Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 febbraio 2019, n. 3643 - Infortunio durante i lavori di potatura di un giardino. Valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE Relatore: DE GREGORIO FEDERICO Data pubblicazione: 07/02/2019
LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore
OSSERVA
S.R., premesso che era stato assunto nell'anno 2002 dall'impresa individuale F.S. e che aveva subito un infortunio sul lavoro il 25 marzo 2003 (mentre stava eseguendo dei lavori di potatura nel giardino di proprietà dei coniugi L.- P., all'interno di un cestello agganciato al braccio della gru posta su di un autocarro e manovrata dal F.S., era caduto da un'altezza di circa 6 metri a causa di una eccessiva movimentazione del braccio della gru), conveniva in giudizio il suddetto F.S., proprio datore di lavoro, per ottenere il risarcimento del patito danno non patrimoniale in ragione di complessivi € 527.120,83. Instauratosi il contraddittorio, con la costituzione in giudizio del convenuto, che resisteva alle pretese avversarie (assumendo in particolare che l'infortunio si era verificato in modo del tutto accidentale e comunque per colpa esclusiva del dipendente, il quale sarebbe caduto da una scala mentre era intento a portare una pianta nel vivaio della ditta), istruita la causa con l'escussione di alcuni testi e con l'espletamento di una c.t.u. medico-legale, il giudice adito con sentenza n. 316/2009 rigettava la domanda, compensando le spese di lite. Tale pronuncia veniva appellata dal lavoratore, osservando tra l'altro che non era stato attribuito adeguato valore alla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti del convenuto e che erano stati ignorati rilevanti elementi probatori, che confermavano la responsabilità del F.S. nella determinazione del sinistro.
La Corte d'Appello di Bologna con sentenza n. 1470 in data 31 ottobre - 3 dicembre 2013 rigettava l'interposto gravame, compensando le ulteriori spese di lite, ritenendo che nella fattispecie l'asserita responsabilità del convenuto circa la causazione dell'Infortunio de quo non poteva basarsi unicamente sulla sentenza di patteggiamento, non essendo ravvisabili presunzioni gravi, precise e concordanti che i fatti si fossero svolti secondo la dinamica prospettata da parte attrice. Inoltre, era poco credibile che la prima versione fornita dall'infortunato, già da un anno alle dipendenze del F.S., fosse il frutto dell'ignoranza della lingua italiana, come sembrava emergere successivamente, allorché il lavoratore era stato nuovamente sentito dall'ufficiale di polizia giudiziaria con l'ausilio di un interprete cambiando radicalmente versione, come si ricavava dalla deposizione del cugino J. e come altresì si evinceva dal libero interrogatorio effettuato sempre ricorrendo ad un interprete. La dichiarazione resa dall'infortunato nell'immediatezza del fatto ad un pubblico ufficiale non poteva, quindi, essere considerata priva di valenza probatoria, tenuto conto altresì che la diversa dinamica del sinistro fu prospettata dall'infortunato dopo che il medesimo aveva presentato querela in veste di persona offesa. Peraltro, andava evidenziata l'incongruenza della successiva ricostruzione operata dal dipendente, il quale sarebbe caduto a seguito di un'oscillazione del cestello, dotato comunque di un parapetto di metallo che gli arrivava all'incirca all'altezza dell'anca. Pertanto, il materiale probatorio disponibile non consentiva di ritenere dimostrata la dinamica dei fatti quale descritta in seconda battuta dall'infortunato. Era stato assodato che nel marzo del 2003 il F.S. aveva eseguito dei lavori di potatura di una siepe nel giardino dei suddetti coniugi con l'ausilio di un collaboratore di nazionalità indiana (verosimilmente S.R., anche se la P. non era stata in grado di fornire una descrizione), il quale << operava all'interno di un cestello collegato al braccio di una gru (cfr. dichiarazioni P., Po. e G.)>>. Non era stata, pertanto, dimostrata la presenza del S.R. nella proprietà dei coniugi il giorno dell'infortunio e il fatto che il F.S. avesse negato di essersi recato il 25 marzo 2003 sul posto non costituiva un argomento di prova a supporto dell'assunto attoreo, poiché la teste P. aveva ribadito in udienza che il 25 marzo 2003 non vide nessuno. Anche gli accertamenti effettuati dall'investigatore su incarico di parte attrice non avevano fornito elementi nuovi, avendo il predetto sentito la P. e visionato lo stato dei luoghi. Era poi irrilevante la circostanza che la potatura della siepe non fosse stata ultimata, ciò trovando giustificazione nella spiegazione resa dalla stessa P.. Era altresì inutilizzabile il giudizio espresso dal c.t.u., secondo cui le lesioni riportate dal ricorrente erano compatibili con un trauma da precipitazione da un'altezza significativa, essendo tale valutazione adattabile ad entrambe le versioni. Il lavoratore aveva sostenuto di essere caduto da un'altezza di circa sei metri, ma il pino che stava potando, secondo la versione del F.S., con l'utilizzo di una scala di oltre tre metri, era alto 4 metri e mezzo circa. Quanto, poi, alla pronuncia di condanna di F.S. per il reato di cui all'articolo 374 c.p. (n. 2691/10 Trib. Modena), il giudice penale aveva fondato il suo convincimento prevalentemente sulla deposizione del S.R. (che nel giudizio civile era parte - però al pari dello stesso convenuto F.S., le cui dichiarazioni sembrano appaiono essere state diversamente valutate dai giudici emiliani,), mentre quanto alla sentenza (n. 259/12 Trib. Modena) di condanna a favore dell'INAIL, dagli atti di causa non si ricavava il presupposto su cui il giudice del lavoro aveva fondato la responsabilità di F.S., ovvero l'essere stato costui presente nell'occasione dell'Infortunio e di condurre egli il mezzo in cui era sospeso il S.R.. Poteva, quindi, ritenersi provato che nel marzo del 2003 il F.S. e il ricorrente avevano eseguito la potatura di siepi nella proprietà dei suddetti L.-P. <<con l'utilizzo (verosimilmente inadeguato dal punto di vista della sicurezza) di un cestello», ma altrettanto non poteva affermarsi in ordine al fatto che ciò fosse avvenuto il 25 marzo 2003 e che pertanto lesioni riportate dal lavoratore fossero ricollegabili etiologicamente ad omissione di cautele generiche o specifiche da parte datoriale. Non meritava, quindi, censure la decisione gravata, laddove aveva evidenziato che la prova poteva essere anche logica e indiretta, ma che doveva comunque essere fornita in termini di elevata probabilità e non di mera possibilità, come era invece nel caso in esame.
Avverso l'anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione S.R. (n. in India il ...) con atto del 30 maggio 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito F.S. mediante controricorso del 23 giugno 2014.
Il solo ricorrente ha depositato memoria illustrativa, previa rituale tempestiva comunicazione ad entrambe le parti dell'adunanza in camera di consiglio fissata per il 18 luglio 2018.
CONSIDERATO che
con il primo motivo di ricorso, formulato ex articolo 360 n. 3 c.p.c., è stata denunciata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto nella parte in cui la sentenza impugnata, affermando che non poteva farsi discendere dalla sentenza ex art. 444 c.p.p. la prova dell'ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenendo che tale prova non fosse utilizzabile nel procedimento civile, aveva violato il disposto di cui agli articoli 115, 166 c.p.c., 2730 e ss. c.c., in relazione agli articoli 444 e 445 c.p.p. e al principio giurisprudenziale enunciato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 17289 del 2006, ribadito con la successiva pronuncia n. 9456 del 2013, laddove era stato affermato che la sentenza di applicazione della pena emessa ai sensi del cit. art. 444, presuppone nel processo civile una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall'onere della prova;
con il secondo motivo il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell'art. 360 n. 5 c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione tra le parti, laddove la sentenza impugnata, nel disconoscere l'efficacia probatoria della sentenza cosiddetta di patteggiamento, non aveva spiegato le ragioni per cui il F.S. avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale avesse quindi prestato fede a tale ammissione;
le anzidette doglianze, tra loro connesse e quindi esaminabili congiuntamente, risultano fondate nei seguenti termini;
preliminarmente, va ritenuta, tuttavia, la tempestività del ricorso di cui è processo, avverso la sentenza de qua, pubblicata mediante deposito in cancelleria il tre dicembre 2013 e non notificata, come da atto di cui è stata disposta la notifica in data 30 maggio 2014 (momento rilevante per stabilire la tempestività dell'impugnazione), in seguito meramente perfezionatasi il successivo sei giugno dello stesso anno mediante l'avviso di ricevimento pervenuto al destinatario, laddove per di più nella specie opera il termine c.d. lungo, di durata annuale secondo la previgente formulazione dell'art. 327 c.p.c., qui ratione temporis applicabile visto che la sentenza di primo grado risale al 10 giugno 2009 (cfr. il regime transitorio di cui all'art. 58, co. 1, l. n. 69/2009, in vigore dal 4 luglio 2009. V. poi, tra le altre, Cass. sez. un. civ. n. 13970 del 26/07/2004: in tema di notificazione, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002 - dichiarativa della sentenza della illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e dell'art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982, nella parte in cui prevede che la notificazione di atti a mezzo posta si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell'atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente di consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario - deve ritenersi operante nell'ordinamento vigente un principio generale secondo il quale, qualunque sia la modalità di trasmissione, la notifica di un atto processuale, almeno quando debba compiersi entro un determinato termine, si intende perfezionata, dal lato del richiedente, al momento dell'affidamento dell'atto all'ufficiale giudiziario, che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento);
invero, appare invalida la decisione impugnata nell'aver praticamente negato ogni valenza probatoria al comportamento processuale osservato dal convenuto F.S. in sede penale con la richiesta applicazione della pena, di cui poi alla conseguente sentenza di c.d. patteggiamento, pronunciata dal giudice penale ai sensi degli artt. 444 e ss. c.p.p., in ordine ai reati per i quali lo stesso F.S. era stato incriminato (ex art. 184 D.P.R. n. 547/55, poiché in qualità di titolare dell'omonima azienda agricola effettuava il sollevamento di persone con attrezzature di lavoro ed accessori non previsti a tal fine - ex art. 590 c.p., perché nell'esercizio delle sue mansioni di imprenditore, con negligenza, imprudenza e imperizia, ed in particolare mediante la violazione di cui alla suddetta contravvenzione, movimentando personalmente il braccio della gru installata sull'autocarro tg.to ..., cagionava al lavoratore S.R. -che effettuando lavori di potatura di una siepe formata da alberi di alto fusto, operando all'Interno di un cestello fissato a detta gru, alzato diversi metri dal suolo, cadeva a terra a causa di una repentina inclinazione del cestello stesso, dovuta alla brusca movimentazione del braccio della gru- lesioni personali gravi, consistite nella paraplegia degli arti inferiori. Per di più all’esito del procedimento penale il giudice competente, dopo aver emesso la sentenza, disponeva la trasmissione gli atti al Pubblico Ministero in ordine alla configurabilità a carico del medesimo F.S. di altre ipotesi di reato, legate alla falsa prospettazione dell'accaduto, sicché lo stesso F.S. veniva ulteriormente inquisito per il reato di cui all'art. 374 bis c.p., per aver immutato lo stato dei luoghi delle cose e delle persone...)) la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce, infatti, un importante elemento probatorio per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (Cass. sez. un. civ. n. 17289 del 31/07/2006: <<È del resto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la sentenza penale emessa a seguito di patteggiamento ai sensi dell'art. 444 c.p.p. costituisce un importante elemento di prova nel processo civile (la richiesta di patteggiamento dell'imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato); il giudice, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità non sussistente e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr. le sentenze di questa Corte n. 2213 del 1 febbraio 2006 e n. 19251 30 settembre 2005). Infatti, la sentenza di applicazione di pena patteggiata, "pur non potendosi tecnicamente configurare come sentenza di condanna, anche se è a questa equiparabile a determinati fini", presuppone "pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall'onere della prova" (Cass. 5 maggio 2005, n. 9358)>>. V. in senso analogo, tra le altre, Cass. V civ. n. 10280 del 21/04/2008 e S.U. n. 21591 del 20/09/2013. Cfr. parimenti Cass. V civ. n. 13034 del 24/05/2017: la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario -nella specie ivi esaminata- nel giudizio di legittimità dell'accertamento, sicché in applicazione del principio veniva cassata la sentenza della Commissione tributaria, che aveva ritenuto ininfluente, ai fini della prova a carico del contribuente, la sentenza di patteggiamento emessa in sede penale nei suoi confronti per gli stessi fatti oggetto della pretesa tributaria. Conforme Cass. n. 24587 del 2010); d'altro canto, in base al principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico, cui almeno in astratto tendono le previsioni di diritto positivo, per lo stesso fatto soltanto alla stregua di valide giustificazioni, debitamente argomentate, possono ammettersi differenti e contrastanti decisioni giudiziali, pur nell'autonomia dei relativi giudizi assicurata e disciplinata da norme di rango costituzionale e di natura processuale; la sentenza di patteggiamento, del resto, presuppone non solo il consenso delle parti (imputato e p.m.), ma anche che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129 c.p.p., oltre che corretta la qualificazione giuridica del fatto (art. 444, II co., c.p.p.);
nei sensi di cui sopra, pertanto, va cassata con rinvio la sentenza qui impugnata, con la quale in sintesi si finisce, soprattutto, per omettere ogni esame dell'ammissione in sede penale di responsabilità riguardo al sinistro di cui alla causa civile da parte del convenuto, ammissione che ancorché implicita, costituisce, come rilevato dalla succitata giurisprudenza, qui condivisa, indefettibile presupposto della applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'art. 444 c.p.p. (L'imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l'applicazione, nella specie e nella misura indicata, di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria, diminuita fino a un terzo ... omissis 1-bis. Sono esclusi dall'applicazione dei comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater... omissis
2. Se vi è il consenso anche della parte che non ha formulato la richiesta e non deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento a norma dell'art. 129, ii giudice, sulla base degli atti, se ritiene corrette la qualificazione giuridica dei fatto, l'applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate dalle parti, nonché congrua la pena indicata, ne dispone con sentenza l'applicazione enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti. Se vi è costituzione di parte civile, ii giudice non decide sulla relativa domanda; l'imputato è tuttavia condannato ai pagamento delle spese sostenute dalla parte civile, salvo che ricorrano giusti motivi per la compensazione totale o parziale. Non si applica la disposizione dell'art. 75, comma 3.
3. La parte, nel formulare la richiesta, può subordinarne l'efficacia alla concessione della sospensione condizionale della pena. In questo caso il giudice, se ritiene che la sospensione condizionale non può essere concessa, rigetta la richiesta.
Peraltro, va pure ricordato quanto affermato dalla Corte Costituzionale, che con sentenza 26 giugno 1990 n. 313 aveva dichiarato l’illegittimità dell'originario art. 444, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui non prevedeva che, ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, comma 3, cost., il giudice potesse valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione». Inoltre, con la medesima pronuncia la Corte, nel dichiarare infondata nei sensi di cui in motivazione altra questione di legittimità sollevata al riguardo, aveva affermato, tra l'altro, che «anche la decisione di cui all'art. 444, c.p.p., quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove della responsabilità»);
di conseguenza, nella specie, a parte la rilevata atomistica valutazione di varie circostanze indiziario-presuntive (per certi versi non cogliendo neppure taluni significativi elementi contraddittori nelle dichiarazioni citate a sostegno della pronuncia dubitativamente assolutoria), vi è stata omissione della implicita ammissione di responsabilità in sede penale ex cit. art. 444, per cui la Corte di merito nemmeno ha fornito una qualche appropriata e ragionevole spiegazione delle ragioni di una tale ammissione, a monte della richiesta applicazione di sanzioni penali, né tanto meno alcuna valida argomentazione circa la conseguente pronuncia del giudice penale, che ha così pure, evidentemente, escluso un possibile eventuale proscioglimento dell'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p.; il rilevato omesso esame di un siffatto elemento decisivo, in difetto di ogni pertinente motivazione sul punto integra, pertanto, senza dubbio il vizio di cui all'art. 360, comma I n. 5 c.p.c., così sostituito dall'art. 54, co. 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134 (norma che per espressa previsione dell'art. 54, co. 3, d.l. cit., «si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto», avvenuta il 12 agosto 2012, perciò nella specie ratione temporis applicabile, visto che la sentenza d'appello impugnata con il ricorso de quo risale al 31 ottobre/tre dicembre 2013);
nei sensi anzidetti l'impugnata sentenza va, dunque, cassata con rinvio, ai sensi degli artt. 384 e 385 c.p.c., con rinvio ad altra Corte di Appello, designata in dispositivo, che attenendosi ai richiamati principi di diritto, riesaminerà la controversia valutando complessivamente tutte le acquisite risultanze istruttorie, tenuto altresì conto della censurabilità, in sede di legittimità, della decisione di merito in cui il giudice si limiti a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non siano in grado di acquisirla ove valutati nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva (v. sul punto Cass. lav. n. 18822 del 16/07/2018, che nella specie, in causa di licenziamento per giusta causa, ha cassato la decisione impugnata, la quale, dopo aver esaminato atomisticamente gli indizi raccolti in istruttoria, anche relativi al giudizio penale, ne aveva escluso la valutazione complessiva al fine di ponderarne la valenza probatoria, in quanto privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. V. altresì Cass. III civ. n. 9059 del 12/04/2018, secondo cui in tema di prova per presunzioni, il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento. In senso analogo v. pure Cass. Sez. 6-5, ordinanza n. 5374 del 2/3/2017. V. ancora Cass. III civ. n. 12002 del 16/05/2017: allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni, le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito, rientra nei compiti di quest'ultimo il giudizio circa l'idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio del c.d. "id quod prelumque accidit", essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale. Conforme Cass. III civ. n. 26022 del 05/12/2011. V. ancora in senso analogo Cass. V civ. n. 9108 del 06/06/2012: in terna di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento);
infine, essendo risultato, anzidetti termini il ricorso de quo, non ricorrono nella specie i presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, circa il raddoppio del contributo unificato nell'ipotesi d'integrale rigetto dell'impugnazione ovvero nel caso d'inammissibilità o d'improcedibilità della stessa.
P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa, per l'effetto, l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Firenze.
Così deciso in Roma il 18 luglio 2018