conforme al principio statuito dall'art. 111, comma 2, Cost., che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso. Ne consegue che si impone al giudice una interpretazione dell'art. 521, comma 1 cod. proc. pen. adeguata al decisum del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati " (cfr. Sez. 6, n. 45807/2008). Viene ricordato che questa Corte, richiamando i principi statuiti dalla Corte EDU, ha inoltre evidenziato che "la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto" è assicurata solo quando l'imputato sia 'posto nelle condizioni di interloquire sulla stessa, richiedendo una sua rivalutazione e l'acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento"(Sez. 6, n. 14.2.2012, 10093/2012). Di recente, inoltre, i giudici di Strasburgo, pur pervenendo a conclusioni differenti da quelle richiamate nella nota sentenza Drassich, hanno ribadito i principi che regolano l'equo processo (vengono richiamati, in particolare, stralci delle pronunce CEDU Pélissier e Sassi c. Francia [GC], n. 25444/94, § 51, CEDU 1999-11; Previti c. Italia (dee.), n. 45291/06, § 203, 8 dicembre 2009; e Grande Stevens e altri c. Italia, nn. 18640/10, 18647110, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, § 167, 4 marzo 2014).
Con un secondo motivo vengono dedotti, cumulativamente, violazione di legge e vizio motivazionale ^lamentandosi che mancherebbe in sentenza, con riferimento alla configurabilità del delitto di lesioni colpose, così riqualificati i fatti, qualsivoglia riferimento all'iter argomentativo ed alle ragioni di diritto, con particolare riferimento agli elementi costitutivi del delitto in contestazione.
Viene evidenziato che, come puntualmente posto in rilievo dal giudice di prime cure, il costrutto accusatorio è fondato su una condotta dolosa specifica (articolata in tre distinte azioni consecutive poste in essere rispettivamente "da T.S., il quale spegneva la macchina profilafrice-scorniciatrice per ripulirla dalla segatura ", "da S.N., responsabile del reparto, il quale riaccendeva il macchinario (mentre l'operaio operava" e "dagli imputati i quali, in precedenza ed allo scopo di velocizzare i tempi di lavoro, disattivavano i dispositivi di sicurezza" che non ha trovato riscontro negli atti di causa assurgendo a "mera deduzione del PM" che si è limitato a recepire passivamente "la ricostruzione del fatto fatta dalla parte civile" (vengono richiamate, in proposito, pagg. 5-6 della sentenza di primo grado).
La dinamica degli eventi descritta dal T.S., tuttavia, secondo quanto si legge in ricorso, era stata già confutata in fase di indagini dalla circostanza che "la cappa di sicurezza era dotata di un congegno che consente l'apertura della stessa solo a macchina ferma e dopo alcuni secondi" e che, come constatato ictu oculi dall'Ing. F., "legale rappresentante della società costruttrice ", non vi erano "tracce di manomissioni". Inoltre, "le indagini tecniche svolte dallo SPESAL" lungi dal confermare quanto denunciato dal lavoratore, sarebbero pervenute, "su basi meramente probabilistiche, a due ipotesi ricostruttive dell'evento, l'una addebitabile alla società costruttrice della macchina, l'altra agli imputati": "la prima, fondata sugli esiti dell'ispezione" eseguita il 12.9.2008 che "consentì di ipotizzare che l'incidente fosse stato causato da un malfunzionamento del macchinario.., il microswitch che avrebbe dovuto azionarsi e fermare la macchina" riconducibile "all'epoca di produzione dello stesso macchinario"; la seconda, "parallela che si sostanziava nel non corretto funzionamento del sistema di sicurezza per effetto delle vibrazioni prodotte dalla stessa scorniciatrice o eventuali contraccolpi rivenienti dalla lavorazione del legno, così imputando a un difetto di manutenzione" (pag. 7). Tuttavia, "la violazione di tale norma non è stata neppure contestata, né tra le due ipotesi alternative è consentita una scelta sulla base di elementi probatori sufficientemente certi" dal momento che in ogni caso "la dinamica dell'evento" non poteva essere "quella descritta dalla persona offesa ", "smentita sul piano tecnico" e di conseguenza intrinsecamente inattendibile (ivi, pag. 8).
Secondo il ricorrente, anche l'assunto secondo cui "la manipolazione veniva effettuata per il periodo di lavorazione mentre veniva ripristinato il regolare funzionamento della macchina in occasione dei controlli" (pag. 4 dell'impugnata sentenza) non sarebbe supportato da alcuna risultanza processuale, posto che, al contrario, le indagini preliminari hanno accertato che "il sistema di sicurezza di cui era dotata la cappa di protezione non presentava segni evidenti di manomissioni ... che dovevano essere apprezzabili se il meccanismo di blocco fosse stato alterato "con un ponte elettrico" (pag. 8 della sentenza di primo grado, il grassetto e la sottolineatura sono nostri). In conclusione, a parere del GUP, dagli atti di indagine "non emerge in alcun modo che l'infortunio si sia verificato con le modalità descritte nel capo di imputazione, limitandosi gli inquirenti alla formulazione di ipotesi sulle cause" (ivi, pag. 6).
Con un terzo motivo si lamenta mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione nonché inosservanza o erronea applicazione degli arti. 546 e 547 cod. proc. pen. 
La sentenza oggetto di imputazione sarebbe stata resa in violazione del dettato di cui agli artt. 546 e 547 cod. proc. pen.( posto che non vi sarebbe corrispondenza tra dispositivo e motivazione.
In particolare mentre nel dispositivo gli imputati vengono condannati alla pena di mesi otto di reclusione, in motivazione viene ritenuto "equo condannare gli stessi alla pena di mesi due di reclusione ciascuno" (cfr. pagg. 6-7 della sentenza).
Nel caso di specie, tuttavia, si sostiene in ricorso che, anche dando rilievo al percorso motivazionale seguito dai giudici dell'appello, non sarebbe dato desumere quale sia stata la reale volontà in ordine alla quantificazione della pena da irrogare agli imputati, e pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata posto che nel caso in esame "non è esperibile la procedura di cui all'art. 130 cod. proc. pen." atteso che "il contrasto tra la determinazione della pena indicata in dispositivo e quella effettuata in motivazione non è conseguente ad un errato calcolo matematico ma è il risultato dell'applicazione di un errato criterio giuridico (il richiamo è a Sez. 2 n. 16367/2014).
Chiedono, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. Il secondo motivo di ricorso, laddove si lamenta vizio motivazionale della sentenza impugnata, appare fondato, mentre i restanti profili di doglianza sono infondati, per i motivi che di seguito si andranno ad evidenziare.
Ne consegue, per quanto concerne gli effetti penali, che il Collegio non può che prendere atto dell'intervenuta prescrizione del reato ed annullare senza rinvio la sentenza impugnata (ciò in quanto i fatti risalgono al 12/9/2008 e, pur tenuto conto delle interruzioni della prescrizione e di un periodo di sospensione della stessa di mesi 2 e gg. 22 in ragione del rinvio dell'udienza preliminare del 9/3/2010 a seguito di richiesta del difensore, il termine massimo di prescrizione è spirato il 3/6/2016).
Tale conclusione rende evidentemente superflua ogni valutazione in relazione al terzo motivo di ricorso, apparendo ininfluente valutare se la pena che concretamente volevasi irrogare agli odierni ricorrenti fosse di mesi due di reclusione ciascuno (come indicato in motivazione) ovvero di mesi otto di reclusione (come indicato nel dispositivo della sentenza). Va peraltro, rilevato, che, come si evince dagli atti -cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione del tipo di doglianza proposta- nel dispositivo di sentenza letto in udienza l'originaria indicazione di "mesi otto di reclusione" risulta interlineata e corretta in mesi due di reclusione, con apposizione di visto per la correzione da parte del Presidente, dovendosi pertanto ritenere che la pena irrogata fosse quella di mesi due di reclusione. 
2. Va, invece, ricordato che secondo l'insegnamento della giurisprudenza di questa Corte di legittimità, allorquando c'è parte civile, la previsione di cui all'art. 578 cod. proc. pen., per la quale il giudice di appello o quello di legittimità, che dichiarino l'estinzione per amnistia o prescrizione del reato per cui sia intervenuta in primo o in secondo grado condanna, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi di sentenza che concernono gli interessi civili, comporta come conseguenza che i motivi d'impugnazione proposti dall'imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato, secondo quanto previsto dall'art. 129, comma 2 cod. proc. pen.: con la conseguenza che, laddove la sentenza d'appello non compia un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato, s'impone un suo annullamento con rinvio limitatamente alla conferma delle statuizioni civili.
In altri termini, come rilevato anche di recente, il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta prescrizione del reato unitamente al riscontro nella sentenza di condanna impugnata - come avviene nel caso che ci occupa- di un vizio di motivazione in ordine alla responsabilità dell'imputato ne comporta l'annullamento senza rinvio - in conseguenza della predetta causa estintiva - ai fini penali, e per quel che concerne gli effetti civili, l'annullamento delle relative statuizioni, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. (Sez. 4, n. 29627 del 21/4/2016, Silva ed altri, Rv. 267844; conf. Sez. 5, n. 594 del 16/11/2011 dep. il 2012, Rv. 252665).
3. Prima di andare a verificare, allora, in cosa consiste il deficit motivazionale della sentenza impugnata che induce il Collegio a ritenere che, seppure ai soli fini civili, la sentenza impugnata vada annullata con rinvio, occorre tuttavia rilevare che appare infondato il primo motivo di doglianza.
Questa Corte di legittimità, pur tenuto conto delle richiamate pronunce sovra- nazionali, ha, infatti, condivisibilmente precisato che, qualora il fatto venga diver-samente qualificato dal giudice di appello senza che l'imputato abbia preventivamente avuto modo di interloquire sul punto, la garanzia del contraddittorio resta comunque assicurata dalla possibilità di contestare la diversa definizione mediante il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 37413 del 15/05/2013, Drassich, Rv. 256652).
Il thema decidendi è dunque quello di verificare se ha ragione la Corte territoriale nel ritenere che la riqualificazione del reato contestato agli imputati al capo a) in quello di cui agli artt. 110 e 590 II e III comma cod. pen. non violi il principio di correlazione tra contestazione e decisione, anche tenendo conto di quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo(con la sentenza 11 dicembre 2007 su ricorso relativa al ricorso n. 25575 Drassich c Italia. 
Secondo la Corte territoriale, infatti, in ossequio ai principi statuiti da questa Suprema Corte (il richiamo è a Sez. 2, n. 1625 del 12/11/2012, dep. il 2013, Mereu, Rv. 254452), la riqualificazione del fatto operata in sentenza non risulta in contrasto con l'art. 6 § 3 lett a) e b) della Convenzione in quanto, come nel caso di specie: a) era sufficientemente prevedibile per gli imputati che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata (nel capo di imputazione era contestata una ipotesi di dolo eventuale e si ritiene sussistente invece una fattispecie di colpa aggravata); b) i mezzi di difesa che i prevenuti avrebbero potuto invocare, se avessero avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei loro confronti, non sarebbero stati valutati in maniera più favorevole, attesa la identità del fatto sotto il profilo storico-materiale; c) le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena nei confronti degli imputati stessi non sarebbero state più pregiudizievoli.
Ebbene, ad avviso del Collegio, come anche meglio si dirà in seguito, la logica ed esaustiva motivazione della Corte barese sul punto appare immune dai denunciati vizi di legittimità.
Correttamente, infatti, i giudici del gravame del merito hanno ritenuto di andare di diverso avviso rispetto a quanto opinato dal giudice di primo grado secondo cui, poiché "la ricostruzione dell'evento viene articolata dal PM con una consecuzione di tre azioni poste in essere: 1. da T.S. il quale spegneva la macchina 'profilatrice-scorniciatrice' per pulirla dalla segatura; 2. da S.N., responsabile del reparto, il quale riaccendeva il macchinario (mentre l'operaio operava); 3. dagli imputati i quali, in precedenza ed allo scopo di velocizzare i tempi di lavoro disattivavano i dispositivi di sicurezza (...) su questi dati fattuali si è costituito il contraddittorio, onde ipotesi alternative non sono consentite vuoi perché non sostenute da alcuna indagine specifica, vuoi perché lo impedisce il principio di correlazione tra accusa e sentenza sancito dall’art. 521 cod. proc. pen. dovendosi considerare che il giudizio di penale responsabilità di S.V. e S.D. viene prospettato in funzione di una condotta dolosa, rappresentata dalla volontaria e precedente disattivazione dei sistemi di sicurezza del macchinario sul quale operava T.S." (cfr. pagg. 5-6 della sentenza di primo grado). Per il GUP barese, infatti, "...se in termini generali è consentito al giudice l'imputazione ad un determinato soggetti di un fatto immutato nella sua materialità (in termini Cass. 25.10.2005 n. 41663), per altro verso va rilevato che la nozione di "fatto" contenuta nelle disposizioni del codice di rito (arti. 516-522 cod. proc. pen.) sulla quale si fonda il principio di correlazione tra accusa e sentenza è funzionale a garantire l'esercizio del diritto di difesa allo scopo di scongiurare l'ipotesi che l'imputato sia condannato per un episodio della vita umana dal quale non abbia potuto difendersi" (così pag. 6 sent. di primo grado). 
In altri termini, era stato il giudice di primo grado ad operare un'interpretazione della norma che non teneva conto del consolidato dictum di questa Corte di legittimità secondo cui la garanzia del contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto sarebbe stata comunque assicurata anche qualora fosse stata operata dal giudice di primo grado nella sentenza pronunziata all'esito del giudizio abbreviato, in quanto con i motivi d'appello l'imputato sarebbe stato posto nelle condizioni di interloquire sulla stessa, richiedendo una sua rivalutazione e l'acquisizione di integrazioni probatorie utili a smentirne il fondamento (Sez. 6, n. 10093 del 14/2/2012, Vinci ed altri, Rv. 251961).
E' vero che in altra pronuncia si è affermato che sussiste la violazione irrimediabile del diritto di difesa nel caso in cui sia ritenuta in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476, comma secondo, cod. pen., non adeguatamente e correttamente esplicitata nella contestazione, considerato che, anche alla luce dei vincoli posti dalla giurisprudenza della Corte EDU (sent. Drassich c. Italia, 11 dicembre 2007), è diritto dell'imputato essere informato tempestivamente e dettagliatamente tanto dei fatti materiali posti a suo carico, quanto della qualificazione giuridica ad essi attribuiti (Sez. 5, n. 12213 del 13/2/2014, Amoroso ed altri, Rv. 260209, in cui si è rilevato che la natura fidefacente dell'atto assunto come falso non veniva esplicitamente indicata nel capo di imputazione, che essa non è nemmeno indicata in fatto con sinonimi o formule equivalenti e che neanche è richiamato l'art. 476, comma secondo, cod. pen. - ha escluso l'operatività dell'aggravante di cui al predetto art. 476, comma secondo, cod. pen., ritenendo sussistente l'ipotesi di falso non aggravata dalla natura fidefacente dell'atto).
Tuttavia, questa Corte di legittimità ha anche precisato, come correttamente rileva la Corte barese richiamando la sentenza 1625/2013, che il principio del giusto processo, sotto il profilo del diritto alla difesa e del contraddittorio, deve ritenersi violare la riqualificazione, all'esito del giudizio abbreviato incondizionato, dell'originaria imputazione solo se essa, in concreto, per l'imputato non sia stata prevedibile (la pronuncia richiamata riguardava un caso di imputazione di furto e di condanna per ricettazione in cui la Corte ha escluso la valenza autoaccusatoria delle generiche dichiarazioni rese dall'imputato riportate nella comunicazione di notizia di reato redatta dalla Polizia Giudiziaria in relazione al reato di ricettazione rispetto a quello di furto originariamente contestato non essendo intervenuta alcuna forma di contraddittorio al riguardo).
4. Va ricordato che l'applicabilità della previsione di cui all'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. anche alla sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato, è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, benché non specificamente richiamata a livello codicistico, sin da Sez. 6, n. 9213 del 26/9/1996, Martina, Rv. 206207.
In proposito il Collegio ritiene ormai consolidato e condivisibile l'orientamento più recente in termini di operatività dell'art. 521 primo comma cod. proc. pen., che ha superato quel criterio della "continenza del fatto" che aveva portato in passato a ritenere, ad esempio, l'ammissibilità della sola riqualificazione del fatto originariamente contestato come furto in quello di ricettazione e non il contrario (cfr., al riguardo, Sez. 2, n. 857 del 17/12/2003 dep. il 2004, Beltrami, Rv. 2.27804; conf. Sez. 1, n. 46006 del 29/10/2004, Di Berardino, Rv. 230319; Sez. 5, n. 3161 del 13/12/2007 dep. il 2008, Picciomne, Rv. 238345;).
Preferibile è il criterio "teleologico" del mancato pregiudizio per la difesa dell'imputato, che finisce per ammettere non solo la possibilità di riqualificazione del fatto da furto a ricettazione, ma anche quella opposta di riqualificazione della ricettazione come furto (cfr. ex multis, Sez. 2 n. 38889 del 16/09/2008, Depau, Rv. 241446 secondo cui nel caso in cui nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, non sussiste violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza e ciò tanto nell'ipotesi di riqualificazione del furto in ricettazione, quanto in quella opposta di riqualificazione della ricettazione come furto; in senso conforme, con motivazione analoga, seppur con riferimento ad ipotesi di riqualificazione di originarie imputazioni di ricettazione in furti aggravati, Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 24/09/2012 dep. il 2013, Jovanovic e altro, Rv. 254648; vedasi anche Sez. 5, n. 3161 del 13/12/2007 dep. il 2008, Piccione, Rv. 238345).
5. Orbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento occorre in concreto verificare se, in un ambito come quello degli infortuni sul lavoro, si possano, in sede di giudizio, portare a ritenere integrate le ipotesi delittuose colpose di cui agli art. 589 o 590 del codice penale, l'originaria imputazione con riferimento alle corrispondenti ipotesi dolose di omicidio o di lesioni personali volontarie comporti una modifica dell'imputazione non prevedibile e quindi il vulnus ai diritti difensivi lamentato dagli odierni ricorrenti. Ciò, evidentemente, anche tenuto conto che in primo grado si è proceduto con rito abbreviato "secco".
A tale ultimo proposito va ricordato che questa Corte - con un dictum che il Collegio condivide- ha ritenuto che venga violato il principio del giusto processo, sotto il profilo del diritto alla difesa e del contraddittorio, ove, all'esito del giudizio abbreviato incondizionato, l'originaria imputazione di furto venga riqualificata in quella di ricettazione, se, in concreto, per l'imputato non fosse sufficientemente prevedibile che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti potesse essere riqualificata e, quindi, non sia stato messo in concreto nella possibilità di difendersi sul presupposto che le affermazioni dell'imputato riportate nella comunicazione di notizia di reato redatta dalla polizia giudiziaria, non possono - nel giudizio abbreviato incondizionato - essere valorizzate ai danni dell'imputato in relazione al diverso e più grave reato di ricettazione, ove, sulle medesime, non sia stata attivata alcuna forma di contraddittorio (Sez. 2, n. 1625 del 12/12/2012 dep. il 2013, Mereu, Rv. 254452).
Ebbene, a ben guardare, il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte di legittimità, sia che la riqualificazione avvenga in primo che in secondo grado, Ha posto l'accento sul concetto di prevedibilità che l'accusa possa evolvere in un determinato senso ed è assolutamente in linea con quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo,a partire dalla ormai nota sentenza Drassich c. Italia del 2007.
E' pur vero, infatti, che in tale pronuncia, la Corte di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi su un caso di applicazione del principio iura novit curia nel nostro ordinamento nazionale, ha affermato, expressis verbis, che "le disposizioni del paragrafo 3 dell'art. 6 CEDU rivelano la necessità di porre una cura particolare nel notificare l'accusa all'interessato" sul rilievo che, poiché "l'atto d'accusa svolge un ruolo fondamentale nel procedimento penale", la norma de qua "riconosce all'imputato il diritto di essere informato non solo del motivo dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti" e ciò perché "in materia penale, una informazione precisa e completa delle accuse a carico di un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che la giurisdizione potrebbe considerare nei suoi confronti, è una condizione fondamentale dell'equità del processo".
Tuttavia, quanto alle ricadute sui sistemi nazionali, la Corte europea ha precisato che: "se i giudici di merito dispongono, quando tale diritto è loro riconosciuto nel diritto interno, della possibilità di riqualificare i fatti per i quali sono stati regolarmente aditi, essi devono assicurarsi che gli imputati abbiano avuto l'opportunità di esercitare i loro diritti di difesa su questo punto in maniera concreta ed effettiva. Ciò implica che essi vengano informati in tempo utile non solo del motivo dell'accusa, cioè dei fatti materiali che vengono loro attribuiti e sui quali si fonda l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti".
Compito del giudice nazionale, dunque, sarà quello di svolgere un accertamento di triplice natura. In primo luogo dovrà verificare, in concreto "se fosse sufficientemente prevedibile per il ricorrente che l'accusa inizialmente formulata nei suoi confronti fosse riqualificata", per poi interrogarsi sulla "fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di discutere della nuova accusa formulata nei suoi confronti" ed, infine, valutare quali siano state "le ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena del ricorrente".
Ebbene, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha sancito la conformità di tale dictum rispetto al "principio epistemologico statuito dall'art. 111, comma 2, Cost.", in quanto quest'ultimo "investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso", così da imporsi al giudice una interpretazione dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. "adeguata ai principi costituzionali richiamati e ai decisum del giudice Europeo" (in questi termini, Sez. 5, n. 45807 del 12/11/2008, Drassich, Rv. 241754).
Tuttavia, laddove le era stata prospettata l'incostituzionalità degli artt. 424, 429 e 521, comma 1, cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 3, 24, 111, comma 3, e 117, comma 1 della Cost., la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 103 del 10 marzo 2010, l'ha dichiarata inammissibile, rilevando come le venisse richiesta "una pronunzia additiva, non avente carattere di soluzione costituzionalmente obbligata, ma rientrante nell'ambito di scelte discrezionali riservate al legislatore".
6. La norma contenuta nell'art. 521 cod. proc. pen., in altri termini, va intesa non in senso meccanicistico formale, ma in funzione della finalità cui è ispirata, e cioè quella della tutela del diritto di difesa, cosicché la verifica dell'osservanza di tale principio non può esaurirsi in un mero raffronto formale tra imputazione e sentenza, occorrendo, invece, che l'indagine in proposito accerti la concreta possibilità per l'imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto.
È su tale ultimo profilo che la Corte territoriale ha condivisibilmente concentrato la sua attenzione, impegnandosi a verificare, alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale, se nel caso di specie il diritto di difesa e del contraddittorio fosse stato effettivamente violato. Ed è pervenuta ad una valutazione negativa, logicamente e congruamente motivata, avendo quali criteri-guida i tre parametri - ai quali si è già accennato - dettati dalla Corte europea nella summenzionata sentenza Drassich: la sufficiente prevedibilità in concreto di una riformulazione dell'accusa iniziale, l'esame dei mezzi di difesa invocabili dall'imputato in relazione alla nuova accusa ed, infine, la verifica delle ripercussioni della nuova accusa sulla determinazione della pena.
Ritiene condivisibilmente la Corte barese che, nella vicenda de qua, per gli odierni ricorrenti fosse sufficientemente prevedibile la riqualificazione, operata all'esito del giudizio di secondo grado, dell'addebito doloso, inizialmente formulato nei suoi confronti, in quella colposo. Quanto ai mezzi di prova messi in campo dalla difesa, evidentemente non potevano che essere gli stessi sia a fronte di una imputazione che contemplasse il dolo eventuale che nella ritenuta ipotesi colposa. E non va trascurato che nessun pregiudizio in termini di pena ne è derivato per gli odierni ricorrenti, che si sono visti condannati per l'ipotesi meno grave.
La pronuncia, ad avviso del Collegio, si colloca correttamente nel solco della ricordata giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della sussistenza della violazione lamentata nel primo motivo di ricorso, non è sufficiente qualsiasi modificazione dell'accusa originaria ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato, conseguendone che la violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. non sussiste quando - come nel caso che ci occupa, con un capo di articolazione estremamente articolato- nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza, da intendersi come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni, (così Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 24/09/2012 dep. il 2013, Jovanovic ed altro, Rv. 254648).
Nel caso di specie, come rileva la Corte barese, la riqualificazione poteva reputarsi prevedibile, in quanto la qualificazione del fatto a titolo di lesioni colpose era desumibile dalle stesse dichiarazioni della parte offesa, delle persone informate dei fatti e dagli atti di indagine preliminare acquisiti al fascicolo d'ufficio per la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato.
7. Come si diceva all'inizio, è fondato, il secondo motivo di ricorso.
In proposito, va ricordato che è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità quello secondo cui, per la riforma di una decisione assolutoria, non è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto.
Sin dal 2005 le Sezioni Unite di questa Corte di legittimità hanno precisato che, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. Un. n. 33748 del 12/7/2005, Mannino, Rv. 231679). E nel solco di quella pronuncia si è ribadito che la sentenza di appello di riforma totale del giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005 dep. il 2006, Aglieri ed altro, Rv. 233083).
Questa Corte, negli stessi anni, ha anche precisato che, in tema di impugnazioni, il giudice di appello è libero, nella formazione del suo convincimento, di attribuire alle acquisizioni probatorie il significato e il peso ritenuti giusti e rilevanti ai fini della decisione, con il solo obbligo di spiegare con motivazione immune da vizi le ragioni del suo convincimento, obbligo che, nell'ipotesi di decisione difforme da quella assunta dal giudice di primo grado, impone anche l'adeguata confutazione delle ragioni poste alla base della sentenza riformata (Sez. 4, n. 28583 del 9/6/2005, Baia, Rv. 232441; conf. Sez. 2, n. 746 del 11/11/2005 dep. 11/01/2006, Vagge ed altro, Rv. 232986; Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, Pappalardo, Rv. 242330).
Com'è stato analiticamente ribadito in un recente, condivisibile, arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. il 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556) la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione non può essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma debba fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione conflitto valutativo delle prove. E, ancora di recente, si è ribadito che la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell'incompletezza o della non correttezza ovvero dell'incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa, convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (...) il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha dunque l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti (Sez. 3 n. 19322 del 20/1/2015, Ruggeri, Rv. 263513).
8. Va ricordato, anche, che il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre all'assoluzione deve pervenirsi in tutti quei casi in cui vi sia la semplice "non certezza" - e, dunque, anche il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza (così sez. 6, n. 20656 del 22.11.2011, dep. il 28.5. 2012, De Gennaro ed altro, rv. 252627).
Nello specifico, il principio in ragione del quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto "se l'imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio", formalmente introdotto nell'art. 533 cod. proc. pen., comma 1, dalla L. n. 46 del 2006, "presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l'eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull'affermazione di colpevolezza" (Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066, e n. 4996 del 26/10/2011, dep. il 2012, Abbate ed altro, Rv 251782).
Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado, dunque, ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza e non può, invece, limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato (cfr. Sez. 5, n. 8361 del 17/1/2013, rastegar, Rv. 254638)
9. Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, la Corte territoriale nel provvedimento impugnato non pare fare buon governo degli stessi, con un argomentare che pare prescindere completamente dalle argomentazioni poste dal giudice di primo grado a sostegno della sentenza di assoluzione.
Così, laddove il GUP aveva motivato per lo più sulla ritenuta inattendibilità della versione dell'accaduto fornita dalla persona offesa, il giudice del gravame del merito non ribalta quel giudizio, ma ne sovrappone uno suo, completamente autonomo. 
La Corte barese rileva come, sulla scorta degli atti di indagine acquisiti al fascicolo d'ufficio per la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, fosse emerso essere possibile disattivare il sistema di sicurezza del macchinario utilizzato dalla parte offesa, tramite ponte elettrico. Viene ricordato, infatti, che l'ing. F. della casa produttrice Futura s.r.l. ha precisato come fosse possibile disattivare i sistemi di protezione, cerando un ponte tra microswich e l'impianto, consentendo in ogni caso il funzionamento del macchinario, al fine di realizzare un notevole risparmio dei tempi della lavorazione (in particolare al fine di evitare che, nel corso della lavorazione del legno, si venissero a creare frequenti arresti del macchinario per motivi di sicurezza). E di ciò effettivamente aveva dato conto anche la sentenza di primo grado.
Il giudice di appello ritiene, però - e non dice perché giunge sul punto ad opinare diversamente dal gup- di dare credito alle dichiarazioni rese dalla persona offesa T.S., secondo cui egli aveva bloccato la macchina ed aperto il portellone per la relativa pulizia, quando la stessa venne messa in funzione da S.N..
Soprattutto, però, la Corte non spiega in virtù di quale ragionamento e di quali prove, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza di primo grado (ove si legge che "in realtà la volontaria disattivazione dei sistemi di sicurezza del macchinario è una mera deduzione del PM che, accettando la ricostruzione dei fatto fatta dalla parte civile, inferisce che l'(impossibile) accensione dei macchinario aperto non poteva che essere stata determinata da una precedente manipolazione che attribuisce, tout court, agli imputati perché interessati alla velocizzazione dei tempi di lavoro"), pervenga alla conclusione che "gli imputati, nella loro qualità, per negligenza ed imprudenza, e violando in ogni caso le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, avevano manomesso il microswich e realizzato un ponte elettrico per velocizzare la lavorazione".
Analogamente, a fronte dell'articolata motivazione della sentenza di primo grado che, che alle pagg. 6, 7 e 8 aveva dato conto che le indagini tecniche svolte dallo SPESAL erano pervenute, su basi meramente probabilistiche, a due ipotesi ricostruttive dell'evento, l'una addebitabile alla società costruttrice della macchina, l'altra agli imputati, altrettanto apoditticamente La Corte territoriale afferma che: 1. Non può ritenersi la sussistenza di un difetto di fabbricazione, attese le risultanze dei certificati di collaudo del macchinario e di controllo periodico e le dichiarazioni rese dal tecnico della prevenzione dello Spesal. 2. La manipolazione, quindi, veniva effettuata per il periodo dì lavorazione mentre veniva ripristinato il regolare funzionamento della macchina in occasione dei controlli (ciò desumendosi dal fatto che il tecnico della prevenzione Asl-Ba-Spesal V.V., ha dichiarato come, dopo l'infortunio, lo stato dei luoghi fosse stato modificato). 
Peraltro, a voler accedere per un attimo alla tesi della Corte territoriale della volontaria creazione di un ponte elettrico per disattivare i sistemi di protezione della macchina (che, va ribadito, la sentenza impugnata non spiega da quali prove si ricavi), evidentemente assumendosi il rischio di un incidente a chi vi lavorasse in ragione di una logica di maggiore produttività, appare contraddittorio anche la conclusione cui perviene il giudice del gravame del merito nel ritenere che la condotta degli imputati debba essere punita a titolo di colpa -e non come prospettato in imputazione di dolo eventuale- assumendo mancare la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, che gli imputati si fossero rappresentati la significativa possibilità di verificazione dell'evento e fossero determinati comunque ad agire, anche a costo di cagionarlo come sviluppo collaterale o accidentale, ma comunque preventivamente accettato, della propria azione.
Va aggiunto, infine, che la sentenza impugnata risulta affetta da vizio motivazionale ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., anche per il mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma primo, cod. proc. pen., avendo le Sezioni Unite di questa Corte di legittimità, nel 2016, precisato che lo è la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata disposta la rinnovazione a norma dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen. (Sez. Un., n. 27620 del 28/4/2016, Dasgupta, Rv. 267492).
In quella sentenza, infatti, le SS.UU. ebbero a precisare che, al di fuori dei casi di inammissibilità del ricorso, qualora, come nel caso che ci occupa, il ricorrente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell'art. 6, par. 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata.
10. Va ricordato che il giudice di rinvio, ancorché sia quello civile in ragione dell'intervenuta prescrizione del reato, sarà tenuto a rivalutare la sussistenza o meno della responsabilità degli odierni ricorrenti secondo i parametri del diritto penale e non facendo applicazione delle regole proprie del diritto civile (vedasi questa Sez. 4, n. 45786 del 11/10/2016, Assaiante, Rv. 268517). Ciò in quanto, poiché l'azione civile é esercitata nel processo penale, il suo buon esito presuppone l'accertamento della sussistenza del reato. 
A tal fine, detto giudice potrà, ove lo ritenga opportuno, esercitare i poteri officiosi di cui al combinato disposto degli artt. 257 e 359 cod. proc. civ., considerato che vi é stata assoluzione degli imputati in primo grado e tenuto conto dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo in varie pronunce (Dan v. Moldavia, Corte Edu, 5 luglio 2011; Manolachi v. Romania, Corte EDI), III sez., 5 marzo 2.013; Flueras v. Romania, Corte Edu, III sez., 9 aprile 2013; Corte Edu, III Sez., seni. 4 giugno 2013; Hanu v. Romania, rie. 10890/04; più recentemente Moinescu v. Romania, Corte Edu, III sez. 15.9.2015; Nitulescu v. Romania, Corte Edu, III sez. 22.9.2015) a proposito del ribaltamento dell'assoluzione fondato sulla rivalutazione cartolare della attendibilità delle testimonianze decisive.
Ritiene il Collegio che il giudice del rinvio debba anche tenere conto dei recenti pronunciamenti di cui alle sentenze delle Sezioni Unite Penali di questa Corte, in particolare della richiamata sentenza Dasgupta del 2016 e della Patalano del 2017.
Nel 2016 le Sezioni Unite, condivisibilmente, rilevarono, in primo luogo, che la previsione contenuta nell'art.6, par.3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell'imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all'esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, ai sensi dell'art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. Un., n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487).
Nella stessa pronuncia venne precisato che la necessità per il giudice dell'appello di procedere, anche d'ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante e vale: a) per il testimone "puro"; b) per quello c.d. assistito; c) per il coimputato in procedimento connesso; d) per il coimputato nello stesso procedimento (fermo restando che, in questi ultimi due casi, l'eventuale rifiuto di sottoporsi all'esame non potrà comportare conseguenze pregiudizievoli per l'imputato); e) per il soggetto "vulnerabile" (salva la valutazione del giudice sulla indefettibile necessità di sottoporre il soggetto debole, sia pure con le dovute cautele, ad un ulteriore stress); f) per l'imputato che abbia reso dichiarazioni "in causa propria", dal cui rifiuto non potrebbe, tuttavia, conseguire alcuna preclusione all'accoglimento della impugnazione. (Sez. Un., n. 27620 del 28/04/2016, dasgupta, Rv. 267488).
Nel solco di quella pronuncia, venne successivamente affermato che il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio (Sez. 6, n. 52544 del 7/10/2016, Morri, Rv. 268579).
Alla inequivoca presa di posizione delle Sezioni unite Dasgupta si era tuttavia opposto un altro orientamento, sia precedente (v. Sez. 2, n. 33690 del 23/05/2014, De Silva, Rv. 260147; Sez. 2, n. 40254 del 12/06/2014, Avallone, Rv. 260442; Sez. 2, n. 32655 del 15/07/2014, Zanoni, Rv. 261851; Sez. 3, n. 11658 del 24/02/2015, P, Rv. 262985; Sez. 3, n. 38786 del 23/06/ 2015, U., Rv. 264793) sia successivo (Sez. 3, n. 43242 del 12/07/2016, C., Rv. 267626), che affermava, invece, che il giudice di appello, qualora il primo grado si fosse svolto con rito abbreviato non condizionato, non fosse tenuto alla rinnovazione dell'istruzione.
Le Sezioni Unite (Sez. Un. n. 18620 del 14/4/2017, Patalano, non ancora massimata) sono tornate, pertanto, ad interessarsi della materia ribadendo i due principi già affermati dalla sentenza dasgupta, che il Collegio condivide, secondo cui è affetta da vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancato rispetto del canone di giudizio "al di là di ogni ragionevole dubbio", di cui all'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell'imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all'esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all'esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni. E ad analoghe conclusioni deve, secondo le SS.UU. Patalano, pervenirsi nel caso di riforma della sentenza assolutoria agli effetti civili, emessa all'esito di giudizio abbreviato, a seguito di accoglimento dell'appello proposto dalla parte civile.
Perché, insomma, l'overturning si concretizzi davvero in una motivazione rafforzata, che raggiunga lo scopo del convincimento "oltre ogni ragionevole dubbio" - secondo il condivisibile dictum delle Ss.UU. Patalano e prima ancora della Dasgupta- non si può fare a meno dell'oralità nella riassunzione delle prove rivelatesi decisive. La motivazione risulterebbe altrimenti affetta dal vizio di aporia logica, derivante dal fatto che il ribaltamento della pronuncia assolutoria, operato sulla scorta di una valutazione cartolare del materiale probatorio a disposizione del primo giudice, contiene in sé l'implicito dubbio ragionevole determinato dall'avvenuta adozione di decisioni contrastanti. Invero, anche nell'ambito del giudizio abbreviato - si legge ancora nella sentenza 18620/2017- l'imperativo della motivazione rafforzata è destinato ad operare in tutta la sua ampiezza attraverso l'effettuazione obbligatoria di una istruttoria - quantunque non espletata nel giudizio di primo grado - e con l'assunzione per la prima volta in appello di una prova dichiarativa decisiva.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili e rinvia al giudice civile competente per valore in grado d'appello per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma l'8 giugno 2017