Cassazione Penale, Sez. 4, 23 luglio 2018, n. 34788 - Amputazione di una gamba durante l'attività di movimentazione dei rifiuti. Rischio interferenziale e responsabilità di committente e appaltatore


 

 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza 20/03/2018

 

 

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Venezia il 9 febbraio 2017, in parziale riforma della sentenza pronunziata il 1° luglio 2014, all'esito del dibattimento, dal Tribunale di Padova, appellata dagli imputati A.M. e M.L., che erano stati riconosciuti colpevoli di lesioni colpose gravissime in danno di R.S., con violazione della disciplina antinfortunistica (capo A), e - il solo - A.M. anche della contravvenzione di cui agli artt. 71, comma 4, lett. a), nn. 1 e 2, ed 87, comma 2, lett. c), del d. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (capo B), fatti entrambi commessi il 16 marzo 2010, ha dichiarato estinta per prescrizione la contravvenzione di cui al capo B) e, riconosciuta agli imputati l'attenuante del risarcimento del danno di cui all'art. 62, n. 6, cod. pen., ha rideterminato, riducendola, la pena detentiva inflitta, già condizionalmente sospesa; con conferma nel resto.
2. La vicenda trae origine da un grave infortunio sul lavoro occorso il 16 marzo 2010, infortunio che i Giudici di merito hanno ricostruito nei seguenti termini.
La ditta S.E.S.A. s.p.a., il cui amministratore delegato era A.M., e la società cooperativa "Work Cave - Ecologia - Trasporti", il cui amministratore unico era M.L., avevano stipulato un contratto, definito dalle parti "contratto di appalto", con la prima in posizione di appaltante-committente e la seconda in posizione di appaltatrice-fornitrice, così che la "Work Cave" svolgeva per conto della S.E.S.A. e all'interno dei capannoni della S.E.S.A. attività di movimentazione di "rifiuti verdi" attraverso l'impiego di pale meccaniche. Infatti la S.E.S.A. si occupava di compostaggio di rifiuti vegetali, quali rami ed erba, che dovevano essere preliminarmente sminuzzati e, quindi, trattati. Ebbene, nell'ambito del riferito rapporto contrattuale, era necessario che mediante macchine operatrici - pale meccaniche - si caricassero i rifiuti verdi sopra un un nastro trasportatore che conducesse poi i materiali dentro un macchinario idoneo a sminuzzare gli stessi; l'infortunato R.S. era un operaio detto in gergo "palista", cioè addetto alla conduzione della pala meccanica, dipendente della società "Work Cave".
La mattina del 16 marzo 2010 è accaduto che, a causa di un sovraccarico del materiale vegetale, il nastro trasportatore inclinato si è bloccato.
Chiamati, dunque, telefonicamente da parte del preposto L.M. (coimputato nel medesimo processo, la cui posizione è stata separatamente definita con applicazione di pena su richiesta, non presente in azienda quella mattina) i due manutentori della S.E.S.A. che, secondo previsione generale, dovevano occuparsi di risolvere il problema e avuta la presenza fisica degli stessi, cioè il manutentore meccanico T.H. e il manutentore elettrico M.M., essi si sono messi all'opera, di fatto coadiuvati da un altro operaio, MI.ME., "palista" della "Work Cave" come R.S., nel tentare, in una prima fase, di rimuovere manualmente l'intasamento di fogliame e residui vegetali adoperando badili e forche, anche salendo in piedi sopra il nastro. Non essendo riuscito il tentativo, si è fatto ricorso, per rimuovere il materiale, ad un meccanismo detto "merlo", in pratica una pala meccanica, o "muletto", provvisto di una staffa, azionata dal manutentore T.H., riuscendo infine nell'impresa.
In questa seconda fase di pulitura - come in particolare ricostruito dalla Corte di appello, in parziale divergenza sul punto dal Tribunale (pp. XVI-XVIII della sentenza impugnata) - R.S. è rimasto inerte, in piedi, circa due metri alla destra di T.H., il quale agiva; risolto, dunque, grazie al mezzo meccanico, l'intasamento causato dai vegetali, T.H., tramite MI.ME., che era in prossimità della porta di emergenza, ha dato l'ordine di riavvio dell'energia elettrica al manutentore elettrico M.M., che stava fuori dal capannone, in prossimità del quadro comandi, tramite MI.ME., che fungeva in pratica da "megafono"; e proprio in quel momento R.S., forse volendo ancora rendersi utile, è salito in piedi sopra i rulli del trasportatore (nastro inclinato), che, ripreso a funzionare, ha attirato negli ingranaggi la gamba sinistra del malcapitato, con conseguente mutilazione dell'arto.
E' stato accertato che, in caso di avvio manuale, come accaduto nel caso di specie, non era previsto nessun segnale acustico di avviso.
E' emerso che il macchinario per triturare i resti vegetali era composto da una macchina principale, detta "crambo 6.000", in pratica un grosso biotrituratore, composto da una tramoggia di caricamento, da alcuni rulli per sminuzzare il materiale, e da un nastro orizzontale di trascinamento; il nastro orizzontale proseguiva collegandosi ad un nastro trasportatore inclinato; mentre la parte centrale, cioè il "crambo", nella sua complessità, era un macchinario acquistato sul mercato (dalla ditta Competech), provvisto di regolare marchiature CE e corrispondente alla normativa macchine, invece il nastro inclinato utilizzato per far proseguire i materiali dal nastro orizzontale facente parte del "crambo", non era stato acquistato ma era stato autonomamente costruito nell'officina meccanica dalla S.E.S.A. e non era provvisto né di marchiatura CE né di dichiarazione di conformità né di manuale di uso e di manutenzione né di valutazione del rischio. E si è accertato anche che, in realtà, tale nastro era stato in precedenza collocato sul piazzale esterno della ditta ed utilizzato per altro scopo e che solo da poco tempo era stato portato all'interno del capannone ed unito al "crambo".
I Giudici di merito hanno considerato pacifico, oltre che documentato tramite fotografie, che il nastro trasportatore inclinato è quello che ha determinato il sinistro e che esso era privo di protezioni, protezioni in precedenza presenti ma che poi erano state rimosse.
Il descritto assemblaggio di macchine, ad avviso del tecnico per la prevenzione esaminato in primo grado, dr. Gianfranco A., con valutazione condivisa dai Giudici di merito, aveva creato un macchinario complesso, frutto dell'unione di due distinti macchinari, irregolare perché non rispettava il regolamento macchine di cui al d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459, quantomeno per la parte artigianalmente costruita ed aggiunta, come si è detto, al corpo centrale (valutazione questa, peraltro, non condivisa dal consulente tecnico dell'imputato A.M., secondo il quale, invece, il manuale di uso e di manutenzione del "crambo" prevedeva l'uso in accoppiamento ad un nastro che integrasse la macchina e non sarebbe stato necessario, dunque, un ulteriore manuale).
In ogni caso, è emerso che l'impianto non aveva barriere (in passato erano presenti delle reti grigliate di circa 100 X 180 centimetri ma da tempo eliminate, pur rimanendo visibili nelle foto scattate dagli ispettori della A.S.L. le staffe di attacco) né altri sistemi di protezione e che erano stati disattivati i micro-interruttori di sicurezza associati alle barriere mobili della tramoggia.
3. Ricorrono tempestivamente per la cassazione della sentenza gli imputati, tramite distinti ricorsi a cura di diversi difensori, affidandosi a plurimi motivi con i quali denunziano violazione di legge e difetto motivazionale, anche sotto il profilo del - dedotto - travisamento delle prove. Si espone il contenuto separatamente.
4. Si prenda le mosse dal ricorso nell'interesse dell'ing. A.M., amministratore delegato della S.E.S.A.
4.1. Con il primo motivo A.M. censura promiscuamente violazione di legge (artt. 521-522 cod. proc. pen.) e difetto motivazionale per apparenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della giustificazione sotto il profilo della mancata corrispondenza tra accusa e sentenza.
Premesso che nell'editto si contesta all'imputato, amministratore delegato della s.p.a. S.E.S.A., un unico profilo di colpa specifica, per avere cioè messo a disposizione dei lavoratori una macchina priva dei requisiti previsti dalla cosiddetta "direttiva macchine" (art. 23 del d. lgs. n. 81 del 2008, capo A), si denunzia violazione di legge nell'avere disatteso nella sentenza impugnata il motivo di appello incentrato sulla condanna che sarebbe concretamente avvenuta per profili di colpa nuovi e diversi dall'unico profilo contestato, e cioè:
a) per avere tollerato una prassi secondo cui i dipendenti dell'appaltatore "Work Cave", meri operai conduttori di macchine, partecipavano all'attività di manutenzione che spettava, invece, ad una squadra di tecnici a ciò appositamente formati, dipendenti della ditta appaltante S.E.S.A.;
b) per avere tollerato che il preposto L.M. (separatamente giudicato e destinatario di sentenza di applicazione di pena ex art. 444 cod. proc. pen.) si allontanasse dal luogo di lavoro.
4.1.1. Al riguardo si evidenzia, in primo luogo, che la violazione dell'art. 23 del d. lgs. n. 81 del 2008 (capo A) è, in realtà, un reato proprio dei costruttori e fabbricanti, che sarebbe, dunque, inapplicabile nel caso di specie.
4.1.2. Inoltre si sottolinea criticamente sia che la contestazione elevata dal P.M. è commissiva, mentre i profili di colpa individuati dai Giudici di merito sono omissivi, sia, e soprattutto, che, mancando nella contestazione originaria il profilo di colpa generica, risulterebbe violato il principio di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, dovendosi, in conseguenza, secondo il ricorrente, fare applicazione del principio affermato dalla Corte di legittimità, secondo cui «In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell'evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un'ipotesi differente. Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste. È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto peraltro che la difesa avesse avuto la possibilità di interloquire su tutti i profili di colpa oggetto della valutazione del giudice di merito)» (Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237469).
4.1.3. Infine, si attribuirebbe anche a A.M. - anche qui, si stima, illegittimamente - una non corretta valutazione dei rischi (pp. 14-15 della sentenza impugnata, in relazione alla p. 15 della sentenza del Tribunale), contestazione che al capo B) della rubrica è addebitata al solo M.L..
4.2. Con il secondo motivo si contesta violazione dell'art. 70 del d. lgs. n. 81 del 2008 e, nel contempo, vizio motivazionale, anche sotto il profilo della mancanza di giustificazione, in relazione al rilevato profilo di colpa attinente alla carenza nella valutazione dei rischi connessi all'utilizzo della sminuzzatrice. 
Il ricorrente sottopone le valutazioni svolte alle pp. XIV e XXI-XXV della sentenza impugnata circa l'inadeguatezza nella valutazione dei rischi connessi all'impiego dello sminuzzatore a severa censura, sotto due profili:
le critiche dei Giudici di merito (assenza di barriere di protezione etc.) sarebbero calibrate sull'ordinaria attività lavorativa, mentre si stava svolgendo in quel momento una vera e propria fase di manutenzione, di tipo straordinario, quando cioè è normale e fisiologico che le barriere vengano rimosse e che parti mobili pericolose possano entrare in contatto con gli arti o con il corpo degli operatori;
le considerazioni della Corte di appello sarebbero meramente assertive e prescinderebbero dall'effettivo confronto con la documentazione prodotta dalla difesa nel corso dell'istruttoria (ed allegata al ricorso) da cui emergerebbe tutta una serie di avvertimenti presenti nel documento di valutazione del rischio relativi proprio ai pericoli di impigliamento, di schiacciamento e di ferimento.
Si sarebbe, dunque, ad avviso del ricorrente, in presenza di una vero e proprio travisamento.
4.3. Il motivo ulteriore è incentrato sulla - ritenuta - violazione dell'art. 40 cod. pen. che disciplina il nesso di causa e, nel contempo, su - preteso - difetto motivazionale.
Premette il ricorrente che i Giudici di appello hanno ritenuto di confermare la decisione del Tribunale in punto di nesso di causalità sulla base di tre considerazioni che si richiamano (pp. XXXII-XXIII):
a) la predisposizione di protezioni al nastro trasportatore avrebbe impedito alla persona offesa di salirci sopra ed avrebbe, quindi, evitato il sinistro;
b) inoltre, ha ragione la difesa nell'osservare che la necessità di manutenzione, cioè pulizia del nastro, avrebbe comunque comportato la necessaria rimozione delle protezioni ma solo limitatamente a quella parte del disinceppamento ormai completata;
c) infine, anche un'adeguata informazione sul rischio specifico connesso al pericolo costituito dal nastro privo di protezione e sul necessario coordinamento negli interventi di manutenzione e sul ruolo direttivo durante la manutenzione avrebbe sensibilizzato adeguatamente l'attenzione della p.o. ai fattori di rischio.
Ciò posto, la decisione sarebbe illogica e viziata da travisamento probatorio, per le seguenti ragioni:
A) sotto il primo profilo, ribadiscono i ricorrenti che la rimozione delle protezioni era indispensabile per l'effettuazione del disintasamento con il mezzo meccanico, aggiungendo che, una volta effettuata la pulizia, si sarebbe dovuto procedere alla verifica funzionale a protezioni ancora rimosse, mentre la Corte di merito errerebbe nel ragionare come se al momento del sinistro l'intervento di manutenzione si fosse concluso quando, invece, dall'istruttoria (richiamate le dichiarazioni di T.H.) è emerso che esso era ancora in corso (circostanza peraltro espressamente affermata alle pp. XIV-XV e VIII della sentenza impugnata);
B) la possibilità di togliere solo parzialmente le barriere durante la complessiva attività di pulitura è motivatamente esclusa dal consulente tecnico della difesa, ing. Pierluigi Z. (la cui relazione si allega al ricorso);
C) il passaggio motivazionale - che si è in precedenza riferito - con oggetto un possibile inadempimento degli obblighi di formazione e/o di informazione ai lavoratori e/o di loro addestramento non trova riscontro né nel capo di imputazione, che non contiene una siffatta contestazione, né nell'istruttoria svolta; non senza considerare che, essendo l'infortunato dipendente della "Work Cave" e non della S.E.S.A. s.p.a., tale dovere - si osserva - non incombeva sull'ing. A.M. e che, in ogni caso, l'istruttoria documentale ha dimostrato che vi fu adeguata formazione da parte di tale ditta al dipendente, sicché si profilerebbe sul punto un altro travisamento probatorio.
Infine, plurime deposizioni puntualmente richiamate nel ricorso (ed allegate allo stesso) dimostrerebbero che era ben chiaro ai lavoratori dipendenti che l'attività di manutenzione era di competenza esclusiva della squadra di manutentori.
4.4. Con il quarto motivo si denunzia violazione di legge (art. 41 cod. pen.) e difetto motivazionale circa la condotta eccentrica ed esorbitante del lavoratore.
L'appello della difesa sullo specifico punto è stato superato dalla Corte di merito attraverso valutazioni (pp. XXXIV-XXXV) che il ricorrente stima non condivisibili e, anzi, manifestamente illogiche e fondate su di un vero e proprio travisamento probatorio. Tali valutazioni sono le seguenti:
a) l'attività cui era intento R.S. quando si è infortunato non era estranea alle sue prestazioni lavorative, in quanto, seppure con il ruolo di gregario ed in quel momento di spettatore, partecipava ad alcune operazioni complementari alle mansioni assegnate;
b) R.S. ha posto in essere una condotta colposa e non dolosa e, quindi, non imprevedibile;
c) la condotta colposa, imprudente, imperita e/o negligente del lavoratore, è prevedibile in quanto fa parte del rischio connesso all'attività lavorativa il fatto che il lavoratore non sia all'altezza della situazione.
In realtà, ad avviso del ricorrente, l'istruttoria svolta avrebbe nettamente smentito che la vittima stesse svolgendo operazioni in qualche maniera anche solo lontanamente complementari alle sue mansioni: infatti (come ampiamente emerso da plurimi passaggi dell'istruttoria, puntualmente richiamati, e come, almeno in parte, espressamente riconosciuto nella motivazione della sentenza impugnata) si stava svolgendo un intervento di manutenzione che non era in alcun modo di competenza di R.S., che era un dipendente della "Work Cave" con compiti di conducente di una pala meccanica per caricare e scaricare materiali (appunto, "palista"), addirittura addetto ad un diverso impianto di sminuzzamento, e per contratto i dipendenti della "Work Cave" non dovevano interferire con quelli della S.E.S.A.; la manutenzione delle macchine era di esclusiva spettanza della squadra di manutentori della S.E.S.A., non dovendo interferire i "palisti".
Ne consegue che, ad avviso del ricorrente, «la persona offesa, pur in presenza di un divieto espresso di partecipare agli interventi di manutenzione, contravvenì alla precisa disposizione dettata, anche in forma scritta, dalla funzione datoriale sul punto e salì sulla base del nastro trasportatore senza che nessuno gli avesse chiesto di fare nulla. Il cennato travisamento probatorio ha condotta la Corte ad un'erronea applicazione dell'art. 41, comma 2, cod. pen. laddove si è escluso che nel caso di specie la condotta del lavoratore abbia interrotto il nesso causale tra il comportamento asseritamente antidoveroso del datore di lavoro e l'evento infortunio» (così alla p. 29 del ricorso).
4.5. Mediante il quinto motivo si lamenta violazione di legge (art. 43 cod. pen.) e difetto motivazionale circa la ritenuta configurabilità dell'elemento psicologico del reato in punto di evitabilità dell'evento.
Ad avviso del ricorrente, le medesime considerazioni critiche già svolte a proposito della necessità di rimuovere le protezioni onde procedere alla manutenzione straordinaria per rimuovere l'intasamento che si era creato, fase di manutenzione che non era terminata poiché si stava verificando l'efficacia dell'intervento di disinceppamento, valgono a dimostrare l'illogicità e la contraddittorietà delle valutazioni della Corte di appello a proposito della evitabilità dell'evento (p. XXXVIIII della sentenza impugnata) poiché la condotta alternativa lecita prospettata non si concilia con la fase di manutenzione che era, appunto, in corso.
4.6. Gli ultimi due motivi di impugnazione hanno ad oggetto il trattamento sanzionatorio.
4.6.1. In primo luogo, si denunzia mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione e sostanziale omissione di pronunzia sul tema del trattamento sanzionatorio, che si stima eccessivo, avendo la Corte territoriale respinto (p. XXXIX) le doglianze difensive sul punto trascurando, però, gli argomenti difensivi svolti al riguardo nell'appello, incentrato sulla incensuratezza dell'imputato, sulla riscontrata presenza di disposizioni organizzative di sicurezza di alto livello e sulla dinamica dell'infortunio, causato dalla violazione da parte del preposto e dei lavoratori delle adeguate direttive datoriali sulla sicurezza, affermando che gli stessi erano tutti già stati valutati dal Tribunale, che, invece, aveva sottolineato il diverso profilo della imprudenza della vittima concausativa dell'evento (p. 16 della sentenza di primo grado).
4.6.2. Si censura, infine, l'erronea applicazione degli artt. 53 e 58 delle legge 24 novembre 1981, n. 689, e 133 e 163-164 cod. pen. in relazione al diniego della invocata sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria, avendo illegittimamente - si stima - la Corte territoriale ritenuto che «la prospettiva della risocializzazione preclude, tenuto conto della gravità dei fatti, la sostituzione della reclusione con la pena pecuniaria: si ritiene necessario comminare pena con significativo rilievo afflittivo, pur condizionalmente sospesa, per indirizzare gli imputati ad una effettiva presa di coscienza dei doveri loro incombenti come imprenditori in funzione della sicurezza dei lavoratori loro dipendenti» (così alla p. XXXIX della sentenza impugnata).
La ragione del diniego, cioè la riferita «prospettiva della risocializzazione», infatti, esulerebbe dai criteri indicati dall'art. 133 cod. pen., i soli ai quali, ai sensi dell'art. 58 della legge n. 689 del 1981, come peraltro interpretato da costante giurisprudenza di legittimità, il Giudice si deve attenere nella scelta sulla sostituzione.
Si sottolinea anche la - ritenuta - ingiustificata disparità di trattamento con l'imputato L.M., il quale con la sentenza di applicazione di pena il patteggiamento ha ottenuto la sostituzione della pena detentiva in pecuniaria.
Inoltre, essendo pacifico che la sospensione condizionale della pena, già concessa, mira proprio alla reintegrazione sociale del condannato, la Corte di appello «attribuendo [...] all'asserita necessità di risocializzazione dell'imputato effetto preclusivo dell'invocata applicazione della pena sostitutiva, [...] oltre ad incorrere nel già cennato error iuris, giunge persino ad una fallace interpretazione della ratio sottesa al beneficio della sospensione condizionale della pena, la cui concessione si fonda proprio nella prospettiva di consentire un'efficace ed autentica reintegrazione sociale del condannato» (p. 3 del ricorso).
Infine, nel negare la conversione i Giudici di merito, ad avviso del ricorrente, avrebbero interpretato ed applicato erroneamente l'art. 164 cod. pen., nel senso cioè che «solo ¡'irrogazione di una pena detentiva, seppure condizionalmente sospesa, potrebbe esercitare nel prevenuto un adeguato effetto deterrente rispetto alla propensione a commettere in futuro analoghe condotte criminose» (p. 40 del ricorso), mentre, al contrario, il già concesso beneficio si fondava sull'avvenuto accertamento che l'imputato ha preso conoscenza della necessità per il futuro di astenersi dal compiere ulteriori reati. 
4.7.Infine, con memoria depositata il 10 marzo 2018 il difensore di A.M. ha insistito nell'accoglimento dei motivi di ricorso, con particolare riferimento al primo (riassunto sub n. 4.1. del "ritenuto in fatto") specialmente sottolineando che la Corte di appello, nel trattare «unitariamente le contestazioni mosse ai due imputati M.L. e A.M., affermando la loro responsabilità in ordine a tutti i fatti imputati all'uno e all'altro, nonostante nel capo di imputazione ai due fossero contestate condotte antidoverose significativamente diverse e individuali (la violazione dell'art. 23 D. Lgs. 81/2008, come detto, per il A.M., la violazione dell'art. 28 D. Lgs. 81/2008 per il M.L.[,] trattando appunto unitariamente la posizione dei due imputati [..., in realtà, ad avviso del ricorrente,] ha introdotto nel processo di merito, per la prima volta, un profilo contestativo di novità, ritenendo nel caso di specie applicabile l'istituto della cooperazione colposa. Il riferimento alla cooperazione colposa nella sentenza d'appello è, invero, chiarissima e non eguivocabile: "nel caso in esame guindi è integrato l'istituto della cooperazione colposa di cui all'art. 133 c.p. tra le condotte degli imputati A.M. e M.L." (cfr. la sentenza impugnata a pag. 27 o XXXI). Ora è indubitabile che - nella altrettanto chiara ed ineguivocabile sul punto - prospettiva del capo di imputazione, il reato di cui all'art. 590 cod. pen. è stato addebitato a ciascuno dei due imputati individualmente. La Procura della Repubblica [...], infatti, ha senz'altro contestato ai due imputati distinte condotte antidoverose tra loro ritenute - in tesi d'accusa - autonomamente concorrenti nella causazione dell'evento-infortunio, secondo lo schema del concorso di cause colpose indipendenti di cui all'art. 41 cod. pen. E non v'è dubbio che nella sentenza di primo grado il Tribunale di Padova abbia aderito a siffatta impostazione accusatoria, ritenendo che le condotte ascritte nel capo di imputazione rispettivamente al signor A.M. e al signor M.L. fossero ciascuna autonomamente rilevante sotto il profilo causale [...] Orbene, la Corte d'Appello veneziana, sussumendo il caso di specie, per la prima volta, nell'alveo della cooperazione colposa di cui all'art. 113 cod. pen., è incorsa nella palese violazione del combinato disposto degli art. 521 e 522 cod. proc. pen. [,... infatti] la disciplina della cooperazione colposa esercita una funzione estensiva dell'incriminazione rispetto all'ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti [...e] Proprio per tale sua efficacia estensiva dell'incriminazione, nel caso in cui risulti applicabile ad una determinata fattispecie concreta una cooperazione colposa non contestata nel capo di imputazione, si determina un mutamento del fatto tale da pervenite ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 12/11/2009, n. 48318» (così alle pp. 3-5 dei "motivi nuovi"). 
Conseguirebbe la ritenuta nullità che si denunzia - si afferma tempestivamente, cioè con l'atto di impugnazione - della sentenza di secondo grado.
5. Il ricorso nell'interesse di M.L., amministratore unico della società "Work Cave" è articolato in due motivi.
5.1. Con il primo motivo si affronta il tema, comune alla difesa di A.M., della violazione degli artt. 521-522 cod. proc. pen. per denunziata difformità tra contestazione e sentenza, quanto alla sussistenza del nesso di causalità tra l'azione colposa ascritta a M.L. e l'evento lesivo occorso a R.S..
Mentre il capo di accusa e la concreta istruttoria fanno riferimento ad un concorso di cause indipendenti, invece, la Corte di appello giunge, con un passaggio che il ricorrente definisce un vero e proprio «artifizio giuridico, illegittimo, per poter mantenere l'esito condannatorio» (cosi a p. 7 del ricorso; v. anche p. 3), a sussumere espressamente la vicenda nell'alveo della cooperazione colposa di cui all'art. 113 cod. pen. che si sarebbe realizzata tra A.M. e M.L., così - ma si stima illegittimamente - mutando la natura e i caratteri essenziali del fatto, con conseguente nullità per lesione del diritto di difesa.
Si richiama al riguardo il precedente di legittimità di Sez. 4, n. 48318 del 12/11/2009, P.C. in proc. Gigli e altri, Rv. 245737.
Si censura, inoltre, la sentenza per avere esteso indebitamente a Leverato un profilo di colpa esclusivamente relativo a A.M., cioè la omessa predisposizione di protezioni al nastro trasportatore inclinato (pp. 28-29 della sentenza impugnata), non potendo - si assume da parte del ricorrente (p. 5 dell'impugnazione) - M.L., amministratore unico della "Work Cave", conoscere dell'assenza delle protezioni necessarie sulla macchina assemblata da S.E.S.A.
La mancanza di idonea influenza causale da parte di L. si trarrebbe anche dal passaggio motivazionale (p. 29 della sentenza impugnata) ove si evidenzia che «una adeguata informazione sul rischio specifico [...] avrebbe sensibilizzato adeguatamente l'attenzione della p.o. che avrebbe prestato attenzione al pericolo e al ruolo direttivo di T.H.», ove la terminologia adoperata ("sensibilizzazione") dai decidenti, che non ha certo significato di valenza impeditiva, dimostrerebbe, in realtà, l'assenza di ogni apporto causale nel senso postulato dall'art. 41 cod. pen.
5.2. Con il secondo motivo di ricorso M.L. denunzia erronea applicazione degli artt. 43 cod. pen. e 26 e 28 d. lgs. n. 81 del 2008 e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'estensione e all'onere dell'obbligo di valutazione del rischio in capo al datore di lavoro della "Work Cave".
La Corte di appello tenta di rinvenire, ad avviso del ricorrente, margini di responsabilità, pur in assenza di fondamento, anche in capo a M.L., per avere effettuato una valutazione dei rischi, anche di tipo interferenziale, che si ritiene generica ed inadeguata al caso concreto, soprattutto per la mancanza di qualsiasi riferimento alla presenza del nastro trasportatore privo di protezioni ed alla necessità che durante le operazioni di sblocco dell'impianto gli operatori restino a distanza dagli organi lavoratori privi di protezione: ciò significherebbe che è stata ritenuta oggetto di non idonea valutazione non qualsiasi categoria di rischio ma soltanto quella concernente le interazioni con il macchinario ed i rapporti con gli altri lavoratori che agivano dentro il medesimo stabilimento.
Tuttavia - assume il ricorrente - M.L., legale rappresentante della "Work Cave", non era obbligato a predisporre un documento di valutazione dei rischi che tenesse conto anche dei rischi specifici dei macchinari della ditta S.E.S.A. ed all'interazione con essi, anche in considerazione del fatto che i macchinari erano nei locali della ditta S.E.S.A. e che M.L. era privo delle conoscenze del macchinario, peraltro risultato essere un assemblaggio tra un macchinario in commercio ed un pezzo, non marcato CE, auto-prodotto dalla S.E.S.A.
In realtà - si sostiene - fornendo M.L. i propri lavoratori dipendenti ad aziende terze per lo svolgimento di mansioni sempre diverse, sarebbe inesigibile la predisposizione di un documento di valutazione dei rischi comprensivo dell'analisi di ogni macchinario di qualsiasi realtà aziendale cui sono destinate le maestranze.
Ad avviso del ricorrente, dunque, «l'unica soluzione coerente con la ratio e il dettato normativo dell'art. 28, co. II, lett. a) D.Lgs. 81/2008 è che i rischi legati alle interazioni con il macchinario, con il personale e con le procedure operative di S.E.S.A. dovessero essere valutati da A.M. nel proprio D.V.R. L'unico che avrebbe avuto le conoscenze e competenze tecniche per adempiere efficacemente all'obbligo in parola» (così alla p. 13 del ricorso).
In ogni caso, si sottolinea che il tipo di rischio in questione, derivante dalle interazioni tra i lavoratori "Work Cave" e le macchine o gli operatori di S.E.S.A., dunque di tipo interferenziale, non è disciplinato dall'art. 26 ma dall'art. 28 del d. lgs. n. 81 del 2008, con la conseguenza, peraltro oggetto di espresso accordo contrattuale (par. n. 7.3. del contratto di fornitura stipulato tra le parti), che esso incomberebbe unicamente al committente, cioè alla società S.E.S.A., non già a M.L..

 

Diritto

 


1. Va premesso che il reato non è prescritto (infatti: fatto 16 marzo 2010 + sette anni e sei mesi = 16 settembre 2017 + 11 mesi di sospensione per rinvìi chiesti dalla difesa = 16 agosto 2018).
Ciò posto, i ricorsi sono entrambi infondati e devono essere rigettati.
2. In relazione alla posizione A.M., amministratore delegato della S.E.S.A. s.p.a., rileva il Collegio quanto segue.
2.1. Sub n. 1. Il primo motivo di ricorso è articolato in tre aspetti, che si affrontano separatamente.
2.1.1. Quanto al rilievo che la violazione dell'art. 23 del d. lgs. n. 81 del 2008 (capo A) sarebbe, in realtà, un reato proprio dei costruttori e fabbricanti, si osserva che, come accertato dai Giudici di merito, parte del macchinario complesso, formato da sminuzzatrice, tramoggia e nastro trasportatore, cioè proprio quest'ultimo, era stata costruita proprio dalla S.E.S.A.
2.1.2. Quanto alla ulteriore doglianza svolta nel primo motivo di ricorso nell'interesse di A.M., si prende atto che, in effetti, è (astrattamente) corretto il principio richiamato nel ricorso (p. 5), secondo cui «In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell'evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un'ipotesi differente. Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste. È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto peraltro che la difesa avesse avuto la possibilità di interloquire su tutti i profili di colpa oggetto della valutazione del giudice di merito)» (Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237469).
Nello stesso senso invocato dal ricorrente si rinvengono, infatti, plurimi precedenti di legittimità, tra i quali:
Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902, secondo cui «In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l'omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori)»;
Sez. 4, n. 38819 del 16/09/2008, Tomietto, non mass., nella cui motivazione, al punto n. 3.1. dei "motivi della decisione, pp. 4-6, si legge che - condivisibilmente - «Questa Corte ha [...] già avuto modo di affermare (cfr., ex plurimis, Cass. I, 23 ottobre 1997, Geremia, RV 209136; Cass. IV, 6 maggio 1994, p.m. in c. Crosara, Rv 208556; Cass. 4, 6 maggio 1994, Cortese, Rv 199692) che la violazione del suddetto principio non sussiste se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altre parole, riferimento alla colpa generica).
È consentito, dunque, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.
Non sussiste violazione del principio anzidetto neppure qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati, come nel caso di specie, elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell'Imputato per un'ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata ma rientrante nella colpa generica. Anche in tal caso, infatti, il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall'indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (in tal senso v. Cass. IV, 8 febbraio 1996, Bonetti, Rv 205266)»;
inoltre, Sez. 4, n. 35666 del 19/06/2007, Lanzellotti, Rv. 237469, secondo cui «In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell'evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un'ipotesi differente. Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste. È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto peraltro che la difesa avesse avuto la possibilità di interloquire su tutti i profili di colpa oggetto della valutazione del giudice di merito)»]
ancora, Sez. 4, ord. n. 38818 del 04/05/2005, De Bona, Rv. 232427, per cui «Nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo d'imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l'aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati non vale a realizzare una diversità o mutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione. Difatti, il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'Imputato globalmente considerata in riferimento all'evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere. (L'affermazione é stata resa nell'ambito di un procedimento penale per il reato di omicidio colposo in cui si era addebitato al proprietario dell'immobile, In relazione al decesso dell'Inquilino conseguente ad esalazioni di monossido di carbonio provenienti dallo scaldabagno, di non avere adeguato l'impianto alla normativa di sicurezza, mentre era stato condannato per avere dato l'immobile in locazione senza prima avere verificato la funzionalità dell'impianto a gas)».
Trascura, tuttavia, il ricorrente che «Nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell'imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull'addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti - e in particolare l'imputato - non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico. Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale "ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all'art. 521 c.p.p. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione" (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013 - dep. 29/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278).
Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa. Mentre nei reati dolosi - in specie commissivi - la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l'obbligo di tacere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata. Quest'ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica).
Com'è evidente, l'una e l'altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l'agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare.
Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (ex multis, Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013 - dep. 20/12/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902). L'accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza - nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione - un approccio fondato sulla tipologia dell'intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l'ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica).
Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l'estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto). La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della "narrazione" prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, 
esplicitamente o implicitamente» (così, assai condivisibilmente, nella parte motiva, al punto n. 6.1. del "considerato in diritto" di Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 260161, la cui massima ufficiale recita: «In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l'omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori)»).
Ne consegue che erra il ricorrente erra quando afferma che, contestata un'ipotesi di colpa specifica commissiva, la responsabilità dell'imputato sarebbe stata affermata in riferimento a due - diverse - ipotesi di colpa omissiva.
Infatti, a ben vedere, i Giudici di merito hanno ha affermato la responsabilità valorizzando un profilo della colpa "generica", ritualmente contestata nel capo di accusa ed emerso nel corso del dibattimento, cioè la mancanza nella macchina di un meccanismo di protezione o comunque in grado di impedire, con l’organo in movimento, che la griglia potesse essere rimossa ovvero di prevenire - come in effetti in concreto avvenuto - che il macchinario si mettesse in moto senza la previa apposizione delle griglie; nel capo di accusa si legge, infatti, testualmente che «l'impianto [... era] privo di protezioni» e, come si è già visto (al punto n. 2 del "ritenuto in fatto"), dall'istruttoria espletata è emerso che l'impianto non aveva barriere (in passato erano state presenti delle reti grigliate di circa 100 X 180 centimetri ma da tempo le stesse erano state eliminate, pur rimanendo visibili nelle foto scattate dagli ispettori della A.S.L. le staffe di attacco) né sistemi di protezione e che erano stati addirittura disattivati i micro-interruttori di sicurezza associati alle barriere mobili della tramoggia, dato fattuale quest'ultimo con il quale il ricorrente non si confronta.
2.1.3. Infine, quanto all'ultimo profilo di doglianza ricompreso nel primo motivo (ripreso ed approfondito nella memoria intitolata "motivi nuovi" depositata il 1° marzo 2018, di cui si è detto al punto n. 4.7. del "ritenuto in fatto"), si osserva quanto segue.
2.1.3.1.Il difensore, come si è visto, invoca espressamente il principio puntualizzato da Sez. 4, n. 48318 del 12/11/2009, P.C. in proc. Gigli e altri, Rv. 245737, la cui massima ufficiale è la seguente: «Costituisce violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a titolo di cooperazione nel delitto colposo a fronte dell'imputazione monosoggettiva del reato colposo (In motivazione la S.C. ha riconosciuto alla norma dettata dall'art. 113 cod. pen. funzione estensiva dell'incriminazione rispetto all'ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, sicché, in mancanza di specifica contestazione, l'applicazione della stessa concretizzerebbe un mutamento del fatto integrante violazione del principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen.)».
In realtà, l'esame della motivazione del precedente richiamato dimostra che si tratta di fattispecie non sovrapponibile a quella in esame.
Nella vicenda sottesa alla pronunzia di Sez. 4, n. 48318 del 12/11/2009, P.C. in proc. Gigli e altri, Rv. 245737, cit., infatti, il Giudice di pace aveva condannato per lesioni colpose tre cacciatori che, sparando ciascuno con il proprio fucile, avevano, in tesi di accusa, colpito al volto una persona (tra l'altro applicando il decidente di primo grado ad un reato colposo l'art. 110 cod pen., che disciplina il concorso - volontario - di persone); il Tribunale, in funzione di giudice dell'appello, aveva integralmente riformato la sentenza, assolvendo gli imputati perché non era stata effettuata nessuna indagine tecnica per accertare da quale dei tre fucili era partito l'unico pallino che aveva colpito la p.o.; nel ricorso alla Corte di legittimità proposto dalla parte civile si sosteneva che il Giudice di appello avrebbe dovuto confermare la condanna applicando la disciplina della cooperazione colposa ex art. 113 cod. pen. e valorizzando - si assume - la sinergia psicologica tra gli agenti che avevano sparato praticamente in contemporanea; ebbene, la S.C. ha rigettato il ricorso affermando che l'art. 113 cod. pen. ha funzione estensiva dell'incriminazione e che, in mancanza di specifica contestazione, l'applicazione della stessa, come auspicato dalla ricorrente parte civile, concretizzerebbe un mutamento del fatto integrante certa violazione del principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen. (pp. 3-4 della motivazione).
2.1.3.2. Tanto chiarito, per fornire corretta ed esaustiva risposta alla censura posta dalla difesa, appare opportuno prendere le mosse dall'autorevole insegnamento offerto a proposito della cooperazione colposa dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, in particolare al paragrafo n. 29 del "considerato in diritto", dedicato, appunto, a "La cooperazione colposa", pp. 137-140:
«Della cooperazione colposa disciplinata dall'art. 113 cod. pen. si è occupata ripetutamente la giurisprudenza di legittimità, esprimendo da ultimo (Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, Tomaccio, Rv. 242566) valutazioni di fondo, che hanno parzialmente innovato rispetto alla tradizione e che vanno riproposte ed ulteriormente approfondite. 
Per quel che qui maggiormente interessa, occorre chiarire quale sia la reale portata della norma in questione nell'ambito delle fattispecie d'evento a forma libera come quella di cui all'art. 589 cod. pen.
In proposito in dottrina vengono sostenute, con diverse sfumature, due tesi di fondo. Secondo l'una l'art. 113 cod. pen., eserciterebbe una mera funzione di modulazione di disciplina, nell'ambito di situazioni nelle quali già si configura la responsabilità colpevole sulla base dei principi generali in tema di imputazione oggettiva e soggettiva: orientamento determinato, al fondo, dal timore che applicazioni disinvoltamente estensive possano vulnerare il principio di colpevolezza.
L'altra tesi, invece, reputa che la disciplina della cooperazione colposa eserciti una funzione estensiva dell'incriminazione rispetto all'ambito segnato dal concorso di cause colpose indipendenti, coinvolgendo anche condotte atipiche, agevolatrici, incomplete, di semplice partecipazione, che per assumere concludente significato hanno bisogno di coniugarsi con altre condotte.
Tale ultimo indirizzo è implicitamente accolto nella giurisprudenza di legittimità. Esso è senz'altro aderente alle finalità perseguite dal codificatore che, introducendo la disciplina di cui si discute, volle troncare le dispute esistenti in quell'epoca, esplicitando la possibilità di configurare fattispecie di concorso anche nell'ambito dei reati colposi.
Tale indirizzo interpretativo trova pure sicuro conforto nella disciplina di cui agli artt. 113, comma secondo, e 114 cod. pen., che prevedono, nell'ambito delle fattispecie di cooperazione, l'aggravamento della pena per il soggetto che abbia assunto un ruolo preponderante e, simmetricamente, la diminuzione della pena per l'agente che abbia apportato un contributo di minima importanza. Tale ultima contingenza, evocando appunto condotte di modesta significatività, sembra attagliarsi perfettamente al caso di condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole.
Riconosciuto il ruolo estensivo dell'incriminazione svolto dall'art. 113 cod. pen., occorre prendere atto che, pur dopo molte dispute, il confine tra la fattispecie di cooperazione colposa e quella in cui si configura il concorso di cause colpose indipendenti è spesso incerto.
L'effetto estensivo si configura senz'altro nei reati commissivi mediante omissione, quando vi sia l'apporto di soggetto non gravato dell'obbligo di garanzia.
Una situazione analoga si può configurare quando la regola cautelare violata attiene all'obbligo di prevenire altrui condotte colpose: rientrano in tale ambito i casi di scuola dell'affidamento dell'auto a conducente totalmente inesperto e privo di patente; e quello dell'omessa custodia dell'arma carica che, così, viene imprudentemente maneggiata da persona impreparata. In tutti tali casi traspare l'esigenza di una lettura integrata delle condotte colpose, anche per verificare la realizzazione nell'evento del rischio cautelato dalla regola di diligenza.
Meno definita appare la vasta area in cui è presente una condotta che, priva di compiutezza, di fisionomia definita nell'ottica della tipicità colposa se isolatamente considerata, si integra con altre dando luogo alla fattispecie causale colposa. Mentre la condotta tipica dà luogo alla violazione della regola cautelare eziologica, quella del partecipe, come ritenuto da autorevole dottrina, si connota per essere pericolosa in una guisa ancora indeterminata. A tali condotte viene solitamente attribuita valenza in chiave agevolatrice.
A tale ambito sembrano riferirsi non solo l'intitolazione dell'art. 113 cod. pen., che evoca il concetto di cooperazione colposa distinto da quello di concorso doloso; ma anche i lavori preparatori, quando si parla di scientia malefici, di consapevolezza di concorrere con la propria all'altrui azione, di fascio di volontà cooperanti nel porre in essere il fatto incriminato.
Così definito il contesto, si pone il cruciale problema di individuare il fattore che fa per così dire da collante tra le diverse condotte, delineandone la cooperazione. Tale elemento di coesione viene ritenuto di tipo psicologico, tanto dalla dottrina prevalente che dalla giurisprudenza: si tratta della consapevolezza di cooperare con altri.
È però discusso se tale consapevolezza debba estendersi sino a cogliere il carattere colposo dell'altrui condotta. Le contrastanti tesi espresse al riguardo presentano il fianco a qualche critica. Semplificando al massimo i termini di un dibattito ricco di sfumature: la tesi della mera consapevolezza dell'altrui condotta sembra implicare il rischio di creare un'indiscriminata estensione dell'imputazione. D'altra parte, richiedere la consapevolezza del carattere colposo dell'altrui comportamento reca il rischio opposto di svuotare la norma e di renderla inutile, giacché una tale consapevolezza ben potrebbe implicare un atteggiamento autonomamente rimproverabile.
Pare alle Sezioni Unite che l'importanza dell'indicato tratto psicologico (la consapevolezza di cui si è detto) sia stata spesso enfatizzata. Le situazioni nelle quali le condotte in cooperazione non sono concomitanti propongono qualche dubbio in proposito. Di certo, comunque, le preoccupazioni di eccessiva estensione della fattispecie di cooperazione connesse alla mera consapevolezza dell'altrui condotta concorrente non sono certo prive di peso. Esse pare possano essere arginate solo individuando con rigore, sul piano fenomenico, le condotte che si pongono tra loro in cooperazione. Occorre cioè che il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge, da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio, o almeno sia contingenza oggettivamente definita senza incertezze e pienamente condivisa sul piano della consapevolezza. In tali situazioni, l'intreccio cooperativo, il comune coinvolgimento nella gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di condotte che, come si è accennato, sebbene atipiche, incomplete, di semplice partecipazione, si coniugano, si compenetrano con altre condotte tipiche.
In tutte tali situazioni ciascun agente dovrà agire tenendo conto del ruolo e della condotta altrui. Si genera così un legame ed un'integrazione tra le condotte che opera non solo sul piano dell'azione, ma anche sul regime cautelare, richiedendo a ciascuno di rapportarsi, preoccupandosene, pure alla condotta degli altri soggetti coinvolti nel contesto. Tale pretesa d'interazione prudente individua il canone per definire il fondamento ed i limiti della colpa di cooperazione. La stessa pretesa giustifica la deviazione rispetto al principio di affidamento e di autoresponsabilità, insita nell'idea di cooperazione colposa.
Tale ordine di idee si rinviene, ad esempio, in alcune prese di posizioni della giurisprudenza di legittimità, che hanno tratteggiato le ragioni che, in nome della cooperazione come modello di doveroso accrescimento dell'efficienza delle cautele, possono giustificare il coinvolgimento anche di soggetti che, nell'ambito di una determinata organizzazione, svolgono un ruolo subalterno e meno qualificato e che, conseguentemente, facilmente svolgono nei fatti un ruolo meno significante. È stata così enunciata, ad esempio, la necessità di un rapporto reciprocamente critico-dialettico tra primario ed assistente ospedaliero, nonostante la posizione subordinata e meno qualificata di quest'ultimo; che ha comunque il dovere di manifestare l'eventuale dissenso rispetto alle scelte terapeutiche (ad es. Sez. 4, n. 556 del 17/11/1999, Zanda, Rv. 215443)».
In sintesi, con le precisazioni svolte, deve confermarsi la tralatizia definizione secondo cui «La cooperazione ne! delitto colposo si distingue dal concorso di cause colpose indipendenti per la necessaria reciproca consapevolezza dei cooperanti della convergenza dei rispettivi contributi all'incedere di una comune procedura in corso, senza che, peraltro, sia necessaria la consapevolezza del carattere colposo dell'altrui condotta in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli» (Sez. 4, n. 6499 del 09/01/2018 Fersini e altri, Rv. 271972; in conformità, tra le numerose altre, Sez. 4, n. 15324 del 04/02/2016, Sansonetti Rv. 266665; Sez. 4, n. 49735 del 13/11/2014, Jimenez Vallejro, Rv. 261183; Sez. 4, n. 1786 del 02/12/2008, dep. 2009, Tomaccio e altri, Rv. 242566).
2.1.3.3. Così chiarito il concetto di cooperazione colposa e la relativa portata, passando a puntualizzare la necessità di rispetto, al fine di garantire il diritto di difesa (art. 24 Cost.), del principio della correlazione tra accusa e sentenza, si è precisato, in linea generale, che «Sussiste violazione del principio di corrispondenza tra accusa e sentenza quando tra il fatto descritto e quello accertato non si rinviene un nucleo comune identificato dalla condotta e si manifesta, pertanto, un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell'accusa a fronte dei quali l'imputato è impossibilitato a difendersi (la Corte ha escluso la violazione nei caso in cui i giudici di appello, pur rilevando l'insussistenza della cooperazione colposa, abbiano ritenuto, tuttavia, sussistente l'ipotesi di concorso di cause indipendenti, poiché i termini dell'accusa - la condotta, il nesso di causalità e l'evento - sono rimasti immutati, e in relazione ad essi l'imputato ha avuto la possibilità di difendersi)» (Sez. 4, n. 27335 del 27/01/2005, Capanna, Rv. 231727; in conformità, v., tra le altre, Sez. 2, n. 17565 del 15/03/2017, Beretti, v. 269569; Sez. 3, n. 3471 del 09/02/2000, Pelosi, Rv. 216454).
2.1.3.4. Con specifico riferimento, poi, ai reati colposi, la necessità di una interpretazione funzionale, incentrata sulla concreta violazione, o meno, del diritto di difesa dell'imputato, è stata sottolineata, tra le altre, dalle seguenti pronunzie:
Sez. 4, n 19028 del 01/12/2016, dep. 2017, Casucci, Rv. 269601, secondo cui «In tema di reati commissivi colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se l'affermazione di responsabilità per il reato si fonda su diverse possibili alternative condotte colpose, ciascuna delle quali avente efficienza causale in relazione all'evento, allorché l'imputato sia stato posto in condizione di esercitare i diritti di difesa in merito alle diverse ipotesi ricostruttive (Fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto esente da censure la decisione che aveva affermato la responsabilità dell'imputato per omicidio colposo, commesso in violazione delle norme sulla circolazione stradale, essendo emerse nel corso del giudizio due diverse possibili modalità di causazione dell'evento, di cui l'imputato era a conoscenza ed in relazione alle quali aveva potuto svolgere le proprie difese)», Sez. 4, n. 14505 del 14/01/2010, Bonenti, Rv. 247125, per cui «Non costituisce violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a tìtolo monosoggettivo per delitto colposo, a fronte dell'imputazione a titolo di cooperazione colposa, purché venga comunque riconosciuta la rilevanza causale della condotta colposa dell'imputato, come delineata nell'Imputazione»;
Sez. 4, n. 16900 del 04/02/2004, Caffaz e altri, Rv. 228042, che, con particolare chiarezza, ha evidenziato come «In tema di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza deve affermarsi che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nel suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, cosi da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non si esaurisce nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie difensive, la violazione non sussiste se l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all'oggetto della imputazione (Nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso, teso al riconoscimento della violazione della disposizione di cui all'art. 521 cod. proc. pen., sul presupposto dell'erronea indicazione, nel capo di imputazione dell'ipotesi di cui all'art. 113 cod. pen.: la Corte, pur rilevando tale erroneità, ha tuttavia affermato il principio con riferimento alla evidente chiarezza di tutti gli elementi della contestazione circa i profili di colpa addebitati all'imputato)».
2.1.3.5. Alla stregua di tutte le considerazioni svolte, passando dunque a "tirare le fila del discorso", quello posto dal ricorrente, in maniera particolare nei "motivi nuovi", risulta essere, in realtà, un falso problema, in quanto meramente nominalistico.
Infatti, diversamente da quanto si assume nel ricorso, non è accaduto che la Corte di merito abbia «introdotto nel processo di merito, per la prima volta, un profilo contestativo di novità, ritenendo applicabile nel caso di specie l'istituto della cooperazione colposa» (così alla p. 2 dei "motivi nuovi", con riferimento alla p. XXXI o 27 della sentenza impugnata: v. punto n. 4.7. del "ritenuto in fatto").
Al contrario, a ben vedere, al di là di alcune espressioni usate nella motivazione della sentenza impugnata, avuto riguardo alla distinzione tracciata nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite del 2014, rie. Espenhahn e altri, tra condotte prive di autonomia sul piano della tipicità colposa e quindi non autosufficienti ai fini della fondazione della responsabilità colpevole e necessitanti il ruolo estensivo dell'incriminazione ex art. 113 cod. pen., da un lato, e condotte tipiche già autosufficienti per la contestazione, dall'altro (v. punto n. 2.1.3.2. del "considerato in diritto"), non vi è dubbio che entrambi gli imputati siano stati, prima, accusati e, poi, riconosciuti responsabili sia in relazione a profili colposi autonomi derivanti da carenze organizzative in tema di sicurezza a ciascuno esclusivamente riconducibili sia in relazione a profili riconducibili a difetti di coordinamento reciproco, soprattutto sotto il profilo della gestione del rischio interferenziale, gestione che i Giudici di merito hanno accertato essere stata carente ed hanno ritenuto essere stata concausativa del grave infortunio occorso, come si vedrà meglio in prosieguo (v. punti nn. 2.3., 2.4., 2.5. e 3.2. del "considerato in diritto").
Devono allora ritenersi corrette le argomentazioni svolte dai Giudici di merito nel porre in rilievo e nel valorizzare nel tessuto motivazionale la cooperazione colposa, quale elemento di saldatura delle singole posizioni di garanzia rivestite dagli imputati cui sono stati già ricondotti specifici profili di responsabilità per colpa, e soprattutto la sinergica rilevanza nella realizzazione di un evento unitario; «Peraltro, si verte in ambito di infortunio realizzatosi sul luogo di lavoro ove il coinvolgimento integrato di più soggetti non solo era imposto dalla legge (art.26 e 90 ss D.Lgs. 2008/81), ma anche da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio e alla presenza in cantiere, ovvero nel legittimo affidamento da parte delle maestranze chiamate ad operare in cantiere, di una opera di cooperazione e di coordinamento della gestione del rischio interferenziale (cfr. S.U. 24.4.2014, Espenhahn, par. cooperazione colposa). Ne consegue una saldatura dei distinti profili di colpa riconosciuti a ciascun imputato, in quanto confluiti nel determinismo dell'evento, di talché non è consentito procedere, ai fini penali, ad una postuma verifica frazionata, parcellizzata e diacronica degli stessi, ma è si impone una valutazione unitaria del complesso delle condotte asseritamente antidoverose, laddove la comune gestione del rischio giustifica la penale rilevanza di apporti che, sebbene atipici, incompleti o di semplice partecipazione, si coniugano tra di loro compenetrandosi laddove gli obblighi di cooperazione e di coordinamento rappresentano per i ' datori di lavoro di tutte le imprese "coinvolte "la cifra" della loro posizione di garanzia e delimitano l'ambito della rispettiva responsabilità (sez. IV, 7.6.2016, P.C. e altri in proc.Carfì e altri, Rv. 267687)» (così, assai efficacemente, al punto n. 2 del "considerato in diritto" di Sez. 4, n. 13455 del 08/11/2015, dep. 2017, Nikolla Dallandyshe ed altri, non mass.).
Del resto, al di là della definizione operata da parte dei contraenti, cioè A.M. e M.L., del rapporto quale "contratto di appalto" (come si è visto al punto n. 2 del "ritenuto in fatto"), i Giudici di merito hanno fatto - correttamente - riferimento ad una errata gestione da parte degli imputati del "rischio interferenziale".
A proposito del «concetto di "interferenza", da cui sorgono gli obblighi di coordinamento e cooperazione, come ricavabili dall'art. 26 al comma 1, lett. a) e b) e comma 3 del D.Lgs. 81/2008, con riferimento alla posizione del committente, ed al comma 2 lett. a) e b) stesso decreto, con riferimento alla posizione dell'appaltatore e del subappaltatore, [si è correttamente posto in luce come esso] non viene definito] dal D.lvo 81/2008, ma una sua definizione normativa la si può rinvenire nella Determinazione n. 3/2008 dell'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che la intende come "circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell'appaltatore o tra il personale tra imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti".
Gli obblighi di cui al richiamato art. 26 presuppongono un rapporto di appalto ovvero di somministrazione, secondo le definizioni di tali tipologie contrattuali che si ricavano dalle norme civilistiche. Tuttavia, non possono esaurirsi in essi i rapporti a cui fa riferimento l'intero art. 26, posto che la ratio della norma è quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative e nel medesimo luogo di lavoro. In particolare, la ratio della norma di cui all'art. 26 D.Lgs 81/2008 è quella di far si che il datore di lavoro "committente" appresti un segmento all'interno della propria azienda al fine di prevenire ed evitare i rischi interferenziali, derivanti dalla contemporanea presenza di più imprese che operano sul medesimo luogo di lavoro, attivando e promovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione, soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla circostanza dovuta alla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltatrici all'ambiente di lavoro dove prestano la propria attività lavorativa. Se questa è la ratio, ciò che rileva ai fini della normativa di cui all'art. 26 del citato decreto legislativo, non è la qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra imprese che cooperano tra loro, quanto l'effetto che tale rapporto crea, cioè l'interferenza tra organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per entrambi i lavoratori delle imprese coinvolte.
Quindi, anche se si accetta l'interpretazione del concetto di "interferenza, offertaci dalla richiamata "Determinazione n. 3/2008", al fine di individuare i confini della stessa, occorre far riferimento alla suindicata ratio per comprendere quando l'interferenza è rilevante; quest'ultima, infatti, non può essere circoscritta alle mere ipotesi di contatto rischioso tra lavoratori di imprese diverse che operano nel medesimo luogo di lavoro, perché ciò condurrebbe ad escludere in capo a quei "committenti", che forniscono il mero luogo di lavoro, qualunque posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori che, pur essendo alle dipendenze di altre imprese, operano nel medesimo luogo di lavoro. L'interferenza rilevante - dovendosi ricercare una nozione che sia il più confacente possibile al perseguimento della sua ratio - deve essere necessariamente intesa in senso funzionale, ossia come interferenza non di soli lavoratori, ma come interferenza derivante dalla coesistenza di un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi (Così Sez. IV, sentenza n. 36398 del 23 maggio 2013). 
Emerge, quindi, che, nell'ambito di interferenza tra organizzazioni di più imprese, in cui è irrilevante l'interferenza di fatto tra lavoratori di plurime imprese, ciò che rileva è la presenza di un potere di interferenza nei confronti dell'appaltatore» (così, assai chiaramente, al punto n. 3.2. del "considerato in diritto" di Sez. 4, n. 44792 del 17/06/2015, Mancini e altri, Rv. 264957, la cui massima ufficiale recita: «Ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi ai contratti di appalto, dettati dall'art. 26 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, occorre aver riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - vale a dire contratto d'appalto o d'opera o di somministrazione - ma all'effetto che tale rapporto origina, vaie a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni ad esse facenti capo, che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori (In motivazione la S.C. ha precisato che l'interferenza rilevante deve essere necessariamente intesa in senso funzionale, avendo riguardo alla coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi)») in conformità, v. Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016, P.C. e altri in proc. Carfì e altri, Rv. 267687, secondo cui «Ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi all'esistenza di un rischio interferenziale, dettati dall'art. 7 D.Lgs. 19 settembre 1994, n.626 - ora previsti dall’art. 26 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81- occorre aver riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - contratto d'appalto, d'opera o di somministrazione - ma all'effetto che tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni che operano sul medesimo luogo di lavoro e che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori delle imprese coinvolte (In motivazione la Corte ha precisato che gli obblighi di cooperazione e coordinamento rappresentano per i datori di lavoro di tutte le imprese coinvolte "la cifra" della loro posizione di garanzia e delimitano l'ambito della rispettiva responsabilità)») cfr. anche la relativa motivazione, sub nn. 5.1., 5.2. e 5.3. del "considerato in diritto").
Facendo, in definitiva, applicazione dei richiamati principi, la riferita censura è da ritenersi destituita di fondamento.
2.2. Sub n. 2. L'assunto difensivo (che si è riferito al punto n. 4.2. del "ritenuto in fatto") sul quale si fonda l'intero motivo di impugnazione è erroneo.
Infatti, le valutazioni critiche operate dalla Corte di appello non presuppongono nessun travisamento ma solo la circostanza che le avvertenze scritte nel D.U.V.R.I. riguardavano il corpo principale della macchina e non già il nastro che (come si è detto al punto n. 2 del "ritenuto in fatto") era stato costruito dalla S.E.S.A. nella propria officina meccanica, non era provvisto né di marchiatura CE né di dichiarazione di conformità né di manuale di uso e di manutenzione nè di valutazione del rischio; è anche emerso, come si è visto, che il nastro in precedenza era stato collocato sul piazzale esterno ed usato per altro scopo e solo da poco portato all'Interno ed unito al "crambo".
Né possono trasporsi gli avvertimenti circa la pericolosità dei rulli della sminuzzatrice, cui evidentemente fa riferimento la documentazione allegata, alle parti in movimento del nastro, che era stato unito alla macchina principale.
2.3. Sub n. 3. La tesi difensiva ampiamente articolata con il terzo motivo (e di cui si è detto al punto n. 4.3. del "ritenuto in fatto"), a ben vedere, non si confronta con tutte le argomentazioni svolte dai Giudici di merito ma soltanto con alcune di esse, trascurando, in particolare, che la Corte di appello ha ritenuto accertato che, in effetti, tra i doveri dei dipendenti della società cooperativa "Work Cave - Ecologia - Trasporti" vi fosse anche quello di una certa collaborazione in occasione degli interventi di sbloccaggio delle macchine, interventi affidati alla squadra dei manutentori della S.E.S.A., collaborazione limitata alla pulizia del materiale fuoriuscito dall'impianto, e che in occasione del sinistro per cui è processo i dipendenti della "Work Cave" sono, in effetti, andati «oltre il dovere di pulizia a terra [...cioè oltre] il servizio da prestare» (così alla p. XX della sentenza impugnata) ma, al tempo stesso, che la committente S.E.S.A. si era organizzata contando anche, in concreto, su tale collaborazione, tanto che i manutentori erano soltanto in numero di due e che MI.ME. aveva assunto il ruolo di tramite tra i due manutentori; inoltre, per prassi consolidata tra le parti contrattuali (S.E.S.A. e "Work Cave"), nell'oggetto del contratto di appalto vi era anche la prestazione da parte dei lavoratori della cooperativa di un'attività di collaborazione, sotto le direttive dei manutentori S.E.S.A., per risolvere problemi insorti nell'attività lavorativa, non senza sottolineare che il sinistro si è verificato proprio in occasione della prestazione, da parte della persona offesa, di una prestazione accessoria all'oggetto principale del contratto di appalto (p. XXI).
I Giudici di appello hanno, inoltre, ritenuto che il committente ed appaltatore dovessero coordinarsi tra di loro e cooperare sotto il profilo della sicurezza (pp. XXVII, XXXVII e passim) e che rileva, sotto tale profilo, che dal documento di valutazione rischi della "Work Cave" risulta che i dipendenti della cooperativa dovessero periodicamente rimuovere materiali eventualmente rimasti incastrati in parti dell'impianto di selezione e inoltre che si individua un rischio meccanico connesso alle operazioni di rimozione dei rifiuti incastrati nell'impianto, senza specificare la presenza di organi lavorativi privi di protezione (p. XXVIII).
La Corte di merito ha sottolineato anche che la presenza di un dispositivo di sicurezza che avesse impedito la messa in moto dell'impianto con le barriere abbassate avrebbe certamente impedito, in maniera radicale, il verificarsi del sinistro (pp. XXXII e XXXVIII), evidenziando anche l'assenza di segnalazioni espresse di pericolo specifico costituito dalla presenza di organi in movimento senza protezione (p. XXXVIII).
Come si vede, si tratta di una nutrita serie di argomenti, peraltro di decisiva importanza (in buona sostanza, i Giudici di merito hanno ritenuto che, quand'anche fosse stato vero che al dipendente era stato vietato di partecipare alle pericolose operazioni di sbloccaggio dei macchinari, ebbene è stato tollerato che vi partecipasse), con cui il ricorrente non si confronta.
2.4. Sub n. 4. A proposito della pretesa abnormità o esorbitanza della condotta della vittima, l'esclusione della stessa da parte della Corte di appello, seppure espressa in estrema sintesi argomentativa («non si tratta di condotta estranea alla prestazione di lavoro, in quanto è stata compiuta mentre partecipava, seppur con ruolo gregario e, in quel momento, di mero spettatore, ad una operazione complementare alle mansioni assegnate», cosi alla p. XXXIV della sentenza impugnata, oggetto della serrata censura difensiva che si è sintetizzata sub n. 4.4. del "ritenuto in fatto"), in realtà, poggia sul - non illogico - apparato argomentativo complessivo di cui si è detto al punto che precede (in sintesi: secondo i Giudici di merito, p. XXI della sentenza impugnata, per prassi consolidata tra S.E.S.A. e "Work Cave" nell'oggetto del contratto di appalto vi era anche la prestazione da parte dei lavoratori della cooperativa di un'attività di collaborazione, sia pure sotto le direttive dei manutentori S.E.S.A., per risolvere problemi insorti nell'attività lavorativa, ed il sinistro si è verificato proprio in occasione della prestazione da parte della vittima di una prestazione accessoria all'oggetto principale del contratto di appalto), che non è fatto oggetto di puntale esame difensivo, che ha preferito concentrarsi solo su alcune parti del complessivo discorso.
In ogni caso, il concetto, sia pure succintamente, evocato dalla Corte di merito è corretto ed in linea con il consolidato insegnamento di legittimità circa la nozione di abnormità o esorbitanza, cui, per brevità, si rinvia (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222; Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne e altro, Rv. 259227; Sez. 4, n. 7955 del 10/10/2013, dep. 2014, Rovaldi, Rv. 259313; Sez. 4, n. 23292 del 28/04/2011, Millo e altri, Rv. 250710; Sez. 4, n. 7267 del 10/11/2009, dep. 2010, Iglina e altri, Rv. 246695).
2.5. Sub n. 5. Nemmeno le censure aventi ad oggetto l'elemento soggettivo, tutte incentrate sul tema "barriere si / barriere no", colgono nel segno, in quanto, a ben vedere, la Corte di merito, svolte alcune considerazioni di carattere generale anche con richiamo a recenti qualificati insegnamenti delle Sezioni Unite (pp. XXXV-XXXVII), ha affermato la prevedibilità in concreto dell'evento e la evitabilità dello stesso.
Quanto al primo profilo, la sentenza impugnata ha ritenuto che «venivano in rilievo, anche ad una sommaria considerazione, una pluralità di rischi, connessi, da una parte, all'intervento sul macchinario complesso con organi pericolosi e, dall'altra, al coordinamento fra più soggetti, con diversi ruoli (il punto di accensione si trovava fuori dal locale del macchinario). Era quindi, da parte di un datore di lavoro diligente, sia esso committente o appaltatore, prevedibile - ponendosi nelle condizioni in cui si trovavano gli imputati al momento della condotta - il rischio costituito dal fatto che nella operazione di manutenzione si dovessero dare ripetuti ordini di avvio al macchinario e quindi alcuno fra i lavoratori presenti si trovasse a contatto con una parte pericolosa del macchinario» (così alla p. XXXVII della sentenza).
Quanto all'ulteriore, si è ritenuto che «si tratta di valutare se, in concreto, la condotta alternativa dovuta avrebbe potuto evitare l'evento, con la precisazione che l'attività lavorativa e attività a rischio consentito e quindi non esiste condotta che possa "azzerare" il rischio. Nel caso in esame la predisposizione di protezioni al nastro trasportatore inclinato, con dispositivo di blocco della accensione dell'impianto in caso di protezioni abbassate era misura possibile e decisiva nell'evitare l'evento. D'altra parte, anche la indicazione dei pericolo specifico costituito dalla presenza di organi lavoratori in movimento senza protezione, unita alla considerazione della necessaria attenzione da prestare nel lavoro in squadra sono direttive che avrebbero richiamato il lavoratore ad una maggiore attenzione, e ciò avrebbe evitato il sinistro. Va solo richiamato l'insegnamento della Corte di cassazione (SU "Thyssenkrupp", pag. 134) sul criterio meramente probabilistico ("qualificata possibilità di esito favorevole") che va utilizzato nel giudizio controfattuale sulla evitabilità dell'evento mediante il comportamento alternativo dovuto» (così alla p. XXXVII) ed omesso.
Si tratta di motivazione logica e congrua ed immune da vizi censurabili in sede di legittimità,
2.6. Sub n. 6. Si passai ad esaminare le doglianze relative al trattamento sanzionatorio (riassunte ai punti nn. 4.6.1. e 4.6.2. del "ritenuto in fatto").
2.6.1. Tutto il ragionamento svolto dalla difesa trascura che i primi - e più importanti - parametri evocati al riguardo nella sentenza impugnata sono, in realtà, la gravità delle lesioni subite dalla vittima, che ha perso una gamba, e la gravità della colpa, e presenza di un macchinario privo di protezioni, situazione la cui pericolosità era ben visibile (p. XXXIX della sentenza), certamente rientranti nell'ampia previsione dell'art. 133 cod. pen. 
2.6.2. Infine, quanto alla mancata conversione della pena detentiva in pecuniaria, il diniego è - in buona sostanza - giustificato in base alla gravità del fatto ed è in linea, dunque, con l'insegnamento della Corte di legittimità, secondo cui «Ai fini della sostituzione della pena detentiva con pena pecuniaria il giudice ricorre ai criteri previsti dall'art. 133 cod. pen.; tuttavia, ciò non implica che egli debba prendere in esame tutti i parametri contemplati nella suddetta previsione, potendo la sua discrezionalità essere esercitata motivando sugli aspetti ritenuti decisivi in proposito, quali l'inefficacia della sanzione (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la motivazione con cui il giudice di appello - confermando la decisione del Gup che aveva condannato l'imputato alla pena di mesi due di reclusione per il reato di lesioni personali - ha rigettato l'istanza di conversione, ritenendo la pena pecuniaria inadeguata alla gravità del fatto ed alla personalità dell'imputato, non esercitando la stessa efficacia afflittiva né rieducativa in presenza di un comportamento violento)» (Sez. 5, n. 10941 del 26/01/2011, Orabona, Rv. 249717; in senso conforme, cfr. Sez. 2, n. 25085 del 18/06/2010, Amato, Rv. 247853).
Né può - utilmente - richiamarsi in sede di ricorso di legittimità la pretesa ingiustizia per "disparità di trattamento" rispetto ad ulteriore imputato, peraltro destinatario di applicazione di pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.
3. Anche il ricorso di M.L., amministratore unico della "Work "Work Cave - Ecologia - Trasporti", è infondato.
3.1. Sub n. 1. In relazione alla questione della violazione dell'art. 521 cod. pen., posta anche dal coimputato, valgono le medesime considerazioni già svolte al complessivo punto n. 2.1. del "considerato in diritto", cui si rinvia integralmente.
3.2. Sub n. 2. A proposito del rischio interferenziale, si è - opportunamente - puntualizzato da parte della S.C. quanto segue:
«Ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi all'esistenza di un rischio interferenziale, dettati dall'art. 7 D.Lgs. 19 settembre 1994, n.626 - ora previsti dall'art. 26 D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81- occorre aver riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - contratto d'appalto, d'opera o di somministrazione - ma all'effetto che tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni che operano sul medesimo luogo di lavoro e che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori delle imprese coinvolte (In motivazione la Corte ha precisato che gli obblighi di cooperazione e coordinamento rappresentano per i datori di lavoro di tutte le imprese coinvolte "la cifra" della loro posizione di garanzia e delimitano l'ambito della rispettiva responsabilità)» (Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016, P.C. e altri in proc. Carfi e altri, Rv. 267687);
e anche che «Ai fini dell'operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione connessi ai contratti di appalto, dettati dall'art. 26 D.Lgs. 9 aprite 2008, n. 81, occorre aver riguardo non alla qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro - vale a dire contratto d'appalto o d'opera o di somministrazione - ma all'effetto che tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni ad esse facenti capo, che può essere fonte di ulteriori rischi per l'incolumità dei lavoratori (In motivazione la
5. C. ha precisato che l'interferenza rilevante deve essere necessariamente intesa in senso funzionale, avendo riguardo alla coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi)» (Sez. 4, n. 44792 del 17/06/2015, Mancini e altro, Rv. 264957).
Correttamente, dunque, facendo applicazione dei richiamati principi di diritto, la Corte di appello ha ritenuto che committente ed appaltatore dovessero coordinarsi e cooperare sotto il profilo della sicurezza (pp. XXVII, XXXVII e passim della sentenza impugnata).
4. Per completezza, va dato atto che i ricorsi introducono il tema della possibile ricorrenza nel tessuto motivazionale della sentenza impugnata di un travisamento della prova (v. punti nn. 4.2., 4.3., 4.4. e 5.2. del "ritenuto in fatto"), oltre a denunziare - ritenute - plurime violazioni di legge.
4.1. E' ben noto che il vizio di travisamento della prova può ravvisarsi quando il dedotto errore, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti specificamente indicati, sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la prova per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale - probatorio che si impone come decisivo (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio e altri, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Beliuccia e altro, Rv. 244623; Sez. 1, n. 2467 del 15/06/2007, Musumed, Rv. 237207). in un giudizio che era - e che rimane - di legittimità poiché, pur dopo la riforma di cui alla legge n. 46 del 20 febbraio 2006, alla Corte di cassazione, Giudice di legittimità e non Tribunale di terza istanza, non è consentito procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti.
Peraltro, «Il ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l'erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l'omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità (Fattispecie relativa alla dedotta erronea valutazione del contenuto del documento di valutazione dei rischi)» (Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702).
Ciò posto, emerge evidente, alla stregua delle considerazioni già esposte, che nessuno degli argomenti svolti nel ricorso (e sintetizzati in precedenza nel "ritenuto in fatto") ha, in sé, la richiesta forza disarticolante del ragionamento probatorio svolto dalla Corte di appello.
4.2. Analogo ragionamento deve farsi per le dedotte violazioni di legge, variamente strutturate con riferimento dai cui ricorrenti a plurimi parametri, di cui si è già dato atto, ma, in realtà, meri richiami strumentali (in accezione, come è ovvio, processualmente fisiologica) per tentare di argomentare un ritenuto difetto motivazionale, più o meno intensamente descritto ed argomentato, che si rivela, però, in ultima analisi, mera - ma inaccoglibile - aspirazione ad una lettura alternativa delle emergenze istruttorie.
4.3. Benché abilmente strutturati, infatti, entrambi i ricorsi mirano, pur sotto l'apparente richiamo al vizio del travisamento della prova ovvero a violazioni di legge, a riproporre questioni, tutte già adeguatamente prese in considerazione dalla Corte di appello, che le ha affrontato e risolte in maniera non condivisa dai ricorrenti ma certamente approfondita, congrua, logica ed immune da vizi censurabili in sede di legittimità.
5. Consegue, in definitiva, il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 20/03/2018.