Cassazione Penale, Sez. 4, 06 febbraio 2001, n. 5037 - Amianto nell'ambiente di lavoro delle Ferrovie. Mancanza di qualsiasi intervento utile a ridurre la concentrazione delle polveri aspirate


 "Sicuramente servivano - afferma la corte a pag. 14 - interventi strutturali, il cui costo le FF.SS. non volevano evidentemente affrontare".

"Ma, neppure furono effettuate quelle minime misure precauzionali che avrebbero potuto ridurre la concentrazione delle polveri aspirate; ...se si fossero installati gli aspiratori sopra ogni fonte di dispersione delle polveri, cioè aspiratori localizzati, si sarebbe ridotta la fonte di inquinamento; se per la pulizia si fosse controllata, con rigore, la bagnatura delle polveri, se si fosse impedito ai lavoratori di mangiare negli stessi locali in cui lavoravano, di portare tute impolverate a casa e, poi, si fossero imposte le docce in azienda e, infine, se si fosse attuata una separazione dei locali, se, in altri termini, si fossero adottate misure di prevenzione dalle più semplici ed evidenti a quelle tecnologicamente più impegnative, si sarebbe raggiunto, con elevato grado di probabilità, un risultato ottimale, anche contro le particelle amiantifere di maggior diametro".

Secondo i giudici di merito, nulla è stato fatto, dalle cose più semplici, intuitive, alle cose più tecnicamente apprezzabili che l'agente modello dell'epoca avrebbe senz'altro posto in essere e, dinanzi a questo nulla, come non si può porre in discussione, per quanto si è detto, il rapporto di causalità tra la condotta - esposizione dei lavoratori, protratta per anni, ad elevate concentrazione di polveri da amianto - e gli eventi, così non può negarsi né la esigibilità della condotta - controllo delle polveri secondo il comune buon senso e secondo le acquisizioni tecniche dell'epoca - né la prevedibilità degli eventi, prevedibilità che, come questa suprema corte ha posto in evidenza, come ricordano i giudici di merito, nella sentenza 6 dicembre 1990, Bonetti, è "la rappresentazione della potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non la rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione".


Fatto

 



1 - La corte di appello di Torino, con sentenza del 21 maggio 1999, confermava la sentenza, in data 5 novembre 1997, del pretore di Torino, che aveva affermato la responsabilità penale, condannandoli alle pene di legge, di P.C., A.G., F.R., C.C., M.M., E.DT., V.S., nella loro qualità di Direttore del Servizio Materiali e Trazione delle FF.SS., il P.C., e, con riferimento alla Officina Grandi Riparazioni di Torino, di capi officina, il A.G., il F.R. e il C.C., di responsabile del Servizio Sanitario delle FF.SS., il M.M., di responsabile dell'Ufficio sanitario compartimentale, il E.DT., e di medico di impianto, il V.S., in ordine ai reati, aggravati dalla violazione di norme antinfortunistiche.

a - P.C., di omicidio colposo in danno di:

- G.P., deceduta per mesotelioma pleurico in Torino 31 agosto 1991;

- L.R., deceduto per adenocarcinoma polmonare in Torino il 20 aprile 1995;

- G.R., deceduto per mesotelioma pleurico in Asti il 24 agosto 1994;

b - A.G., di lesioni colpose in danno di:

- G.R., il quale aveva contratto l'asbestosi nel marzo 1993;

- E.S., il quale aveva contratto l'asbestosi nell'ottobre 1992;

- P.A., il quale aveva contratto tumore polmonare nel dicembre 1992;

- e di omicidio colposo in danno di:

- E.B., deceduto per asbestosi in Torino il 26 luglio 1991;

- B.B., deceduto per mesotelioma pleurico in Torino il 27 settembre 1993;

- G.P. e G.R.;

- C.S., deceduto per carcinoma polmonare in Torino il 30 settembre 1994;

- B.P. deceduto per mesotelioma pleurico in Asti il 24 agosto 1994;

c - F.R. e C.C., di omicidio colposo in danno di G.P. e L.R.;

d - M.M., di omicidio colposo in danno di G.P., L.R. e G.R.;

e - E.DT., di lesioni colpose in danno di E.S. e P.A. e di omicidio colposo in danno di E.B., B.B., G.P., L.R., G.R.;

f - V.S., di omicidio colposo in danno di G.P., L.R. e G.R..

2 - Il pretore, accertato che non v'erano dubbi che le persone offese avessero contratto la malattia a seguito della esposizione, diretta o indiretta, protrattasi per anni, alle polveri di amianto, o fossero decedute a seguito, o anche a seguito, di questa esposizione, riteneva sia il rapporto di causalità tra l'esposizione alle polveri, l'omissione, da parte degli imputati, delle cautele richieste dall'art. 17 del R.D. 14 aprile 1927, n. 530 e dall'art. 21 del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 - norme che, entrambe, impongono al datore di lavoro di impedire o di ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri di qualunque specie nell'ambiente di lavoro - e gli eventi lesioni/morte, sia la colpa degli imputati per non essersi mai preoccupati, pur dovendosene preoccupare a vario titolo, di intervenire sulla diffusione delle polveri nell'ambiente di lavoro.

3 - La corte di appello di Torino, con sentenza del 21 settembre 1999, ritenuta la prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, dichiarava di non doversi procedere per il reato di omicidio colposo in danno di G.P. e di E.B. per essere il reato estinto per prescrizione; assolveva il V.S. dalla imputazione di omicidio colposo in danno di G.R. per non avere commesso il fatto e rigettava nel resto gli appelli - rideterminando le pene e provvedendo sulle richieste delle parti civili - condividendo le valutazioni del pretore.

4 - Ricorrono per cassazione gli imputati e il responsabile civile.

a - Il A.G. denuncia, con il primo motivo, "carenza e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p." e, con il secondo, "inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche delle quali si deve tenere conto nell'applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.".

I - Deduce, nel primo, che "la condotta e la colpa dovevano essere valutate secondo le leggi vigenti e, conseguentemente, secondo le nozioni scientifiche e le possibilità tecniche dell'epoca", mentre, per un verso, "l'assicurazione obbligatoria contro l'asbestosi, prevista della legge n. 454 del 1943, non era estesa anche alle FF.SS.", e, per altro verso, "soltanto alla fine degli anni '60 in Italia venivano pubblicati i primi lavori concernenti studi sulla pericolosità dell'amianto"; inoltre, "il capo dell'O.G.R. era un esecutore materiale di ordini e di direttive impartite dalla Direzione Sanitaria, cioè dal Servizio Sanitario, nonché dalla Direzione tecnica, dal Servizio Materiale e Trazione"; "all'epoca in cui era a capo dell'officina non era possibile prevedere che una esposizione non prolungata - riparazione su rotabili - potesse causare l'insorgenza della asbestosi o di pleuropatie maligne".

II - Deduce, nel secondo, che "il R.D. 503/1927, nel prevedere specifiche e mirate disposizioni dirette a tutelare i lavoratori dalla esposizione a tutte le polveri, prevede anche le norme ivi contenute vengono applicate alle FF.SS. adattandole alle particolari esigenze dell'esercizio ferroviario"; deduce, poi, che "nel D.P.R. 303/1956 l'obbligo del datore di lavoro di contenere l'esposizione a tutte le polveri è escluso per le lavorazioni eseguite a cielo aperto e tali erano le lavorazioni che venivano eseguite presso l'O.G.R. sulle carrozze e sui rotabili".

b - Il V.S. denuncia, con il primo motivo, "inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 4 , 21 e 33 del D.P.R. 303/1956 "; con il secondo, "violazione di legge relativamente alla applicazione dell'art. 40, ultimo comma, c.p. "; con il terzo, "violazione dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., per non essere state assunte due prove a discarico"; con il quarto, "violazione dell'art. 606, comma 1, lett. d) c.p.p., relativamente alla mancata assunzione di prova rilevante avente ad oggetto l'accertamento tecnico peritale in materia medico-legale relativamente ai casi della signora G.P. e L.R.".

I - Deduce, nel primo, che "la legislazione prevenzionale, in essere al momento in cui sono state contestate le condotte al V.S., attraverso la formulazione dell'art. 33 del D.P.R. n. 303/1956 individuava quale destinatario dell'obbligo il datore di lavoro, mentre il ruolo del medico aziendale era esclusivamente quello di adempiere correttamente gli obblighi di sorveglianza su rischi che erano stati individuati dal datore di lavoro e per i quali era stata da quest'ultimo attivata la sorveglianza sanitaria".

"Nella vigenza del sistema definito del D.P.R. 303/1956 può ritenersi, quindi, violata, da parte del medico aziendale, l'unica norma prevenzionale a lui attribuita - neanche direttamente o con previsione di autonoma sanzione - quando questi non abbia eseguito le visite previste sui lavoratori la cui esposizione ad un rischio tabellato sia stata individuata dal datore di lavoro o, nell'eseguirle, non abbia osservato il periodismo definito dalla legge ovvero ancora le abbia eseguite in maniera scorretta".

II - Deduce, nel secondo che, premesso che "per riconoscere un rapporto di causalità tra la pretesa omissione dell'imputato e gli eventi di cui è processo, deve necessariamente riconoscersi l'efficacia della prevenzione sanitaria - disposta dal legislatore per evitare l'insorgenza dell'asbestosi - anche riguardo alle patologie tumorali polmonari e pleuriche, causate o attribuite all'amianto - deve prendersi atto che, secondo le linee guida elaborate dalla omissione oncologica nazionale, in applicazione di quanto previsto dal piano sanitario nazionale per il triennio 1994/1995, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'1 giugno 1996, n. 83, la prevenzione secondaria - cioè, il monitoraggio sanitario - per i tumori polmonari non ha alcuna utilità ed efficacia".

III - Deduce, nel terzo, che, nell'atto di impugnazione, era stata sollecitata la rinnovazione del dibattimento per l'acquisizione di elementi probatori documentali e ulteriori accertamenti di natura tecnica in materia medico-legale sui due casi concernenti la G.P. e il L.R.".

"La sentenza impugnata ha ribadito che il momento di assoluta circolazione della notizia della pericolosità dell'amianto deve essere incontrovertibilmente collocato negli anni 1960/1970", mentre "la acquisizione della copia degli indici delle riviste 'La medicina del lavoro' e 'Rivista degli infortuni e delle malattie professionali', pubblicate negli anni dal 1971 al 1979 avrebbe consentito di accertare che le conoscenze sulla pericolosità dell'amianto non erano affatto consolidate e diffuse".

IV - Deduce, nel quarto, che "la richiesta di perizia medico-legale relativamente ai casi della G.P. e del L.R. avrebbe consentito di superare, se accolta, il contrasto tra le conclusioni di ben tre accertamenti da parte dei consulenti del p.m.".

3 - Il E.DT. denuncia, con il primo motivo, "inosservanza o erronea applicazione della legge penale", con il secondo che "il tribunale di Alessandria lo ha assolto da analoga imputazione per non aver commesso il fatto e, con il terzo, "mancanza di motivazione".

Deduce, nel primo - gli altri due motivi non vanno oltre quanto si è appena esposto - che, se è vero che il R.D. 503/1927 e il successivo D.P.R. 303/1956 fissavano specifiche e mirate disposizioni volte a tutelare i lavoratori dalla esposizione a tutte le polveri, è anche vero che quaranta anni or sono, e per i successivi trenta, non era possibile prevedere che la manipolazione di prodotti già finiti contenenti amianto o che il lavoro di coibentazione potesse determinare l'insorgenza dell'asbestosi e delle successive complicazioni neoplastiche".

4 - Il M.M. enuncia, con il primo motivo, "violazione dell'art. 40, comma 2, relativamente alla imputazione di omicidio colposo in danni di G.P."; con il secondo, "violazione dell'art. 40, comma 2, c.p. relativamente alla imputazione di omicidio colposo in danno di G.R."; con il terzo, "violazione dell'art. 40, comma 2, c.p. relativamente alla imputazione di omicidio colposo in danno di L.R."; con il quarto, "violazione dell'art. 40, comma 2, c.p. e mancanza di motivazione circa la individuazione dell'obbligo giuridico gravante sull'imputato e violazione dell'art. 63, comma 4 , del D.P.R. 303/1956 "; con il quinto, "violazione dell'art. 43 c.p. e mancanza di motivazione nel capo in cui sono state ritenute colpose le condotte omissive ascritte all'imputato".

I - Deduce, nel primo motivo, - premesso che la corte di merito ha affermato che v'era un elevato grado di probabilità che la G.P. fosse deceduta per mesotelioma pleurico - che "il consulente del p.m. ha ritenuto che 'poteva essere ragionevolmente escluso' che la G.P. fosse deceduta per un tumore diverso dal mesotelioma pleurico, mentre per gli altri consulenti la diagnosi di mesotelioma non era certa, ma solo possibile e/o probabile, non essendo sufficientemente escluso che non di mesotelioma si fosse trattato, ma di metastasi di altri tumori, mentre soltanto con l'esame istologico, sia in vita, sia post mortem, si sarebbe potuto sapere con certezza se la G.P. fosse ammalata o, post mortem, se fosse morta per mesotelioma pleurico, e soltanto con l'esame autoptico si sarebbe potuto accertare fuori di ogni dubbio se il tumore alla pleura fosse o non fosse metastasi di altro tumore".

II - Deduce, nel secondo, che "nei motivi di appello - pag. 10 - si era fatto presente che lo stesso consulente del p.m. aveva affermato che "era altamente probabile che il periodo lavorativo da tenere presente, per quanto riguardava l'inizio del processo carcinogeno del G.R., fosse quello compreso tra il 1963 e il 1971"; "e si era anche sottolineato che il consulente del p.m. prof. Mollo, richiesto se potesse dire se il G.R., ove avesse interrotto l'esposizione a gennaio 1971 e fosse andato a vivere in campagna, non sarebbe morto o se sarebbe morto dopo, aveva risposto che 'no, non lo poteva dire', affermazione che fa escludere che possano rispondere di omicidio colposo, in danno del G.R., tutti gli imputati chiamati a rispondere del loro operato dal 1971 in poi".

III - Nel terzo motivo, dopo avere rilevato che "il consulente prof. Baima Bollone ha affermato che il periodo di latenza del carcinoma polmonare è di 20-30 anni e, quindi, che, considerato che l'insorgenza della sintomatologia per il L.R. era datata 1993, occorreva risalire almeno al 1963/1973 per individuare il momento in cui il L.R. contrasse la malattia", deduce che "la sentenza ha sostanzialmente accolto la impostazione dei consulenti tecnici del p.m., ritenendo sia che il fatto che il L.R. avesse lavorato dal 1970 al 1976 in un ambiente in cui vi era amianto aveva esercitato un ruolo concausale nella produzione dell'adenocarcinoma, sia che l'esposizione non era stata modesta, sia che l'asbestosi, che il L.R. non aveva contratto, non era precondizione dell'insorgere del tumore, così come hanno affermato i consulenti Chellini, Carnevale e Mollo, tumore che poteva insorgere anche in assenza di fibrosi come hanno affermato Arossa, Mollo, Forconi e Piccioni".

"I consulenti del p.m. - prosegue - hanno ammesso che, non avendo il L.R. l'asbestosi, l'unica spiegazione dell'insorgenza del cancro polmonare può essere rinvenuta nell'effetto carrier delle fibre di amianto, le quali avrebbero veicolato perifericamente le sostanze cancerogene del fumo di sigaretta e ciò secondo una opinione, datata 1976, della prof.ssa Margaret Backlake, estremamente criticata e non confermata".

"La corte, però, nel richiamare la tesi dell'effetto carrier e nel considerarla scientificamente certa dell'asserito effetto sinergico tra fumo di sigaretta ed amianto, ha trascurato di ricordare - come lo aveva trascurato il primo giudice, tanto è vero che nei motivi di appello il problema era stato espressamente sollevato, a pag. 18 - che lo stesso consulente d'accusa Forconi, a specifica domanda se la tesi Backlake - teorizzatrice dell'effetto carrier - avesse o meno seguito, in dibattimento ha affermato di aderire alla contraria opinione dominante secondo cui l'asbestosi sarebbe precondizione necessaria dell'insorgenza del tumore al polmone, avendo citato la tesi Backlake solo per sviscerare tutte le possibili spiegazioni del fenomeno".

IV - Deduce, nel quarto, che "della violazione delle norme antinfortunistiche il M.M. non può essere considerato responsabile, in quanto non punto nodale dell'organizzazione FF.SS., dal momento che altri, specificamente investiti del relativo compito, aventi piena responsabilità e competenza, dovevano far applicare le norme antinfortunistiche e/o dovevano controllare che tali norme fossero concretamente applicate".

"Il M.M. potrebbe essere considerato, in astratto, responsabile ex art. 40, comma 2, c.p.p. , laddove si dimostrasse che ha violato determinati obblighi giuridici imposte da specifiche norme di legge, di regolamenti, ordini e discipline, diverse da quelle indicate nei capi di imputazione, a lui non applicabili"; e, inoltre, la giurisprudenza della corte di cassazione è tutta nel senso di escludere, nelle organizzazioni complesse, la responsabilità dei vertici della organizzazione, allorché l'organigramma contempli, a diversi livelli, - come nel caso di specie, in cui v'erano e il responsabile dell'ufficio sanitario compartimentale, il E.DT., e il medico di impianto, il V.S. - coloro che sono responsabili del rispetto delle norme antinfortunistiche".

V - Deduce, con il quinto, che, negli anni in cui il M.M. ha assunto l'incarico di Direttore del Servizio sanitario delle FF.SS., non si sapeva che bastavano esposizioni a bassissime dosi per contrattare il mesotelioma anche in assenza di asbestosi, sicché un provvedimento che avesse abbattuto pur notevolmente le polveri, tale da impedire o grandemente diminuire il rischio di asbestosi, sarebbe stato inutile sotto il profilo del rischio di morire per mesotelioma".

"Né è corretto ritenere che, comunque, il fatto che si dovessero assumere le misure previste dall'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956 contro le polveri dannose vanificherebbe ogni tentativo di difesa sul punto, e ciò perché per il mesotelioma pleurico il momento in cui si rese conto che bastavano bassissime esposizioni per contrarre la malattia a differenza di quanto capitava per l'asbestosi e per il carcinoma polmonare intervenne in un secondo momento rispetto a quanto era nota la generica dannosità dell'amianto".

"E la Comunità scientifica della realtà produttiva italiana, cui occorre fare riferimento per applicare il parametro dell'homo ejusdem condicionis et professionis solo a partire dal 1976 pubblica casi di mesotelioma da amianto per esposizione diretta continuativa, anche se quei casi erano stati resi già noti in altri paesi".

Del resto, "la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 312 del 25 luglio 1996, interpretativa di rigetto della norma dell'art. 41 del D.P.R. n. 277 del 1991 - norma che sanziona l'obbligo del datore di lavoro di ridurre al minimo, "in relazione alle conoscenze scientifiche acquisite in base al progresso tecnico, i rischi derivanti dalla esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali, concretamente attuabili" - ha affermato che l'avverbio 'concretamente' deve interpretarsi come "applicazioni tecniche generalmente praticate e accorgimenti organizzative procedurali generalmente acquisiti, sicché penalmente sanzionata è soltanto la deviazione dei comportamenti dell'imprenditore dagli standard propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive".

5 - Il Responsabile civile denuncia "erronea applicazione degli artt. 40 e 43 c.p. "

I - Deduce, sul problema della causalità, che "il problema della rilevanza della concausa non si risolve con un semplicistico richiamo al principio della equivalenza, ma va affrontato e risolto con riferimento al ruolo effettivo di ciascuna concausa al fine di individuarne una idoneità concreta alla produzione dell'evento".

II - Deduce, sulla colpa specifica, che "gli studi più recenti escludono che una drastica riduzione della diffusione della polvere di amianto possa eliminare anche le fibre di amianto, sicché ci si deve domandare se, all'epoca dei fatti, esistessero norme specifiche in materia di diffusione di fibre di amianto, né è possibile richiamarsi alla L. 12 aprile 1953, n. 455, che estese la assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi e all'asbestosi, anche perché la legge non faceva cenno ad altre patologie, né vi hanno accennato i successivi provvedimenti legislativi del 1965, n. 1124, e del 1975, n. 548, ché soltanto il D.P.R. 13 aprile 1994, n. 336 , si interessa anche delle malattie neoplastiche causate dall'asbesto: mesotelioma pleurico, pericardico, peritoneale, carcinoma del polmone".
 

 

Diritto

 



1 - La sentenza impugnata va annullata senza rinvio per estinzione dei reati per morte dell'imputato nei confronti del P.C., del F.R. e del C.C..

2 - I motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto nell'interesse del M.M. vanno trattati per primi, sia perché denunciano mancanza di motivazione sul fatto-rapporto di causalità - "non è certo che la G.P. sia morta per mesotelioma pleurico e, quindi, che vi sia nesso di causalità tra l'esposizione indiretta della donna alle polveri di amianto e l'evento; è tutt'altro che sicuro che il G.R. non sarebbe morto ugualmente, e nella stessa data, se avesse smesso di lavorare nel 1971; non è per nulla certo che l'esposizione del L.R. alle polveri di amianto sia stata concausa della morte per il c.d. effetto Carrier" - sia perché, per l'effetto estensivo della impugnazione, hanno interesse all'eventuale accoglimento di questi motivi il E.DT., il A.G. e il V.S., quanto alla morte della G.P., il E.DT. e il V.S., quanto alla morte del L.R., e il E.DT. e il A.G., quanto alla morte del G.R..

Per quel che riguarda il motivo con il quale si contesta che la causa della morte della G.P. sia stato il mesotelioma pleurico, va rilevato, poi, che da questa imputazione di omicidio colposo gli imputati sono stati prosciolti con dichiarazione di non doversi procedere per estinzione del reato per prescrizione.

Ne consegue che i limiti entro i quali è consentito l'esame della doglianza di difetto di motivazione sono i limiti ripetutamente posti in evidenza dalla giurisprudenza di questa suprema corte, la quale ha affermato, sia nella vigenza dell'abrogato codice di rito, sia nella vigenza dell'attuale, che, una volta dichiarata la prescrizione dal giudice di merito, il ricorso per cassazione non può tendere all'annullamento della sentenza per vizio di motivazione, ma solamente, e solamente attraverso l'esame della sentenza, all'accertamento della sussistenza delle condizioni per il proscioglimento nel merito e ciò in applicazione dell'art. 129 c.p.p. già art. 152 dell'abrogato codice.

E' superfluo ricordare che la ratio di questo costante indirizzo sta nel fatto che, nell'ottica del legislatore, la causa di estinzione incide negativamente sull'esercizio della giurisdizione, sicché, una volta rilevata la presenza di una causa estintiva, al giudice, a meno che non vi sia rinuncia alla prescrizione o all'amnistia, non resta che il potere-dovere di accertare ciò che l'ordinamento giuridico penale esige e non può non esigere che si accerti in ogni caso, di accertare, cioè, se risultino dalla sentenza impugnata le condizioni per il proscioglimento nel merito.

Questa puntualizzazione consente di osservare subito che è inammissibile il quarto motivo del ricorso del V.S. nella parte in cui lamenta che il giudice di merito non ha rinnovato il dibattimento per assumere una consulenza medico-legale che avrebbe consentito di eliminare ogni dubbio sulle cause della morte della G.P..

Intervenuta la prescrizione, oggetto di esame, ai fini dell'eventuale proscioglimento nel merito, è, come si è appena detto, esclusivamente la sentenza impugnata, sicché è motivo di ricorso non consentito quello con il quale si denunci un vizio di motivazione il cui accoglimento imporrebbe la impossibile regressione del processo.

I - Il primo motivo di ricorso - vicenda G.P. - è infondato, nel senso che dalla sentenza non emerge la prova evidente della non colpevolezza degli imputati, avendo la corte di merito accertato correttamente, oltre che la sussistenza della colpevolezza - di cui si dirà -, il rapporto di causalità, contestato nel motivo, tra l'esposizione indiretta della G.P. alle polveri di amianto e la morte per mesotelioma pleurico: la G.P., moglie di Guido Frolli, operaio alle dipendenze delle FF.SS. nell'Officina Grandi Riparazioni di Torino, aveva maneggiato per anni, per lavarle, le tute, intrise di polveri da amianto, che il marito indossava in officina.

a - Si eccepisce nel motivo che, in tanto sussiste rapporto di causalità tra un antecedente - la condotta dell'uomo - e l'evento in quanto l'evento possa essere fatto risalire con certezza all'antecedente, certezza che, nella specie, è inesistente, avendo affermato la corte, sulla scorta di quanto dichiarato dai consulenti del p.m. - in particolare il prof. Mollo - che "la diagnosi di morte della G.P. per mesotelioma pleurico era ragionevole e che era ragionevolmente da escludere che la morte fosse stata determinata da altri fattori, ragionevolezza che, invece, era stata esclusa da tutti gli altri consulenti, per i quali era soltanto possibile/probabile che fosse stato il mesotelioma pleurico la causa della morte della G.P..

Soltanto l'esame istologico, in vita o post mortem, avrebbe consentito, secondo il ricorrente, di acquisire la certezza che il tumore alla pleura era un mesotelioma e soltanto l'esame autoptico avrebbe fatto constatare che il tumore alla pleura non era metastasi di altro tumore.

b - La corte di merito, nel rigettare le analoghe doglianze presenti, sul punto, nei motivi di appello - "lamentano le difese, analogamente e in sintonia con le contestazioni del consulente tecnico Chiappino, (così la sentenza), che la diagnosi è stata fatta in laboratorio e su microscopio, senza prelievo di almeno 10 grammi di tessuto e senza esame autoptico" - afferma che "le argomentazioni del prof. Mollo sono veramente convincenti ed esaustive", ché "la storia clinica della donna, gli esami, i reperti e gli esiti istologici indicano l'esistenza di un'affezione polmonare"; "inoltre, il progredire di neoformazioni tessutali in sede pleurica portano ad una diagnosi di malattia tumorale e il prof. Mollo riferisce di neoplasia primitiva, sicché non si è trattato di una metastasi.

La corte, poi, approfondisce quest'ultimo tema, sottolineando che, secondo il consulente, "le prime manifestazioni sono quelle delle metastasi", ma "è tuttora eccezionale che il tumore primitivo in seguito non si manifesti e nel caso della G.P. non si è manifestato", ché "la morte è avvenuta ad oltre tre anni di distanza dall'accertamento di cellule tumorali e non si sono avute altre manifestazioni" ed è, altresì, caratteristica del mesotelioma sia l'andamento clinico progressivo con versamenti pleurici recidivanti, sia il quadro radiologico, tomografico e pleuroscopico di memmellonature pleuriche a sviluppo progressivo e gli esami non avevano mai evidenziato reperti di carcinoma bronchiale".

La sentenza, subito dopo, pone in evidenza che "il fatto che già l'Usl avesse diagnosticato tale malattia - l'Ospedale S. Luigi specializzato in patologie polmonari aveva fatto una diagnosi di sospetto mesotelioma nella richiesta degli esami citologici e, in seguito a detti esami, la diagnosi era stata confermata - porta a ritenere che effettivamente i dati clinici fossero confermativi di una tale infausta diagnosi".

"Non poteva non apparire strano ai medici - aggiunge la corte - che un mesotelioma comparisse in una persona che non aveva, apparentemente, lavorato a contatto di amianto, con al conseguenza che la diagnosi doveva essere fatta con particolare cautela, accurato vaglio della storia clinica e degli esami di laboratorio e nel pieno convincimento della sua esattezza.

"Ritiene, pertanto, la corte - questa la conclusione - che non vi sia dubbio sulla causa della morte della G.P. e, comunque, se non si vuole parlare di assoluta certezza, in ogni caso deve reputarsi sussistere un elevato grado di probabilità per la diagnosi di mesotelioma.

c - Come si vede, la corte traduce le espressioni dei consulenti, citate nel motivo, - "gli aspetti citomorfologici emersi pur non essendo discriminanti in se stessi, sono caratteristici assai più del mesotelioma epiteliomorfo che non del carcinoma" e, perciò, "era ragionevole supporre che la diagnosi fosse corretta"; "penso (così il prof. Mollo) che possa essere ragionevolmente escluso come possibilità un tumore primitivo che per oltre tre anni resti silente dopo avere dato metastasi in corrispondenza della pleura" - con la proposizione che "non vi sono dubbi sulla causa della morte della G.P. e, comunque, se non si vuol parlare di assoluta certezza, in ogni caso deve reputarsi sussistente un elevato grado di probabilità per la diagnosi di mesotelioma" e, come è noto, di "elevato grado di probabilità o di credibilità razionale" parla, mutuando da più voci autorevoli della dottrina, la giurisprudenza della corte di cassazione nella sentenza - Cass., 6 dicembre 1990, Bonetti - citata dal pretore.

d - A tutto ciò si oppone, come si è visto, che la vera certezza sarebbe stata possibile soltanto con l'esame istologico e, post mortem, con l'autopsia.

Ma, nel motivo, se si insiste sulla necessità, ai fini della certezza della diagnosi, dell'esame istologico e dell'esame autoptico, non si spiega perché l'esame citologico, vagliato da un centro specializzato in malattie polmonari come quello citato nella sentenza, non avrebbe potuto far concludere legittimamente o, meglio, scientificamente per il mesotelioma pleurico, così come non si tiene in alcun conto che "il citologico" era stato esaminato con particolare attenzione, come osserva la corte, da chi, riflettendo sulla storia clinica della donna, si era posto espressamente il problema di come il mesotelioma potesse essere comparso "in una persona che non aveva apparentemente lavorato a contatto dell'amianto".

Nulla di specifico si obietta, poi, alla peculiare, nella logica della sentenza, osservazione, fondata, evidentemente, su dati scientifici, che è "ragionevolmente da escludersi come possibilità che un tumore primitivo resti silente per oltre tre anni dopo aver dato manifestazioni in corrispondenza della pleura", osservazione che altro non significa se non che era da escludersi, a ragione - per non essersi, il supposto tumore, manifestato ad oltre tre anni di distanza - che quel tumore alla pleura non fosse mesotelioma, come confortavano tutti gli altri esami.

f - La mancanza di obiezioni specifiche a tutto ciò sta a significare che, se è innegabilmente certo quel che cade sotto i nostri sensi, quel che è sperimentabile ed è sperimentato, se è innegabile, dunque, che l'esame istologico e l'esame autoptico danno certezza, è altrettanto indubbio che il giudice, se deve dare pieno credito alla certezza scaturente da determinati dati sperimentali, non può non attribuire identica certezza - o, se si vuole, un elevato grado di probabilità o credibilità razionale - a dati che, se non hanno l'immediatezza, l'evidenza, dei primi, i quali, in qualche modo, dettano la certezza, sono logicamente interpretabili come altrettanti parametri di verità o di certezza in quella direzione.

In altri termini, oltre alla certezza fondata su dati empirici - si potrebbe dire, fondata su dati documentali - v'è la certezza fondata sulla deduzione, sulla logica, certezza non meno certa della prima, allorché gli elementi dai quali la deduzione muove siano di innegabile spessore e siano esaminati correttamente secondo le leges artis del settore in questione ed è davvero impossibile sostenere che il giudice di merito, nella specie, non abbia concluso correttamente per quell'elevato grado di probabilità, vista la valenza dei dati postigli a disposizione dai tecnici - dati, giova ripeterlo, nei confronti dei quali si è soltanto detto, sostanzialmente, che ve ne erano di più certi - e viste le conclusioni cui i tecnici erano pervenuti.

II - Il secondo motivo è fondato.

a - Il ricorrente, nel secondo motivo, ricorda - e si duole che la corte di appello non abbia preso in esame il rilievo - che, a pag. 10 dei motivi di appello, aveva osservato, trattando della morte, per mesotelioma pleurico, di G.R., che il prof. Mollo aveva affermato, che "è altamente probabile che il periodo lavorativo da imputare, per quanto riguarda l'inizio del processo carcinogenetico, sia quello 1963/1971 presso l'Officina Grandi Riparazioni di Torino e che il periodo lavorativo 1971/1986 presso il Deposito Locomotive di Asti abbia concorso allo sviluppo della malattia neoplastica", donde la conseguenza - eccepiva l'appellante ed eccepisce il ricorrente - che è altamente improbabile che il periodo lavorativo, da imputare per l'inizio del processo carcinogenetico, si sia verificato dal 1971 in poi.

Il ricorrente aggiunge, nel ricorso, che, "peraltro, se il prof. Mollo, in astratto, si è espresso nei termini sopra riferiti, in concreto - con riferimento al caso in esame - la sua risposta è stata ancora più chiara, ché "all'udienza dibattimentale di primo grado, a fronte della specifica domanda del difensore : "Lei è in grado di dire se il signor G.R., se avesse interrotto l'esposizione a gennaio '73 e fosse andato a vivere in campagna, non sarebbe morto o sarebbe morto dopo?", il prof. Mollo ha risposto: "No, non lo posso dire", sicché il rilievo, già presente nei motivi di appello, che "non è dimostrabile, sotto un profilo medico-legale, che il secondo periodo lavorativo del sig. G.R. - dal 1971 in poi - abbia rivestito una qualsiasi rilevanza causale nella morte del sig. G.R. e, dunque, il M.M. e tutti coloro che hanno avuto alle loro dipendenze il G.R. dopo il 1971 debbono essere assolti.

b - La corte, quanto al mesotelioma pleurico, ha detto, a pag. 17, che, "per il mesotelioma pleurico, è pacifica l'insussistenza di una soglia minima al di sotto della quale possa escludersi il rischio per la salute" e che "anche una breve esposizione può essere fatale", precisando che, "se tale affermazione è vera, è anche vero che, comunque, nelle patologie tumorali incide la predisposizione personale e la durata della esposizione al fattore cancerogeno, sicché se una esposizione minima può causare il mesotelioma, non è possibile escludere - e il rilievo appare del tutto logico - che, solo continuando ad essere esposti, tale malattia insorga o che aumenti la possibilità di insorgenza o di manifestazione".

Se tutto ciò è esatto, - e la corte, sul punto, non ha fatto altro che riportare convinzioni o principi, propri di tutte le vicende concernenti l'amianto e il mesotelioma pleurico pervenute all'esame di questa suprema corte - non può, però, non sottolinearsi che la sentenza impugnata non ha riservato alla vicenda "G.R." soverchio spazio - se ne è interessata a pag. 29 allorché ha assolto il V.S. dalla relativa imputazione - e, comunque, non le ha riservato lo spazio che il motivo di appello, sopra riportato, richiedeva.

E' vero che la sentenza, a pag. 18, afferma che "non si condividono le doglianze degli appellanti là dove si vorrebbe collocare il periodo di esposizione causalmente rilevante in epoche determinate della vita lavorativa delle vittime e ciò perché non è possibile, né legittimo, limitare la durata causalmente rilevante rispetto alla durata del rapporto lavorativo".

Ma, se il mesotelioma non è, per la stessa corte, dose correlato, e se, secondo il prof. Mollo, che la corte mostra di avere in particolare considerazione, "era altamente probabile che il periodo lavorativo da imputare per quanto riguarda l'inizio del processo carcinogenetico fosse quello 1963/1971 e che, in ogni caso, il periodo lavorativo 1963/1971 aveva concorso allo sviluppo della malattia neoplastica", con, però, la puntualizzazione dibattimentale dello stesso Mollo, a domanda della difesa, che non si poteva dire se il G.R., ove avesse lasciato il lavoro nel 1971, non sarebbe morto o se sarebbe morto dopo; se tutto ciò è vero e se è vera, in linea di fatto - certamente lo è - la puntualizzazione dibattimentale del Mollo, la corte si sarebbe dovuta misurare con questa puntualizzazione.

La corte, cioè, avrebbe dovuto prendere atto che il Mollo, sul punto, aveva detto una cosa - il periodo lavorativo 1971/1986 aveva concorso allo sviluppo della malattia neoplastica - e il contrario, non avendo saputo - o, meglio, potuto scientificamente - precisare, se il G.R., ove avesse smesso di lavorare nel 1971, e, quindi, ove non fosse stato più esposto alle polveri da amianto dal 1971, non sarebbe morto o se sarebbe morto dopo, il che vuol dire, sul piano squisitamente logico, che il Mollo, in realtà, non è stato in grado di dire se la esposizione alle polveri da amianto successive al 1971 avessero o non avessero avuto incidenza causale, pur avendo affermato in precedenza, e con sicurezza, - giova insistervi - che la esposizione successiva al 1971 aveva concorso allo sviluppo della malattia neoplastica.

Si impone sul punto l'annullamento con rinvio della sentenza anche, per l'effetto estensivo della impugnazione, nei confronti del E.DT. e del A.G..

Si noterà che, se il M.M. ha assunto le funzioni di Direttore del Servizio sanitario delle FF.SS. nel marzo 1973 e, quindi, dopo il 1971, - e l'altamente probabile inizio del processo carcinogenetico (del mesotelioma pleurico contratto dal G.R.) si sarebbe verificato nel periodo 1963/1971 -, il A.G. è stato capo officina dal marzo 1957 all'ottobre 1964 e il E.DT. è stato responsabile dell'ufficio sanitario compartimentale dal giugno 1968 al febbraio 1973 e, dunque, entrambi anche nel periodo che va dal 1963 al 1971.

Dovrebbe concludersi, allora, che il E.DT. e il A.G. non possono avvalersi dell'effetto estensivo della impugnazione mancandone le condizioni.

Ma, non può sfuggire, per il A.G., che, essendo stato capo officina dal marzo 1957 all'ottobre 1964, il tempo a suo favore si riduce di molto, ché l'imputato, ultimato il compito di capo officina, ha lasciato dinanzi a sé ben sette anni che potrebbero essere stati gli anni decisivi per l'innesco della malattia neoplastica che ha colpito il G.R..

E la stessa cosa va detta per il E.DT., il quale, nel momento in cui ha assunto l'incarico di responsabile dell'ufficio sanitario compartimentale, aveva dietro di sé oltre cinque anni, tra i quali gli anni centrali del periodo in questione che possono collocarsi tra l'ottobre del 1964 e il giugno 1968.

Ritiene, in altri termini, questa suprema corte che, avuto anche riguardo all'assoluta, stando alle due sentenze di merito, incuria dei dirigenti per le polveri da amianto e, pertanto, alla notevole, costante, concentrazione delle stesse, si impone una riconsiderazione di questa vicenda, alla luce pure della storia clinica del G.R., anche per il A.G. e il E.DT., libera, ovviamente, la corte, in sede di rinvio, di confermare, il proprio, precedente, convincimento.

III - Il terzo motivo è fondato.

a - Il ricorrente eccepisce, nel motivo, che, a pag. 18 dei motivi di appello, aveva obiettato, quanto alla imputazione di omicidio colposo in danno di L.R. - fumatore dall'età di venti anni, deceduto per adenocarcinoma polmonare non preceduto da asbestosi, né da alcuna "malattia pleurica benigna" - che la tesi dell'accusa, formulata sulla scorta dei pareri dei consulenti tecnici e sposata dal pretore e, poi, dalla corte, non aveva fondamento scientifico, come si desumeva con certezza dalle dichiarazioni dibattimentali proprio di uno di quei consulenti del p.m. che, sostenendola in precedenza, aveva consentito al pretore - e, successivamente, alla corte - di affermare la responsabilità penale.

b - La corte di merito, nella sentenza, a pag. 19, dopo avere ricordato che i consulenti "Arossa, Mollo, Forconi e Piccioni ritenevano possibile la presenza di tumore polmonare in assenza di fibrosi", aggiunge, subito dopo, che "unica tesi considerata attendibile nel soggetto fumatore - per spiegare il ruolo di concausa dell'esposizione alle polveri da amianto - è quella dell'effetto 'carrier' delle fibre di asbestosi veicolanti le sostanze cancerogene, contenute nel fumo di sigaretta, più perifericamente, causando, così, l'adenocarcinoma, che non è caratteristico del fumatore", di tal che "doveva ritenersi che l'esposizione ad amianto, rilevante e prolungata, subita dal L.R., era stata concausa del tumore che lo aveva condotto a morte".

c - Ebbene, il ricorrente aveva opposto nei motivi di appello - e ripropone il tema nel terzo motivo del ricorso - che "il consulente d'accusa Forconi, a specifica domanda se la tesi Backlake, teorizzatrice dell'effetto 'carrier', avesse o meno alcun seguito, in dibattimento ha affermato di aderire alla contraria opinione dominante secondo cui l'asbestosi sarebbe precondizione necessaria dell'insorgenza del tumore al polmone, avendo citato la tesi Backlake solo per sviscerare tutte le possibili spiegazioni del fenomeno.

Se ciò è vero, la sentenza di merito - che non ha preso per nulla in esame questo rilievo contenuto nei motivi di appello - pecca certamente di contraddizione, come si osserva nel ricorso, ché, fondandosi sul parere dei consulenti, ha ritenuto unicamente attendibile una tesi - l'effetto carrier - che gli stessi consulenti, che l'avevano prospettata, deponendo in dibattimento hanno stimato inattendibile, descrivendola come assolutamente minoritaria, nel panorama scientifico, e precisando di averla citata soltanto per completezza.

Il giudice di merito può fare proprie - non v'è il minimo dubbio - anche tesi scientifiche minoritarie, non dominanti, purché, però, motivi adeguatamente e risolva le contraddizioni eventualmente presenti - come sembrerebbe nel caso di specie - nelle fonti cui si ispira.

La sentenza va, conseguentemente, annullata sul punto con rinvio e, per l'effetto estensivo della impugnazione, va annullata anche nei confronti del E.DT. e del V.S..

d - Il V.S., nel quarto motivo, denuncia che "il giudice di seconde cure non ha per nulla motivato le ragioni in forza delle quali è stata negato l'approfondimento istruttorio richiesto nella formulazione dei motivi di appello e consistente nell'effettuazione di perizia medico-legale sui casi L.R. e di G.P.".

Premesso che è vero che la corte di appello - che pur aveva dato atto, a pag. 10, nel riassumere i motivi di appello del V.S., che questi aveva chiesto "la rinnovazione del dibattimento anche per effettuare CTU per accertare le cause della morte della G.P. e la relazione del fumo sui tumori - non ha preso in esame la richiesta, è da dire che il motivo è da ritenersi assorbito per essere stato appena accolto il motivo di ricorso del M.M. con il quale si è denunciata, a ragione, la contraddizione dei consulenti sull'effetto carrier e sulla loro affermazione che l'asbestosi, assente nel L.R., non è la conditio sine qua non del concorso causale delle polveri da amianto nell'insorgere dell'adenocarcinoma polmonare in soggetto fumatore.

3 - Il A.G., nella seconda parte del primo motivo e, sotto altro aspetto, nel secondo motivo, il V.S., nel primo motivo, e il M.M., nel quarto motivo, denunciano "violazione dell'art. 40, comma 2, c.p. , per non avere la corte di appello individuato - tesi del M.M. - o per avere errato nell'individuarla - tesi del V.S. e del A.G. - la fonte, contrattuale o ex lege, dell'obbligo giuridico di impedire l'evento.

a - Il A.G., nella seconda parte del primo motivo, sostiene che "il capo dell'O.G.R. era un esecutore materiale di ordini e di direttive impartite dalla Direzione Sanitaria, cioè dal Servizio Sanitario, nonché della Direzione tecnica" e, nel secondo motivo, per un verso che "il R.D. 503/1927 prevede che le norme ivi contenute vengano applicate alle FF.SS. adattandole alle particolari esigenze dell'esercizio ferroviario" e, per altro verso, che "nel D.P.R. 303/1956 , l'obbligo del datore di lavoro di contenere l'esposizione a tutte le polveri è escluso per le lavorazioni eseguite a cielo aperto e tali erano le lavorazioni che venivano eseguite presso l'O.G.R. sulle carrozze e sui rotabili".

I - Iniziando, per ragioni logiche, dall'esame del secondo motivo - nel quale il A.G. contesta in radice l'esistenza dell'obbligo giuridico di impedire l'evento sul presupposto che le norme sul controllo delle polveri e sulla difesa dalle stesse non si applichino "per le lavorazioni eseguite a cielo aperto" - la tesi, che vi si sostiene, risulta manifestamente infondata sol che si legga con attenzione la norma dell'art. 21, sesto comma, alla quale il ricorrente si richiama.

La norma dispone che "nei lavori all'aperto e nei lavori di breve durata e quando la natura e la concentrazione delle polveri non esigano l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai comma precedenti, non possano essere causa di danno o di incomodo al vicinato, l'Ispettorato del lavoro può esonerare il datore di lavoro dagli obblighi previsti dai comma precedenti, prescrivendo, in sostituzione, ove necessario, mezzi personali di protezione".

Come può notarsi, il problema di un parziale - e, in ogni caso, autorizzato - esonero dal rispetto della norma dell'art. 21 si pone per i lavori all'aperto, mentre emerge dalle sentenze di merito che "le lavorazioni dell'O.G.R. avvenivano in capannoni, senza alcuna separazione e isolamento per le operazioni che comportavano il contatto o la rimozione del coibente e senza mezzi di protezione individuale o collettiva.

E' da escludere, dunque, che sussistesse, nell'O.G.R., la condizione - lavori all'aperto - di cui parla la legge, ché una cosa sono i "lavori all'aperto" e altra cosa i lavori eseguiti in locali a cielo aperto".

Supposto, peraltro, che le due locuzioni - "lavori all'aperto e lavori a cielo aperto" - possano ritenersi equivalenti, la legge vuole, in ogni caso, che "la concentrazione delle polveri non esiga l'attuazione dei provvedimenti tecnici indicati ai comma precedenti ed è sufficiente leggere le due sentenze di merito - per nulla contestate sul punto - per rendersi conto "della presenza diffusa di polvere di amianto sui bancali, polvere che veniva spazzata via con la scopa o con uno straccio", tanto che lo stesso P.C. aveva riferito che "l'amianto era dappertutto".

Dato, poi, e non concesso che la concentrazione delle polveri non fosse particolarmente rilevante, sarebbe spettato, comunque, all'Ispettorato del lavoro esonerare il datore di lavoro dagli obblighi "previsti dai commi precedenti", prescrivendo, ove necessario, - ed è difficile pensare che non sarebbe stato ritenuto necessario, stando alle due sentenze di merito - mezzi personali di protezione, assolutamente mancanti, se è vero, come scrivono il pretore e la corte di appello, che "i testi avevano smentito l'uso regolare delle mascherine e il controllo dell'uso".

E' evidente, allora, che le FF.SS. erano tenute a interessarsi delle polveri per impedirne lo sviluppo e, comunque, la diffusione.

Non può dirsi, quindi, che qualcuno, nell'ambito delle FF.SS., non fosse destinatario dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, che a qualcuno non spettasse l'obbligo di controllare quella fonte di pericolo, che qualcuno non versasse, dunque, in quella posizione di garanzia detta posizione di controllo, salvo individuare con esattezza questo qualcuno.

II - Il capo, pro tempore, dell'O.G.R. era certamente il destinatario - o, meglio, uno dei destinatari - di questa posizione di garanzia e del conseguente obbligo giuridico di impedire l'evento e lo era in quanto dirigente.

Il II capo del D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 , che si interessa degli "obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti e dei lavoratori", nell'art. 4 dispone, infatti, che "i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti che esercitano, dirigono o sovrintendono alle attività indicate all'art. 1 - attività alle quali sono addetti lavoratori subordinati o ad essi equiparati - devono, nell'ambito delle rispettive attribuzioni e competenze:

a) - attuare le misure di igiene previste nel presente decreto;

b) - rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza i modi di prevenire i danni derivanti dai rischi predetti;

c) - fornire ai lavoratori i necessari mezzi di protezione;

d) - disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di igiene ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione".

Il capo dell'Officina Grandi Riparazioni era - ed è - certamente un dirigente, ché, come è noto, già in base all'art. 2 del regolamento 15 luglio 1923, n. 1755 sono dirigenti di azienda "coloro che sono preposti alla direzione tecnico ed amministrativa dell'azienda o di un reparto della stessa con la diretta responsabilità dell'andamento del servizio e, quindi, sono dirigenti gli institori, i gerenti, i direttori tecnici o amministrativi, capo ufficio, capo reparto" e tutti costoro sono i destinatari o tra i destinatari degli obblighi descritti nel citato art. 4.

D'altro canto, il A.G. non ha mai detto di non essere dirigente, anche se ha cercato di ridimensionare il proprio ruolo affermando di essere semplice esecutore materiale di ordini, quasi che le FF.SS. possano prescindere, nella organizzazione del loro capillare servizio su tutto il territorio dello Stato, dalle modalità di organizzazione e, quindi, dalla suddivisione dei compiti e delle responsabilità proprie di qualsiasi organizzazione complessa e non va, poi, dimenticato che il D.P.R. n. 303/1956 si applica anche alle FF.SS., sia pure, come vuole il secondo comma dell'art. 1, adattando le norme alle particolari esigenze dell'esercizio ferroviario e non è stato mai sostenuto che la difesa dalle polveri da amianto fosse contraria alle particolari esigenze dell'esercizio ferroviario.

Il A.G., pertanto, era, sì, un lavoratore dipendente, ma come lo sono i dirigenti e, allora, con tutti gli obblighi - oltre che con tutti i diritti - dei dirigenti.

b - Nel primo motivo del ricorso del V.S. si afferma che "la legislazione prevenzionale in essere al momento in cui sono state contestate le condotte al V.S., attraverso la formulazione dell'art. 33 del D.P.R. n. 303/1956 , individuava, quale destinatario dell'obbligo, il datore di lavoro, mentre il ruolo del medico di azienda era esclusivamente quello di adempiere gli obblighi di sorveglianza su rischi che erano stati individuati dal datore di lavoro e per i quali era stata da quest'ultimo attivata la sorveglianza sanitaria".

Ne consegue, secondo il V.S., che, nella vigenza del sistema definito dal D.P.R. 303/1956 , "può ritenersi violata, da parte del medico aziendale, l'unica norma prevenzionale a lui attribuita - e neanche direttamente o con previsione di autonoma sanzione - quando questi non abbia eseguito le visite periodiche sui lavoratori la cui esposizione ad un rischio tabellato sia stata individuata dal datore di lavoro o, nell'eseguirle, non abbia osservato il periodismo definito dalla legge ovvero, ancora, le abbia eseguite in maniera scorretta".

I limiti di questa tesi riduttiva sono evidenti.

I - Sono note le questioni sorte intorno alla figura del medico competente, figura professionale che ha fatto la sua comparsa nel nostro ordinamento proprio con l'art. 33 del D.P.R. n. 393/1956.

Questa figura è entrata in discussione soprattutto dopo l'entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori.

Lo Statuto, attribuendo al datore di lavoro, nell'art. 5, comma terzo, "la facoltà di far controllare la idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici specializzati di diritto pubblico", aveva fatto affermare in dottrina che, se il datore di lavoro doveva ricorrere all'ente pubblico per le visite facoltative disposte nel proprio interesse, per ovvie ragioni di imparzialità avrebbe dovuto far eseguire dallo stesso ente pubblico le visite obbligatorie previste dal citato art. 3 e da tutta un'altra serie di disposizioni di legge, quali il D.P.R. 13 febbraio 1964, n. 185 , ora sostituito dal D.Lgs. 17 marzo 1995, n. 230 , per i lavoratori esposti al rischio di radiazioni ionizzanti, l'art. 157 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 , per i lavoratori esposti al rischio di inalazioni di polveri di silicio e di asbesto, l'art. 10 del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 962 , per i lavoratori esposti al cloruro di vinile monomero, il D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277 , per i lavoratori esposti ad agenti nocivi quali l'amianto, il piombo e il rumore, decreto, questo, che ha provveduto a fornire una chiara definizione del "medico competente" - che deve essere un medico specializzato in medicina del lavoro o in medicina preventiva - medico che può essere scelto anche tra privati, donde il superamento della questione sorta con l'art. 5 dello Statuto; e, infine, il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 e successive modifiche, il quale, tra l'altro, ha fatto cadere definitivamente qualunque pregiudiziale circa la natura pubblica del medico competente, che, pertanto, può essere anche un privato, ma - ed è questa la novità - in posizione di autonomia rispetto al datore di lavoro.

II - Il medico competente, il cui grado di competenza sarebbe stato specificato, come si è appena visto, soltanto nel 1991, poteva essere anche un medico privato e, quindi, anche il medico di fabbrica o di impianto, che generalmente faceva parte dell'organico della stessa azienda.

E il V.S. era medico di impianto o di fabbrica, in cui compito non era soltanto quello di procedere alle visite obbligatorie previste dall'art. 33 nell'interesse del lavoratore, ma anche quello di essere il consulente del datore di lavoro/dirigente in materia sanitaria, di esserne l'alter ego in questa materia, con funzioni, quindi, di consiglio e di stimolo, funzioni che le FF.SS., come ricorda la sentenza impugnata, non avevano omesso di indicare e precisare.

III - Può dirsi, allora, che la norma dell'art. 33, se prevede che il datore di lavoro deve fare sottoporre a visite mediche i lavoratori "nelle lavorazioni industriali che espongono all'azione di sostanze tossiche o infettanti o che risultano comunque nocive", e se prevede che le visite mediche siano eseguite da un medico competente, la competenza non può non essere sia la competenza a valutare le condizioni di salute, avuto riguardo alle sostanze cui il lavoratore è esposto, sia la competenza a coadiuvare il datore di lavoro/dirigente - tenendo conto dell'esito delle visite - nella individuazione dei rimedi, anche di quelli dettati dal progresso della tecnica, da adottare contro le sostanze tossiche o infettanti o comunque nocive.

E tutto ciò in particolar modo allorché il datore di lavoro istituzionalizzi, come nella specie, il medico, facendone il medico dell'impianto o di fabbrica e avendo cura di descriverne i compiti con apposite circolari.

Il V.S., del resto, era così consapevole che i suoi poteri andassero ben oltre le visite periodiche - che la corte di appello, a pag. 29, esclude, comunque, che siano state eseguite - che, come ricordano entrambe le sentenze, almeno una volta è intervenuto per sospendere la lavorazione per eccesso di polverosità, almeno una volta, cioè, ha dimostrato di essere, quanto alla prevenzione, l'alter ego del datore di lavoro esercitando - ed, evidentemente, potendolo esercitare, non essendovi nelle sentenze una qualche affermazione dalla quale argomentare che quel potere sia stato esercitato dal V.S. senza esserne investito - uno dei poteri più significativi nell'ambito di un'azienda, potere il cui titolare per eccellenza è, appunto, il datore di lavoro o il dirigente.

Era questo potere, svelato anche da quell'intervento, che costituiva il V.S. in quella posizione di garanzia detta posizione di controllo, posizione che, come ha scritto la corte di appello, gli imponeva, tra l'altro, di "vigilare sulle condizioni ambientali - come ha fatto, appunto, in quella occasione -, di fornire indicazioni per un'adeguata prevenzione sanitaria, di fare raccomandazioni e di informare i lavoratori sui rischi della lavorazione".

c - Il M.M. obietta che i giudici di merito hanno omesso di indicare la fonte dell'obbligo giuridico, di indicare la norma di legge o regolamentare, l'ordine o la disciplina dai quali desumere l'obbligo giuridico, a suo carico, di impedire l'evento, obbligo giuridico - afferma - inesistente, perché egli "svolgeva attività di alta amministrazione, di coordinamento tra i vari settori, di partecipazione alle sedute del Comitato Tecnico Amministrativo, del Consiglio Superiore della Sanità, non aveva alcun rapporto diretto con i lavoratori dipendenti né compiti ispettivi".

Del resto, - aggiunge - è sufficiente scorrere la giurisprudenza della suprema corte per cogliere che i vertici di una organizzazione complessa non possono essere considerati i destinatari del rispetto delle norme antinfortunistiche.

La complessità della organizzazione importa, infatti, necessariamente la suddivisione dei compiti e delle responsabilità, di modo che i dirigenti al vertice non sono, ex se, a contatto dei lavoratori e, quindi, non hanno il compito di seguirli, di informarli sul rispetto delle norme antinfortunistiche o igienico/sanitarie in funzione antinfortunistica e di vigilare perché queste norme vengano rispettate.

I - Ebbene, non v'è alcun dubbio che i vertici di un organizzazione complessa - ed è certo che le FF.SS. siano una di queste organizzazioni - non siano destinatari delle norme antinfortunistiche allorché le regole dell'organizzazione prevedano - e non possono non prevederlo - che i vari reparti tecnici o amministrativi, in cui si articola, abbiano i loro dirigenti, il cui status è tale, come si è già visto, da renderli anche destinatari delle norme antinfortunistiche o igienico/sanitarie poste a presidio della incolumità e della salute del lavoratore.

II - La giurisprudenza citata dal ricorrente afferma, però, che il vertice della organizzazione risponde ugualmente - è destinatario delle norme antinfortunistiche o igienico sanitarie o, se si vuole, dell'obbligo giuridico di impedire l'evento - se, consapevole del non rispetto di queste norme in qualche reparto o ufficio, non intervenga avvalendosi dei poteri di controllo e di vigilanza che gli sono propri - o, se il potere di controllo e di vigilanza spetti ad appositi organi, non li stimoli ad intervenire - e si ponga, così, sullo stesso piano di quei dirigenti cui sarebbe spettato di imporre il rispetto di determinate norme di legge o di comune prudenza.

III - Il controllo e la vigilanza vanno esercitati, però, non solo quando il vertice venga a conoscenza di inadempienze, ma anche quando impartisca precisi ordini per il miglior rispetto di quelle norme e per una maggior tutela del lavoratore.

Non è, invero, contestabile che impartire quegli ordini significhi sia legittimamente ingerirsi nella tutela del lavoratore anche se quest'ultimo non starà mai a contatto diretto del vertice, sia rendersi necessariamente conto che soltanto l'ossequio all'ordine rende più sicuro il lavoratore, donde l'onere del controllo e della vigilanza.

Specialmente nella pubblica amministrazione, nella quale si perseguono fini pubblici o di pubblico interesse, l'ordine, impartito, come nel caso di specie, con quel provvedimento amministrativo di carattere normativo che è la circolare - la quale, come insegnano la dottrina la giurisprudenza, ha il suo fondamento, oltre che nel potere di autorganizzazione, nella supremazia gerarchica, nel potere di chi, per la propria posizione gerarchica, può imporre ordini e pretendere i dovuti comportamenti dal destinatario della circolare - ha, come ineliminabile risvolto, il dovere/obbligo di controllo e di vigilanza.

IV - Oppone, però, il M.M. che egli non aveva compiti ispettivi e, a prova di questa mancanza di poteri, richiama l'art. 63, comma quarto , del D.P.R. n. 303/1956 , il quale dispone che "l'Amministrazione delle ferrovie dello Stato esercita direttamente sulle ferrovie stesse, a mezzo dei propri organi tecnici ed ispettivi, la vigilanza per l'applicazione del presente decreto".

L'obiezione non ha pregio, ché è proprio di una organizzazione complessa come le FF.SS. - complessità della quale il legislatore, nel citato art. 63, prende atto, nel momento in cui ribadisce l'autonomia anche ispettiva della "Azienda Autonoma delle FF.SS." - prevedere un apposito organo tecnico ed ispettivo, organo che agisce, come ricorda lo stesso ricorrente, o d'ufficio o su richiesta ed è certamente del tutto ragionevole ritenere che il vertice sanitario delle FF.SS. avrebbe potuto rivolgersi all'organo tecnico/ispettivo per chiedergli di accertare se i destinatari - medico di fabbrica, dirigente del reparto - avessero ottemperato agli ordini ritenuti rilevanti per la salute dei lavoratori, contenuti nelle circolari.

V - Questo dovere di controllo e di vigilanza - e dalle sentenze di merito non risulta che sia stato mai eseguito un solo controllo in uno dei tanti anni in cui il M.M. è stato il Vertice sanitario delle FF.SS. - si imponeva, peraltro, non solo per le legittime ingerenze del M.M. con le circolari, ma anche per altre ragioni.

A - Il M.M., allorché tratta della colpa o, meglio, della esigibilità della condotta che, secondo l'ipotesi d'accusa, fatta propria dalle due sentenze di merito, avrebbe consentito di evitare gli eventi, sostiene che l'homo ejusdem condicionis et professionis, al quale egli si sarebbe dovuto ispirare per rispettare il precetto dell'art. 21 del D.P.R. 303/1956 , la cui violazione gli è stata contestata, avrebbe necessariamente fatto riferimento alla comunità scientifica della realtà produttiva italiana e non alla comunità scientifica mondiale e ciò perché egli, M.M., non aveva come fine-primario la ricerca scientifica, ma soltanto la ricerca finalizzata in ambito produttivo.

Ebbene, è agevole rispondere che il pretore e il tribunale, se sottolineano ripetutamente che negli anni '60 il problema della estrema pericolosità dell'amianto era già stato dibattuto a livello scientifico/medico con conseguenze anche sul piano legislativo - si pensi all'asbestosi riconosciuta nel '43 malattia professionale, all'obbligo delle visite periodiche, previste, oltre che dall'art. 33 del D.P.R. n. 303/1956 , dall'art. 157, già citato, del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 , per i lavoratori esposti al rischio di inalazioni di polvere di silicio e di asbesto - non dicono affatto che il Servizio sanitario delle FF.SS. si sarebbe dovuto trasformare in organo di ricerca scientifica, ma semplicemente, che avrebbe dovuto prendere atto dello status della ricerca scientifica, da altri compiuta, e tenerne conto e non pare possa mettersi in dubbio che l'homo ejusdem condicionis et professionis, il modello astratto di responsabile della direzione sanitaria delle FF.SS., si sarebbe sintonizzato con la ricerca scientifica, anche mondiale, del settore, oltre che con la ricerca della comunità scientifica della realtà produttiva italiana.

La corte, a pag. 13, riassume l'iter della ricerca scientifica, dicendo che "l'amianto è causa di asbestosi, malattia identificata ad inizio secolo e coperta da assicurazione obbligatoria con legge n. 454/43".

"La stessa Regione Piemonte - prosegue - in una pubblicazione del 1985 parla di rischio amianto noto dall'anteguerra: tumori polmonari in pazienti esposti ad asbesto o affetti da asbestosi".

"Manuali di medicina davano conto, però, già negli anni '50 e '60 della pericolosità dell'amianto".

"Nel manuale 'Morlino' - docente nella Università degli Studi di Torino - del '53 si riteneva indubbia l'associazione asbestosi/cancro polmonare e si affermava che ciò si poteva evitare con adeguate misure di prevenzione".

"Il prof. Carnevale, consulente tecnico non solo in questo processo, ma anche in altri di analogo argomento, ha riferito nuovamente come già a fine degli anni '20 si era cominciato a parlare di patologia tumorale da amianto".

"E se è vero che gli interessi dell'industria americana nel settore sono stati tesi a nascondere e a ritardare pubblicazioni in materia, è, però, altrettanto vero che sicuramente negli anni '50 vi erano descrizioni di tumori dipendenti da amianto, allorché in Inghilterra fu fatto un C.S. studio da Dolli".

"Per il mesotelioma ci fu un lavoro del 1960 che ha prodotto grande eco nei paesi industrializzati; i primi casi di mesotelioma in Sud Africa riguardarono proprio i ferrovieri".

"Giustamente, quindi, - afferma la corte - deve concludersi nel senso che occorreva documentarsi e che la direzione sanitaria ne aveva i mezzi e le possibilità, unitamente e in collaborazione con la dirigenza politica, tecnica ed amministrativa dell'ente; invece, è un dato di fatto incontrovertibile che nelle FF.SS. è stato utilizzato l'amianto per lungo tempo con estrema confidenza nella sua manipolazione".

"Sono provati l'uso massiccio dell'amianto nelle FF.SS. e nell'O.G.R. e le condizioni di lavoro pessime, protrattesi fino all'inizio degli anni '80".

B - Il vertice sanitario delle FF.SS., che doveva essenzialmente adoperarsi per tutelare la salute dei lavoratori, non poteva, dunque, ignorare la letteratura medico/scientifica sull'amianto, visto l'uso massiccio che le Ferrovie ne facevano, e degli approdi di quella letteratura doveva avvalersi per pretendere il rispetto delle norme antinfortunistiche e, tenuto conto delle accertate, a livello medico/scientifico, negative conseguenze dell'esposizione all'amianto, avrebbe dovuto vigilare a maggior ragione sul rispetto della legge - art. 21 citato - facendo tesoro e pretendendo che altri facessero tesoro di ciò che la comunità scientifica della realtà produttiva italiana suggeriva sul piano tecnico per ridurre il livello di concentrazione delle polveri.

Ma, è da sottolineare, ancora una volta, che dalle sentenze, se risultano le circolari, non emerge un solo atto di vigilanza e di controllo da parte di chi, o per iniziativa di chi, collocato al vertice del settore sanitario delle FF.SS. e, quindi, investito di poteri di supremazia, avrebbe potuto imporsi efficacemente sui destinatari delle circolari e di chi, al vertice di quel settore, aveva, per un verso, il dovere di attingere dagli studi sull'amianto quanto ai pericoli dall'esposizione allo stesso e, per altro verso, il potere sia di sensibilizzare su quei pericoli, pretendendo determinati comportamenti, sia il dovere di vigilare o di chiedere che l'organo ispettivo vigilasse.

E' da dirsi, infine, che il richiamo alla "comunità scientifica della realtà produttiva italiana", per negare la propria responsabilità, appare, in ogni caso, del tutto fuori luogo, se è vero, come hanno accertato i giudici di merito, che le condizioni di lavoro nella O.G.R. erano pessime, se è vero che, in quella officina, non si è mai fatto nulla di significativo per contenere la pericolosità delle polveri.

VI - L'affermazione di questi principi e, in particolare, del principio del dovere di vigilanza e di controllo, si impone a maggior ragione se si tiene anche presente, come si deve, che le posizioni di garanzia - e, quindi, l'obbligo giuridico di impedire l'evento - sono anche, come questa corte ha affermato più volte sulla scia dei rilievi della dottrina, posizioni di solidarietà che l'ordinamento giuridico accolla a determinati soggetti sia "per proteggere determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciarne l'integrità" ed è, questa la posizione di protezione, per es., la posizione dei genitori nei confronti dei figli, che è la posizione di solidarietà per eccellenza; sia per "neutralizzare determinate fonti di pericolo, in modo da garantire l'integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati" ed è, questa, la posizione di controllo, un esempio della quale è la posizione del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori alle sue dipendenze.

Questa solidarietà riceve, incontestabilmente, un particolare spessore, una particolare luce - ed è questo il motivo che induce a sottolinearla - dalla Carta costituzionale, la quale, negli artt. 2 e 3, pone, come è noto, al centro dell'architettura costituzionale la persona umana, riconoscendone, nell'art. 2, i diritti inviolabili sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità, chiedendo, conseguentemente, nello stesso articolo, l'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e facendo, pertanto, della solidarietà, ai vari livelli, uno dei valori della Carta, e affermando, nell'art. 3, che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.

Ed è logica conseguenza di queste solenni affermazioni l'ulteriore affermazione, che si legge nell'art. 32, che "la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto del cittadino e come interesse della collettività" ed è certamente attuazione di questi principi il complesso di norme che, costituendo i datori di lavoro e le persone allo stesso equiparabili nella posizione di garanzia detta di controllo, intende garantire la salute, l'incolumità psico-fisica del lavoratore.

La solidarietà esige, innegabilmente, anche grazie alla sua rilevanza costituzionale, che il potere di impartire ordini, di emettere circolari, si coniughi con il dovere di controllare, di vigilare perché, nell'ambiente di lavoro, la persona, l'essere umano, riceva effettivamente quelle attenzioni che la legge le riserva.

4 - Il V.S., nel secondo motivo, il M.M., nel quinto, e il responsabile civile - il quale, nei motivi di appello, non aveva sollevato il problema - pongono il problema del rapporto di causalità tra le emissioni e l'evento.

a - Il V.S. deduce che, "premesso che, per riconoscere un rapporto di causalità tra la pretesa omissione dell'imputato e gli eventi di cui è processo, deve necessariamente riconoscersi l'efficacia della prevenzione sanitaria - disposta dal legislatore per evitare l'insorgenza dell'asbestosi - anche riguardo alle patologie tumorali polmonari e pleuriche, deve prendersi atto che, secondo le linee guida elaborate dalla Commissione oncologica nazionale, in applicazione di quanto previsto dal piano sanitario per il triennio 1994/1995, la prevenzione secondaria - cioè il monitoraggio sanitario - per i tumori polmonari non ha alcuna utilità ed efficacia", sicché, "dato e non concesso che il V.S. sia responsabile delle omissioni attribuitegli, queste non hanno avuto alcuna efficacia causale nell'insorgere dei tumori polmonari che, per le loro caratteristiche, non permettono alcun monitoraggio".

b - Il M.M., nel quinto motivo, afferma che, "negli anni in cui egli ha assunto l'incarico di direttore del Servizio sanitario delle FF.SS., non si sapeva che bastavano poche esposizioni a bassissime dosi per contrarre il mesotelioma anche in assenza di asbestosi, sicché un provvedimento che avesse abbattuto pur notevolmente le polveri, tale da grandemente diminuire il rischio di asbestosi sarebbe stato inutile sotto il profilo del rischio di morire per mesotelioma".

c - Il responsabile civile deduce che "il problema della rilevanza della concausa non si risolve con un semplicistico richiamo al principio della equivalenza, ma va affrontato e risolto con riferimento al ruolo effettivo di ciascuna concausa".

I - Deve osservarsi, anzitutto, che al V.S. non è stato rimproverato soltanto di avere omesso il monitoraggio sanitario, ma anche, e soprattutto, di avere violato la norma dell'art. 21 del D.P.R. n. 303/1956 per non essersi adoperato per rendere meno pessime le condizioni di lavoro, per non aver fatto nulla per impedire che la concentrazione delle polveri di amianto fosse così massiccia come l'hanno descritta, senza essere stati contestati, i giudici di merito.

II - Ci si rende conto, però, che questa risposta non risolve il problema del rapporto causale specialmente con riguardo al mesotelioma pleurico, contratto anche dalla G.P. della cui morte sono stati chiamati a rispondere il V.S., il M.M., il A.G., il E.DT. ed altri.

Si oppone, sul punto, che, essendo il mesotelioma pleurico non dose correlato, l'omissione rimproverata ai prevenuti, cioè il mancato abbattimento delle polveri nei limiti che le tecniche dell'epoca consentivano - e il M.M. è nel giusto allorché, citando la sentenza della Corte costituzionale n. 312 del 25 luglio 1996 interpretativa di rigetto della norma, in tema di esposizione a rumori, dell'art. 41 del D.P.R. n. 277 del 1991, sostiene che "il datore di lavoro è tenuto a ridurre i rischi mediante misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili" - non ha avuto alcuna incidenza causale perché le polveri, pur ridotte al minimo, non avrebbero impedito l'insorgere del mesotelioma pleurico.

L'affermazione non può essere condivisa per le seguenti ragioni.

La sentenza del pretore, a pag. 17, dopo avere ricordato che il mesotelioma pleurico non è dose correlato e che è pacifica l'insussistenza di una soglia minima al di sotto della quale possa escludersi il rischio per la salute, sicché anche una breve esposizione può essere fatale, aggiunge che "è anche vero che, comunque, nelle patologie tumorali incide la predisposizione personale e la durata della esposizione al fattore cancerogeno".

Si può dire, quindi, che due sono gli antecedenti del mesotelioma pleurico, due le cause che lo determinano, l'esposizione all'amianto e la predisposizione personale.

Ma, nel caso di specie, se si è sicuri della lunga esposizione in condizioni pessime, nulla si sa sulle predisposizioni delle persone che hanno contratto il mesotelioma; in particolare non si sa - e non si sa per fatto degli imputati non avendo minimamente abbattuto le polveri - cosa sarebbe successo se i datori di lavoro e gli altri cui spettava avessero provveduto a controllare adeguatamente le polveri secondo le tecniche dell'epoca.

Nessuno può dire con certezza - e nessuno, stando alle sentenze di merito, lo ha detto - che a dosi meno dilaganti avrebbe, comunque, fatto seguito il mesotelioma e ciò perché ciò che è certo è che la predisposizione personale ha inciso, storicamente, in quelle date, pessime, condizioni, di lavoro.

In altri termini, lo schema controfattuale che consiste nell'ipotizzare come presente la condotta lecita richiesta per impedire l'evento e accertarne il risultato - in questo caso supporre di aver abbattuto al minimo consentito dalla tecnica le polveri e trarne le conclusioni - non può essere applicato perché non si conoscono e non possono conoscersi le predisposizioni dei singoli o, meglio, il quantum di predisposizione dei singoli e non possono conoscersi per fatto degli imputati, per non avere questi abbattuto le polveri fin dove le tecniche lo avrebbero consentito, con la conseguenza che, come si diceva, il dato storicamente certo è la lunga, nel tempo, e colpevole esposizione dei lavoratori alla massiccia concentrazione delle polveri da amianto, che è stata con certezza la causa delle morti per mesotelioma e la causa, in particolare, della morte della G.P..

III - Il problema sollevato dal responsabile civile - il problema delle concause nella causazione dell'evento - riguarda, a ben vedere, le cause - esposizione alle polveri e fumo - della morte del "L.R.", per il cui migliore accertamento, in accoglimento del terzo motivo di ricorso del M.M., la sentenza è annullata con rinvio.

5 - Il A.G. e il E.DT., con il primo motivo dei loro ricorsi, il M.M., con il quinto, e il responsabile civile, nella seconda parte dell'unico motivo, deducono, tutti, sostanzialmente, che trenta, quaranta anni fa, nelle epoche, insomma, in cui gli imputati hanno ricoperto gli incarichi che ne hanno determinato la incriminazione, "l'homo ejusdem condicionis et professionis, l'agente modello, al quale si sarebbero dovuti ispirare, sapeva ben poco sull'amianto e, in particolare, sulle conseguenze della esposizione alle polveri da amianto, sicché "l'individuazione della condotta e della colpa dovevano essere valutate - sostiene il A.G. e gli altri ricorsi sono sostanzialmente negli stessi termini - dal giudice di appello secondo le leggi vigenti e, conseguentemente, secondo le nozioni scientifiche e le possibilità tecniche dell'epoca", epoca, aggiunge il E.DT., "in cui non era possibile prevedere che la manipolazione dell'amianto potesse determinare l'insorgere dell'asbestosi e delle successive complicazioni neoplastiche".

I motivi sono infondati.

E' senz'altro esatta l'affermazione che l'agente modello, l'homo ejusdem condicionis et professionis, cui fare riferimento e ai fini della prevedibilità di un evento e ai fini della colpa o, meglio, ai fini della esigibilità dell'osservanza delle regole di condotta sia generiche, dettate dalla comune prudenza, sia specifiche, dettate dal legislatore, è l'agente, l'homo del momento in cui è stata posta in essere la condotta che ha infranto la regola cautelare e, quindi, l'agente modello che tenga conto dello stato della scienza e della tecnica in quel determinato settore in quel determinato momento ed è fuori discussione che le attuali cognizioni, in tema di danni da esposizione alle polveri da amianto, siano ben superiori a quelle dell'epoca cui risalgono i fatti per i quali è processo.

Ciò precisato, va detto, però, che il tema dell'homo ejusdem condicionis et professionis, il tema del modello di agente e, dunque, il tema della ritenuta non esigibilità della condotta è davvero mal posto, allorché si accerti, come hanno fatto scrupolosamente le due sentenze di merito, che nella O.G.R. delle Ferrovie dello Stato le condizioni di lavoro erano pessime, allorché si accerti che in quella officina nulla o pressoché nulla era stato fatto in ordine al problema polveri.

"Sicuramente servivano - afferma la corte a pag. 14 - interventi strutturali, il cui costo le FF.SS. non volevano evidentemente affrontare".

"Ma, neppure furono effettuate quelle minime misure precauzionali che avrebbero potuto ridurre la concentrazione delle polveri aspirate; ...se si fossero installati gli aspiratori sopra ogni fonte di dispersione delle polveri, cioè aspiratori localizzati, si sarebbe ridotta la fonte di inquinamento; se per la pulizia si fosse controllata, con rigore, la bagnatura delle polveri, se si fosse impedito ai lavoratori di mangiare negli stessi locali in cui lavoravano, di portare tute impolverate a casa e, poi, si fossero imposte le docce in azienda e, infine, se si fosse attuata una separazione dei locali, se, in altri termini, si fossero adottate misure di prevenzione dalle più semplici ed evidenti a quelle tecnologicamente più impegnative, si sarebbe raggiunto, con elevato grado di probabilità, un risultato ottimale, anche contro le particelle amiantifere di maggior diametro".

Secondo i giudici di merito, nulla è stato fatto, dalle cose più semplici, intuitive, alle cose più tecnicamente apprezzabili che l'agente modello dell'epoca avrebbe senz'altro posto in essere e, dinanzi a questo nulla, come non si può porre in discussione, per quanto si è detto, il rapporto di causalità tra la condotta - esposizione dei lavoratori, protratta per anni, ad elevate concentrazione di polveri da amianto - e gli eventi, così non può negarsi né la esigibilità della condotta - controllo delle polveri secondo il comune buon senso e secondo le acquisizioni tecniche dell'epoca - né la prevedibilità degli eventi, prevedibilità che, come questa suprema corte ha posto in evidenza, come ricordano i giudici di merito, nella sentenza 6 dicembre 1990, Bonetti, è "la rappresentazione della potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non la rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione".

6 - Il V.S., nel terzo motivo, denuncia "mancanza di motivazione" in ordine alla richiesta di parziale rinnovazione del dibattimento per potere produrre la copia - produzione che, sostiene, sarebbe stata decisiva per escludere la colpa dell'imputato - degli indici delle riviste "La Medicina del Lavoro" e "Rivista degli infortuni e delle malattie professionali" pubblicate negli anni dal 1971 al 1979 "che avrebbero dovuto documentare quale fosse il reale e concreto stato di diffusione della conoscenza delle problematiche derivanti dalla esposizione alle polveri da amianto".

Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

L'acquisizione di quegli indici, infatti, non si sarebbe affatto risolta in una prova decisiva e ciò per la semplice ragione che, come si è detto per gli altri imputati, è inutile esercizio affermare che, in una certa epoca, in un determinato momento storico, gli studi sull'amianto e sulle conseguenze, in termini di salute, da esposizione alle relative polveri non erano quelli di oggi.

Agli imputati, invero, è stato rimproverato di non aver fatto nulla, compatibilmente con le nozioni tecniche dell'epoca, per ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri dal legislatore ritenute nocive per la salute dei lavoratori e, ancora una volta, non può invocare la non conoscibilità/imprevedibilità delle conseguenze, ancorandosi al, ritenuto, modesto livello di conoscenza del fenomeno - il pretore e la corte hanno dimostrato ben altro - chi, contravvenendo alle regole imposte dal legislatore, nulla o quasi nulla ha fatto per controllare le polveri da amianto in un ambiente in cui lo sviluppo e la diffusione delle stesse erano notevoli e chi, se non era in grado di prevedere determinate conseguenze, doveva essere, però, in grado - glielo imponeva la legge - di prevedere che lo sviluppo delle polveri poteva nuocere alla salute dei lavoratori.

7 - Tutto ciò premesso, la sentenza impugnata va annullata con rinvio nei punti sopra posti in rilievo con i già sottolineati effetti estensivi della impugnazione; i ricorsi vanno rigettati nel resto con la liquidazione, come nel dispositivo, delle spese a favore delle parti civili costituite.
 

 

P.Q.M.
 

 


La corte di cassazione, dispone correggersi la sentenza impugnata nel senso che là dove è scritto - a pag. 30 - "F.R.: anni uno per G.R.", si legga e intenda "F.R.: anni uno per L.R.";

annulla la sentenza impugnata senza rinvio per estinzione del reato per morte dell'imputato nei confronti di P.C. , F.R.  e C.C. ;

annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.M.  e, per l'effetto estensivo dell'impugnazione, nei confronti di E.DT. relativamente alle morti di G.R.  e di L.R. ; nei confronti di V.S.  relativamente alla morte del L.R. e, per l'effetto estensivo della impugnazione, nei confronti di A.G. relativamente alla morte del G.R., e rinvia per nuovo esame sul punto alla corte di appello di Torino;

rigetta il ricorso del responsabile civile che condanna al pagamento delle spese processuali;

rigetta nel resto gli altri ricorsi;

condanna in solido il responsabile civile FF.SS., il A.G., il M.M., il E.DT. e il V.S. alla rifusione delle spese sostenute in questa sede dalle parti civili Omissis, che liquida in complessive L. 5.900.000, di cui L. 600.000 per spese;

condanna altresì, in solido il responsabile civile e il A.G. alla rifusione delle spese sostenute in questa sede dalle parti civili Omissis che liquida in complessive L. 5.900.000, di cui L. 600.000 per spese.