• Datore di Lavoro
  • Cantiere Temporaneo e Mobile
  • Infortunio sul Lavoro 
  • Piano Operativo di Sicurezza
  • Delega di Funzione
  • Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
 

Responsabilità dell'amministratore unico della s.p.a TIS per colpa consistita in negligenza, imprudenza e violazione di norme, per non avere, nel Piano Operativo di Sicurezza, da lui predisposto, individuato e valutato i rischi della lavorazione in rapporto alla morfologia reale del sito dove doveva essere collocata la segnaletica verticale mobile e quindi per non aver adottato tutte le misure di sicurezza - D.B.G., dipendente, con la qualifica di operaio, della s.p.a TIS, società appaltatrice dei lavori di ripristino del giunto di dilatazione del viadotto "(OMISSIS)" dell'autostrada (OMISSIS), nel rimuovere nel cantiere stradale un segnale mobile verticale, collocato in una zona con visibilità ridotta, sorreggendo il cartello segnaletico del peso di circa 31 Kg. ed ingombrante, veniva investito da un'autovettura e decedeva.
 
Il GUP ha dichiarato non luogo a procedere per S.G. poichè ha rilevato, come risulta dagli atti, che le funzioni in materia di sicurezza e prevenzione erano state delegate a R.P. e che, in forza di tale incarico, questi era tenuto all'elaborazione delle procedure di sicurezza e che era stato proprio R.P. a redigere il POS. 
Il P.M. propone ricorso in Cassazione - Rigetto.
 
A fronte del ricorso, va tenuto in conto che il controllo di questa Corte sulla sentenza non può comunque avere ad oggetto gli elementi acquisiti dal p.m., bensì solo la giustificazione resa dal giudice nel valutarli.
 
La Corte ha comunque modo di ribadire alcuni concetti:
 
"affinchè possa prodursi l'effetto del trasferimento dell'obbligo di prevenzione dal titolare della posizione di garanzia ad altri soggetti è necessaria una delega di funzioni da parte dell'imprenditore o del datore di lavoro che deve trovare consacrazione in un formale atto di investitura in modo che risulti certo l'affidamento dell'incarico a persona ben individuata, che lo abbia volontariamente accettato nella consapevolezza dell'obbligo di cui viene a gravarsi; quello cioè di osservare e fare rispettare la normativa di sicurezza.
Se, dunque, è possibile che l'imprenditore possa delegare ad altri gli obblighi attinenti alla tutela delle condizioni di sicurezza del lavoro su di lui incombenti per legge, in quanto principale destinatario della normativa antinfortunistica, qualora sia impossibilitato ad esercitare di persona i poteri-doveri connessi alla sua qualità per la complessità ed ampiezza dell'impresa per la pluralità di settori produttivi di cui si compone o per altre ragioni, tuttavia il cennato obbligo di garanzia può ritenersi validamente trasferito purchè vi sia stata una specifica delega, e ciò per l'ovvia esigenza di evitare indebite esenzioni, da un lato, e, d'altro, compiacenti sostituzioni di responsabilità."
 
E ancora:
"sul piano giuridico, alla luce delle disposizioni del richiamato D.Lgs., una cosa è la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, altra cosa è la delega di funzioni.
Va considerato, scendendo al particolare, che, ai sensi del disposto di cui al D.Lgs. n. 626, art. 4 comma 4, commi lett.a), il datore di lavoro designa il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e che i compiti di detto responsabile sono dettagliatamente elencati nel successivo art. 9 e, tra essi, rientra l'obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure di prevenzione da adottare.
Nel fare ciò, il responsabile del servizio opera per conto del datore di lavoro, il quale è persona che giuridicamente si trova nella posizione di garanzia, poichè l'obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il responsabile del servizio, fa capo a lui in base al citato  D.Lgs. n. 626, art. 4 commi 1, 2 e 6, tanto è vero che il medesimo decreto non prevede nessuna sanzione penale a carico del responsabile del servizio, mentre, all'art. 89 punisce il datore di lavoro per non avere valutato correttamente i rischi.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è, in altri termini, una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo delle eventuali negligenze del primo è chiamato comunque a rispondere.
Orbene, secondo lo schema originario del decreto, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è figura che non si trova in posizione di garanzia e non risponde delle proprie negligenze, in quanto la responsabilità fa capo al datore di lavoro (Anche se poi la modifica normativa introdotta con il D.Lgs. n. 195 del 2003 ha comportato in via interpretativa una revisione della suddetta figura, nel senso che il soggetto designato responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, possa, ancorchè sia privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare).

Diversa, invece, è la delega di funzioni di cui si è parlato.
In tale caso vi è la totale sostituzione del delegato alle responsabilità del datore di lavoro in ordine agli obblighi di apprestare le misure di sicurezza.
Quanto alle specifiche osservazioni del ricorrente, il divieto di delega previsto dal  D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 ter, non impedisce che la materiale elaborazione del piano operativo di sicurezza venga affidata ad un tecnico salvo poi, come è avvenuto nel caso di specie, che esso venga fatto proprio dal datore di lavoro mediante sottoscrizione autografa dello stesso.
Così pure non vi è alcun impedimento normativo che il datore di lavoro possa delegare una persona esterna all'azienda le sue funzioni in materia di prevenzione e sicurezza.
La norma di cui al D.Lgs. in parola, art. 8, comma 2, laddove impone al datore di lavoro di designare all'interno dell'azienda "una o più persone da lui dipendenti" si riferisce al responsabile del servizio di prevenzione e protezione di cui si è parlato."

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MOCALI Piero - Presidente -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. D'ISA Claudio - Consigliere -
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere -
Dott. IZZO Fausto - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALLE DELLA REPUBBLICA presso Corte d'Appello di GENOVA;
nei confronti di:
S.G. n. il (OMISSIS);
avverso la sentenza emessa dal GIP presso il Tribunale di Genova in data 20.07.2005;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. D'ISA Claudio;
attese le conclusioni del Procuratore Generale, nella persona del Dott. Iannelli Mario, che ha concluso per l'annullamento con rinvio.


FattoDiritto

Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Genova propone ricorso per cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 425 c.p.p., dal GUP presso il Tribunale di Genova, in data 20.07.2005, con cui ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di S.G. in ordine al delitto di cui all'art. 589, ai danni di D.B.G., commesso in (OMISSIS).

In sintesi il fatto.

D.B.G., dipendente, con la qualifica di operaio, della s.p.a TIS, società appaltatrice dei lavori di ripristino del giunto di dilatazione del viadotto "(OMISSIS)" dell'autostrada (OMISSIS), nel rimuovere nel cantiere stradale un segnale mobile verticale, collocato in una zona con visibilità ridotta, sorreggendo il cartello segnaletico del peso di circa 31 Kg. ed ingombrante, veniva investito da un'autovettura e decedeva.

Il P.M. iniziava l'azione penale nei confronti dell'indagato S. nella sua qualità di amministratore unico della s.p.a TIS per colpa consistita in negligenza, imprudenza e violazione di norme, per non avere, nel Piano Operativo di Sicurezza, da lui predisposto, individuato e valutato i rischi della lavorazione in rapporto alla morfologia reale del sito dove doveva essere collocata la segnaletica verticale mobile, così come richiesto dal D.P.R. n. 554 del 1999, art. 41, comma 2, e per non avere conseguentemente adottato misure atte ad evitare che D.B. dovesse attraversare, per la rimozione del segnale mobile, un tratto di carreggiata autostradale della galleria "(OMISSIS)".
Nella parte motiva del citato provvedimento il GIP rileva che risulta dagli atti che la T.I.S. s.p.a., della quale S.G. è Amministratore Unico, è un'impresa di non minime dimensioni, specializzata nella produzione e installazione di giunti di collegamento di ponti, viadotti, grandi strutture industriali e civili; che essa occupa complessivamente circa 120 persone; che ha in portafoglio ordini per circa 30 milioni di Euro e che ha ricevuto in subappalto dalla Pavimentai s.p.a. la manutenzione dei giunti stradali di tutta la rete autostradale gestita dalla Autostrade s.p.a..
In questa situazione, per il giudicante, appare evidente che l'infortunio occorso al dipendente D.B.G., potrebbe essere attribuito all'odierno imputato, quale datore di lavoro dell'infortunato ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, solo in mancanza di un delegato allo svolgimento delle attività connesse alla prevenzione e protezione.
Lo stesso P.M., del resto, nel formulare l'accusa nei confronti di S.G. ha sottolineato, oltre alla qualifica formale che egli rivestiva, la circostanza che il Piano Operativo di Sicurezza oggetto di imputazione era stato "da lui predisposto".
Orbene, rileva il GUP, risulta dagli atti - ed è stato esaurientemente documentato nel corso dell'udienza preliminare - che, quanto meno dal 22.7.1999, le funzioni in materia di sicurezza e prevenzione, per i lavori svolti dalla T.I.S. s.p.a. nel cantiere su indicato, erano state delegate a R.P. e che, in forza di tale incarico, questi era tenuto all'elaborazione delle procedure di sicurezza. Fu infatti R., nell'ambito delle sue competenze, a redigere il Piano Operativo di Sicurezza datato 10.5.2002 relativo ai cantieri aperti dalla TIS sul primo tronco della rete autostradale, e S., quale Amministratore Unico della società, sottoscrisse si quel piano, ma per approvazione.
L'adeguamento del Piano Operativo di Sicurezza alle peculiarità e alla "specifica morfologia del sito" ove era installato il cantiere teatro dell'infortunio (cantiere che era stato aperto in data (OMISSIS)) non doveva dunque essere compiuto da S.G., ma invece dalla persona, abilitata e competente, cui egli aveva delegato "l'elaborazione delle procedure di sicurezza per le varie attività aziendali, ivi compresi gli adempimenti relativi a lavori in appalto all'interno delle unità produttive" (così testualmente il documento di designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione aziendale sottoscritto dal R. in data (OMISSIS)).
 
Il Gup dunque ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di S. G., e ha disposto la restituzione degli atti al P.M. per quanto di competenza in relazione alla posizione di R.P..
 
A base dei motivi del ricorso il Procuratore ricorrente evidenzia l'errata valutazione del GUP dei fatti di causa argomentando che un valido piano operativo deve essere redatto con specifiche previsioni attinenti il luogo concreto ove esso deve trovare applicazione, nè esso, nè i suoi adeguamenti e modifiche sono delegabili da parte del datore di lavoro.
Lo S. ha sottoscritto il POS per approvazione e quindi ne ha assunto pienamente la responsabilità.
Inoltre la delega delle funzioni trasferisce la responsabilità del delegante al delegato solo se risulti da un atto di contenuto io- equivoco e certo che conferisca piena autonomia decisionale.
Da una lettura della delega in atti emerge che essa non è valida perchè difforme dalle prescrizione di legge.
Infatti essa doveva essere conferita ad un dirigente o un preposto organicamente facente parte dell'azienda, mentre è stata conferita ad un professionista del tutto esterno alla TIS s.p.a, quindi non legato da alcun rapporto organico con quest'ultima.
Egli poteva solo integrare l'azione di prevenzione, ma non determinarla in esclusiva.
Nell'atto non viene conferito alcun potere al R., il quale pertanto a sua volta non poteva imporre agli operanti nel cantiere alcun tipo di comportamento che evitasse l'insorgere di pericoli.
 
L'atto d'impugnazione va rigettato.

L'art. 425 c.p.p., comma 3, definendo la funzione della sentenza di non luogo a procedere, afferma che il giudice la pronuncia non solo in presenza di una causa di non punibilità (comma 1), ma "anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio".
E l'art. 426 c.p.p., comma 1 sul piano strutturale specifica: "La sentenza contiene: ... d) l'esposizione sommaria dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata".
L'art. 434 c.p.p. prevede che la sentenza può essere oggetto di "revoca", "se sopravvengono o si scoprono nuove fonti di prova".
Dunque, la sentenza di non luogo a procedere non afferma certo l'assenza di responsabilità, bensì solo l'impossibilità di giungere a certezza di segno contrario, secondo un criterio prognostico negativo, frutto di valutazione riassuntiva degli elementi acquisiti.
Ferma questa premessa, la L. n. 46 del 2006, art. 4, novellando l'art. 428 c.p.p., ne ha escluso l'appellabilità.
La Corte Costituzionale con ordinanza n. 4/08, che fa conto della sua diversità rispetto a quella pronunciata in giudizio, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di illegittimità della nuova norma preclusiva dell'appello.
Il p.m. può comunque proporre ricorso, e del pari l'offeso già costituito parte civile, altrimenti solo per violazione del suo diritto al contraddittorio (art. 419 c.p.p., comma 1).
L'imputato può farlo solo se la sentenza non dichiara che il fatto non sussiste o l'imputato non l'ha commesso.
Poichè la sentenza è solo ricorribile, in caso di annullamento, la prognosi deve essere riformulata dallo stesso giudice che ha deciso non luogo a procedere, cui non sarebbe altrimenti precluso di revocarla al pari del provvedimento di archiviazione.
Tale provvedimento presume valutazione del giudice delle indagini conforme a quella del pubblico ministero di inidoneità degli elementi acquisiti a sostenere l'accusa in giudizio, e dunque non implica contraddittorio, salvo richiesta preventiva dell'offeso di poter dedurre nel caso sulle indagini da compiere, e le prove da acquisire, il che significa anticipare eventuale possibilità di revoca del provvedimento.
Orbene, in tal caso questa Corte non può essere adita per una valutazione sul merito della decisione (art. 409 c.p.p., comma 6).
Insomma il provvedimento ai sensi dell'art. 425 c.p.p., pur motivato sommariamente, in effetti assume natura di sentenza sol perchè la valutazione dopo il contraddittorio svolto in udienza preliminare è difforme da quella del pubblico ministero, ed implica assunzione del giudice della scelta d'inibire allo stato l'esercizio dell'azione penale contro l'imputato, salvo potenziale revoca.
Pertanto, a fronte del ricorso, va tenuto in conto che il controllo di questa Corte sulla sentenza non può comunque avere ad oggetto gli elementi acquisiti dal p.m., bensì solo la giustificazione resa dal giudice nel valutarli.
Ma se tanto è vero, benchè la legge non operi riserva del ricorso alla "violazione di legge", a fronte di prevista motivazione sommaria d'inidoneità degli elementi acquisiti per l'accusa in giudizio, il giudice di legittimità non ha concreta possibilità, men che dovere, di verificare il puntuale rispetto dei parametri di cui all'art. 192 c.p.p..
E' in questi termini che il controllo di motivazione risponde ai principi dell'ordinamento che vuole il giudice soggetto solo alla legge (art. 101 Cost., comma 2), e limita il ricorso per cassazione contro i provvedimenti giurisdizionali alla sola violazione di legge (art. 111 Cost., comma 7).
L'art. 192 c.p.p., difatti, indica il metro d'induzione probatoria nella resa puntuale di conto dei risultati acquisiti, cioè elementi di prova verificati certi, e dei criteri adottati.
E, se si tratta di indizi, questi devono essere dimostrati innanzitutto inconfutati (gravi), quindi di valenza univoca (precisi) e concordi.
E non si vede come questo disposto, relativo alla motivazione di convincimento intorno ad accertamento svolto in termini di potenziale condanna, si possa conciliare con quella di un convincimento esclusivamente prognostico negativo di tale condanna, che si riassume in una valutazione di inidoneità dell'accusa.
Pertanto, l'unico controllo ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), consentito in sede di legittimità della motivazione della decisione negativa del processo, qual è la "sentenza di non luogo a procedere", concerne la riconoscibilità del criterio prognostico adottato nella valutazione d'insieme degli elementi acquisiti dal pubblico ministero.
Diversamente si giunge ad attribuire al giudice di legittimità un compito in effetti di merito, in quanto anticipatorio delle valutazioni sulla prova da assumere.
E tal cosa si pone in contraddizione insanabile con la possibilità di revoca della sentenza da parte dello stesso giudice per le indagini preliminari, sopravvenute o scoperte nuove fonti di prova da combinare eventualmente con quelle già valutate (art. 434 c.p.p.).
In altri termini, paradossalmente, questa Corte potrebbe pregiudicare l'esito di un eventuale giudizio.
Nella specie il Giudice ha chiaramente espresso il criterio con il riferimento al dato oggettivo, desunto dalla documentazione versata in atti nel corso dell'udienza preliminare, che, quantomeno dal 22.07.1999, le funzioni in materia di prevenzione e sicurezza della T.I.S. s.p.a. erano state delegate a R.P. e che, in forza di tale incarico, egli era tenuto alla elaborazione delle procedure di sicurezza. Sul punto non appaiono aderenti al dettato normativo le argomentazioni del ricorrente, secondo cui la dedotta inefficacia della delega conferita dallo S.G., nella qualità di datore di lavoro, al R.P. deriverebbe dal fatto che:
a) costui non era inserito organicamente nell'azienda;
b) la delega di funzioni non risulterebbe da un atto di contenuto inequivoco e certo che conferisce piena autonomia decisionale, gestionale ed economica;
c) comunque, la redazione di un valido piano di sicurezza, nè i suoi adeguamenti e modifiche che si rendano necessari, sono delegabili da parte del datore di lavoro (si richiama il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4).
Questa Corte ha costantemente affermato il principio, nella materia infortunistica, secondo cui affinchè possa prodursi l'effetto del trasferimento dell'obbligo di prevenzione dal titolare della posizione di garanzia ad altri soggetti è necessaria una delega di funzioni da parte dell'imprenditore o del datore di lavoro che deve trovare consacrazione in un formale atto di investitura in modo che risulti certo l'affidamento dell'incarico a persona ben individuata, che lo abbia volontariamente accettato nella consapevolezza dell'obbligo di cui viene a gravarsi; quello cioè di osservare e fare rispettare la normativa di sicurezza.
Se, dunque, è possibile che l'imprenditore possa delegare ad altri gli obblighi attinenti alla tutela delle condizioni di sicurezza del lavoro su di lui incombenti per legge, in quanto principale destinatario della normativa antinfortunistica, qualora sia impossibilitato ad esercitare di persona i poteri-doveri connessi alla sua qualità per la complessità ed ampiezza dell'impresa per la pluralità di settori produttivi di cui si compone o per altre ragioni, tuttavia il cennato obbligo di garanzia può ritenersi validamente trasferito purchè vi sia stata una specifica delega, e ciò per l'ovvia esigenza di evitare indebite esenzioni, da un lato, e, d'altro, compiacenti sostituzioni di responsabilità.
Sul presupposto che l'individuazione dei destinatari dell'obbligo di prevenzione deve avvenire in relazione all'organizzazione dell'impresa e alla ripartizione delle incombenze, siccome attuata in concreto tra i vari soggetti chiamati a collaborare con l'imprenditore e ad assicurare in sua vece l'onere di tutela delle condizioni di lavoro, non può quest'ultimo essere esentato da colpa per qualsiasi evenienza infortunistica conseguente all'inosservanza dell'obbligo di garanzia suo proprio, quando non vi sia stato un trasferimento di competenza in materia antinfortunistica attraverso un atto di delega e ciò in attuazione del principio della divisione dei compiti e delle connesse diversificate responsabilità personali.
Orbene, tutto ciò premesso, è necessario osservare che, sul piano giuridico, alla luce delle disposizioni del richiamato D.Lgs., una cosa è la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, altra cosa è la delega di funzioni.
Va considerato, scendendo al particolare, che, ai sensi del disposto di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4, comma 4, lett. a), il datore di lavoro designa il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e che i compiti di detto responsabile sono dettagliatamente elencati nel successivo art. 9 e, tra essi, rientra l'obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure di prevenzione da adottare.
Nel fare ciò, il responsabile del servizio opera per conto del datore di lavoro, il quale è persona che giuridicamente si trova nella posizione di garanzia, poichè l'obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il responsabile del servizio, fa capo a lui in base al citato  , 2 e 6, tanto è vero che il medesimo decreto non prevede nessuna sanzione penale a carico del responsabile del servizio, mentre, all'art. 89 punisce il datore di lavoro per non avere valutato correttamente i rischi.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è, in altri termini, una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo delle eventuali negligenze del primo è chiamato comunque a rispondere.
Orbene, secondo lo schema originario del decreto, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è figura che non si trova in posizione di garanzia e non risponde delle proprie negligenze, in quanto la responsabilità fa capo al datore di lavoro (Anche se poi la modifica normativa introdotta con il D.Lgs. n. 195 del 2003 ha comportato in via interpretativa una revisione della suddetta figura, nel senso che il soggetto designato responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur rimanendo ferma la posizione di garanzia del datore di lavoro, possa, ancorchè sia privo di poteri decisionali e di spesa, essere ritenuto corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare).
Diversa, invece, è la delega di funzioni di cui si è parlato.
In tale caso vi è la totale sostituzione del delegato alle responsabilità del datore di lavoro in ordine agli obblighi di apprestare le misure di sicurezza.
Quanto alle specifiche osservazioni del ricorrente, il divieto di delega previsto dal  D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 1, comma 4 ter, non impedisce che la materiale elaborazione del piano operativo di sicurezza venga affidata ad un tecnico salvo poi, come è avvenuto nel caso di specie, che esso venga fatto proprio dal datore di lavoro mediante sottoscrizione autografa dello stesso.
Così pure non vi è alcun impedimento normativo che il datore di lavoro possa delegare una persona esterna all'azienda le sue funzioni in materia di prevenzione e sicurezza.
La norma di cui al D.Lgs. in parola, art. 8, comma 2, laddove impone al datore di lavoro di designare all'interno dell'azienda "una o più persone da lui dipendenti" si riferisce al responsabile del servizio di prevenzione e protezione di cui si è parlato.
Da ultimo, la documentazione acquisita agli atti, è stata valutata dal GUP come rispondente ai requisiti richiesti ed esposti.
Tanto impedisce di prender conto degli argomenti del pubblico ministero formulati in termini di eccezione di fatto a sostegno della tesi accusatoria, con richiesta di rivisitare gli atti.
I motivi, propri di merito, sono dunque non consentiti (art. 606 c.p.p., comma 3).

P.Q.M.
 
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Udienza Camerale, il 16 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2009