Responsabilità di quattro rappresentanti legali di una s.p.a. per avere, nell'ambiente esterno ed interno dell'impianto di lavorazione dell'azienda (che produceva manufatti in cemento e amianto), esposto i lavoratori all'inalazione di fibre di amianto così cagionando loro gravi patologie (asbestosi, tumori polmonari, mesotelioni) che avevano condotto alla morte di alcuni di essi e provocato gravi patologie ad altri.
La Corte d'Appello conferma la sentenza di condanna pronunciata in primo grado - Sussiste.

Ricorrono in Cassazione tre di loro.

La Corte prende atto innanzitutto delle "numerose fonti testimoniali (la sentenza ricorda le deposizioni dei testi CA., B., MI., CE., CH., I., m., L., SC., SO., V., F., R., GI., I., AP., GR., MA. e AP.), già indicate dal primo giudice, che confermavano la mancanza della doverosa informazione da parte degli imputati circa i rischi connessi alla lavorazione dell'amianto, la mancata adozione dei mezzi di protezione individuale e il mancato controllo del loro uso quando gli strumenti di protezione erano stati poi adottati, la tardiva adozione di maschere antipolvere dotate di filtri adeguati, il mancato rispetto dell'obbligo di fare la doccia al termine del turno di lavoro e di consumare i pasti nel refettorio, la mancata adozione di misure delle cautele più volte indicate nelle lavorazioni per evitare la dispersione delle polveri."
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito poi, "nel corso dei decenni di operatività dello stabilimento gestito dalla S., il rispetto delle misure di prevenzione era stato inesistente o comunque assai scarso fin dall'inizio e la situazione era solo parzialmente migliorata nel corso degli ultimi anni tanto che le conseguenze riferibili alla dispersione delle fibre di amianto sono state di dimensioni assai significative per il numero di persone che le hanno subite e per le conseguenze che ne sono derivate."
"emerge chiaramente come sia stato definitivamente accertato nel giudizio di merito quali siano state le cautele la cui adozione sia stata omessa e come sia stata costante e perdurante per decenni la violazione quanto meno del D.P.R. 19 marzo 1956, artt. 20 e 21 (norme generali per l'igiene del lavoro) che disciplinano la difesa contro le sostanze inquinanti e tossiche nei luoghi di lavoro."
Uno degli imputati afferma poi che, durante la sua presidenza nel cda, le funzioni di garanzia erano di fatto svolte dal padre - La Corte ribatte affermando che "chi di fatto dispone dei poteri decisionali e di spesa risponde certamente delle violazioni in cui sia incorso nell'esercizio di questi poteri.
Ma ciò non comporta le conseguenze che la ricorrente pretende derivino da questa situazione perchè l'assunzione di una posizione di garanzia comporta, di per sè, il sorgere dell'obbligo di protezione dei beni alla cui preservazione tale posizione è preordinata.
Questa posizione di garanzia non viene meno sol perchè il titolare di essa rifiuta di esercitare i suoi poteri o consente che altri li svolgano per lei.
Questi principi sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità - soprattutto nel vicino settore della delega di funzioni - che ha più volte sottolineato come, nei casi indicati, le due posizioni si cumulano e che il garante formale, se ritenga di non essere stato posto in grado di svolgere le sue funzioni, per sottrarsi alle responsabilità conseguenti al conferimento delle funzioni, ha l'unica possibilità di rifiutare tale conferimento, di dimettersi o comunque di rinunziare alla qualità da cui derivano gli obblighi di protezione o controllo."

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANATO Graziana - Presidente -
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere -
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere -
Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere -
Dott. MAISANO Giulio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) P.A.G. nato a (OMISSIS);
2) P.C.R. nata a (OMISSIS);
3) A.G. nato a (OMISSIS).
avverso la sentenza 11 ottobre 2007 della Corte d'Appello di Caltanissetta;
udita la relazione del Consigliere Dott. Carlo BRUSCO;
sentite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sost. Procuratore Generale Dott. D'AMBROSIO Vito, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori:
avv. MAIRA Agata, per le parti civili, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
avv. LAGEARD Giovanni per tutti i ricorrenti e avv. Mario GEBBIA per P.C.R. e A.G.;
i quali hanno tutti concluso per l'accoglimento dei ricorsi dai medesimi proposti.
La Corte:

FattoDiritto
1) La sentenza di primo grado.
Il Tribunale di Caltanissetta, con sentenza 8 maggio 2006, nel giudizio instaurato nei confronti di P.A.G., M.B., P.C.R. e A.G., ha affermato la responsabilità dei medesimi in ordine al reato di omicidio colposo commesso con violazione delle norme in tema di infortuni sul lavoro, con le conseguenti statuizioni civili.
In particolare:
- P.A.G. è stato condannato per l'omicidio colposo in danno di C.G.C. (deceduto il (OMISSIS)), C.M. (deceduto il (OMISSIS)), S. G. (deceduto il (OMISSIS)) e P.G. (deceduto il (OMISSIS));
- M.B. è stato condannato per l'omicidio colposo in danno di C.G.C., C.M. e P. G.;
- P.C.R. e A.G. sono stati condannati per l'omicidio colposo in danno del solo C.G.C..
Con la medesima sentenza i predetti imputati sono stati assolti in relazione ad altri reati di omicidio colposo loro contestati mentre i reati di lesioni personali colpose in danno di numerosi lavoratori, pure contestati agli imputati, sono stati dichiarati estinti per prescrizione.
Gli imputati condannati avevano ricoperto, tra il (OMISSIS), la qualità di rappresentanti legali della s.p.a. SILCA ed era stato loro addebitato di avere, nell'ambiente esterno ed interno dell'impianto di lavorazione dell'azienda (che produceva manufatti in cemento e amianto), esposto i lavoratori all'inalazione di fibre di amianto così cagionando loro gravi patologie (asbestosi, tumori polmonari, mesotelioni) che avevano condotto alla morte di alcuni di essi e provocato gravi patologie ad altri.
In particolare il primo giudice ha ritenuto che gli imputati fossero da ritenere in colpa perchè non avevano adempiuto all'obbligo di informazione dei lavoratori sui rischi specifici ai quali erano esposti; non avevano fornito ai medesimi lavoratori i mezzi protettivi (maschere) necessari per evitare l'insorgenza delle patologie indicate mentre, dalla metà degli anni '70, le protezioni fornite erano inadeguate (per es. le maschere in uso non erano a tenuta stagna); non avevano preteso che i lavoratori, alla fine di ogni turno, facessero la doccia; avevano consentito che i dipendenti consumassero i pasti nei luoghi dove si trovavano i sacchi contenenti amianto e, anche quando si era iniziato ad usare il refettorio (a metà degli anni '80), non si era vietato ai lavoratori di consumare i pasti sul luogo di lavoro.
Era stato poi accertato, secondo il giudice di primo grado, che gli imputati avevano consentito che le lavorazioni pericolose venissero effettuate in luoghi non separati dagli altri ambienti e avevano omesso di dotare i locali dell'azienda di un adeguato impianto di aspirazione; avevano trascurato, fino alla fine degli anni '70, di disporre che le operazioni a maggior rischio non avvenissero manualmente; avevano permesso (almeno fino al 1983) l'uso di smerigliatrici prive di impianto di aspirazione; non avevano dotato i locali dello stabilimento di un adeguato sistema di ricambio dell'aria e avevano consentito che le pulizie dei locali avvenissero durante l'orario di lavoro e, in un primo periodo, che fossero eseguite dagli stessi operai al termine dei turni di lavoro.
A queste conclusioni il primo giudice è pervenuto in base agli accertamenti svolti dai consulenti tecnici del pubblico ministero e alle deposizioni di numerosi lavoratori che hanno riferito delle condizioni nelle quali si svolgeva l'attività lavorativa.
La sentenza di primo grado ha poi ritenuto che gli interventi richiesti per ricondurre l'attività dello stabilimento alle condizioni di sicurezza richiedessero ingenti investimenti che potevano essere deliberati soltanto dal consiglio di amministrazione e ciò rendeva irrilevante, ai fini della responsabilità di costoro, il conferimento di deleghe ad alcuni dipendenti aventi ad oggetto l'attuazione delle misure di prevenzione ma senza che fosse stato conferito ai delegati alcun compito deliberativo, organizzativo e di spesa.
Sull'esistenza del rapporto di causalità il Tribunale ha precisato che la sua esistenza deve essere affermata non solo in relazione alla causazione dell'evento in conseguenza dell'azione od omissione dell'agente ma anche in relazione ai tempi e modi del verificarsi dell'evento. In particolare, in merito l'asbestosi, il primo giudice ha ritenuto che all'aumento dell'esposizione corrispondesse una maggiore incidenza degli effetti patologici della malattia e un più breve periodo di latenza.
Per quanto riguarda le singole posizioni degli imputati il giudice di primo grado ha rilevato, relativamente a P.C.R., che la medesima aveva rivestito la qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società per un periodo di dieci mesi (negli anni (OMISSIS)) durante i quali aveva omesso ogni intervento protettivo a favore dei lavoratori consentendo l'insorgere di malattie e accelerando la latenza di altre.
Ad analoghe conclusioni è giunto il primo giudice per quanto riguarda la posizione di A.G., presidente del consiglio di amministrazione dal (OMISSIS), il quale aveva proseguito l'attività di produzione di manufatti in cemento e amianto fino alla fine del (OMISSIS) senza l'adozione delle cautele necessarie.
In conclusione, come già accennato, gli imputati P.C. R. e A.G. sono stati ritenuti responsabili dei delitti di omicidio colposo già ricordati e il Tribunale ha altresì provveduto alla pronunzia delle statuizioni civili conseguenti.
2) La sentenza di secondo grado.
Contro la sentenza di primo grado sono stati proposti i seguenti atti di appello:
1) da M. B., P.C.R. e A.G.;
2) dalle parti Civili G.M., P.M., P.C., P.T.A. e P.T.G. nei confronti degli imputati P.A.G. e M.B.;
3) da P.A.G.;
4) da P.C.R. e A. G..

Esaminando congiuntamente i motivi proposti dagli imputati la Corte d'Appello di Caltanissetta richiama anzitutto quanto affermato dal primo giudice sull'esistenza ed efficacia delle deleghe in materia di protezione della sicurezza del lavoro nello stabilimento della soc. SILCA confermando che queste deleghe non potevano assumere efficacia esimente dalla responsabilità perchè non attribuivano i poteri di disporre atti di straordinaria amministrazione che sarebbero stati necessari per operare le trasformazioni del sistema produttivo indispensabili per impedire la dispersione delle fibre di amianto negli ambienti di lavoro.
In ogni caso i presidenti del consiglio di amministrazione che si erano succeduti nel tempo non avevano esercitato i poteri di controllo di cui disponevano sull'operato dei delegati e non avevano posto in essere alcun intervento sostitutivo reso necessario dalla loro inerzia.
La Corte di merito ricorda poi i testi normativi che si sono succeduti nel tempo che dimostrerebbero che, già all'inizio dello svolgimento dell'attività produttiva dello stabilimento SILCA, erano conosciute (o comunque erano conoscibili dagli imputati) le gravi conseguenze derivate dall'esposizione all'inalazione di fibre di amianto ed evidenzia che gli organi rappresentativi della società alcun provvedimento avevano adottato per eliminare o ridurre questa esposizione.
I giudici di secondo grado ripercorrono quindi le acquisizioni probatorie del primo giudice escludendo che le patologie possano essere ricondotte soltanto alle precedenti esposizioni e richiamano il complesso testimoniale dal quale è stato ricavato che le protezioni all'interno dello stabilimento SILCA erano praticamente inesistenti e che le varie inadempienze indicate nella sentenza di primo grado (e già in precedenza ricordate) erano da ritenersi ampiamente provate.
La sentenza impugnata esamina poi i motivi di appello che si riferiscono alla mancata individuazione del momento iniziale del processo patologico (che potrebbe essere avvenuto anche precedentemente all'inizio dell'attività della SILCA che era subentrata, nel 1968, alla soc. SIMAC che svolgeva analoga attività) e sottolineano come questa circostanza sia da ritenere irrilevante perchè comunque la successiva esposizione ha contribuito all'aggravamento della situazione patologica.
E' vero infatti, secondo la Corte, che gli effetti dell'asbestosi si aggravano nel tempo anche in mancanza di continuazione dell'esposizione ma se l'esposizione continua l'aggravamento della patologia che si verifica è di entità ben superiore.
La sentenza affronta poi il caso di C.G.C. deceduto per mesotelioma pleurico.
Poichè nei motivi di appello si sosteneva che questa malattia non è ricollegata alla continuazione dell'esposizione ma può derivare da un singolo contatto con l'amianto - e ciò aveva particolare rilievo per quanto riguarda gli imputati P.C.R. e A.G. che avevano ricoperto le cariche già indicate per un periodo limitato di tempo - la Corte di merito ha rilevato che la morte del lavoratore indicato non era riconducibile soltanto al mesotelioma perchè era stato accertato che "la causa iniziale è stata individuata nell'asbestosi, quella intermedia in un carcinoma polmonare e quella finale nell'insufficienza respiratoria".
In questo quadro già compromesso il mesotelioma accertato più recentemente - anche se non si volesse ritenere scientificamente provato che questa malattia sia correlata all'asbestosi - aveva svolto un ruolo di concausa atta a peggiorare una situazione peraltro già gravemente compromessa. E ciò rendeva altresì irrilevanti le censure di P.C. e A. riferite ai tempi di latenza del mesotelioma; tempi che sarebbero incompatibili con la brevità dei periodi nei quali i medesimi hanno rivestito le cariche indicate.
Quanto alla censura della P.C.R. che asseriva, nei motivi di appello, di aver ricoperto solo formalmente la carica già indicata la sentenza sottolinea che il principio di effettività vale ad estendere la responsabilità anche a chi, di fatto, svolga funzioni di vertice nella compagine sociale ma non certo ad escludere la responsabilità di chi sia formalmente investito degli obblighi di prevenzione. Semmai questa circostanza vale ad estendere l'ambito dei responsabili anche a chi queste funzioni di fatto svolga. La Corte poi sottolinea che l'appellante, anche prima di essere formalmente nominata presidente del consiglio di amministrazione, per la sua attività svolta all'interno dell'azienda già era a conoscenza della tossicità dell'amianto.
Per quanto riguarda la posizione di A. la sentenza sottolinea poi come l'imputato abbia svolto le funzioni di cui trattasi in un'epoca nella quale gli effetti tossici dell'amianto erano ormai conclamati tanto da condurre al divieto legislativo delle relative lavorazioni.
E proprio per questa circostanza la Corte ha ritenuto di confermare il diniego delle attenuanti generiche, oltre che nei confronti degli altri due imputati, anche nei confronti di A. e P.C. R. - malgrado i due imputati avessero ricoperto le cariche indicate per periodi limitati - in considerazione dell'elevato grado della colpa che connotava la condotta di tutti gli imputati confermato dalla circostanza che gli imputati avevano anche omesso di adibire a lavorazioni di minor rischio i lavoratori che avevano già contratto patologie ricollegabili all'esposizione all'amianto.
Infine il giudice di secondo grado ha accolto il già indicato motivo dell'appello proposto dalle parti civili relativo alla mancata liquidazione delle spese di consulenza tecnica di parte;
ha dichiarato condonate le pene inflitte dal primo giudice e ha confermato le statuizioni civili adottate del primo giudice condannando gli imputati alla rifusione delle spese in favore delle parti civili.
3) Il ricorso proposto dagli imputati P.C.R. e A. G..
Contro la sentenza della Corte d'Appello di Caltanissetta sono stati proposti due atti di ricorso.
Uno congiunto da parte di P.C.R. e A.G.; un secondo da parte di P.A.G..
Non risulta che M.B. abbia impugnato la sentenza d'appello.
Con il primo motivo del ricorso proposto da P.C.R. e A.G., si deduce anzitutto la mancanza di motivazione e l'erronea applicazione dell'art. 40 cod. pen. con riferimento all'accertamento dell'esistenza del rapporto di causalità tra la condotta addebitata agli imputati e la morte di C.G. C.. Si osserva nel motivo di ricorso che alcun elemento concretamente accertato abbia confermato la tesi della Corte di merito sull'efficacia concausale dell'asbestosi posto che la morte del lavoratore è avvenuta in tempi equiparabili ai casi nei quali il mesotelioma viene accertato in mancanza dell'asbestosi.
In particolare nel motivo di ricorso si afferma che la sentenza impugnata si sarebbe limitata ad affermare apoditticamente un'efficacia concausale dell'asbestosi senza indicare come le esposizioni riferibili ai ricorrenti abbiano influito sul verificarsi dell'evento.
Non si sarebbe poi tenuto conto della brevità di questi periodi, del fatto che le esposizioni successive erano certamente meno intense di quelle riferibili ai primi periodi di attività e i mezzi di protezione più efficaci.
E' quindi da escludere, secondo i ricorrenti, che possano ritenersi realizzati i presupposti che la giurisprudenza di legittimità ha individuato per ritenere l'esistenza del rapporto di causalità tra la condotta e l'evento.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce invece l'erronea applicazione dell'art. 43 cod. pen. con riguardo alla posizione di P.C.R. e si sottolinea come nei giudizi di merito sia stato accertato che, di fatto, la gestione dell'azienda abbia continuato ad essere affidata a P.A.G. (che l'ha riconosciuto nel corso dell'esame) anche nel periodo in cui formalmente era stata attribuita alla figlia (periodo nel quale al padre era stata attribuita la qualifica di vice presidente del consiglio di amministrazione).
Ritenere dunque che la ricorrente risponda delle condotte del padre è in contrasto, secondo quanto si afferma nel motivo di ricorso, con il principio di effettività più volte riaffermato dalla giurisprudenza di legittimità.
Inoltre, secondo la ricorrente, la sentenza impugnata non avrebbe indicato che cosa l'imputata avrebbe dovuto e potuto fare in quel breve arco di tempo. Solo l'eliminazione dell'uso dell'amianto azzera infatti il rischio di contrarre il mesotelioma pleurico; la conclusione contestata dovrebbe quindi essere che la ricorrente avrebbe dovuto eliminare ogni lavorazione di questo tipo cinque anni prima che la legge lo imponesse. Il che, peraltro, non avrebbe evitato la morte di C.G.C..
Con il terzo motivo i due imputati censurano la sentenza di secondo grado per erronea applicazione della legge penale e mancanza di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Secondo i ricorrenti la Corte di merito non avrebbe tenuto conto della brevità della carica ricoperta dai due imputati e, per quanto riguarda A., della sua particolare posizione "rispetto all'attività di eliminazione dell'amianto".
Ma la sentenza impugnata non avrebbe neppure tenuto conto dei parametri indicati nell'art. 133 cod. pen.; in particolare del fatto che, anche accogliendo la tesi della Corte di merito sull'efficacia concausale dell'asbestosi, il ruolo causale della condotta dei due imputati nel determinismo dell'evento sarebbe "assolutamente risibile". Inoltre la sentenza impugnata non avrebbe tenuto conto dell'incensuratezza degli imputati, del comportamento processuale ispirato "alla massima onestà" e dell'intervenuto risarcimento del danno.

4) Il ricorso proposto da P.A.G..
Questo ricorso esordisce con un esame delle patologie correlate all'amianto e della normativa sul medesimo tema; prosegue con una sintesi del percorso giurisprudenziale sul rapporto di causalità e della nozione di ragionevole dubbio.
Il ricorso prosegue con la sintesi delle dichiarazioni rese da numerosi testimoni nel corso del giudizio di primo grado dalle quali emergerebbe che i sistemi di protezione (comprese le docce) erano stati impiegati dalla SILCA e non dalla SIMAC che operava in precedenza; che gli operai venivano informati dei rischi cui erano sottoposti; che non venivano utilizzati recipienti per l'amianto; che gli scarti di lavorazione non venivano depositati nelle adiacenze dei locali ma reimmessi nel ciclo produttivo; che la miscelazione dell'amianto veniva svolta in locali separati dotati di un sistema di aspirazione innovativo; che esistevano ventole aspiranti; che le visite mediche venivano regolarmente eseguite; che in fabbrica vi era un responsabile di stabilimento; che dalla fine del 1969 veniva utilizzato un sistema di trasporto protetto in un tunnel nel quale l'amianto veniva inumidito e non si verificava quindi la formazione di polveri; che i locali erano adeguatamente areati; che le pulizie venivano effettuate in umido e non generavano polvere.
Le censure proseguono ricordando come, dall'esame delle dichiarazioni dei testimoni, emerga in modo evidente la sovrapposizione dei ricordi riguardanti il periodo nel quale lo stabilimento era gestito dalla SIMAC con i ricordi riferibili al periodo successivo nel quale era stato gestito dalla SILCA. Nel ricorso si sottolinea come la sentenza impugnata non abbia tenuto conto della circostanza che la soc. SILCA non aveva più utilizzato la crocidolite dall'epoca in cui ne era stata vietata la commercializzazione (nel 1988) fino al 1992; della circostanza che le visite Enpi e Usl avevano sempre avuto esito negativo; che era stato documentato l'acquisto dei presidi di protezione negli ultimi anni di attività.
Vengono poi svolte alcune considerazioni sulla latenza dell'asbestosi e si precisa che questa deve considerarsi in 20/40 anni. Il ricorrente precisa che, con qualche isolata eccezione (6 su 28), la gran parte dei lavoratori per i quali è stata diagnosticata la silicosi aveva lavorato in precedenza presso la SIMAC e comunque la diagnosi era stata formulata soltanto dall'Inail e quindi, se poteva costituire titolo per le prestazioni previdenziali, non poteva costituire la prova di responsabilità ai fini penali. Per contro la gran parte dei lavoratori che non risultavano affetti da alcuna patologia non aveva mai lavorato alle dipendenze della SIMAC (nel ricorso è contenuta una tabella i cui dati confermerebbero questa conclusione).
Alla luce dei dati riferiti afferma il ricorrente che - dovendosi ritenere che le patologie erano state contratte nel periodo di lavoro presso la SIMAC - le successive inalazioni non avrebbero avuto alcun effetto sull'evoluzione della malattia salvo che si fosse trattato di "massive - ulteriori - contaminazioni"; il che nella specie è da escludere.
Il ricorso affronta poi il tema del rapporto di causalità in relazione ai singoli casi dei lavoratori deceduti evidenziando:
- per quanto riguarda P.G. che non esiste una diagnosi certa che il lavoratore fosse affetto da asbestosi; che comunque non è affatto accertato che l'eventuale asbestosi sia stata contratta nel periodo di lavoro presso la SILCA; infine che non esiste la prova che il cancro polmonare che ha cagionato la morte del lavoratore sia riconducibile all'eventuale asbestosi "essendo invece molto probabile che il cancro sia stato dovuto all'accertato perdurante vizio del fumo";
- per quanto riguarda C.G.C. e S.G. che risulta incerta la presenza dell'asbestosi; che comunque il lungo periodo di latenza di questa malattia induce a ritenere che la medesima sia stata contratta nel periodo di lavoro presso la SIMAC;
che non si ha alcun dato clinico sulle modalità e sulle cause del decesso;
- per quanto riguarda C.M., fermo restando il discorso sul periodo di latenza, che risulta che il medesimo sia deceduto per "infarto basale".
La conclusione di questa analisi è che tutti i lavoratori deceduti, per i quali è intervenuta condanna, avevano lavorato presso la SIMAC in condizioni di inesistenza di protezioni contro l'inalazione delle fibre di amianto che invece la SILCA aveva adottato tanto che non esiste un caso di persona che abbia lavorato solo presso la SILCA che abbia contratto patologie riferibili all'amianto.
Consegue a queste doglianze, secondo il ricorrente, che non può essere ritenuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le morti per le quali è intervenuta condanna siano riconducibili alle esposizioni subite presso la soc. SILCA.
E nel ricorso si sottolinea l'illogicità della motivazione che caratterizzerebbe la sentenza impugnata per aver ritenuto che il mesotelioma fosse una conseguenza dell'asbestosi stante la completa autonomia tra le due patologie e la sicura riferibilità del mesotelioma ai periodi lavorativi presso la SIMAC in considerazione dei tempi di latenza. Il ricorrente sottolinea poi che risulta provato come la SILCA abbia adottato tutte le cautele necessarie per evitare gli eventi via via che le conoscenze scientifiche si evolvevano e confermavano le caratteristiche di pericolosità dell'amianto.
Infine nel ricorso si sottolinea che il reato contestato riferito a C.M. (deceduto il (OMISSIS)) è da ritenere prescritto.
5) Esame dei motivi riguardanti la ricostruzione dei fatti.
In entrambi i ricorsi - ma in particolare in quello proposto da P. A.G. - la sentenza della Corte di merito viene sottoposta ad analitiche e precise critiche con le quali si contesta la ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito e vengono censurate, in particolare, le affermazioni dei medesimi laddove hanno ritenuto accertata l'esistenza di una sistematica (e perdurante nel tempo) violazione delle regole precauzionali da parte dei responsabili della sicurezza e della tutela della salute dei lavoratori addetti alle varie fasi delle lavorazioni che si svolgevano nello stabilimento.
P.A.G. rimette in discussione tutti gli accertamenti fattuali compiuti dai giudici di merito sulle condizioni di lavoro in cui operavano i dipendenti della SILCA in tutto l'arco di tempo in cui egli ha svolto le funzioni di presidente del consiglio di amministrazione della società contestando, come si è già accennato, che gli operai non fossero stati informati dei rischi cui erano sottoposti e che non fossero state adottate tutte le misure precauzionali già ricordate o resi disponibili i mezzi di prevenzione necessari e precisando analiticamente tutte le misure che erano state adottate.
Orbene su tutte queste circostanze i giudici di merito hanno argomentato adeguatamente indicando le fonti di prova su cui hanno fondato gli accertamenti contestati dal ricorrente.
In particolare la Corte d'Appello ha indicato le numerose fonti testimoniali (la sentenza ricorda le deposizioni dei testi CA., B., MI., CE., CH., I., m., L., SC., SO., V., F., R., GI., I., AP., GR., MA. e AP.), già indicate dal primo giudice, che confermavano la mancanza della doverosa informazione da parte degli imputati circa i rischi connessi alla lavorazione dell'amianto, la mancata adozione dei mezzi di protezione individuale e il mancato controllo del loro uso quando gli strumenti di protezione erano stati poi adottati, la tardiva adozione di maschere antipolvere dotate di filtri adeguati, il mancato rispetto dell'obbligo di fare la doccia al termine del turno di lavoro e di consumare i pasti nel refettorio, la mancata adozione di misure delle cautele più volte indicate nelle lavorazioni per evitare la dispersione delle polveri.
Si aggiunga che la Corte di merito, pur contenendo una motivazione autonoma sui fatti indicati, ha fatto anche espresso richiamo alla sentenza di primo grado - che contiene un più analitico esame delle deposizioni rese dai testimoni condividendone il contenuto e rielaborando la valutazione delle fonti di prova acquisite al processo.
Del resto il ricorrente P.A.G. non indica ragioni di illogicità o contraddittorietà presenti nella ricostruzione compiuta dai giudici di merito ma riporta in sintesi le dichiarazioni di testimoni che, secondo il suo parere, non sarebbero state prese in considerazione.
Ma va su questo punto rilevato che in realtà, con le censure proposte, il ricorrente pone in discussione la ricostruzione motivatamente effettuata dai giudici di merito i quali hanno ritenuto provato - ritenendo attendibili le dichiarazioni dei testimoni già indicati e implicitamente meno attendibili quelle di coloro che hanno reso dichiarazioni più dubbiose - che nel corso dei decenni di operatività dello stabilimento gestito dalla SILCA il rispetto delle misure di prevenzione era stato inesistente o comunque assai scarso fin dall'inizio e la situazione era solo parzialmente migliorata nel corso degli ultimi anni tanto che le conseguenze riferibili alla dispersione delle fibre di amianto sono state di dimensioni assai significative per il numero di persone che le hanno subite e per le conseguenze che ne sono derivate.
Deve dunque concludersi per l'inammissibilità di queste censure esclusivamente dirette in via immediata ad una diversa ricostruzione dei fatti accertati dai giudici di merito ma evidentemente finalizzate a contestare la valutazione dei giudici di merito sull'esistenza della colpa nelle condotte accertate.
V'è ancora da osservare, sul tema dell'elemento soggettivo, che i ricorrenti - oltre a quelle già ricordate che si risolvono sul piano fattuale - non hanno sostanzialmente proposto altre critiche riguardanti l'esistenza della colpa, in particolare per quanto riguarda la prevedibilità degli eventi, salvo una generica contestazione riguardante il comportamento alternativo lecito che i ricorrenti avrebbero dovuto adottare e che, secondo il loro assunto, i giudici di merito avrebbero omesso di indicare.
Così non è perchè, dalla sintesi ricordata delle condotte dei ricorrenti, emerge chiaramente come sia stato definitivamente accertato nel giudizio di merito quali siano state le cautele la cui adozione sia stata omessa e come sia stata costante e perdurante per decenni la violazione quanto meno del D.P.R. 19 marzo 1956, artt. 20 e 21 (norme generali per l'igiene del lavoro) che disciplinano la difesa contro le sostanze inquinanti e tossiche nei luoghi di lavoro.

6) Esame dei motivi riguardanti la causa dei decessi di C. G.C., C.M., S.G. e P. G..
Accertato che la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito non può più essere soggetta a sindacato nel presente giudizio di legittimità vanno ora esaminate le altre censure proposte con i ricorsi con l'avvertenza che le doglianze di natura analoga saranno congiuntamente esaminate.
Entrambi i ricorsi ripropongono il tema relativo alla causa delle morti di C.G.C. (deceduto il (OMISSIS)), C.M. (deceduto il (OMISSIS)), S.G. (deceduto il (OMISSIS)) e P.G. (deceduto il (OMISSIS)) che entrambi i giudici di merito hanno ricondotto alle esposizioni massive alle fibre di amianto e che i ricorrenti contestano sotto diversi profili.
Tutte le censure proposte sotto il profilo indicato devono però ritenersi infondate e, per alcuni aspetti, anche inammissibili perchè l'accertamento delle cause delle morti è stato, dai giudici di merito, condotto con criteri giuridicamente corretti ed esenti da alcuna illogicità.
Per quanto riguarda la causa della morte di C.G.C. i giudici di merito hanno osservato che il medesimo era affetto da asbestosi, cancro polmonare e mesotelioma pleurico e che ciascuna di queste malattie ha avuto efficacia concausale sul verificarsi della morte.
Questa affermazione viene dai ricorrenti contestata anzitutto sotto questo profilo: l'asbestosi è malattia che, una volta contratta, progredisce indipendentemente dall'esposizione all'inalazione delle fibre di amianto; C.G.C. ha contratto l'asbestosi quando lavorava alle dipendenze della SIMAC; con la conseguenze che le successive esposizioni, peraltro decisamente meno significative, non possono aver influito sull'evolversi della malattia.
Per quanto riguarda il mesotelioma i lunghissimi tempi di latenza fanno ritenere che la malattia sia stata contratta quando ancora il lavoratore era dipendente della SIMAC e che le successive esposizioni non abbiano avuto alcuna influenza.
Queste censure sono state adeguatamente contrastate dalla Corte di merito che, sulla base dei pareri espressi dai consulenti tecnici del pubblico ministero, ha affermato - in contrasto di quanto sostenuto con i motivi di appello (e con quelli di ricorso):
- che, pur essendo naturale un aggravamento dell'asbestosi anche nel caso di eliminazione dell'esposizione, la continuazione della sottoposizione all'esposizione è invece idonea ad aggravare significativamente la malattia soprattutto se le esposizioni - come deve ritenersi incensurabilmente accertato nel caso in esame - siano proseguite con particolare intensità anche se si fosse ridotta nel tempo l'esposizione lesiva.
E' dunque corretta anche l'ulteriore conclusione della Corte di merito sull'irrilevanza dell'accertamento del momento iniziale della contrazione della asbestosi una volta che sia comunque accertato che le esposizioni verificatesi presso la SIMAC abbiano significativamente contribuito all'aggravamento della malattia che viene, dalla Corte, ritenuto "direttamente proporzionale alla quantità di asbesto che viene inalata".
Ciò premesso in generale va poi osservato che si rivelano infondate anche le critiche rivolte dai ricorrenti all'affermazione che riguarda l'efficacia concausale dell'asbestosi sulla morte di C. G.C.. Secondo i ricorrenti il mesotelioma (del quale peraltro i ricorrenti non disconoscono la riconducibilità all'esposizione alle fibre di amianto) è malattia certamente mortale da sola sufficiente a determinare l'evento.
E ciò indipendentemente dalla presenza dell'asbestosi.
I giudici di merito non hanno ritenuto di affrontare, ritenendolo irrilevante nel presente giudizio, il tema che sta a monte di queste censure: se sia vero che l'innesco del processo tumorale possa avvenire anche in base ad una sola inalazione (la cd. "trigger dose") ovvero se la prosecuzione delle inalazioni possa comunque avere efficienza causale sul successivo manifestarsi della malattia.
Sono ovvie le conclusioni se si accoglie questa ricostruzione del processo patogenetico: se la dose iniziale è avvenuta in tempi sicuramente lontani che non è possibile individuare (in considerazione dei lunghissimi tempi di latenza della malattia) nel caso di pluridecennali esposizioni all'inalazione delle fibre di amianto - ove l'esposizione iniziale sia riconducibile alla condotta di diversi suggetti - la causalità della condotta di coloro che sono succeduti nelle posizioni di garanzia non potrebbe essere ritenuta accertata in termini di elevata credibilità razionale.
Di questa ricostruzione causale è stata da varie fonti scientifiche evidenziata la natura congetturale ma, ovviamente, non è questa la sede per un dibattito di natura scientifica dovendosi però rilevare che la tesi riferita in altre vicende processuali non è stata accolta dagli esperti nominati dai giudici di merito in altri processi (si veda il caso conclusosi con la sentenza di questa sezione 11 luglio 2002 n. 988, Macola, rv. 22700 che ha confermato una sentenza di condanna del giudice di merito).
Nel presente processo i giudici di merito, come si è già accennato, hanno fatto riferimento all'efficienza concausale, sul verificarsi della morte, dell'asbestosi sicuramente riconducibile (in base agli accertamenti svolti dai giudici di merito) anche alle condotte degli odierni ricorrenti (con le precisazioni che verranno fatte sulle posizioni di due imputati).
Orbene, contrariamente a quanto si afferma nei ricorsi, la sentenza impugnata ha adeguatamente e logicamente motivato su questa efficienza concausale perchè ha ricordato come l'asbestosi avesse già seriamente compromesso il sistema respiratorio di C.G.C., prima ancora che il mesotelioma si manifestasse, perchè nel 1998 il paziente (deceduto il (OMISSIS)) già soffriva di "dispnea sempre più ingravescente accompagnata da toraco algie" e che la causa immediata della morte è stata individuata nell'insufficienza respiratoria.
Ciò appare già sufficiente per individuare una concausa nell'esistenza dell'asbestosi - anche indipendentemente dalle considerazioni della Corte sulla circostanza, riferita dai consulenti escussi, che il mesotelioma viene individuata per la maggior parte dei casi (l'85%) in soggetti che già presentano l'asbestosi - perchè le gravi patologie respiratorie sono state ritenute correlate al verificarsi della morte di C.G.C. e questa valutazione appare esente da alcun vizio logico.
Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda il decesso di S.G. (anch'egli affetto da asbestosi e mesotelioma con forte insufficienza respiratoria).
Mentre, per quanto riguarda C.M. e P.G. deve rilevarsi che la morte di entrambi è stata riferita alla sola asbestosi perchè i medesimi lavoratori non avevano contratto il mesotelioma.
Nè possono essere prese in considerazione, nel giudizio di legittimità, le alternative ricostruzioni delle cause delle morti formulate nei motivi del ricorso proposto da P.A.G. anch'esse dirette ad ottenere dal giudice di legittimità una ricostruzione dei fatti diversa da quella logicamente compiuta dal giudice di merito.
Va dunque confermata l'affermazione di responsabilità di P. A.G. per quanto riguarda i fatti di omicidio colposo in danno di C.G.C., S.G. e P. G..
Deve invece ritenersi ormai prescritto il reato di omicidio colposo in danno di C.M. deceduto il (OMISSIS) e per il quale reato il termine quindicennale di prescrizione deve ritenersi decorso il 4 marzo 2007 non risultando essere intervenuti atti sospensivi del decorso della prescrizione.
L'ipotesi prevista dall'art. 589 c.p., comma 3 configura infatti un'ipotesi di concorso formale con unificazione solo ai fini della pena che fa permanere integra la pluralità di reati con la conseguente autonomia del computo della prescrizione per ciascuno dei reati unificati (in questo senso v. Cass., sez. 4, 15 giugno 2000 n. 12472, Pellegrini, rv. 217947; 27 gennaio 1999 n. 3127, Cugliari, rv. 213221; sez. 1, 7 novembre 1995 n. 175, Ferraioli, rv. 203346).
Ne consegue - ovvio essendo, per le ragioni già indicate, che non si rende applicabile l'art. 129 c.p.p., comma 2 l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti di P.A. G. limitatamente al reato di omicidio colposo in danno di C.M..
La rideterminazione della pena inflitta all'imputato non può essere compiuta da questa Corte non avendo, i giudici di merito, individuato la più grave violazione sulla quale è stato applicato l'aumento di pena previsto dal comma 3 ricordato.
Sull'unico punto della determinazione della pena la sentenza va dunque annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'Appello di Caltanissetta.
7) La posizione di garanzia di P.C.R..
Come si è già accennato la ricorrente P.C.R. contesta, in buona sostanza, l'esistenza della sua posizione di garanzia nel periodo in cui ha svolto le funzioni di presidente del consiglio di amministrazione della soc. SILCA: la ricorrente sostiene che, in questo periodo, le funzioni indicate sono state di fatto svolte dal padre P. A.G. (che avrebbe ammesso la circostanza) e quindi non potrebbe essere chiamata a rispondere delle violazioni delle regole cautelari in effetti verificatesi.
Ciò in base al principio di effettività da cui consegue che responsabile delle violazioni commesse nell'esercizio dell'attività di impresa risponde chi di fatto ha esercitato i poteri corrispondenti alle funzioni svolte.
La premessa da cui prende le mosse la censura proposta dalla ricorrente è da ritenere corretta; chi di fatto dispone dei poteri decisionali e di spesa risponde certamente delle violazioni in cui sia incorso nell'esercizio di questi poteri.
Ma ciò non comporta le conseguenze che la ricorrente pretende derivino da questa situazione perchè l'assunzione di una posizione di garanzia comporta, di per sè, il sorgere dell'obbligo di protezione dei beni alla cui preservazione tale posizione è preordinata.
Questa posizione di garanzia non viene meno sol perchè il titolare di essa rifiuta di esercitare i suoi poteri o consente che altri li svolgano per lei.
Questi principi sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza di legittimità - soprattutto nel vicino settore della delega di funzioni - che ha più volte sottolineato come, nei casi indicati, le due posizioni si cumulano e che il garante formale, se ritenga di non essere stato posto in grado di svolgere le sue funzioni, per sottrarsi alle responsabilità conseguenti al conferimento delle funzioni, ha l'unica possibilità di rifiutare tale conferimento, di dimettersi o comunque di rinunziare alla qualità da cui derivano gli obblighi di protezione o controllo.
8) La causalità delle condotte riferibili a P.C.R. e A.G..
In merito ai motivi di ricorso che si riferiscono alla posizione di P.C.R. e A.G. va premesso che, per quanto si è detto in precedenza, nel presente giudizio non è più in discussione che le morti di C.G. C. (deceduto il (OMISSIS)), C.M. (deceduto il (OMISSIS)), S.G. (deceduto il (OMISSIS)) e P.G. (deceduto il (OMISSIS)) siano riferibili all'inalazione di fibre di amianto.
E' quindi da ritenere accertata la causalità materiale degli eventi verificatisi.
Ma l'addebito oggettivo dell'evento non si esaurisce in questa ricerca dovendosi anche accertare se l'imputato, con la sua condotta, abbia contribuito causalmente al verificarsi dell'evento.
Il giudizio controfattuale va infatti compiuto anche in relazione alla condotta dell'uomo che ha avuto efficacia nel determinismo dell'evento: se quella condotta dell'uomo nel meccanismo causale non fosse stata assente (o non fosse stata presente nella causalità commissiva) l'evento si sarebbe verificato ugualmente o si sarebbe verificato con lo stesso grado di intensità o nei medesimi tempi?
E' chiaro che qui non siamo più nel campo della causalità meramente materiale bensì in quello della causalità giuridica e che ci riferiamo all'influenza che la condotta (omissiva o commissiva) dell'uomo ha avuto sul verificarsi dell'evento e quindi a quella particolare forma della causalità denominata "causalità della condotta"; ed è altrettanto chiaro che l'indagine riguarda ancora esclusivamente l'elemento oggettivo della fattispecie senza alcuna considerazione dell'elemento soggettivo.
Orbene nel caso in esame i due imputati, con i motivi di appello, avevano posto il problema dell'efficienza causale delle loro condotte sottolineando, in particolare, come estremamente brevi fossero i periodi in relazione ai quali la sottoposizione all'esposizione alle fibre di amianto di C.G.C. (l'unico decesso per cui il primo giudice aveva ritenuto corresponsabili anche i due ricorrenti) poteva essere loro oggettivamente addebitata. P. C.R. aveva infatti svolto le funzioni di presidente del consiglio di amministrazione della soc. SILCA dal (OMISSIS) al (OMISSIS) mentre A.G. aveva rivestito la medesima carica dall'(OMISSIS) ma le lavorazioni pericolose erano cessate nel corso del (OMISSIS) in attuazione delle disposizioni contenute nella L. n. 257 del 1992 e comunque C.G.C. aveva cessato il lavoro nel (OMISSIS).
E' dunque da ritenere ormai incontestabilmente accertato che i due imputati abbiano sottoposto il lavoratore C.G.C. alle esposizioni più volte richiamate per un periodo, rispettivamente, di mesi dieci ( P.C.R.) e di mesi quattordici ( A. G.). A fronte della contestazione, contenuta nei motivi di appello, relativa alla insufficienza causale di queste esposizioni per la brevità dei periodi il giudice di appello avrebbe dovuto fornire di congrua motivazione la sua valutazione sugli effetti che la sottoposizione ad esposizione, anche per periodi della brevità indicata, poteva avere sull'abbreviazione della latenza delle malattie o sulla anticipazione degli effetti patologici ed in particolare sull'anticipazione del decesso di C.G.C..
La Corte di merito si è invece soffermata sul problema della rilevanza delle precedenti esposizioni ai fini dell'insorgenza del mesotelioma e sull'efficienza concausale di mesotelioma e asbestosi nel determinismo della morte di C.G.C. ma sull'efficienza causale delle condotte di A.G. e P.C.R. si è limitata ad affermare apoditticamente che la prosecuzione dell'esposizione anche nei periodi in cui i due imputati avevano ricoperto la carica indicata aveva cagionato "un aggravamento dell'asbestosi".
Di tale affermazione non viene data alcuna spiegazione nella sentenza impugnata.
E' ovvio che la prosecuzione di un'esposizione induce un aggravamento della patologia; ma se questo aggravamento non è tale da modificare significativamente i tempi e le modalità di un evento comunque destinato a verificarsi non può essere affermata l'efficienza causale della condotta di chi questa esposizione ha provocato o con sentito.
La sentenza impugnata - fermo restando l'accertamento delle cause della morte di C.G.C. e della natura colposa della condotta degli imputati - va dunque annullata sul punto concernente l'efficienza causale delle condotte colpose addebitate a P. C.R. e A.G. con rinvio alla corte d'Appello di Caltanissetta.
I rimanenti motivi proposti dai due imputati, riguardanti il trattamento sanzionatorio, devono ritenersi assorbiti.
Vanno invece confermate le statuizioni civili adottate nei confronti di P.A.G. che va condannato alla rifusione delle spese in favore della parte civile nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.A.G. limitatamente all'omicidio colposo in danno di C.M. perchè il reato è estinto per prescrizione.
Rigetta nel resto il predetto ricorso e rinvia alla Corte d'Appello di Caltanissetta per la determinazione della pena.
Condanna il P.A.G. alla rifusione delle spese a favore delle costituite parti civili che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.
Annulla inoltre la sentenza impugnata nei confronti di P. C.R. ed A.G. con rinvio alla predetta Corte d'Appello (altra sezione).
Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2008.
Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2008