Cassazione Civile, Sez. Lav., 10 settembre 2018, n. 21962 - Rendita da infortunio
Presidente: MANNA ANTONIO Relatore: BELLE' ROBERTO Data pubblicazione: 10/09/2018
Fatto
1. F.L. ha adito il Tribunale di Locri con più domande, proposte separatamente ma successivamente riunite in un unico processo, finalizzate ad ottenere la condanna dell'I.N.A.I.L. a corrispondergli la rendita per l'infortunio lavoro subito in data 3.10.1980, nonostante la riforma, con pronuncia ormai divenuta cosa giudicata, della sentenza di primo grado che, nel 1989, aveva accolto la sua pretesa in tal senso. Oltre ciò egli chiedeva la declaratoria di irripetibilità delle somme corrisposte a titolo di rendita per il predetto infortunio in esecuzione della menzionata sentenza di primo grado.
2. La Corte d'Appello di Reggio Calabria, con sentenza n. 179/2013, ha rigettato il gravame proposto dal F.L. avverso la sentenza di rigetto delle predette domande pronunciata dal Tribunale di Locri.
La Corte riteneva che, rispetto ai pagamenti avvenuti in forza di sentenza provvisoriamente esecutiva, non valesse la normativa previdenziale limitativa della ripetizione dell'indebito e che la prescrizione fosse quella ordinaria decennale, non maturata tra il momento della riforma in appello (1996) e quello della richiesta di restituzione (2004). La sentenza riteneva altresì infondata la pretesa di basare il diritto alla rendita sui provvedimenti I.N.A.I.L. con i quali, successivamente alla sentenza di appello del primo processo, poi chiusosi sfavorevolmente per il F.L., vi era stata conferma e poi revisione al ribasso della percentuale invalidante riconosciuta, in quanto anche tali atti sarebbero stati travolti dal contrario giudicato maturato inter partes, né essi potevano essere riportati alla disciplina sulla revisione per errore o per miglioramento. La Corte condannava infine il ricorrente alla refusione delle spese legali, stante il fatto che la dichiarazione ex art. 152 disp. att. c.p.c. era stata sottoscritta dal solo difensore e non dalla parte.
3. Avverso la sentenza, il F.L. ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, resistiti dall'INAIL.
Diritto
1. Con il primo motivo, rubricato ai sensi dell'art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente afferma la violazione dell'art. 336 c.p.c. e degli artt. 2935-2948 c.c., sostenendo che la richiesta di restituzione non possa essere qualificata come ripetizione di indebito oggettivo e che il termine prescrizionale, riguardando pagamenti avvenuti mensilmente, si compirebbe, ai sensi dell'art. 2948 n. 4 c.c. su base quinquennale e non decennale.
1.1 Il motivo è infondato.
Non va infatti sovrapposta l'ipotesi generica in cui i presupposti costitutivi di un determinato credito si collochino periodicamente nel tempo, con quella, più specifica, in cui, in conseguenza di un rapporto di durata, si debbano avere pagamenti periodici.
La fattispecie riguardata dall'art. 2948 n. 4 c.c. è esclusivamente la seconda, come è reso evidente dal richiamo della norma non tanto al mero sorgere periodico del credito, quanto al riferimento a «ciò che deve pagarsi» periodicamente, ovverosia ad una situazione propria dei casi in cui «soltanto con il protrarsi dell'adempimento nel tempo si realizza la causa dei rapporto obbligatorio» in relazione ad uno specifico interesse del creditore che si soddisfa «attraverso la ricezione di più prestazioni» (così Cass. 6 dicembre 2006, n. 26161 e, più di recente, Cass. 20 dicembre 2017, n. 30546) messe, in regolare cadenza temporale, a disposizione del creditore (Cass. 21 luglio 2000, n. 9627).
Diverso è dunque il caso, come quello di specie, in cui la frequenza mensile viene in evidenza come occasionale conseguenza del risalire dell'effetto restitutorio fin ai singoli momenti in cui vi sono state le indebite percezioni, rispetto all'ipotesi, propria dell'art. 2948 n. 4 c.c., in cui è stabilita ex ante, in ragione della causa dell'attribuzione patrimoniale, la necessità di pagamenti a cadenze temporali prefissate.
Pertanto l'obbligo restitutorio oggetto di causa, non essendo previsti termini prescrizionali brevi, soggiace alla prescrizione ordinaria decennale, che giustamente la Corte territoriale ha ritenuto non essere maturata.
2. Con il secondo motivo il F.L. denuncia, sempre in relazione all'ipotesi di cui all'art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell'art. 55 L. 88/1989, sostenendo che, dopo l'emissione della sentenza di appello (1996) di riforma di quella di primo grado attributiva della prestazione, le successive erogazioni della rendita (dal 1996 al 2004) dovevano considerarsi fondate sui provvedimenti amministrativi (del 19.11.1997, 9.4.2001 e 13.3.2002, quest'ultimo in sede di impugnativa amministrativa ex art. 104 d.p.r. 1124/1965) riconnessi alle visite di revisione svolte in quest'ultimo lasso di tempo, sicché trovava applicazione la disciplina propria dell'indebito previdenziale e, non essendovi prova di dolo dell'acc/p/ens, la pretesa di ripetizione era infondata.
Con il terzo motivo e su analoghe premesse argomentative, il ricorrente afferma altresì la violazione dell'art. 9 L. 38/2000 e pertanto, rimarcando ancora come la prestazione, dal 19.11.1997, gli fosse stata erogata in forza esclusivamente di provvedimenti amministrativi, egli riteneva che non ricorressero i presupposti normativi per la rettifica della prestazione, sicché l'errore era da considerare inemendabile e i suoi diritti a rendita dovevano considerarsi cristallizzati e non più rimuovibili.
2.1 Anche tali motivi, da esaminare congiuntamente per la loro connessione, vanno disattesi.
2.2 Essi si fondano su un comune erroneo presupposto di fondo, che è quello per cui l'erogazione della rendita deriverebbe, a partire dal 19.11.1997, dai soli provvedimenti di verifica dei postumi, posti in essere dopo la sentenza della Corte d'Appello di riforma dell'originaria pronuncia del Tribunale di Locri.
E' infatti da condividere quanto argomentato nelle difese dell'I.N.A.I.L., ovverosia che gli esiti delle revisioni svolte ex art. 83 d.p.r. 1124/1965, così come la decisione endoamministrativa su di essi ex art. 104 d.p.r. cit., costituiscono, in mancanza di elementi che attestino la devianza dalla tipicità normativa, «mera attività amministrativa e medico-legale nella quale si constata l'oggettività», ovverosia lo stato di salute attuale dell'interessato rispetto ad una pregressa valutazione del danno.
Tali atti, per loro natura, presuppongono l'esistenza di un pregresso provvedimento di riconoscimento di rendita, cui risale l'apprezzamento della derivazione causale dal lavoro svolto, che in sé costituisce il titolo dell'attribuzione.
Non vi è dubbio che, con l'emissione della sentenza di appello, nel caso di specie avrebbe dovuto sospendersi l'erogazione della rendita, ma è altrettanto vero che non risulta alcun provvedimento attributivo della rendita diverso dalla predetta pronuncia (poi riformata) del Tribunale, sicché è sempre stata quest'ultima a costituire fondamento, per quanto non legittimo, dei pagamenti proseguiti nel corso degli anni, anche dopo la sua riforma.
L'assenza di un provvedimento attributivo della rendita diverso dall'originaria e poi riformata pronuncia giudiziale esclude dunque la possibilità di affermare, come vorrebbe il ricorrente con il secondo motivo di ricorso, che a giustificare una qualificazione in termini di indebito previdenziale e quindi a comportare l'applicazione della salvezza di cui all'art. 55, co. 5, L. 88/1989 possano essere utili le valutazioni medico-legali sul suo stato dì salute intervenute, in sede di revisione, successivamente alla sentenza di riforma.
Ma neppure ricorre, così rispondendosi anche al terzo motivo di ricorso, l'ipotesi dell'errore di cui all'art. 9 L. 38/2000.
La rettifica per errore, ai sensi della norma citata, presuppone pur sempre l'esistenza di un «originario provvedimento errato», che può consistere in un'errata decisione di «attribuzione, erogazione o riliquidazione» delle prestazioni.
Peraltro, qualora l'I.N.A.I.L. non contesti la misura delle erogazioni o rideterminazioni della prestazione nel corso del tempo, quanto la spettanza in sé della rendita, viene in evidenza soltanto ciò che attiene all' «attribuzione» della prestazione che però, per quanto sopra detto, non consiste in un provvedimento I.N.A.I.L., ma in una (poi riformata) decisione giudiziale e risale quindi ad una fattispecie che non è quella disciplinata, in senso conservativo dei diritti dell'interessato, dall'art. 9 evocato dal ricorrente.
3. Il quarto motivo è destinato alla denuncia di violazione dell'art. 152 disp. att. c.p.c. per avere la Corte territoriale escluso l'esenzione del ricorrente dall'obbligo di pagare le spese di lite, sul presupposto che la relativa dichiarazione reddituale fosse stata sottoscritta soltanto dal difensore e non, personalmente, dal F.L..
3.1 Anche tale motivo è infondato, essendo consolidato l'orientamento per cui «ai fini dell'esenzione dai pagamento di spese, competenze e onorari, nei giudizi per prestazioni previdenziali, la dichiarazione sostitutiva di certificazione delle condizioni reddituali, da inserire nelle conclusioni dell’atto introduttivo ex art. 152 disp. att. c.p.c., sostituito dall'art. 42, comma 11, dei d.l. n. 269 del 2003, conv. nella l. n. 326 del 2003, è inefficace se non sottoscritta dalla parte, poiché a tale dichiarazione la norma connette un'assunzione di responsabilità non delegabile al difensore, stabilendo che "l'interessato" si impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito» (Cass. 10 novembre 2016, n. 22952; Cass. 10 settembre 2015, n. 17935; Cass. 4 aprile 2012, n. 5363).
4. Il ricorso va dunque integralmente rigettato e le spese del giudizio di legittimità, non essendovi stata alcuna altra dichiarazione ex art. 152 disp. att. c.p.c., restano regolate secondo soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 10.4.2018.