Responsabilità dell'amministratore unico di un Hotel in cui si verificò un grosso incendio, del comandante provinciale dei Vigili del Fuoco e dell'ufficiale dei Vigili del Fuoco, responsabili dei delitti di incendio ex artt. 449 e 423 c.p.p. e di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose cagionate a più persone, ex art. 589 c.p., commi 1 e 3 (con l'aggravante, per il primo, di avere commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) - L'amministratore unico in particolare venne accusato di avere favorito la verificazione dell'incendio gestendo, all'interno di un locale dell'Hotel adibito a pasticceria, un impianto di cucina a più fuochi, alimentato a GPL, non conforme a quanto prescritto in Circolare n. 8242/4813 del 5 aprile 1979, impianto del quale aveva tenuto nascosta l'esistenza alle autorità competenti; proprio in detto locale era sorto l'incendio, a seguito di una perdita di gas petrolio liquefatto, uscito dall'apparecchio di cottura, che aveva incontrato una scintilla prodotta da un contatto elettrico - Sussiste.
 
Ricorso in Cassazione - Respinto.
 
"Ove, almeno tre mesi prima della data dell'incendio, chi di dovere avesse espletato con la dovuta diligenza i propri, appunto doverosi, compiti d'istituto - esaminando tutti gli impianti suscettibili di dar luogo ad incendi presenti all'interno della struttura alberghiera de qua e rapportando doverosamente la conformazione degli stessi alle caratteristiche della suddetta struttura, nonchè controllando il rispetto, da parte del responsabile della medesima - sarebbe stato indubbiamente possibile accertare la complessiva oggettiva situazione di pericolosità derivante dalla inosservanza, da parte del gestore, di plurime norme di prevenzione e sicurezza, e ad essa sarebbe stato, quindi, posto rimedio imponendo le specifiche prescrizioni del caso ed adottando tutte le misure previste e consentite dalla legge, sino a quella più drastica costituita dalla temporanea chiusura, da parte dell'Organo competente, dell'esercizio fino a che non fosse stato concretamente garantito il rispetto di tutte le norme di prevenzione vigenti in subiecta materia;
norme viceversa violate dal C.A., come da constatazione oggettiva purtroppo postuma alla verificazione dell'incendio nonchè come dalle ammissioni del medesimo imputato.
Infatti costui aveva, come rimproveratogli nel capo A) di imputazione, concernente il delitto di cui agli artt. 449 e423 c.p.:
1) gestito nel citato locale d uso di pasticceria un impianto di cucina a più fuochi alimentato a G.P.L. e non conforme alle prescrizioni di cui ai nn. 1-2-3-4 della lettera circolare n. 8242/4813 del 5 aprile 1979;
2) costituito depositi di materiali combustibili, segature e linoleum sul ballatoio delle scale di servizio al piano terra, di moquette, linoleum, segatura, mobili e legname in vari ambienti del piano interrato, di archivi e documenti nel salone terra e nel piano rialzato, con carichi d'incendio superiori a 60 Kg. per metro quadrato;
3) omesso di provvedere alla compartimentazione orizzontale degli ambienti siti al piano terra e al piano ammezzato, alcuni di quali - come il locale pasticceria - erano divisi tra loro da porte o da pareti in legno;
4) omesso di provvedere alla compartimentazione verticale di tutti i piani i quali comunicavano tra loro, senza alcuna struttura di isolamento, tramite il montavivande, il cavedio cavi, i vani ascensori ed il montacarichi, questi ultimi realizzati in mattoni forati e non con pareti a calcestruzzo armato dello spessore di 20 centimetri;
5) realizzato le condotte di aria di ventilazione con materiale combustibile in legno nei locali compresi tra la pasticceria e l'ingresso posteriore di servizio al piano terra;
6) utilizzato per le tappezzerie e i rivestimenti di arredo con materiali aventi inadatto grado di resistenza al fuoco e tali da comportare la emissione di fumi nocivi e tossici;
7) realizzato le porte meccaniche di accesso ai corridoi dei piani in assenza dei prescritti dispositivi di chiusura;
8) disposto la chiusura delle porte esterne che davano sulle scale di sicurezza."
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BATTISTI Mariano - Presidente -
Dott. MARINI Lionello - rel. Consigliere -
Dott. BARTOLOMEI Luigi - Consigliere -
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere -
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.A., nato il (OMISSIS);
S.M., nato il (OMISSIS);
D.M.M., nato il (OMISSIS);
e dal MINISTERO DELL'INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato;
avverso la sentenza emessa in data 12/12/2003 dalla CORTE D'APPELLO DI NAPOLI;
visti gli atti, la sentenza impugnata ed i ricorsi;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Dott. LIONELLO MARINI;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. MONETTI VITO, il quale ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità di tutti i ricorsi;
uditi - per le parti civili M.T., M.D., M.G. in proprio e quali eredi di M.C., l'AVV. VERZILLO ALESSANDRA del Foro di S. Maria Capua Vetere, per le parti civili D.P.A., N.R. e N.S., l'AVV. ARCAI SERGIO del Foro di Brescia, per la parte civili R. E., in proprio e quale procuratore speciale di Ro.
E. e R.M., l'AVV. MATTEI EMILIO del Foro di Perugia, i quali difensori si sono tutti riportati alle conclusioni scritte chiedendo il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti alla
rifusione delle spese;
udito, per il ricorrente responsabile civile Ministero dell'Interno, l'AVV. DELLO STATO FIORILLI MAURIZIO, il quale ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata;
udito infine il difensore del ricorrente D.M.M., AVV. GIACQUINTO VITTORIO del Foro di Caserta, il quale ha concluso per l'annullamento della sentenza impugnata.

 
Fatto

1. Nella notte del 2 maggio 1995 scoppiò, all'interno del Reggia Palace Hotel sito nel comune di San Nicola la Strada, provincia di Caserta, un violento incendio nel quale trovarono la morte sette persone ospiti dell'albergo ( Ma.Do., P.L., Ni.Ad., D.P.V., Ma.Ma.Gr., B.C. e Ro.Ma.) - sei delle quali decedettero per arresto cardiocircolatorio seguito ad intossicazione acuta da esalazioni di ossido di carbonio all'interno delle loro stanze, da cui non erano potuti uscire perchè i corridoi erano stati invasi da un fumo così denso da aver creato una cortina impenetrabile, ed una settima a causa delle gravissime lesioni riportate cadendo al suolo dopo essersi gettata, così come altri ospiti dell'albergo, dalla finestra della propria stanza - mentre altre tredici persone ( Mi.Ba., L.M., G.G., V. M., Gi.It., Ma.Lu., C. V., La.Al., La.Lu., C. L., Va.Di., D.F.A., J.V.D.), gettatesi dalle finestre, riportarono lesioni di varia entità.

2. Con sentenza emessa in data 31 gennaio 2002 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - esclusa la natura dolosa dell'incendio, dichiarò C.A. (amministratore unico del Reggia Palace Hotel S.r.l.). S.M. (comandante provinciale dei Vigili del Fuoco) e D.M.M. (ufficiale dei Vigili del Fuoco), responsabili dei delitti di incendio ex artt. 449 e 423 c.p.p. e di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose cagionate a più persone, ex art. 589 c.p., commi 1 e 3 (con l'aggravante, per il C.A., di avere commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) e li condannò - ritenuto il concorso formale dei reati e riconosciute al solo D.M.M. le circostanze attenuanti generiche - alle pene di anni 6 e mesi 6 di reclusione (il C.A.), anni 4 e mesi 10 di reclusione (lo S.M.) ed anni 3 e mesi 3 di reclusione (il D.M.M.), nonchè tutti, in solido tra loro e con i responsabili civili Ministero dell'Interno e Curatela del Fallimento della società Reggia Palace Hotel, al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, ed al pagamento, in favore delle stesse, di una somma a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva.

Il Tribunale assolse invece dagli stessi addebiti S.C. e Ro.Mi. - imputati nelle rispettive vesti di direttore responsabile dell'Hotel Reggia e di esecutore di lavori elettrici nella locale pasticceria dello stesso albergo - per non avere commesso il fatto.
Il C.A. venne ritenuto responsabile perchè, nella veste di amministratore unico della società proprietaria dell'albergo, aveva, anche non impedendo un evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire, favorito l'originarsi dell'incendio ed era concorso alla diffusione del medesimo;
ciò oltre che per negligenza, imprudenza ed imperizia, per inosservanza di tutta una serie di norme di prevenzione in subiecta materia e segnatamente per avere favorito la verificazione dell'incendio gestendo - così come contestatogli in udienza dal pubblico ministero - all'interno di un locale dell'Hotel adibito a pasticceria, un impianto di cucina a più fuochi, alimentato a GPL, non conforme a quanto prescritto in Circolare n. 8242/4813 del 5 aprile 1979, impianto del quale aveva tenuto nascosta l'esistenza alle autorità competenti;
proprio in detto locale era sorto l'incendio, a seguito di una perdita di gas petrolio liquefatto, uscito dall'apparecchio di cottura, che aveva incontrato una scintilla prodotta da un contatto elettrico.
La responsabilità dello S.M. per ambo i delitti colposi in oggetto venne ravvisata nell'avere omesso, nella veste di Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco, di istruire con la dovuta sollecitudine la domanda - presentata dal C.A. in data 12 marzo 1991 - di rinnovo del CPI (certificato di prevenzione antincendi) che era stato rilasciato nel 1985.
Con scadenza nel mese di maggio del 1991, avendo il suddetto S. M. assegnato soltanto nel mese di novembre del 1994 la pratica per il rinnovo all'ingegnere D.M.M., e per avere omesso successivamente di controllare l'effettiva evasione della stessa da parte di quest'ultimo, così avendo permesso l'illecita protrazione dell'esercizio dell'attività alberghiera nonostante l'omessa verifica della persistenza delle condizioni di sicurezza.
Infine, il D.M.M. venne anch'egli ritenuto responsabile dei reati in questione perchè, incaricato di istruire la pratica per il CPI scaduto nel 1991, si era recato una prima volta sul posto per eseguire un sopralluogo ma non l'aveva effettuato per l'indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione della struttura alberghiera, aveva successivamente omesso di effettuare con la dovuta sollecitudine la prescritta visita tecnica e non aveva comunicato al Comandante dei Vigili del Fuoco l'ulteriore ritardo nell'espletamento della pratica de qua, così avendo anch'egli consentito la protrazione dell'esercizio dell'attività alberghiera in difetto di accertamento della persistenza delle condizioni di sicurezza.

3. Proposto appello dai difensori degli imputati nonchè dai difensori dei responsabili civili, il difensore del C.A., munito di procura speciale, "patteggiava" il trattamento sanzionatorio a norma dell'art. 599 c.p.p., comma 4, e la Corte d'appello di Napoli, con sentenza emessa in data 12 dicembre 2003 determinava la pena nei confronti del suddetto imputato nella misura concordata di anni 3 e mesi 6 di reclusione.
Inoltre la Corte territoriale riconosceva le circostanze attenuanti generiche anche allo S.M. e dichiarava non doversi procedere nei confronti del medesimo e del D.M.M. per essere i reati loro ascritti estinti per prescrizione, confermando le statuizioni civili della sentenza impugnata.
Prendendo per prima in esame la posizione del C.A., i secondi giudici affermavano che non soltanto difettavano nella fattispecie in esame i presupposti per l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p., ma emergeva in modo evidente la responsabilità del suddetto imputato in ordine ai delitti contestatigli.
Rilevavano, al riguardo, che, - una volta venuta meno l'ipotesi che l'incendio fosse stato cagionato da un guasto di natura elettrica (donde la modifica del capo d'imputazione da parte del pubblico ministero in udienza) ed una volta motivatamente e condivisibilmente esclusa dai periti di ufficio, con argomentazioni ritenute non superabili sulla incompatibilità tra le modalità di propagazione delle fiamme con un'azione dolosa (sì che era irrilevante ai fini del decidere la rinnovazione parziale del dibattimento, volta a raccogliere la deposizione di un tecnico delle Cucine Zanussi richiesta da taluni degli appellanti), la tesi dell'incendio doloso prospettata dai consulenti di parte e fatta propria dal C.A. nei motivi di appello ai quali tutti costui aveva fatto rinuncia nel concordare la riduzione della pena a norma dell'art. 599 c.p.p., comma 4 - si doveva ritenere che l'incendio sarebbe stato certamente evitato ove l'apparecchio di cottura posto nel locale pasticceria, punto di origine dell'incendio medesimo, fosse stato dotato di valvole automatiche di chiusura dei dotti e se l'ambiente relativo fosse stato munito, come imposto dalle circolari in materia di prevenzione degli incendi richiamate dal primo giudice, di superfici di aerazione poste nella parte bassa delle pareti, in prossimità del pavimento, immettenti verso l'esterno per evitare pericolosi ristagni di gas combustibile; ciò a prescindere dalla potenzialità dell'apparecchio di cottura.
Dette aperture erano, come specificato dai periti d'ufficio, tanto più indispensabili, secondo quanto disposto dalla Circolare 8242 del 5 aprile 1979, in considerazione del fatto che la cucina era priva di rubinetti valvolati.
Inoltre, se l'incendio si era sviluppato con tanta forza e rapidità anche per la presenza di materiale infiammabile, tuttavia la diffusione delle fiamme sarebbe stata impedita o enormemente ritardata, sì che sarebbe stata consentita l'evacuazione delle zone a rischio, qualora:
 
1) le porte di comunicazione tra le scale ed i corridoi fossero state regolarmente chiuse e non già tenute aperte mediante collocazione di vasi di fiori;
 
2) le porte di accesso alle scale esterne fossero state apribili dall'interno a semplice pressione e non già chiuse a chiave con chiavi custodite in pannelli a muro e non facilmente estraibili;
 
3) il personale fosse stato istruito circa le misure da adottare in caso di incendio e fosse stato munito di strumenti idonei per suonare l'allarme e consentire l'immediata evacuazione.
 
La Corte territoriale indicava come segue le modalità che avevano connotato il grave fatto.
L'incendio era stato percepito dagli ospiti dell'albergo solo intorno alle ore 4,30.
Non era suonato l'allarme antincendio.
Non si era accesa alcuna luce di emergenza.
Il portiere di notte non aveva avuto istruzioni sul comportamento da tenere in caso di incendio e non era stato messo a conoscenza dell'eventuale esistenza di un sistema di allarme.
Nessuno aveva avvisato dell'incendio in corso le persone che stavano dormendo.
Le fiamme si erano propagate dal basso verso l'alto con estrema rapidità anche per la presenza di materiale altamente combustibile (tendaggi, tovaglie ed altro) ed avevano coperto tutta l'entrata dell'albergo per un'altezza di circa due metri.
Le persone che avevano tentato di aprire la porta della loro stanza erano state costrette a richiuderla immediatamente perchè c'era un fumo densissimo che impediva di vedere alcunchè, e l'aria era divenuta irrespirabile.
Non vi erano cartelli indicatori delle uscite di sicurezza, ed anche in loro presenza le dette uscite sarebbero state irraggiungibili perchè era venuta meno l'energia elettrica e perchè, come già detto, la coltre di fumo era così densa da impedire di distinguere qualsiasi cosa.
I pompieri erano giunti sul posto solo dopo una ventina di minuti da quando alcuni ospiti si erano gettati dalla finestra.
I soccorritori erano riusciti ad entrare nell'albergo solo dopo avere aperto le porte di sicurezza sfondandone i vetri ed avere prelevato con l'aiuto di un'asta le chiavi posizionate in una cassetta distante circa due metri dall'infisso.
Tali essendo le circostanze fattuali provatamente emerse, il C. A. - il quale aveva in sede di interrogatorio ammesso l'assenza di meccanismi di chiusura automatica sulle porte di accesso ai corridoi, la chiusura a chiave dall'interno delle scale di sicurezza e l'assenza di maniglioni antipanico, la mancanza di campanelli d'allarme attivabili dalla portineria, le non date specifiche istruzioni al portiere, al guardiano di notte ed ai clienti circa la condotta da tenere in caso di incendio, l'essere il certificato di prevenzione antincendio scaduto e non più rinnovato, ed, infine, il mancato deposito, da parte sua, del piano di adeguamento alle prescrizioni in materia - doveva essere ritenuto responsabile dei reati ascrittigli.
Invero l'imputato, dal 1987 legale rappresentante ed amministratore unico della società esercente l'attività alberghiera e da sempre gestore di fatto della struttura, aveva omesso di osservare le misure di prevenzione elencate nel capo di imputazione, imposte dai regolamenti e dalle circolari in materia, dirette a prevenire situazioni di pericolo o di danno, e tale inosservanza era stata decisiva per l'innesco e la propagazione dell'incendio con le gravissime conseguenze derivatene, avendo egli non soltanto omesso di usare l'accortezza necessaria ad evitare che dalla propria attività potesse derivare danno alle persone, ma anche favorito con la propria condotta omissiva, imprudente, negligente ed inosservante di leggi e regolamenti, l'origine e la diffusione dell'incendio, evento che egli aveva l'obbligo giuridico di impedire.
Tanto più grave era la condotta del suddetto imputato in quanto egli aveva omesso di comunicare ai Vigili del Fuoco la realizzazione nel complesso alberghiero di un locale adibito a pasticceria, munito di apparecchio di cottura alimentato a GPL ed aveva indirizzato l'ufficiale dei Vigili del Fuoco D.M.M., presentatosi a seguito di un esposto per verificare la suddetta circostanza denunciata nel medesimo, in un locale diverso da quello adibito a pasticceria, tacendogli l'esistenza di quest'ultimo.
Quanto allo S.M. - al quale era stato rimproverato di non avere, nella sua veste di Comandante dei Vigili del Fuoco di Caserta, istruito con la dovuta sollecitudine la domanda di rinnovo del CPI dell'Hotel Reggia, rilasciato nell'anno 1985 e scaduto nell'anno 1991, avendo egli assegnato la relativa pratica all'ing. D.M. M. soltanto nel mese di novembre del 1994 ed avendo successivamente omesso di controllare l'effettiva evasione della medesima da parte di quest'ultimo, sì da avere permesso l'illecita protrazione dell'attività alberghiera nonostante la mancata verifica della persistenza delle condizioni di sicurezza, donde il suo "concorso" nei reati contestati per non avere impedito un evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire - la Corte territoriale confermava la sentenza dichiarativa della responsabilità motivando come segue.
In data 12 marzo 1991 il C.A., in possesso del certificato di prevenzione antincendi rilasciato nel maggio del 1985 a firma del Comandante dei Vigili del Fuoco S.M., aveva presentato, attestando che nulla era cambiato, richiesta di rinnovo di detto certificato, scadente nel mese di maggio 1991.
La pratica scaturita da tale istanza non era stata evasa ed il C.A. aveva presentato, in data 7 luglio 1993, richiesta di approvazione di un progetto di trasformazione dell'alimentazione a gasolio dell'impianto termico in alimentazione a gas metano.
Il giorno 8 ottobre dello stesso anno il funzionario dei Vigili del Fuoco D.M.M. aveva rilasciato un parere, controfirmato dal Comandante S.M., favorevole all'accoglimento della richiesta con la condizione del rispetto delle normative vigenti anche per quanto non espressamente contenuto nella documentazione presentata dal richiedente, ed aveva disposto che la richiesta di sopralluogo avanzata dal C.A. fosse corredata con la certificazione prevista dalla Circolare n. 68/1969.
Il 15 dicembre 1993 era pervenuto allo S.M. un esposto anonimo denunciante l'avvenuta apertura, nell'albergo de quo, di una tavernetta senza il rispetto delle normative di sicurezza, con installazione in detto nuovo locale di una cucina alimentata da bombole di gas da 25 kg., situazione che nell'esposto veniva definita molto pericolosa, sì che un intervento immediato si rendeva indispensabile per evitare gravi rischi e salvare vite umane.
Il successivo 28 dicembre il D.M.M., incaricato dallo S. M. di effettuare un sopralluogo, aveva redatto una relazione, recante in calce una accompagnatoria a firma dello S.M., che era stata indirizzata al Reggia Palace Hotel, al sindaco di San Nicola La Strada ed alle prefettura di Caserta; in detta relazione si affermava che il D.M.M. si era recato sul posto ma non aveva visionato i locali perchè il C.A. gli aveva detto, nell'occasione, che nella struttura da lui gestita non veniva assolutamente usato il G.P.L.. in quanto era disponibile il gas metano.
Presentata successivamente dal C.A. al Comando dei Vigili del Fuoco una richiesta, con allegata documentazione attestante la conformità dei dispositivi di sicurezza, di effettuazione di visita tecnica finalizzata al rilascio del certificato inerente alla trasformazione dell'impianto da gasolio a metano, il Comando aveva risposto, in data 14 novembre 1994, che della istruzione della pratica era stato incaricato il D.M.M., e che in ogni caso il titolare della struttura alberghiera avrebbe dovuto ottenere o il prescritto parere o il rilascio del nuovo certificato di prevenzione prima dell'inizio dei lavori o prima dell'esercizio dell'attività.
Il D.M.M. si era portato presso l'albergo solo nel febbraio del 1995, ma, appresa in quel contesto l'indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, aveva deciso di rinviare la visita ispettiva, poi non più effettuata senza che allo S.M. venisse comunicato il ritardo nell'espletamento della pratica.
Nel maggio del 1995 si era verificato l'incendio.
Questi i fatti.

Quanto alla normativa applicabile in materia di rilascio dei certificati di prevenzione incendi, la Corte territoriale richiamava la L. n. 241 del 1990, che stabilisce un termine di 30 giorni per la definizione del procedimento di natura amministrativa conseguente alla domanda di rinnovo del CPI, nonchè il disposto della L. n. 818 del 1984, art. 4 a tenore del quale nella procedura in questione, la quale comunque imponeva l'adozione di un provvedimento entro 90 giorni dalla presentazione della domanda, era necessaria, a lato della dichiarazione del titolare dell'attività che nulla era mutato rispetto alla situazione precedente, la presentazione di una perizia giurata integrativa attestante l'efficienza dei dispositivi antincendio e dei sistemi di sicurezza.
Il C.A. non aveva allegato all'istanza tale perizia, donde l'indispensabilità di un preventivo accertamento in loco, ed in ogni caso, avendo lo stesso C.A. chiaramente rappresentato, nell'istanza successiva, di avere apportato alla struttura alberghiera delle modifiche suscettibili di comportare un mutamento della situazione di rischio, l'esecuzione di un sopralluogo era imposta dal D.P.R. n. 577 del 1982, art. 14.
Dunque, la pratica di rinnovo doveva essere definita, anche a non considerare il termine di 30 giorni previsto dalla L. del 1990, nel termine di un anno previsto dal D.M. n. 284 del 1993, decorrente dalla data di presentazione della domanda o al massimo dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto (1993).
Anche l'avvenuta presentazione di un nuovo progetto non avrebbe potuto comportare il rinvio a tempo indeterminato della definizione della pratica di rinnovo dell'ormai scaduto certificato di prevenzione, con gli inevitabili rischi connessi alla mancata evasione della medesima, tanto più che il C.A., pur avendo presentato già nel 1989 un progetto per l'ampliamento dell'albergo, aveva chiesto il 12 marzo 1991 il rinnovo del certificato sulla base del solo presupposto della scadenza del medesimo nella data del 31 maggio dello stesso anno, senza ipotizzare alcuna proroga in attesa dell'approvazione del progetto e della successiva realizzazione delle nuove opere.
La colpa dello S.M. era consistita, quindi:

1) nell'avere omesso per ben quattro anni, in palese contrasto con la prassi del suo Ufficio che prevedeva tempi massimi non superiore a due anni, di provvedere sulla prima richiesta, presentata nel marzo del 1991, di rinnovo del certificato scadente nel successivo mese di maggio, avendo nominato il D.M.M. per l'espletamento della pratica solo nel novembre del 1994;
 
2) nel non avere - dopo la ricezione dell'esposto anonimo nel 1993 ed una volta che egli aveva appreso dal D.M.M. che questi si era accontentato delle sole dichiarazioni del C.A. sulla non utilizzazione del G.P.L. nella struttura alberghiera ed aveva, pertanto, omesso di ispezionare i locali dell'Hotel Reggia - mosso al suo funzionario delegato alcuna obiezione, pur avendo costui contravvenuto alla disposizione del D.P.R. n. 577 del 1982, art. 12 che gli imponeva di procedere, di ufficio, alla ispezione per valutare direttamente e personalmente la sussistenza di fattori di rischio, a prescindere dalle dichiarazioni della parte interessata;
 
3) infine, e soprattutto, nell'avere omesso - dopo che nel febbraio del 1995 il D.M.M. aveva rinviato la visita ispettiva per assenza dell'addetto al servizio di manutenzione e non gli aveva trasmesso alcuna relazione in merito - di controllare che la pratica fosse stata evasa dal predetto incaricato, così essendo incorso in una evidente culpa in vigilando, e di imporre al suo delegato l'effettuazione di ufficio di un nuovo sopralluogo che avrebbe consentito di accertare violazioni visibili ictu oculi (ad esempio quella concernente la chiusura delle uscite di sicurezza), di invitare il titolare dell'esercizio a mettersi in regola e di disporre, in caso di accertata sussistenza di una situazione di pericolo immediato, la doverosa chiusura dell'albergo.
Un così grave ritardo quale quello riscontrato nel caso di specie richiedeva, una volta considerato anche il comunicato mutamento della situazione di rischio interna ad un'importantissima struttura alberghiera, una immediata verifica ed una rapida definizione, e l'inerzia tenuta non poteva trovare giustificazione nella mole di lavoro da cui era oberato il Comando dei Vigili del Fuoco.
I secondi giudici hanno concluso affermando che, avendo lo S. M. permesso, con la condotta omissiva descritta, che per un lungo arco di tempo l'attività alberghiera fosse proseguita in assenza di verifica della persistenza delle condizioni di sicurezza (negata nell'esposto e messa in forse dalle modifiche strutturali in corso segnalate dal C.A.), era evidente il rapporto di causalità esistente tra la predetta condotta omissiva ed i tragici eventi che si erano verificati, sicuramente prevedibili ed evitabili;
"... lo S.M., agendo senza l'accortezza necessaria ad evitare che dalla propria attività potesse derivare un danno alle persone, ha concorso, non impedendo un evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire, nel cagionare per imperizia e negligenza sia l'incendio, sia il delitto di omicidio colposo e lesioni colpose di cui al capo b) della rubrica".
Nonostante la gravità della condotta tenuta dallo S.M. erano concedibili allo stesso, in quanto incensurato, le invocate circostanze attenuanti generiche e, per l'effetto, i reati a lui ascritti come commessi nella forma non aggravata (diversamente da quanto si dava per il C.A.) nel mese di maggio del 1995, dovevano essere dichiarati estinti per intervenuta prescrizione.
Infine, quanto alla posizione del D.M.M., la Corte territoriale - precisato che costui era stato chiamato a rispondere unicamente della condotta (omissiva) tenuta a partire dal 15 novembre 1994, data nella quale lo S.M. gli aveva assegnato la pratica de qua, non essendogli stato contestato nel capo di imputazione il comportamento, violatore del disposto del  D.P.R. n. 577 del 1982, art. 14 da lui tenuto nel corso del sopralluogo effettuato, a seguito dell'esposto anonimo pervenuto all'ufficio - ha affermato che correttamente il primo giudice lo aveva ritenuto corresponsabile dei delitti colposi ascritti.

Invero il D.M.M.:
 
A) non aveva esaminato attentamente la pratica affidatagli, concernente il rinnovo del certificato di prevenzione, tanto da non essersi accorto, come da lui ammesso, che il certificato era scaduto nel 1991;
 
B) non aveva espletato con diligenza e tempestività l'incarico (che l'imputato aveva per sua espressa dichiarazione considerato non urgente in relazione al suo oggetto, costituito da un mero rinnovo), e ciò a prescindere dai relativi termini stabiliti dalla legge ovvero adottati nella prassi corrente, pur in un contesto di evidenza dell'avvenuta modifica delle situazioni di rischio;
 
In particolare, il D.M.M., oltre all'essersi accontentato della dichiarazione resagli dal C.A. nel corso del precedente sopralluogo del 1993, di non avere aperto la tavernetta di cui all'esposto anonimo, aveva operato il rinvio sine die - del quale non aveva reso edotto lo S.M. - del sopralluogo del febbraio 1995 per indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, pur potendo effettuare da solo i relativi controlli, specie in ordine alle porte di accesso alle stanze degli ospiti dell'albergo ed alle uscite di sicurezza, controlli che, ove eseguiti, avrebbero evidenziato situazioni di pericolo per la pubblica incolumità; condotta omissiva tanto più grave se si considerava che la chiusura delle uscite di sicurezza era stata decisiva nella causazione della morte o del ferimento di molte persone alloggiate nell'albergo, le quali si erano trovate "nell'impossibilità di uscire dalle loro stanze e di raggiungere le scale esterne in quanto i corridoi erano invasi dal fuoco e le porte di accesso alle scale di sicurezza erano chiuse con chiavi custodite in scaffali di vetro" o si erano, per disperazione, gettate dalla finestra per sfuggire alle fiamma.
Dunque, secondo la Corte territoriale, anche la condotta omissiva e non accorta del D.M.M. era da porsi in rapporto concausale con gli accadimenti letali e lesivi, sicuramente prevedibili ed evitabili, posto che la medesima aveva "permesso l'illecito protrarsi dell'esercizio dell'attività alberghiera nonostante la mancata verifica della persistenza delle condizioni di sicurezza" e non aveva pertanto impedito "un evento che" anche il D.M.M. "aveva l'obbligo giuridico di impedire".
Già riconosciute in primo grado al D.M.M. le circostanze di cui all'art. 62 bis c.p.p., anche nei suoi confronti i reati ascritti erano estinti per prescrizione, intervenuta successivamente alla pronuncia della sentenza resa in primo grado.
Per le ragioni esposte in ordine alla sussistenza di condotte colpose dei tre imputati, causalmente connesse alla verificazione degli eventi di cui ai delitti di omicidio colposo e lesioni colpose de quibus, dovevano essere confermate le statuizioni civili di cui all'appellata sentenza nei confronti di tutti costoro, i quali dovevano essere condannati, in solido tra loro e con i responsabili civili, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili nel giudizio di appello.

4. La sentenza della Corte d'appello di Napoli è stata impugnata con ricorso per cassazione dai difensori di C.A., S. M., D.M.M. e dall'Avvocatura dello Stato, difensore ex lege del responsabile civile Ministero dell'Interno.
 
Nel ricorso del C.A. è stato dedotto il seguente motivo:
"Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b, in relazione all'art. 81 c.p., per inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale".
Assume il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe dovuto recepire l'accordo intervenuto tra le parti, ai sensi del quarto comma dell'art. 599 c.p.p. sulla determinazione in riducendo della pena inflitta dal primo giudice, essendo la suddetta concordata determinazione affetta da "un palese errore giuridico" laddove, nell'individuare la violazione più grave nell'ambito del ravvisato concorso formale di reati, è stato fatto riferimento al delitto di cui all'art. 589 c.p. (punibile con la pena massima di anni cinque di reclusione) e non a quello di cui agli artt. 449 e 423 c.p., (punibile con identica pena massima, ma con un minimo edittale più elevato, pari ad un anno di reclusione, mentre la pena minima per il delitto di omicidio colposo è quella di mesi sei di reclusione), con conseguentemente avvenuta "riforma - nella parte concernente la determinazione del reato più grave e, di conseguenza, di quelli satelliti - della sentenza di primo grado, le cui statuizioni, all'atto della rinuncia ai motivi diversi da quelli concernenti il quantum della pena ed in mancanza di appello di altre parti processuali, risultavano avere acquisito il valore di cosa giudicata"; donde la violazione dell'effetto devolutivo tipico dell'appello.
I secondi giudici avrebbero - si afferma in ricorso - dovuto rilevare l'errore di diritto nel quale erano incorse le parti processuali nel concordare la misura della pena ai sensi dell'art. 599 c.p.p., comma 4 essendo la questione relativa alla individuazione del reato più grave sottratta all'autonomia delle parti.
Il ricorrente sottolinea trattarsi di questione che può essere sollevata per la prima volta in sede di legittimità in quanto non deducibile nel precedente grado di giudizio perchè sorta in un momento successivo.

Il difensore dello S.M. ha dedotto i seguenti motivi:
 
A) Inosservanza dell'art. 546 c.p.p. in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).
Mancanza della motivazione sul punto devoluto inerente la sussistenza del nesso causale tra le violazioni della normativa antincendi e i decessi e le lesioni personali riportate;
 
B) Inosservanza dell'art. 129 c.p.p., comma 2, in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c);
 
C) Erronea applicazione degli artt. 113 e 449 c.p. - art. 589 c.p., commi 1 e 3 - art. 590 c.p. in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b);
 
D) Mancanza di motivazione sul punto della non sussistenza della evidenza della assenza del nesso causale tra la condotta dello S.M. e gli eventi contestati in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e).
 
E) Carenza di motivazione sul punto della sussistenza della cooperazione colposa tra la condotta dello S.M. e quella del D.M.M. in relazione all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).
 
A tale elencazione dei plurimi motivi di ricorso e dei nomina iuris dei vizi di legittimità dedotti seguono le seguenti affermazioni.
Nella udienza in grado di appello del 12 dicembre 2003 il Procuratore Generale aveva fatto richiesta di assoluzione dello S.M. sostenendo (così come sostiene il ricorrente) la evidenza della prova di innocenza per mancanza di nesso causale tra la condotta omissiva rimproverata e gli eventi costitutivi dei reati.
Nella sentenza resa dalla Corte territoriale nulla si legge circa il rapporto tra la condotta, tenuta o non tenuta, dallo S.M. ed il successivo incendio seguito dai decessi e dalle lesioni, assente ogni risposta ai motivi sul punto posti a fondamento dell'appello, e la Corte ha trasformato in prova del nesso eziologico la ritenuta sussistenza delle violazioni di norme antincendio, senza avere considerato nè la irrilevanza del comportamento doveroso assunto come omesso nè l'assoluta ininfluenza delle astratte ipotesi di funzionamento delle misure antincendio e del loro effettivo realizzarsi nel momento d'insorgenza dell'incendio, avendo in sostanza i secondi giudici applicato il principio di diritto "della causalità naturale ovvero quello della teoria condizionalistica ...
inapplicabili nel nostro ordinamento perchè prive del riferimento all'elemento psicologico del reato".
Sarebbe stato, invece, necessario "fare riferimento ad un criterio scientifico di causalità tramite il passaggio obbligato in ordine alla prova rigorosa della operatività delle misure antincendio e della loro effettiva idoneità ad evitare o ridurre gli eventi previsti dalle norme del codice penale".
Erroneamente è stata ritenuta una cooperazione colposa S.M. - D.M.M., mancando la prova di un concerto colposo, e potendosi semmai parlare di un concorso di cause, ancora da valutarsi ai fini esclusivamente civilistici.

Il difensore del D.M.M. ha dedotto "Violazione di legge.
Violazione dell'art. 606 in ogni sua parte in relazione alla responsabilità dell'imputato e alla quantificazione della pena".
Afferma il ricorrente che la sentenza impugnata è affetta da motivazione del tutto illogica nonchè contraddittoria con le emergenze processuali, con "travisamenti dei fatti" e mancata considerazione delle censure mosse con l'appello, e che in presenza dei suddetti vizi di legittimità l'intervenuta e dichiarata prescrizione dei reati ascritti non può esimere dall'annullare la sentenza impugnata.
Soggiunge che i secondi giudici hanno illogicamente, ed in violazione di legge, sostenuto che il D.M.M. non avesse espletato la pratica affidatagli con la dovuta urgenza e diligenza "a prescindere dai termini previsti dalla legge";
invero, insuperabile il dato logico secondo il quale se la norma stabilisce un termine per un determinato adempimento, quel termine è evidentemente congruo, la Corte territoriale ha invece creato una urgenza del tutto inesistente in tema di rinnovo di CPI, in presenza, cioè, di una struttura già controllata, sì da aver fatto artificiosamente rientrare nella nozione di urgenza un contesto di mera trasformazione dell'alimentazione di una cucina da GPL a metano, senza contare la minore pericolosità in astratto della cucina così come trasformata, mutamento che non poteva costituire motivo di allarme tale da indurre il D.M.M. ad accelerare la pratica o ad effettuare necessariamente il sopralluogo nel marzo del 1995, allorchè egli, recatosi sul posto per eseguirlo, non era stato messo in condizioni di operare.
I secondi giudici sono inoltre incorsi, secondo il ricorrente, in un travisamento del fatto laddove hanno sostenuto che il controllo andava comunque essere effettuato in quanto era ben possibile controllare le porte delle stanze di accesso degli ospiti e le uscite di sicurezza, sì da evidenziare situazioni di potenziale pericolo per la pubblica incolumità, e nel collegare, poi, sotto il profilo del nesso causale all'omesso controllo la morte di molte persone.
Invero, diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata, la mancata osservanza delle norme concernenti le uscite di sicurezza non aveva minimamente influito sugli eventi verificatisi, in quanto nessuna delle vittime era stata rinvenuta nei pressi di dette uscite.
Erronea è - si afferma ancora in ricorso - anche la contestazione al D.M. di una mancata informazione data al comandante circa i tempi di espletamento della pratica, una volta che i tempi prescritti non erano stati violati e che non esisteva alcuna reale ragione per accelerare l'espletamento dell'incombente de quo.
Infine, secondo il ricorrente, la pena irrogata è eccessiva in considerazione della condotta e della personalità dell'imputato, professionista serio oberato da una comprovata mole di lavoro.
Assai più articolato di quelli dei tre imputati è il ricorso proposto per il responsabile civile dall'Avvocatura dello Stato quale difensore e rappresentante ex lege del Ministero dell'Interno.
Ripercorso l'intero iter della vicenda, a partire dalla data dal 3 settembre 1985 nella quale era stato rinnovato il CPI all'allora proprietaria dell'Hotel J.A., fino a quella della notte fra l'1 e il 2 maggio 1995 nella quale si era sviluppato il violento e rapidissimo incendio originatosi nel locale pasticceria e di cui il personale dell'albergo si era avveduto soltanto quando i primi piani della struttura erano già stati completamente invasi da un fumo denso ed impenetrabile, sicchè gli ospiti, intorno alle ore 4,30, non avevano potuto neanche superare le soglie delle rispettive stanze, il ricorrente Ministero articola cinque distinti mezzi di annullamento.
 
1) Illogicità e contraddittorietà della motivazione, mera apparenza della medesima violazione e falsa applicazione dell'art. 129 c.p.p., il cui comma 2 avrebbe dovuto trovare applicazione; difetta totalmente la motivazione in ordine al ravvisato nesso di causalità tra le omissioni rimproverate ai suddetti imputati e gli eventi verificatisi, ed è manifestamente illogica e contraddittoria l'affermazione che la chiusura delle uscite di sicurezza è stata decisiva in ordine alla morte od ai ferimenti degli ospiti dell'albergo, visto che la stessa Corte ha affermato che tutti costoro non hanno neppure potuto uscire dalle loro stanze (se non gettandosi, alcuni di essi, dalle finestre delle medesime).
Tale contraddittorietà tanto piè è evidente - si afferma ancora nel ricorso in esame - se si considerano partitamente le singole disposizioni di sicurezza rimaste inosservate dal titolare dell'esercizio alberghiero, e poste nella sentenza impugnata in rapporto di causalità non soltanto con l'insorgere e la successiva diffusione dell'incendio ma anche con i decessi e le lesioni riportate da un ragguardevole numero di clienti della struttura, trattandosi invero di violazioni attinenti:

A) alla mancanza (per vero incerta alla luce delle contraddittorie risultanze sul punto) del c.d. "maniglione antipanico" sulle porte di sicurezza con accesso alle scale esterne;
 
B) alla mancanza delle segnalazioni di emergenza, dato anche questo rimasto incerto;
 
C) alla affermata mancata affissione di avvisi nelle stanze di albergo recanti istruzioni da seguire in caso di incendio, invece verosimilmente presenti (quanto, comunque, inutili nel caso concreto);
 
D) alla asserita inesistenza di un impianto di allarme nella portineria (peraltro attendibilmente dichiarato esistente, ed individuato nella sua collocazione, dal teste Pa., il quale aveva deposto di "non avere pensato ad azionarlo";
 
E) alla, controversa, inesistenza di una qualsivoglia compartimentazione orizzontale.
 
Tutte tali, non provate, violazioni, rimproverate al C.A., non si sono comunque poste in rapporto eziologico con i gravi eventi in oggetto, atteso che le vittime dell'incendio non avevano potuto raggiungere le uscite di sicurezza (chiuse ovvero apribili che esse fossero) e non avrebbero potuto seguire alcuna istruzione o segnalazione luminosa che comportasse l'uscita dalle stanze, e considerato che i due addetti alla portineria si erano accorti dell'incendio soltanto quando il fumo aveva già invaso i piani superiori, donde l'inutilità di un tardivo allarme acustico (vi fosse o meno il relativo impianto), mentre la mancata compartimentazione (segnatamente l'essere state tenute artificialmente aperte, mediante l'apposizione di vasi di fiori, le porte di comunicazione tra le scale ed i corridoi dei singoli piani dai quali si accedeva alle stanze, sì da essere stati creati "comodi varchi per la propagazione di un eventuale incendio") non integrava violazione di misura antincendio in senso tecnico.
Tale difetto di compartimentazione non poteva comunque essere ascritto allo S.M. ed al D.M.M. sub specie di omesso controllo (controllo che deve concernere l'oggettiva adeguatezza e funzionalità dei sistemi antincendio, ma non può estendersi alla costante vigilanza del concreto uso e della disposizione di fatto che dei medesimi dispositivi venga di volta in volta adottata dai titolari degli esercizi), così come non erano rimproverabili ai medesimi, sotto lo stesso profilo, le altre inosservanze ascritte al C.A..
 
2) I medesimi vizi di legittimità di cui sopra, nonchè violazione della normativa in tema di prevenzione antincendi.
Parte ricorrente compie un excursus sulle numerose disposizioni normative e regolamentari che hanno disciplinato, fino all'epoca dei fatti in esame, il rilascio dei nullaosta provvisori (NOP) e dei certificati di prevenzione incendi (CPI), per concludere motivatamente quanto segue:
 
A) Tutta la normativa succedutasi (a partire dalla L. 18 luglio 1980, n. 406, la quale consentì, con effetti di una generalizzata sanatoria, la prosecuzione delle attività alberghiere esistenti, i cui titolari fossero sprovvisti del CPI, sulla scorta di un semplice NOP), caratterizzata da innumerevoli proroghe dei termini di validità dei NOP a suo tempo rilasciati (cui non aveva fatto seguito il rilascio dei definitivi CPI), aveva prodotto uno smisurato aumento dei carichi di lavoro per i Comandi dei Vigili del Fuoco ed era, almeno fino alla data dei fatti de quibus, improntata all'esigenza di consentire la prosecuzione delle attività alberghiere in corso sprovviste di CPI, pur nel possibile difetto di quei requisiti e di quelle verifiche e controlli che consentivano il rilascio del suddetto certificato; era ritenuta accettabile in sede di richiesta di rinnovo del CPI, in luogo del preventivo accertamento in loco, una dichiarazione del titolare dell'attività, presentata in tempo utile, di non intervenuto mutamento della situazione valutata alla data del rilascio del certificato antecedente e prossimo a scadenza stesso, accompagnata da una perizia.
 
B) Il D.M. 2 febbraio 1993, n. 284, aveva stabilito in un anno il termine per il compimento del procedimento di rilascio del CPI, decorrente, per i procedimenti ad istanza di parte, dalla data di ricevimento della domanda od istanza, e la L. 24 dicembre 1993, n. 537, oltre a fissare il termine per l'emanazione del regolamento governativo per la regolamentazione del procedimento di rilascio del CPI (termine poi differito al centoventesimo giorno dall'entrata in vigore del D.L. 28 agosto 1995, n. 361), aveva autorizzato la prosecuzione dell'attività da parte dei possessori di semplice NOP, che pertanto mai avevano ottenuto un CPI. C) Il D.M. 9 aprile 1994 aveva disposto che le attività ricettive esistenti, tutte, ancorchè sprovviste sia di CPI sia di NOP, dovessero adeguarsi alle nuove disposizioni rispettivamente entro 2 anni, entro il 31 dicembre 1999, od ancora entro 8 anni, a seconda delle varie tipologie di intervento (comprendenti - ha osservato il responsabile civile ricorrente - tutti gli interventi di prevenzione incendi asseritamente omessi dal C.A..).
Con l'entrata in vigore del citato D.M. 9 aprile 1994 non sarebbe stato, pertanto, consentito inibire nessuna attività ricettiva in forza del mancato rispetto di specifiche previsioni attuative di misure antincendio, per l'adempimento delle quali venivano concessi nuovi ed ampi termini, al fine evidente di evitare la paralisi dell'intero settore turistico alberghiero, tentandosi nel contempo di assicurare un "rischio accettabile" demandando ai competenti Comandi Provinciali dei Vigili del Fuoco una discrezionale complessiva valutazione del rischio connesso alla configurazione strutturale ed organizzativa di ciascun esercizio alberghiero.
A tali discipline si erano correttamente attenuti lo S.M. ed il D.M.M., e se il Tribunale, seguito pedissequamente dalla Corte territoriale, aveva ritenuto di poter attribuire allo S. M. la responsabilità per i reati ascritti assumendo che questi non aveva dato impulso ad una "adeguata" istruttoria necessaria per provvedere sulla richiesta di rinnovo avanzata il 12 marzo 1991, e ciò per un periodo di quattro anni - sì da avere, secondo i giudici di merito, superato ogni termine "ragionevole", non avendo assegnato la pratica per oltre tre anni e precisamente fino al 15 novembre 1994, ed avendo persistito nell'inerzia anche dopo avere letto la relazione di visita del D.M.M., la quale indicava che il controllo era stato effettuato non "direttamente" bensì sulla base delle mere dichiarazioni dell'interessato e dava conto, comunque, di un'avvenuta modificazione della situazione di rischio - tale assunto, così come le argomentazioni volte a sorreggerlo, era erroneo e connotato da illogicità perchè:

1) Lo S.M. aveva dato "impulso" all'istruttoria de qua allorquando aveva assegnato la relativa pratica al funzionario D. M.M. il 15 novembre 1994, cioè mesi prima del giorno 2 giugno 1995 nel quale l'incendio si era verificato.
 
2) L'esposto denunciante l'apertura della "tavernetta" che aveva dato luogo alla visita effettuata dal D.M.M. il 12 dicembre 1993 nulla aveva a che vedere (come affermato dai periti del Tribunale) con il tema della prevenzione e delle verifiche di sicurezza da effettuare in evasione della pratica di rinnovo del CPI, e non s'intendeva quale allarme avrebbe dovuto suscitare nello S.M. la relazione del D.M.M. (del resto, l'episodio in questione era estraneo alla contestazione).
 
3) L'asserita inosservanza, nell'avvio della pratica di rinnovo del CPI, di "ogni termine ragionevole", costituiva argomento superato dalla inefficienza causale dell'assunto ritardo rispetto alla verificazione dell'incendio quasi cinque mesi dopo l'avvenuta assegnazione della pratica al D.M.M., e comunque il suddetto assunto era frutto di errore e travisamento, atteso che - nebulosa ed incomprensibile ex se l'espressione suddetta, non ancorata a precisi parametri normativi - i giudici di merito non hanno indicato (in un contesto nel quale il consulente della difesa aveva precisato l'insussistenza di alcuna indicazione normativa sui tempi di espletamento delle pratiche di CPI che potesse essere vincolante per i Comandi Provinciali) quale sarebbe stato il termine "ragionevole" violato, salvo avere il Tribunale (dopo avere affermato la inesigibilità ed incongruità rispetto alla situazione reale di lavoro e di organico del termine di 30 giorni di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2) fatto riferimento al termine di 365 giorni stabilito (per la prima volta) dal D.M. 2 febbraio 1993, n. 284.
Tuttavia - obietta il ricorrente Ministero - a far decorrere (come illogicamente sostenuto dalla Corte di merito) il suddetto termine dalla data di deposito della domanda (12 marzo 1991 nella fattispecie concreta in esame), esso non sarebbe di alcuna utilità alla risoluzione del problema della individuazione del termine ragionevole, atteso che al momento dell'entrata in vigore del D.M. n. 284 del 1993 tale termine era già decorso il 12 marzo 1992 ed il termine di un anno non poteva logicamente essere fatto decorrere prima della data (15 novembre 1994) di affidamento della pratica (ergo, non era ancora decorso alla data dell'incendio 2 maggio 1995);
senza contare che, comunque, che il citato termine, di carattere amministrativo, aveva carattere meramente ordinatorio, e, di più, che esso al momento di presentazione della domanda non era in alcun modo posto.
 
4) Fuor di luogo il richiamo della Corte territoriale all'obbligo di agire con prudenza ed accortezza, l'addebito di negligenza correlato ad omissioni dello S.M. e del D.M.M. è - si osserva ancora nel motivo di ricorso in esame - del tutto destituito di fondatezza, a partire dalla singolare affermazione dei secondi giudici secondo cui il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco avrebbe "l'obbligo giuridico di evitare l'insorgenza degli incendi", tratto dagli stessi giudici da una lettura di rara superficialità ed approssimazione della norma regolamentare del  D.P.R. 29 luglio 1982, n. 577, art. 2 (laddove si afferma che per prevenzione degli incendi deve intendersi quel complesso di attività, provvedimenti, accorgimenti od altro, che sono "intesi ad evitare ... l'insorgenza di un incendio e a limitarne le conseguenze"); viceversa il compito è quello di dare attuazione, dal punto di vista tecnico-amministrativo, alle norme di legge e regolamento che si propongono di operare la prevenzione degli incendi il più possibile pensata e decisa in ogni singolo momento storico (contemperando l'esigenza di contenimento del rischio con la sopravvivenza e la salvaguardia di innumerevoli attività produttive, nel novero delle quali rientrano quelle afferenti al settore turistico-alberghiero), ma non certamente quello (di impossibile attuazione) di conseguire l'oggettivo risultato di impedire l'insorgenza di incendi tout court, essendo inimmaginabile l'addossare ai Vigili del Fuoco la responsabilità di un incendio sviluppatosi in un esercizio provvisto di solo NOP, per non avere ottemperato all'"obbligo giuridico di impedire gli incendi".
In possesso, all'atto della richiesta di rinnovo del CPI, il titolare del Reggia Palace Hotel del CPI in scadenza nel maggio del 1991, era dunque ritenibile - avendo il C.A. dichiarato nella domanda di rinnovo che permanevano invariate le condizioni di sicurezza - la rispondenza della struttura alberghiera ai requisiti necessari e sufficienti secondo la normativa vigente al momento della (nuova) domanda, sicchè non si presentava alcuna situazione di allarme, mentre era urgente smaltire, prioritariamente (come da Circolare ad hoc), le pratiche relative ad attività per le quali il CPI non era stato mai rilasciato e che pertanto potevano essere sprovviste persino dei requisiti più urgenti essenziali (come affermato dal consulente della difesa Ing. Vi.).
Senza contare che l'eseguendo controllo avrebbe avuto riguardo al rispetto dei requisiti di cui alla C.M. n. 27030/4122/1 del 21 ottobre 1974 in vigore al tempo del rilascio del CPI del 1985, Circolare le cui prescrizioni, al pari di quelle della successiva Circolare n. 15/76 erano state definite non cogenti nei confronti delle attività già iniziate dagli stessi periti del Tribunale, tanto valendo anche in ordine alle regole concernenti la c.d. "compartimentazione verticale", la cui pretesa inosservanza (non soggette peraltro ad alcuna normazione le condotte di ventilazione in legno) è stata ritenuta causa del rapido propagarsi dell'incendio.
 
3) Violazione di legge, vizio di motivazione per illogicità e contraddittorietà.
Le censure del ricorrente responsabile civile si articolano ulteriormente nell'osservazione che, una volta correttamente escluso all'esito delle indagini peritali che l'incendio fosse derivato da un'anomalia dell'impianto elettrico (su tale risultanza si è fondata l'assoluzione di Ro.Mi., esecutore del suddetto impianto) ed una volta individuatane la causa nell'avvenuta deflagrazione di una miscela formata da aria e G.P.L. - quest'ultimo fuoriuscito dall'apparecchio di cottura posto nel locale pasticceria per una scintilla prodotta dal motorino elettrocompressore di uno dei quattro congelatori presenti nella stanza ad un'altezza tra i 10 ed i 15 centimetri dal pavimento (in violazione, affermata dai giudici di merito, della C.M. n. 8242/4183 del 5 aprile 1979 disciplinante "gli impianti di cucina e di lavaggio stoviglie funzionanti a gasolio, a gas metano e/o a g.p.l., a servizio di ristoranti, mense collettive, alberghi, ospedali e simili", ben diversa dalla già richiamata Circolare n. 27030/74, relativa alle generali misure di sicurezza antincendio per gli esercizi alberghieri) - si doveva considerare che, quanto al CPI datato 23 maggio 1985 e valido fino al 31 maggio, il sopralluogo al tempo effettuato aveva evidenziato la presenza di una (altra) cucina alimentata a G.P.L. che era stata trovata in regola con le disposizioni della C.M. n. 8242/79 e che il locale ad uso di pasticceria era stato realizzato successivamente e la sua realizzazione non era stata mai autonomamente resa nota al comando Provinciale Vigili del Fuoco di Caserta, in un contesto nel quale il richiedente aveva dichiarato nella istanza di rinnovo del CPI avanzata l'11 marzo 1991 che nulla era cambiato rispetto alla situazione esistente alla data di rilascio del precedente certificato.
Orbene, il doloso e fraudolento occultamento, da parte del C. A., di tale essenziale modifica dello stato dei luoghi mediante realizzazione al piano terra di un locale destinato ad attività di supporto dell'esercizio alberghiero, comportante l'utilizzo di un ulteriore e diverso apparecchio di cottura del pari alimentato a GPL avrebbe dovuto condurre i giudici di merito a ritenere l'insussistenza di ragioni per le quali occorresse dare la precedenza alla pratica di rinnovo del CPI in questione rispetto ad altre che presentavano connotazioni di ben maggiore urgenza in quanto relative ad attività svolte con il possesso del solo NOP, e ad escludere pertanto, anche per tale via, l'esistenza della condotta colposa rimproverata allo S.M. ed al D.M.M., ignari della mutata situazione fattuale.
Nè era stata adeguatamente valutata l'ulteriore circostanza costituita dall'avvenuto deposito da parte del C.A., il 6 luglio 1993, di una richiesta di esame del progetto di trasformazione dell'impianto termico dell'Hotel, da gasolio a metano, avendo al riguardo i periti affermato (senza che la Corte territoriale avesse ciò valutato) che la richiesta del certificato di prevenzione incendi doveva essere esaminata globalmente, con riferimento, cioè, all'intero complesso e non soltanto alla parte modificata e che, dopo la presentazione delle pratiche relative alla trasformazione dell'impianto termico il Comando dei Vigili "non era più obbligato a tenere conto dell'istanza di rinnovo del CPI depositata nel 1991";
ciò in quanto "si sta modificando qualcosa di sostanziale ... una cosa di rischio specifico";
secondo il collegio peritale l'avvenuta presentazione nel luglio del 1993 della pratica di trasformazione dell'impianto termico aveva reso tamquam non esset (come ritirata, o rinunciata ovvero decaduta) l'antecedente richiesta di rinnovo del CPI "a condizioni di esercizio immutate", e ciò, secondo il ricorrente responsabile civile, riduceva di oltre due anni la presunta violazione del termine "ragionevole" per l'evasione di quest'ultima, nulla escludendo che, in mancanza del suddetto novum, la stessa sarebbe stata trattata fin dalla fine del 1993 (senza alcuna garanzia, peraltro, della effettiva cessazione dell'attività, divenuta pericolosa, pur a seguito di segnalazione alle competenti Autorità.

4) Con un quarto motivo il ricorrente Ministero ha dedotto ulteriori profili di violazione di legge e vizio di motivazione, nonchè la "violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato".
In ordine alla posizione del D.M.M. si denuncia il fatto che nella motivazione della sentenza gravata di ricorso, si è iniziato con l'addebitargli la cattiva esecuzione del sopralluogo conseguito ad un esposto anonimo, sopralluogo antecedente l'affidamento al D. M.M. della pratica di rinnovo del CPI e relativo ad un episodio del tutto al di fuori della contestazione pur se considerato dal Tribunale quale ulteriore condotta negligente, ritenuta dallo stesso primo giudice valutabile secondo una singolare ed anomala tecnica di "contestazione ad imbuto", violatrice del disposto dell'art. 417 c.p.p. come novellato dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 18 che impone l'obbligo di contestazione dell'addebito in forma chiara e precisa.
La Corte territoriale - afferma parte ricorrente - ha negletto l'anteriorità dell'episodio ai fatti di causa, la completa diversità dell'oggetto e la sua totale inefficienza causale sugli eventi di reato.
Quanto al sopralluogo del 3 febbraio 2005 il Tribunale aveva censurato la mancata esecuzione di ogni attività ispettiva possibile e sostenuto che il D.M.M. avrebbe dovuto immediatamente accorgersi dell'urgenza del controllo perchè il C.A. aveva dichiarato non essere più in uso nell'esercizio alberghiero il GPU bensì il gas metano per l'impianto termico, sicchè il D.M.M. e, prima di lui, lo S.M. avrebbero dovuto curare l'immediato controllo; tuttavia tale controllo, ove eseguito, avrebbe condotto - osserva il ricorrente - a scoprire che non esistevano cucine alimentate a metano, ma solo a G.P.L. esattamente come attestato nei precedenti CPI, cucine delle quali l'una, sita al piano primo, in regola con la normativa e l'altra, quella del locale pasticceria, pure alimentata a GPL, donde la irrilevanza del controllo non eseguito dal D.M.M. in quella occasione.

5) Con un quinto ed ultimo motivo il ricorrente Ministero deduce ancora i vizi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) laddove è stato affermato che il D.M.M. avrebbe dovuto trattare immediatamente la pratica di rinnovo del CPI senza avere i secondi giudici considerato che il suddetto imputato aveva effettuato un tentativo di sopralluogo presso l'Hotel Reggia Palace il 3 febbraio 1995, a breve distanza temporale dal conferimento dell'incarico avvenuto il 15 novembre 1994, tentativo non riuscito perchè il dipendente Na. si era detto non in grado di accompagnarlo proprio negli ambienti dell'albergo più significativi ai fini del controllo, in quanto non disponeva delle relative chiavi e non riteneva di dover svegliare il C.A., il quale stava dormendo nell'albergo.
Il D.M.M., il quale quello stesso giorno aveva in programma altri tre sopralluoghi (presso la Centrale Elettronucleare del Garigliano, lo stabilimento chimico-farmaceutico della Perrel di Capua e il complesso della Merloni di Teverola) aveva allora, con propria discrezionale valutazione ed organizzazione del lavoro, deciso di soprassedere ad un sopralluogo che non avrebbe potuto che essere superficiale ed approssimativo, per eseguire e completare almeno qualcuno degli altri programmati per quel giorno.
Donde, carente ogni ragione per sospettare l'esistenza di un'ulteriore cucina a G.P.L. non denunciata ed allocata in un sito non in regola con la C.M. n. 8242/70, l'assenza di una qualsiasi colpa (addebitata con il senno di poi) del funzionario per non avere eseguito un sopralluogo parziale, il cui esito avrebbe lasciato immutata la situazione di fatto.
In definitiva, mancando con ogni evidenza, per le ragioni lungamente illustrate in ricorso, colpe per omissione fondatamente addebitabili ai coimputati S.M. e D.M.M. ed essendo con pari evidenza da escludere ogni e qualsiasi nesso di causalità fra il controllo dei Vigili del Fuoco e l'insorgere dell'incendio e relative conseguenze del medesimo, la Corte territoriale avrebbe dovuto assolvere i predetti per insussistenza del fatto e non già dichiarare estinti per prescrizione i delitti loro ascritti.

5. Con memoria tempestivamente depositata le parti civili costituite R.E. (in proprio e quale procuratore speciale di R. E.) e R.M. (anche nella sua qualità di erede di L.V.) hanno chiesto dichiarasi inammissibili e/o infondati tutti i proposti ricorsi, con conferma del capo di sentenza di primo grado concernente le statuizioni civili e condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalle medesime nel presente giudizio di legittimità.
 
6. Nella odierna pubblica udienza il Procuratore Generale ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibili tutti i ricorsi in quanto meramente ripetitivi, anche sotto il profilo grafico, di questioni già prospettate nei giudizi di primo e secondo grado e motivatamente disattese dai giudici di merito.
A tale richiesta si sono associati i difensori delle parti civili M.T., M.D., M.G. (in proprio e quali eredi di M.C.), D.P.A., N. R., N.S., e R.E. (costituito in proprio e quale procuratore speciale di Ro.El. e R. M.).
Il difensore, Avvocato dello Stato, del responsabile civile Ministero dell'Interno ed il difensore dell'imputato D.M.M. hanno concluso chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.
 
 
Diritto

Il ricorso proposto da C.A. è inammissibile, per le ragioni che seguono.
Come già si è detto nella parte della presente sentenza espositiva dello svolgimento del processo, delle motivazioni rese dai giudici di ambo i gradi del giudizio di merito nonchè, dettagliatamente, dei motivi che sono stati posti a sostegno dei ricorsi, il C.A. - il quale nel giudizio di appello si è avvalso del disposto di cui all'art. 599 c.p.p., comma 4 concordando, nella udienza dell'8 gennaio 2002, con il Procuratore Generale, a mezzo del difensore munito di procura speciale e previa rinuncia ad ogni altro motivo dedotto con il proprio atto di appello, la riduzione della pena, irrogata dal primo giudice in anni sei e mesi due, ad anni tre e mesi sei di reclusione - ha articolato un unico motivo di ricorso, con il quale ha dedotto il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione all'art. 81 c.p. laddove i secondi giudici hanno individuato la " violazione più grave" ai sensi del citato art. 81, comma 1 (per la quale, nel caso di concorso formale di reati che è stato ravvisato nel caso di specie, va determinata la pena base sulla quale applicare l'aumento di pena sino al triplo ai sensi della suddetta norma di diritto sostanziale) nel delitto di omicidio colposo di cui all'art. 589 c.p., comma 3, anzichè nel delitto di incendio colposo previsto dagli artt. 423 e 449 c.p.; era quest'ultimo, a giudizio del ricorrente, che integrava la "violazione più grave" in quanto punibile con il medesimo massimo di pena edittale previsto per il primo dei citati delitti ma con un minimo più elevato (pari ad un anno di reclusione) rispetto a quello (pari a sei mesi) previsto dall'art. 589 c.p..
A sostegno della censura il ricorrente ha richiamato il dictum della sentenza di questa Corte, Sezione 5^, 19 aprile 1999, n. 1749, P.G. in proc. Schirra, secondo cui "In tema di trattamento sanzionatorio del reato continuato in caso di patteggiamento, poichè l'accordo in ordine ad una pena illegale non può essere ratificato dal giudice e rende nulla la sentenza che lo recepisce, deve essere dichiarata tale la sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., la quale applichi una pena che si fondi sulla errata individuazione del reato più grave, con riferimento al quale operare l'aumento per la continuazione".
 
Il motivo è manifestamente infondato.
 
Non è, invero, esatto che il delitto di cui al capo b) non costituisca, nella valutazione richiesta dall'art. 81 c.p. per la ipotesi di concorso formale di reati, - concorso nella specie ritenuto sussistente con il delitto di incendio colposo di cui al capo a) della imputazione - la " violazione più grave" in relazione alla quale la pena va, a norma del comma primo del citato art. 81, aumentata fino al triplo; infatti il delitto di cui al capo b) è quello di omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose plurime di cui all'art. 589 c.p., comma 3 che è punito con una pena che, nel massimo, non può superare i dodici anni di reclusione, mentre il delitto di incendio colposo di cui al combinato disposto dell'art. 423 c.p.p., comma 1, e art. 449 c.p.p., comma 1, è punito con la pena massima di cinque anni di reclusione, sicchè - dovendosi, per pacifica giurisprudenza di legittimità, considerare "violazione più grave" nei casi di concorso formale o di continuazione tra reati quella che il legislatore sanziona con una pena maggiormente severa (in base cioè ad una valutazione in astratto del trattamento sanzionatorio riservato dalla legge ai reati concorrenti), è evidente la maggiore gravità, ai sensi e per gli effetti del citato art. 81 c.p., del delitto di cui all'art. 589 c.p.p., comma 3, rispetto a quello di cui ai primi commi degli artt. 423 e 449 c.p.p..
Pertanto, correttamente i secondi giudici hanno recepito l'accordo delle parti processuali, formulato ai sensi dell'art. 599 c.p.p., comma 4, che prevedeva come pena base per il calcolo della pena quella di anni due e mesi sei di reclusione indicata dalle parti medesime in relazione al delitto di cui al capo b) della imputazione, che è appunto quello previsto e punito dall'art. 589 c.p.p., comma 3 ed hanno - in conformità al suddetto accordo - aumentato la pena suddetta di un anno di reclusione, sussistendo il reato formalmente concorrente di incendio colposo di cui al capo a), così essendo pervenuti alla pena complessiva di anni tre e mesi sei di reclusione, corrispondente a quella indicata dalle parti nel concordare sull'accoglimento del motivo di appello concernente la misura della pena (irrogata dal primo giudice in anni sei e mesi sei di reclusione) previa rinuncia da parte dell'appellante ad ogni altro motivo (art. 599 c.p., comma 4, cit.).
Il ricorrente fa riferimento, ai fini di sostenere l'erronea individuazione della violazione più grave tra quelle corrispondenti ai reati formalmente concorrenti, alla fattispecie di cui all'art. 589 c.p., comma 1 (punibile con la pena minima di sei mesi di reclusione e con quella massima di cinque anni, mentre per il delitto di incendio colposo è previsto un trattamento sanzionatorio coincidente nel massimo, ma più severo nel minimo edittale, pari ad un anno di reclusione), di omicidio colposo commesso in danno di una sola persona ed in assenza di lesioni personali cagionate ad altra.
Viceversa il delitto ascritto nel capo b) della imputazione è quello, come già si è detto, di avere provocato, per colpa, la morte di più persone e le lesioni di più persone, e va considerato che, se la pena prevista dall'art. 589 c.p., comma 3 è "quella che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo", con il limite massimo di dodici anni di reclusione, sì che la modalità di calcolo della pena stessa è analoga a quella prevista dall'art. 81 c.p. in tema di concorso formale e di continuazione dei reati, tuttavia la unificazione quoad poenam da parte del legislatore dei singoli eventi nel caso di morte di più persone ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, con determinazione della pena nel modo contemplato dalla norma in esame non configura nè una ipotesi di concorso formale nè di continuazione (trattasi del resto di reati colposi), e nulla ha a che vedere, pertanto, con il disposto dell'art. 81 c.p., trattandosi, invece, di una pena unica (sia pur determinabile con il calcolo, e con il limite edittale, di cui si è detto) prevista per le ipotesi delittuose de quibus, contemplate in una specifica fattispecie delittuosa che le comprende unificandole, appunto, sotto il profilo sanzionatorio.
Donde la necessità di individuare la più grave violazione tra quelle incluse nella fattispecie specifica in esame esclusivamente ai fini del calcolo della pena per la fattispecie criminosa suddetta, ma non già al fine di stabilire la più grave violazione qualora, come nel caso in esame, il reato di cui all'art. 589 c.p, comma 3, si trovi in concorso formale con altro delitto (nella specie, quello di incendio colposo).
Una volta esclusa, nel caso che qui occupa, la erroneità della operata individuazione, quale violazione più grave ai sensi e per gli effetti dell'art. 81 c.p., nel delitto di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime ex art. 583 c.p., comma 3, ascritto sub capo b) della imputazione, è privo di conducenza il richiamo, operato dal ricorrente, al dictum della sentenza della Sezione 5^ di questa Corte 19 aprile 1999, n. 1749, P.G. in proc. Schirra, massimata nei termini che sono stati sopra riportati.
Può comunque osservarsi, esclusivamente per ragioni di completezza, che con tale decisione è stata annullata, in accoglimento del ricorso proposto dal Procuratore Generale, una sentenza resa dal Pretore ex art. 444 c.p.p. con la quale era stata applicata, per il reato continuato di cui agli artt. 659, 581, 594, 610 e 582 c.p., la pena complessiva di un mese e sei giorni di reclusione (pena base per il delitto di violenza privata di cui all'art. 610 c.p., mesi due di reclusione) inferiore al minimo edittale (pari a mesi tre di reclusione) previsto per il delitto di lesioni volontarie di cui all'art. 582 c.p., in violazione, pertanto, del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 3 febbraio 1998, n. 15, P.M. in proc. Varnelli (rv 209487), e dalla successiva giurisprudenza di legittimità (vedansi Cass. Sez. 6^, 4- 11-2002, n. 18173, P.G. in proc. Broccolo, rv. 225186, e Cass. Sez. 6^ 5-10-2004, n. 4436, P.M. in proc. Mastrolorenzi, rv. 230252), secondo cui nell'ipotesi di reati concorrenti, puniti nel minimo in misura diversa, qualora il giudice intenda applicare la sanzione minima, vige il principio per cui, a prescindere da quella edittale massima, non può essere inflitta una pena inferiore a quella prevista come minimo per uno qualsiasi dei reati unificati dal medesimo disegno criminoso.
Nella sentenza oggetto del presente ricorso tale violazione, invece, non è ravvisabile, dal momento che la pena complessiva, determinata per entrambi i reati ascritti a C.A., formalmente concorrenti, in tre anni e sei mesi di reclusione, non è inferiore ai minimi edittali previsti per l'uno e per l'altro dei reati suddetti, in un contesto nel quale, come già si è rilevato, i giudici dell'appello - i quali non hanno inteso muovere dal minimo edittale (avendo, in conformità all'accordo ex art. 599 c.p.p., comma 4 risultante dal verbale di udienza del giudizio di appello 14 novembre 2003) quantificato la pena base in due anni e sei mesi di reclusione, misura superiore ai minimi rispettivamente previsti negli artt. 589 e 449 c.p.p.) - non hanno errato nella individuazione della "violazione più grave" ai sensi dell'art. 81 c.p., comma 1 (come meccanismo di calcolo della pena complessiva, ed in conformità al principio di unificazione delle sanzioni, che comporta l'assimilazione, per specie e genere, di quelle previste per i reati meno gravi a quella stabilita per il reato di maggiore gravità).
Pertanto a nulla vale, in riferimento al caso concreto in esame, il richiamo operato dal ricorrente alla sentenza n. 1749/1999, nella cui motivazione si afferma che pena illegale è anche quella risultante da un'errata scelta del reato di maggiore gravità, da determinarsi non in concreto, ma in astratto, con riferimento alla pena edittale (tanto si osserva a prescindere dal rilievo che anche ove dovesse ritenersi fondata la tesi del ricorrente secondo cui vi sarebbe stato, nella specie, un errore nella individuazione della più grave violazione tra quelle addebitategli, da ciò non deriverebbe, a giudizio di questa Corte ed a differenza di quanto verificatosi nella fattispecie oggetto della più volte citata sentenza P.G. in proc. Schirra, eo ipso la illegalità della pena irrogata, nè nella misura base, nè in quella complessiva (vedasi per le implicazioni che possono trarsene, sia pur con riferimento ad una fattispecie di applicazione della pena su richiesta a norma dell'art. 444 c.p.p., ed al diverso caso di mancata indicazione dell'aumento apportato per la continuazione, Cass. Sez. 2^, 25-1-2000, n. 400, rv. 215409, P.M. in proc. Foschi, affermante la non illegittimità, comunque, della decisione ove la sanzione concordata tra le parti ed applicata dal giudice "risulti superiore al minimo edittale e dunque perfettamente legale").
Quanto si è appena rilevato conduce, già di per sè solo, a ritenere inammissibile il ricorso proposto da C.A., ma sussistono ulteriori ed assorbenti ragioni per concludere nel medesimo senso.
La prima di queste è costituita dalla palese mancanza di interesse - costituente causa di inammissibilità della impugnazione ai sensi del combinato disposto dell'art. 568, comma 4, e art. 591, comma 1, lett. a), ipotesi seconda, del codice di procedura penale - a proporre un ricorso per cassazione sulla base dell'unico motivo sopra indicato.
Invero (come osservato anche dalle parti civili nella prodotta memoria difensiva), per consolidata giurisprudenza di legittimità (vedansi, tra le altre, Cass. Sezioni Unite 13-12-1995, n. 42, P.M. in proc. Timpani, rv. 203093; Sez. 5^, 18-6-1999, n. 9135, Lecci ed altri, rv. 213963; Sez. 1^, 17-10-2003, n. 47496, P.M. in proc. Donnarumma, rv. 226466: Sez. 2^, 28-5-2004, n. 25715, P.G. in proc. Fasano, rv. 229724), non esiste un interesse in senso assoluto delle parti alla correttezza giuridica delle decisioni che li riguardano, dovendo l'interesse richiesto dall'art. 568 c.p.p., comma 4 quale condizione di ammissibilità della impugnazione essere collegato agli effetti primari e diretti dell'atto da impugnare, sì che esso sussiste solo ove il gravame sia idoneo ad eliminare una decisione pregiudizievole per l'impugnante; detto interesse va letto, dunque, alla luce del motivo di ricorso come prospettato, e non si può non constatare che, nel caso in esame, il ricorrente lamenta una asserita violazione di legge che sarebbe consistita nella erronea individuazione, quale pena base della sanzione da determinare per i reati concorrenti, della violazione più grave; violazione che, peraltro, ove sussistente (il che non si da, per le ragioni sopra esposte) non avrebbe comunque dato causa ad alcun pregiudizio (neppure indicato in ricorso) nei confronti dell'imputato, non essendovi ragione di ritenere che dalla individuazione del reato di asserita maggiore gravità (che il ricorrente male identifica, oggi, in quello di incendio colposo) sarebbe derivato (o deriverebbe comunque all'esito di un nuovo giudizio, ex art. 599, comma 4 o meno, che conseguirebbe all'annullamento della sentenza impugnata) un trattamento sanzionatorio a lui più favorevole, nè potendosi fondatamente qualificare come pregiudizio l'avvenuto recepimento, da parte dei secondi giudici, dell'accordo inter partes a norma dell'art. 599 c.p.p., comma 4 nei termini in cui il medesimo è stato strutturato in conformità ad una richiesta, di accoglimento del motivo di appello concernente il trattamento sanzionatorio, avanzata dallo stesso imputato in una con il Procuratore Generale in sede di giudizio di secondo grado.
A ciò aggiungasi che anche in tema di c.d. "patteggiamento in appello", vale -, così come nel caso dell'istituto similare (anche se certamente non identico) dell'applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p. ("patteggiamento in primo grado") - il principio per il quale che alle parti processuali è precluso di sollevare, con il ricorso per cassazione questioni concernenti la pena (quando non illegale, come si da nel caso di specie) concordata, essendo consentito di dedurre con il suddetto mezzo di impugnazione soltanto le questioni riguardanti pregresse nullità assolute e rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, ovvero afferenti alla stessa procedura camerale ex art. 599 c.p.p., comma 4, o relative alla violazione dell'art. 129, comma 2, dello stesso codice (Cass. Sez. 4^, 7-3-1995, n. 7120, Carlini ed altro, rv. 20251; Sez. 6^, 17- 9-2004, n. 40817, Lombardi ed altri, rv. 230259).
Pertanto l'imputato non ha titolo per dedurre un motivo di ricorso avverso sentenza di c.d. "patteggiamento in appello" con il quale denuncia - così svolgendo una censura che concerne il trattamento sanzionatorio da lui stesso concordato con il Procuratore Generale in udienza nel procedimento di secondo grado - il preteso errore intervenuto nella individuazione della violazione più grave ex art. 81 c.p. per la determinazione della pena base ai fini del calcolo della misura della sanzione per i delitti de quibus posti in concorso formale, errore che, come già detto, non si sarebbe comunque risolto in alcun pregiudizio per il ricorrente, ben potendosi giungere alla determinazione della stessa pena (nella misura base ed in quella complessiva per i reati concorrenti) anche una volta identificata correttamente la "violazione più grave" ai sensi e per gli effetti dell'art. 81 c.p..
Alla luce di quanto sin qui osservato, il ricorso per cassazione proposto dal difensore di C.A. va dichiarato inammissibile.

Tanto ritenuto, devesi passare all'esame dei restanti ricorsi.
 
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso nella odierna pubblica udienza per la declaratoria di inammissibilità anche dei ricorsi proposti dagli altri imputati S.M. e D.M. M. e dal responsabile civile Ministero dell'Interno (tale richiesta è stata formulata anche dalle parti civili (anche in memoria difensiva depositata dal difensore di talune delle medesime) in quanto i proposti motivi in null'altro consisterebbero se non in una mera riproposizione delle medesime argomentazioni già discusse davanti alla Corte territoriale da questa motivatamente ritenute prive di fondatezza.
In particolare, le parti civili hanno sostenuto (vedasi la citata memoria difensiva) che nei ricorsi dello S.M. e del D.M. M. mancherebbe "una precisa correlazione tra le ragioni, argomentate nella decisione impugnata e quelle poste a fondamento del gravame, sussistendo in difetto di ciò una evidente genericità ed indeterminatezza della stessa impugnazione", essendosi i suddetti ricorrenti "limitati a brevi e generiche lamentele relative al mancato accoglimento da parte della Corte di Appello delle eccezioni sollevate in primo grado".

Orbene, se si esaminano i ricorsi dei due suddetti imputati, emerge quanto segue.

Il primo di essi (lo S.M.) - dopo avere premesso la circostanza (ex se irrilevante in questa sede di legittimità) che nel giudizio di secondo grado, e precisamente nella udienza del 12 dicembre 2003, il Procuratore Generale della Repubblica aveva avanzato richiesta di assoluzione sostenendo essere evidente la prova d'innocenza per assenza di nesso causale tra la condotta omissiva ascritta e gli eventi costitutivi dei reati - ha sostenuto che nella sentenza resa dalla Corte territoriale tale mancanza del nesso eziologico suddetto, pur dedotta negli appelli (anche in quello del responsabile civile Ministero dell'interno) non è stata minimamente considerata, e che il principio di diritto applicato nel caso concreto sembrava essere quello "della causalità naturale ovvero della teoria condizionalistica.
Teorie, ad avviso di ricorrente, inapplicabili nel nostro ordinamento perchè prive del riferimento all'elemento psicologico del reato, occorrendo, al contrario, fare riferimento ad un criterio scientifico di causalità tramite il passaggio obbligato in ordine alla prova rigorosa della operatività delle misura antincendio e della loro effettiva idoneità ad evitare o ridurre gli eventi previsti dalle norme del codice penale".
La prova di sussistenza del vizio di legittimità dedotto sarebbe rinvenibile - si afferma nel ricorso in esame - nella operata "sovrapposizione di responsabilità tra il ricorrente e il coimputato D.M.M. fondata sulla erronea configurazione della cooperazione colposa.
Non vi è agli atti la prova di un concerto colposo ma, eventualmente, quella di un concorso di cause la cui rilevanza causale deve ancora essere valutata anche ai fini civilistici".
La illustrazione del motivo si arresta qui.
 
Il D.M.M. ha lamentato, con argomentazioni assai sintetiche (al pari di quelle che sono state poste a sostegno del ricorso dello S.M.), in primo luogo un vizio di violazione di legge rinvenibile nella sentenza impugnata laddove gli è stato addebitata una culpa in omittendo per non avere egli espletato la pratica affidatagli con la dovuta urgenza e diligenza "a prescindere dai termini previsti dalla legge", mentre - ha affermato il suddetto ricorrente - "costituisce dato logico insuperabile che se la normativa attribuisce ad un dato soggetto un termine entro il quale espletare una pratica, ebbene la stessa norma ha evidentemente ritenuto che tale termine sia del tutto congruo in relazione a quanto quel soggetto deve espletare", sicchè la Corte territoriale, non potendo superare il dato normativo, ha creato letteralmente "una urgenza del tutto inesistente trattandosi di pratica di rinnovo di CPI già concesso e quindi riguardante struttura già controllata", facendo artificiosamente "rientrare nella nozione di urgenza una trasformazione di una cucina a Gpl a metano", cambiamento, questo, che comportava, in termini astratti, una minore pericolosità della suddetta cucina e "non poteva pertanto costituire per il D.M. M. un motivo di allarme tanto da indurlo ad accelerare immotivatamente la pratica o a indurlo ad effettuare il sopralluogo nel febbraio del 95 quando si recò sulla struttura ma fu di fatto non messo in condizioni di operare"; donde anche l'infondatezza dell'addebito di colpa consistita nella mancata informazione da parte del D.M.M. al Comandante S.M. dei tempi di espletamento della pratica.
Una ulteriore censura del predetto ricorrente è costituita dalla denuncia di "un vero e proprio travisamento del fatto" nel quale i secondi giudici sarebbero incorsi nel sostenere la necessità, comunque, di effettuazione di quel sopralluogo essendo possibile in tale sede controllare le porte delle stanze di accesso e degli ospiti e le uscite di sicurezza, controlli che avrebbero potuto evidenziare situazioni di potenziale pericolo per la pubblica incolumità, ed alla cui omessa effettuazione la Corte territoriale ha ricollegato, sotto il profilo del nesso causale, la verificazione dei tragici eventi mortali e lesivi de quibus, mentre tale nesso andava escluso in considerazione della circostanza - evidenziata nella sentenza di primo grado - che nessuna delle vittime era stata rinvenuta nei pressi delle uscite di sicurezza, e comunque non v'era prova del fatto che gli eventi mortali fossero stati cagionati dalla mancata osservanza delle norme concernenti le uscite di sicurezza.
Da ultimo, il D.M.M. ha lamentato la eccessività della pena inflittagli.
 
Questa Corte deve in primis rilevare la inammissibilità - prima ancora che per mancanza di interesse e per manifesta infondatezza, per "inesistenza dell'oggetto" della censura - del motivo di ricorso del D.M.M. che concerne il trattamento sanzionatorio, posto che, articolando siffatta doglianza, già contenuta nell'atto di appello, nel ricorso per cassazione il ricorrente ha omesso di considerare (in realtà la proposizione del suddetto motivo nel giudizio di legittimità è il frutto evidente di una ricopiatura dell'atto di appello in parte qua) che all'esito del giudizio di secondo grado i reati a lui ascritti sono stati dichiarati estinti per intervenuta prescrizione, donde la pronuncia di non doversi procedere nei suoi confronti ed il venir meno della sanzione irrogata dal primo giudice.
Invece - in un contesto nel quale i predetti imputati ricorrono contro sentenza dichiarativa di non doversi procedere per essere i reati estinti per prescrizione (e ciò sia nei confronti del D. M.M., sia in quelli dello S.M., una volta riconosciute a quest'ultimo dai secondi giudici quelle circostanze attenuanti generiche che gli erano state negate nella sentenza di condanna emessa in primo grado) e confermativa dello condanna dei medesimi (in solido tra loro e con i responsabili civili, nel novero dei quali rientra l'altro odierno ricorrente Ministero dell'Interno) al risarcimento dei danni cagionati alle vittime dell'incendio colposo de quo - le censure ulteriori sopra riportate, volte all'affermazione della insussistenza della condotta colposa in omittendo, nonchè della mancanza, comunque, di un nesso causale tra questa ed i plurimi eventi mortali conseguiti all'incendio, non possono dirsi inammissibili, almeno in parte.
Ciò in quanto - pur rinvenendosi nei medesimi delle coincidenze (come osservato dal Procuratore Generale nella odierna udienza, anche riferibili in qualche passaggio allo stesso profilo grafico) tra le argomentazioni poste a base dei ricorsi medesimi e quelle contenute nei rispettivi atti di appello, non può dirsi che le censure mosse in questa sede al suddetto provvedimento siano prive del requisito di specificità - previsto a pena di nullità dal combinato disposto dell'art. 581, lett. c) e art. 591, comma 1, lett. c), del codice di rito - risultando invece le stesse specificamente rivolte a determinate argomentazioni della sentenza impugnata sulla base delle quali è stata affermata la sussistenza delle condotte colpose rimproverate e del rapporto di causalità tra queste e gli eventi in esame.
In definitiva, se le doglianze di cui ai ricorsi dello S.M. e del D.M.M. riproducono, di necessità, i temi trattati nei loro rispettivi appelli e disattesi dai secondi giudici i quali hanno condiviso le argomentazioni della sentenza resa in primo grado, ciò non determina eo ipso la inammissibilità dei rispettivi ricorsi per mancanza di specificità dei motivi, i quali vanno ad incidere sulla lettura del quadro giuridico-probatorio operata dai giudici di merito.
Quanto sopra si è qui affermato vale anche per l'estremamente articolato (con argomentazioni che sono state dettagliatamente riportate nella parte della presente sentenza riassuntiva dello svolgimento del processo) ricorso del responsabile civile Ministero dell'Interno, con il quale, a norma dell'art. 575 c.p.p., comma 1 è stata proposta impugnazione contro le disposizioni civili della sentenza riguardanti la responsabilità degli imputati e contro la condanna in solido di costoro e del suddetto responsabile civile al risarcimento di danno e alla rifusione delle spese processuali.
Al riguardo va osservato che, alla luce del chiaro tenore della norma processuale sopra indicata, le argomentazioni svolte in tale ricorso, pur se attinenti al campo civilistico e risarcitorio del danno, devono essere tenute presenti ed esaminate nel valutare la responsabilità dei due ricorrenti imputati S.M. e D.M. M., entrambi dipendenti, nelle loro rispettive vesti di Comandante e di Ufficiale di Vigili del Fuoco della Provincia di Caserta, del Ministero dell'interno, il quale per tale ragione è stato chiamato nel procedimento penale de quo a rispondere civilmente delle conseguenze dei reati a costoro addebitati.
Alla non inammissibilità dei motivi (diversi da quello, manifestamente inammissibile, del D.M.M. concernente il trattamento sanzionatorio riservatogli) posti a sostegno dei ricorsi degli imputati e del responsabile civile (i quali tutti possono essere congiuntamente esaminati) non si accompagna, però la fondatezza dei medesimi, e ciò per le ragioni che seguono e con le necessarie precisazioni in tema di nesso eziologico.
Come già si è detto, le censure dei ricorrenti toccano due temi distinti, e precisamente:
 
A) quello della ravvisabilità o meno, in capo a S.M., Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco, ed a D.M.M., Ufficiale appartenente allo stesso Corpo ed incaricato dal primo in data 15 novembre 1994 di istruire la pratica per il rinnovo del certificato di prevenzione antincendi (CPI) del Reggia Palace Hotel di Caserta, scaduto il 31 maggio 1991 (rinnovo richiesto circa tre mesi prima della scadenza da C.A., amministratore unico della omonima S.r.l.);
 
B) quello della sussistenza, o meno, del nesso di causalità tra le condotte omissive rimproverate ai due predetti coimputati, in una con la condotta ascritta al C.A., l'incendio insorto ed i plurimi eventi letali e lesivi da questo conseguiti.
Orbene, per quanto concerne il tema di cui sub A), i secondi giudici, hanno, nella motivazione della sentenza gravata di ricorso - la quale, come è noto, si integra reciprocamente con quella della sentenza resa all'esito del giudizio di primo grado ove, come si da nel caso in esame, le due decisioni abbiano adottato criteri omogenei e seguito un apparato logico argomentativo uniforme (vedasi, per tutte, Cass. Sez. 3^, 1-2-2002, n. 10163, Lombardozzi) - ravvisato la colpa dello S.M. nell'ingiustificato ritardo con il quale egli, Comandante di Vigili del Fuoco di Caserta, aveva affidato, soltanto nel mese di novembre del 1994, all'ufficiale D.M.M. l'incarico di istruire la pratica del rinnovo del CPI dell'Hotel Reggia Palace (scaduto nel mese di maggio di 1991), Hotel gestito da C.A. il quale aveva presentato la relativa domanda nel mese di marzo del 1991, mentre il procedimento amministrativo conseguito alla presentazione di tale domanda avrebbe dovuto essere evaso, se non entro giorni 30 ai sensi della L. n. 241 del 1990 (non essendo stato preventivamente fissato il termine per l'adempimento), comunque nel rispetto del termine di un anno previsto dal D.M. n. 284 del 1993 e decorrente dalla data di presentazione della domanda "o al massimo dalla data di entrata in vigore del suddetto decreto (agosto 1993).
La pratica amministrativa in questione - ha osservato la Corte territoriale - non era definibile "a tavolino", cioè senza obbligo di sopralluogo ai sensi della L. n. 818 del 1984, art. 4 atteso che detta procedura, la quale imponeva comunque l'adozione di un provvedimento entro 90 giorni dalla data di presentazione della domanda, presupponeva, oltre alla dichiarazione del titolare dell'attività che nulla era mutato rispetto alla situazione che si presentava alla data (anno 1985) del rilascio del CPI, l'allegazione alla dichiarazione medesima di una perizia giurata avente ad oggetto l'efficienza dei dispositivi antincendio e dei sistemi di sicurezza, sicchè, non avendo il C.A. presentato detta perizia, si imponeva un preventivo accertamento in loco.
Inoltre, avendo il C.A. depositato nel mese di luglio del 1993 un progetto di trasformazione dell'impianto termico della struttura alberghiera ("da gasolio a metano"), dal quale emergevano chiaramente modifiche della stessa che erano idonee a comportare una mutamento della situazione di rischio, anche per tale ragione era necessario procedere a sopralluogo, a norma del D.P.R. n. 577 del 1982, art. 14.
La Corte territoriale ha altresì affermato che - diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, l'avvenuta presentazione del citato progetto - in un contesto nel quale il C.A., pur avendo presentato già nel 1989 un progetto per l'ampliamento dell'albergo, aveva chiesto in data 12 marzo 1991 il rinnovo del certificato sulla base del solo presupposto della sua prossima scadenza nella data del 31 maggio di quell'anno, senza che nella richiesta si facesse cenno ad una eventuale proroga della validità del certificato in attesa della approvazione di tale progetto e della successiva realizzazione delle nuove opere - non avrebbe mai potuto comportare il rinvio a tempo indeterminato dell'espletamento della pratica concernente il rinnovo del certificato di prevenzione antincendi (scaduto da anni), con i rischi connessi alla mancata evasione della stessa.
In definitiva, lo S.M., nella sua qualità di Comandante dei Vigili del Fuoco, e, quindi, di diretto responsabile dell'ufficio prevenzioni, aveva omesso per ben quattro anni (tra l'altro in contrasto con la prassi del suo ufficio che prevedeva tempi massimi di evasione non superiore a due mesi), di provvedere, previa assegnazione della pratica amministrativa de qua ad un suo funzionario, sulla richiesta di rinnovo del CPI avanzata nel marzo del 1991, avendo nominato il D.M.M., per l'espletamento degli incombenti relativi, soltanto nel novembre del 1994.
In medias res si era inserito l'episodio dell'esposto inviato in forma anonima all'ufficio del Comandante nel 1993, con il quale era stata denunciata l'avvenuta installazione di una cucina funzionante a G.P.L. in un locale del Reggia Palace Hotel creato ad uso di "pasticceria", e, se alla ricezione di tale esposto (segnalante un intervenuto mutamento della situazione di rischio) era seguita la doverosa disposizione di una visita ispettiva volta ad accertare la corrispondenza a verità di quanto segnalato nel medesimo, tuttavia lo S.M. - dopo avere ricevuto la relazione del D.M.M. nella quale costui ammetteva di non avere visionato i locali dell'Hotel e di essersi accontentato, nel corso di tale visita, delle dichiarazioni resegli dal C.A. il quale aveva negato che nella struttura alberghiera in questione venisse usato il GPL - non aveva mosso obiezione alcuna al D.M.M. e non aveva preso iniziative di sorta, come invece avrebbe dovuto atteso che il suo delegato aveva contravvenuto al disposto del  D.P.R. n. 577 del 1982, art. 14 che gli imponeva di procedere di ufficio alla ispezione onde valutare direttamente e personalmente la sussistenza di fattori di rischio, a prescindere da quanto dichiarato nell'occasione dalla parte interessata.
La Corte territoriale ha evidenziato un ulteriore profilo di colpa (in vigilando, che si aggiungeva a quello di culpa in omittendo) rinvenibile nella condotta dello S.M., avendo rilevato che questi - dopo che il D.M.M., nel mese di febbraio 1995, aveva deciso di rinviare tout court la visita ispettiva per la sola ragione della indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, senza trasmettere al Comandante la relazione relativa a tale circostanza, non aveva controllato l'effettiva evasione della pratica da parte del D.M.M. e non aveva imposto a quest'ultimo di effettuare un (nuovo) sopralluogo che avrebbe consentito di accertare violazioni visibili ictu oculi e di invitare il titolare dell'esercizio a mettersi in regola e di disporre, in caso di pericolo immediato, la chiusura dell'albergo.
I secondi giudici hanno sottolineato che una così protratta inazione (che aveva comportato un grave ritardo nella definizione di una pratica che richiedeva invece, anche in considerazione del mutamento della situazione di rischio ben noto al Comando dei Vigili del Fuoco di Caserta, una immediata verifica ed una rapida definizione) non poteva essere giustificata con il richiamo alla enorme mole di lavoro dal quale il suddetto Comando era oberato, e del resto lo stesso S.M., nel corso del suo interrogatorio, dopo avere affermato di avere ritenuto inutile la effettuazione di un sopralluogo ai fini del rilascio del CPI scaduto nel maggio del 1991 prima che il C.A. avesse eseguito le modifiche alla centrale termica dell'Hotel, e dopo avere richiamato l'episodio dell'esposto anonimo affermando che l'esito della relativa ispezione gli era stato comunicato dal D.M.M., aveva sostenuto che, affidata da lui a quest'ultimo la pratica di ispezione per il rinnovo del CPI nel novembre del 1994, ove il suo delegato gli avesse segnalato violazioni da parte del C.A. o gli avesse prospettato che non sussistevano le condizioni di sicurezza previste dalla vigente normativa, egli avrebbe certamente inviato una nota al Sindaco ed alla direzione dell'Albergo segnalando la necessità di immediata chiusura dell'esercizio alberghiero onde evitare pericoli alla pubblica incolumità.
Tali dichiarazioni difensive dello S.M. sono state richiamate dai secondi giudici proprio per evidenziare i cennati profili di una sua condotta colposa in omittendo vel in vigilando, risoltasi nel caso concreto in esame nell'avere l'imputato permesso, per un lungo arco di tempo, l'illecito protrarsi dell'esercizio dell'attività alberghiera nonostante la mancata verifica di sussistenza delle condizioni di sicurezza, in un contesto nel quale detta verifica era da ritenersi indispensabile sia in considerazione del contenuto dell'esposto trasmesso al suo ufficio, segnalante l'esistenza di una gravissima situazione di rischio per la pubblica incolumità, sia perchè dalle istanze successivamente presentate dal C.A. emergeva che erano in corso modifiche della struttura alberghiera che potevano comportare un mutamento della situazione di pericolo.
A tale motivazione sulla condotta colposa omissiva ascritta allo S.M. il ricorso proposto dal medesimo in sostanza nulla oppone, essendo le censure formulate unicamente in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento, nel novero delle medesime rientrando anche l'affermazione del ricorrente (come sopra riportata) di erronea configurazione di una cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra lo S.M. ed il D.M.M., anzichè di un concorso, semmai, di condotte colpose (cause) indipendenti, affermazione che, tra l'altro, pur se fondata sulla indicazione, nei significativamente distinti ed autonomi capi di imputazione, del citato art. 113 c.p., non trova conforto nelle motivazioni delle sentenze rese dai giudici di merito, atteso che nelle medesime sono state separatamente considerate le condotte colpose ravvisate a carico dei due pubblici ufficiali imputati (e del C.A.) e si è affermato che le condotte stesse hanno concorso nella causazione dell'incendio, ma non già che esistesse un legame psicologico (requisito necessario, unitamente a quello che la condotta di ciascun concorrente, singolarmente considerata, violi la regola di cautela, perchè sussista la cooperazione colposa: vedasi, tra le altre, Cass. Sez. 4^ 10-3-2005, n. 44623, Budano).
Nè si potrebbe ravvisare nel caso di specie - sulla sola base della discrasia tra la indicazione nei capi di imputazione della norma di cui all'art. 113 c.p. e la mancata affermazione, in sentenza, di una cooperazione nel delitto colposo, connotata dalla consapevolezza di ciascuno dei concorrenti della convergenza della propria condotta con quella altrui, donde la ritenuta diversa ipotesi del concorso di cause colpose indipendenti, nella quale più soggetti contribuiscono colposamente a cagionare l'evento, senza tuttavia la suddetta consapevolezza (Cass. Sez. 4^, 30-3-2004, n. 45069, Casciotti ed altri) - una violazione del principio di corrispondenza tra il fatto descritto e quello accertato (vedasi Cass. Sez. 4^, 27-1-2005, n. 27355, Capanna, nella quale la Corte ha escluso la suddetta violazione in un caso in cui i giudici di appello, pur rilevando l'insussistenza della cooperazione colposa, avevano ritenuto, tuttavia, sussistente l'ipotesi di concorso di cause indipendenti, avendo il giudice di legittimità rilevato che i termini dell'accusa - la condotta, il nesso di causalità e l'evento - erano rimasti immutati, e in relazione ad essi l'imputato aveva avuto la possibilità di difendersi; così come si dà, osserva questo Collegio, nel caso qui in esame).
Tanto ritenuto in ordine al tema della condotta omissiva addebitata, nella sentenza impugnata, a S.M., tema neppure toccato, in realtà, nel ricorso per cassazione proposto da quest'ultimo (ma oggetto di diffuse argomentazioni nel ricorso del responsabile civile Ministero dell'Interno), va osservato, quanto al parallelo addebito mosso a D.M.M., che la Corte territoriale - dopo avere precisato che costui era stato chiamato a rispondere esclusivamente della condotta tenuta a far data dal mese di novembre del 1994, da quando, cioè, gli era stato affidata dallo S.M. la pratica amministrativa de qua (ciò in quanto nei capi di imputazione che lo concernevano non gli era stato contestato il fatto che nel corso del sopralluogo effettuato nel mese di dicembre del 1993 a seguito dell'esposto pervenuto all'ufficio egli si era rimesso alle dichiarazioni del C.A. e non aveva, pertanto, realmente espletato la propria funzione ispettiva, in violazione del disposto del D.P.R. n. 577 del 1982, art. 14) - ha affermato che il suddetto imputato aveva agito con superficialità, non avendo neppure esaminato attentamente la pratica affidatagli, di rinnovo del CPI del Reggia Palace Hotel (tanto da non essersi accorto, come da sua stessa ammissione, che il certificato era scaduto sin dall'anno 1991) e non avendo, soprattutto, espletato l'incarico con la dovuta urgenza e diligenza, "a prescindere dai termini concessi dalla legge o adottati nella prassi corrente", nonostante l'avvenuta modifica di fattori di rischio emergente dal precedente certificato nonchè dalle dichiarazioni a lui rese dal C.A..
In particolare il D.M.M., una volta recatosi presso il Reggia Palace Hotel nel febbraio del 1995 per effettuare un sopralluogo, aveva deciso di rinviarlo per l'indisponibilità dell'addetto al servizio di manutenzione, mentre avrebbe dovuto procedere ai controlli che pur poteva effettuare da solo, specie quelli delle porte di accesso alle stanze degli ospiti e delle uscite di sicurezza, controlli che gli avrebbero consentito di accertare situazioni di pericolo per la pubblica incolumità;
l'imputato, in sede di interrogatorio, dopo avere precisato che, a suo avviso, la pratica riguardante il Reggia Palace Hotel non era urgente, in quanto aveva ad oggetto una mera richiesta di rinnovo od aggiornamento del CPI, nè gli era stata segnalata come tale, ed aveva ammesso sia di essersi attenuto, in occasione del suo accesso effettuato nell'anno 1993, a quanto asserito dal C.A. il quale aveva negato l'apertura di una tavernetta (oggetto dell'esposto pervenuto al Comando dei Vigili Urbani di Caserta), sia di essersi - una volta ricevuto dal suo Comandante, in data 15 novembre 1994, di espletare la pratica amministrativa di rinnovo del CPI dell'Hotel in questione (scaduto nel mese di maggio del 1991) - recato in data 3 febbraio 1995 presso la suddetta struttura alberghiera per eseguire il sopralluogo di rito, ma di avere rinviato sine die l'incombente, senza avere proceduto a controlli di sorta (e senza avere successivamente relazionato il suo Comandante sulla mancata effettuazione della visita ispettiva) per la sola ragione che tale Na.Ge., il quale, nell'occasione, lo aveva ricevuto in loco, gli aveva detto che erano assenti l'addetto Ro.Mi. ed altro personale che conoscesse gli impianti da sottoporre ad ispezione.
Alla affermazione della Corte territoriale di una condotta omissiva e negligente tenuta nei termini suddetti, il D.M.M. ha replicato in ricorso, come si è già detto, deducendo il vizio di motivazione di legge laddove i secondi giudici avrebbero creato una, in realtà insussistente, urgenza dell'espletamento della pratica in oggetto, relativa ad una mera domanda di rinnovo di CPI, urgenza affermata illogicamente "a prescindere dai termini previsti dalla legge" e che non poteva nascere neppure dalla preannunciata "trasformazione di una cucina a Gpl a metano" (il che diminuiva, e non aumentava, il rischio), senza avere, gli stessi giudici, considerato che nel febbraio del 1995 egli non era stato posto nella condizione per poter eseguire il programmato sopralluogo, e che nulla gli imponeva di rendere edotto il Comandante S.M. dei tempi di espletamento della pratica, la quale non si presentava come di urgente definizione.

Tali censure sono prive di consistenza.
 
Costituisce invero, un dato di fatto certo ed inoppugnabile che il CPI rilasciato nell'anno 1985 all'Hotel Reggia Palace di Caserta, era scaduto di validità nel mese di maggio del 1991, e che soltanto a distanza di tre anni e sei mesi circa (nel mese di novembre del 1994) dalla data di presentazione della richiesta di rinnovo del certificato la relativa pratica era stata attivata dal Comando dei Vigili del Fuoco con il conferimento al D.M.M. per l'espletamento della medesima.
E' altrettanto indubitabile che l'essersi il D.M.M. "accontentato" - in occasione dell'accesso da lui eseguito nel 1993 a seguito dell'esposto anonimo pervenuto al Comando del Vigili del Fuoco di Caserta, che dava precisa notizia dell'avvenuta installazione da parte del C.A. di una cucina alimentata a GPL (con le connesse conseguenze sul piano del pericolo di verificazione di incendi) in un locale dell'Hotel Reggia, e, dunque, di un mutamento della situazione descritta come invariata nella richiesta di rinnovazione del CPI inoltrata nel marzo del 1991 - della mera (interessata e menzognera) assicurazione datagli nell'occasione dal predetto C.A. che la circostanza denunciata non corrispondeva a verità, senza avere pertanto il predetto pubblico ufficiale eseguito, nell'occasione medesima (nè in seguito, neppure a distanza di più di un altro anno) quel sopralluogo che era reso indispensabile non soltanto dalla notizia della suddetta installazione ma anche, e soprattutto, dal duplice dato (colpevolmente non considerato nè dal D.M.M. nè dal Comandante S.M.) costituito, da un lato, dalla scadenza da oltre due anni del CPI rilasciato nel lontano 1985 e, dall'altro, dalla circostanza - puntualmente rilevata dai giudici di merito nonchè dalla difesa delle parti civili nella memoria difensiva della quale si è detto - che la domanda di rinnovo avanzata nel mese di marzo del 1991 non era accompagnata dalla perizia giurata integrativa prevista dalla L. 7 dicembre 1984, n. 818, art. 4 (a tenore del quale "ai fini del rinnovo del certificato di prevenzione incendi, relativo alle attività esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge, i comandi provinciali dei vigili del fuoco possono accettare, in luogo del preventivo accertamento in loco, una dichiarazione del titolare dell'attività, presentata in tempo utile, in cui si attesti che non è mutata la situazione valutata alla data del rilascio del certificato stesso ed una perizia giurata integrativa per quanto riguarda l'efficienza dei dispositivi, sistemi e impianti antincendio").
A sensi della norma appena citata, in assenza della suddetta perizia giurata il sopralluogo non soltanto si rendeva indispensabile, ma sarebbe dovuto essere effettuato - così come rilevato dai giudici di merito - nel termine di 90 giorni, decorrente dalla data (maggio 1991) di scadenza del certificato di prevenzione antincendi a suo tempo rilasciato per l'Hotel Reggia Palace di Caserta.
A proposito della condotta, omissiva ed evidentemente connotata da un'assoluta negligenza, tenuta dal D.M.M. in occasione del suo accesso all'Hotel nell'anno 1993 questa Corte osserva che, se è vero al predetto imputato è, nel capo di imputazione che specificamente lo concerne, ascritto un comportamento confinato nell'arco temporale tra la data (15 novembre 1994) dell'incarico da questi ricevuto di istruire la pratica di rinnovo del CPI dell'Hotel Reggia Palace e quella (2 maggio 2005) di verificazione dell'incendio nel suddetto Hotel, è però anche vero che i secondi giudici non sono caduti nè in una violazione di diritto dante causa alla nullità per difetto di contestazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 521 e 522 (correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza), nè in alcuna contraddizione interna al provvedimento oggi gravato di ricorso, laddove, dopo avere precisato (foglio 29 del provvedimento impugnato) il tenore ed i limiti temporali della condotta omissiva rimproverata al D.M.M., hanno richiamato (foglio 41) l'avvenuta ammissione, da parte del predetto imputato, di avere effettuato un precedente accesso all'Hotel Reggia Palace in data 28 dicembre 1993 su incarico del Comandante S.M. e di essersi in quella omesso, sulla sola base di quanto dettogli interessatamente e menzogneramente dal C.M., di accertare l'apertura della tavernetta interessata dall'esposto pervenuto il 15 dicembre del 1993, e laddove da ciò hanno tratto, con ogni evidenza, un ulteriore profilo di colpa a carico dell'imputato medesimo.
Vanno svolte, sul punto, le considerazioni che seguono.
La prima, già ex se decisiva in ordine alla insussistenza di nullità ai sensi dell'art. 522 c.p.p., è quella che la specifica circostanza fattuale è emersa - sulla base delle stesse dichiarazioni dell'imputato - ed è stata oggetto di discussione, già nel corso del giudizio di primo grado.
Pertanto deve trovare applicazione la giurisprudenza di legittimità, ormai assolutamente costante dopo la pronuncia da parte delle Sezioni Unite di questa Corte della sentenza 19-6-1996, n. 16, Di Francesco, nell'affermare che, con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa, con la conseguenza che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in relazione all'oggetto dell'imputazione.
Una seconda ragione di insussistenza della suddetta nullità a regime intermedio va rinvenuta nel rilievo che l'inazione dell'imputato (per vero, di ambo i coimputati, essendo l'omissione da riferirsi, quanto meno sotto il profilo dell'omesso controllo sull'operato del suo delegato, anche al Comandante S.M.) che ha dato luogo al mancato controllo sulla sussistenza della circostanza specifica denunciata nell'esposto ed al conseguente mancato sopralluogo, non può dirsi limitata all'occasione temporale dell'accesso effettuato dal D.M.M. nel 1993, quasi si fosse trattato di una condotta omissiva "istantanea" (che uno actu perficitur) poi in seguito non più configurabile e non più rilevabile, essendosi invece la omissione de qua protratta sino al giorno di verificazione dell'incendio, all'interno di quel più ampio arco temporale che ha abbracciato anche la mancata effettuazione di quel sopralluogo che la mancata allegazione alla dichiarazione di "nulla è mutato" contenuta nella risalente richiesta di rinnovo del CPI - scaduto due mesi dopo l'avvenuta presentazione della dichiarazione medesima - imponeva fosse effettuato, come già si è detto, nel termine di 90 giorni normativamente previsto, tanto più che la dichiarazione resa dall'interessato nel presentare la domanda di rinnovo del certificato di prevenzione antincendi non era corredata da perizia sulla efficienza dei dispositivi, sistemi e impianti antincendio presenti (o che avrebbero dovuto esserlo) nella struttura alberghiera de qua.
Non solo.
Come emerso incontestatamente, anche quando, finalmente (quanto tardivamente in considerazione della data del maggio 1991, di scadenza del certificato di prevenzione antincendi, tardività ravvisabile in riferimento sia al termine di 90 giorni per l'eseguendo sopralluogo sopra illustrato, sia a quello di un anno di cui al sopravvenuto D.M. n. 284 del 1993, decorrente dalla data di entrata in vigore del suddetto D.M., agosto 1993) era stato posto in essere, da parte del D.M.M., un nuovo accesso all'Hotel Reggia Palace il 3 febbraio del 1995, il predetto incaricato, soltanto perchè comunicatagli, in loco, la momentanea indisponibilità di personale che conoscesse gli impianti da ispezionare (e addirittura la circostanza che il C.A. stava riposando), ha - anzichè attivarsi doverosamente pretendendo il reperimento immediato di un appartenente a detto personale o, comunque esigendo l'apertura di tutti gli ambienti interessati dagli impianti, ovvero anche procedendo personalmente al controllo, almeno, di tutto quanto avrebbe potuto esaminare senza il concorso di un addetto - rinviato sine die la esecuzione di un'attività d'istituto doverosa a tutela della pubblica incolumità, così da protrarre ulteriormente l'ingiustificabile ritardo della definizione di una pratica che giaceva inevasa da circa quattro anni presso il Comando dei Vigili del Fuoco, e non ha neppure dato di tale condotta omissiva conto alcuno al Comandante S.M. (senza che quest'ultimo, more solito, abbia esercitato i propri compiti di vigilanza sulla esecuzione dell'incarico da lui affidato al D.M.M.).
A fronte di tali complessive risultanze la valutazione di ambo i giudici di merito di una condotta colposa in omittendo da addebitarsi ad entrambi i predetti imputati non appare assolutamente censurabile, neppure con il richiamo al pesante carico di lavoro dal quale era gravato il Comando dei Vigili Urbani di Caserta, od alla pretesa "non urgenza" (perchè comunque la struttura alberghiera interessata era munita di un CPI: peraltro scaduto da anni) della evasione della "pratica", ovvero alla circostanza che il C.A. aveva presentato, nel 1993, un progetto di trasformazione della alimentazione degli impianti mediante G.P.L. a ("meno pericoloso") metano; tale affermata intenzione, imponeva comunque, in quanto illustrativa di una trasformazione in fieri incidente sul tema delle condizioni di sicurezza degli impianti, un vieppiù sollecito accertamento dello status quo, e di certo non poteva mettere nel nulla la condotta omissiva precedente.
Non ha alcun pregio l'assunto che i termini previsti in materia, avendo carattere amministrativo, non sono perentori ma ordinatori;
ciò, infatti, è del tutto irrilevante, posto che, da un lato, la natura meramente ordinatoria di un termine non significa comunque che questo possa ingiustificatamente restare inosservato, e, dall'altro, che il carattere perentorio di un termine dato dalla legge all'Amministrazione perchè questa agisca rileva nel senso che dalla sua inosservanza deriva la decadenza dall'esercizio di un potere da parte dell'Amministrazione stessa, ma non già, certamente, il venir meno del compimento di un dovere.
Nè, infine, soccorrono le censure sul punto gli operati richiami alla intervenuta successione nel corso degli anni, in subiecta materia, di nuove norme definite come di proroga, dovendosi rilevare a tale ultimo riguardo, in primo luogo, che intanto di "proroga" è consentito logicamente, e giuridicamente, di parlare in quanto il termine prima vigente non sia ancora scaduto (come invece si da nel caso in esame) ed, in secondo luogo, che, come puntualmente rilevato nella memoria ritualmente prodotta da difensore delle parti civili, le nuove norme concernevano, almeno per la più gran parte, l'attuazione (prevedendone i relativi termini) di nuove e più moderne misure di prevenzione e sicurezza introdotte per nuovi edifici pubblici da realizzare.
Non era questa la situazione in cui versava l'Hotel Reggia Palace di Caserta, e pertanto non ha rilevanza nel caso concreto in esame il richiamo - operato nel ricorso dal responsabile civile - all'intento del legislatore di contemperare le esigenze della pubblica sicurezza con quelle economiche di esercizio dell'attività alberghiera.
Quanto si è qui appena rilevato integra risposta ai motivi concernenti l'elemento psicologico dei reati ascritti posti a sostegno del ricorso proposto dal responsabile civile Ministero dell'Interno, e questa Corte ritiene di dover ulteriormente rilevare, sul punto, quanto segue.
E' suggestiva, ma inconferente, alla luce di quanto sin qui illustrato, la censura rivolta alla sentenza impugnata concernente l'uso dell'aggettivazione "ragionevole" riferita al termine da osservarsi nella definizione della pratica amministrativa di rinnovazione di CPI dell'Hotel Reggia Palace di Caserta;
invero, se indubbiamente "ragionevole" altro non può essere se non il termine stabilito normativamente, tuttavia nel caso di specie il suddetto termine non è stato (come già si è detto) rispettato, ed è "irragionevole", nonchè contra legem, la circostanza che la struttura alberghiera de qua sia stata colpevolmente lasciata attiva per oltre quattro anni in assenza di un valido certificato di prevenzione antincendi, per di più in un contesto nel quale i Vigili del Fuoco di Caserta avevano ricevuto notizia precisa (pur se anonima) del novum della installazione nell'Hotel di un impianto di cucina a G.P.L. (comportante un mutamento della situazione di sicurezza dichiarata nella domanda di rinnovo del certificato), inazione che non può in alcun modo essere legittimata dalle disposizioni normative succedutesi nel corso degli anni in tema di sicurezza degli esercizi pubblici e di prevenzione degli incendi.
Non migliore fortuna può trovare la ulteriore censura (la quale concerne, piuttosto, il tema del nesso di causalità ed il disposto dell'art. 40 c.p., comma 2) che concerne la, per vero non felicissima, espressione usata dai secondi giudici secondo cui i Vigili del Fuoco hanno "l'obbligo giuridico di evitare l'insorgenza degli incendi"; se, infatti, D.P.R. 29 luglio 1982, n. 577, art. 2 si afferma che per prevenzione degli incendi deve intendersi quel complesso di attività, provvedimenti, accorgimenti od altro, che sono "intesi ad evitare ... l'insorgenza di un incendio e a limitarne le conseguenze", sicchè il compito di natura tecnico-amministrativa dei Vigili del Fuoco è, più precisamente quello di dare attuazione, alle norme di legge e regolamento finalizzate ad operare la prevenzione degli incendi, tuttavia dallo sviluppo dell'intera parte motivazionale della sentenza impugnata s'intende agevolmente che i giudici di merito hanno rimproverato agli imputati S.M. e D. M.M. proprio la colposa mancata attuazione di tale compito, ritenuta costituire una concausa nel determinismo dell'incendio de quo, in tal senso da loro non "evitato".
Nè ha pregio, a fronte della resa motivazione in punto di colpe concorrenti degli imputati, correlate non illogicamente ad una condotta inerte protrattasi nel tempo e non giustificata alla luce della normativa applicabile nonchè delle normali regole di diligenza e vigilanza esigibili dallo S.M. e dal D.M.M. nelle loro rispettive vesti, il valorizzare, così come fa il ricorrente responsabile civile - la circostanza (pacifica) che lo S.M. dette impulso all'istruttoria de qua allorquando assegnò la relativa pratica al funzionano D.M.M. il 15 novembre 1994, cioè mesi prima del giorno 2 giugno 1995 nel quale l'incendio ebbe a verificarsi; è, infatti, proprio la inattività che ha preceduto tale incarico ad essere stata stigmatizzata, in una con la protratta omissione dell'esercizio del dovere di vigilanza sulla condotta del delegato; omissione, quest'ultima, tale da porre nel nulla, ai fini del giudizio sulla colpa, il lato "attivo" della condotta costituito dal conferimento dell'incarico dato al D.M.M. perchè accertasse, nel 1993, la corrispondenza al vero della denunciata apertura della tavernetta adibita a locale per pasticceria e munita di cucina funzionante a G.P.L..
A proposito di tale specifico episodio è palesemente priva di fondatezza sul piano logico, prima ancora che su quello giuridico, l'affermazione, di cui in ricorso del responsabile civile Ministero dell'Interno, che il doloso e fraudolento occultamento, da parte del C.A., della essenziale modifica dello stato dei luoghi da lui posta in essere mediante realizzazione al piano terra di un locale destinato ad attività di supporto dell'esercizio alberghiero, comportante l'utilizzo di un ulteriore e diverso apparecchio di cottura alimentato a G.P.L. avrebbe dovuto condurre i giudici di merito a ritenere l'insussistenza di ragioni per le quali occorresse "dare la precedenza" alla pratica di rinnovo del CPI in questione rispetto ad altre che presentavano connotazioni di ben maggiore urgenza in quanto relative ad attività svolte con il possesso del solo NOP, e ad escludere pertanto, anche per tale via, l'esistenza della condotta colposa rimproverata allo S.M. ed al D.M. M., ignari della mutata situazione fattuale.
A tale argomentazione va opposto, infatti, in primo luogo che i due imputati non possono fondatamente invocare a proprio vantaggio quel mancato accertamento specifico che si sarebbe dovuto comunque compiere, quale che sia stato il comportamento del C.A. nell'occasione, e. in secondo luogo, che in realtà non si è mai trattato di "dare la precedenza" alla pratica Hotel Reggia Palace rispetto ad altre in itinere, ma di evaderla sollecitamente tenuto conto della scadenza da anni del CPI e dell'allarmante notizia ricevuta (e mai controllata) del mutamento della situazione di sicurezza a causa di un intervento operato successivamente a detta scadenza.
Nè, diversamente da quanto opinato nel suddetto ricorso, si ravvisa vizio di legittimità di sorta nell'avere i giudici di merito ritenuto che il sopralluogo finalizzato al rilascio del CPI, necessario ex lege, sin dall'anno 1991, non fosse da ritenersi più tale soltanto perchè nel 1993 il C.A. aveva presentato una richiesta di esame del progetto di trasformazione (neppure si precisa se effettivamente e quando realizzato) dell'impianto termico dell'Hotel, da gasolio a metano, per quanto ciò comportasse un riesame globale della situazione della struttura alberghiera in punto misure di sicurezza antincendio, tale circostanza non potendo fare venir meno quell'obbligo, inevaso, che risaliva all'anno 1991.
I rilievi sin qui svolti evidenziano la infondatezza di tutti i motivi svolti dagli interessati, miranti ad escludere la sussistenza dei profili di colpa addebitati a S.M. ed a D.M. M..
Solo apparentemente più complesso è il tema del nesso eziologico tra le condotte colpose rimproverate ai due suddetti imputati ricorrenti ed i gravi eventi verificatisi. Sul punto, interessato da tutti i ricorsi in esame, i secondi giudici hanno motivato, per così dire, più che altro "narrativamente", essendosi essendosi ex professo limitati ad affermare, all'atto di tirare le somme da quanto in precedenza esposto, che le condotte omissive evidenziate nella loro sentenza avevano permesso l'illecito protrarsi dell'esercizio dell'attività alberghiera nonostante la mancata verifica della persistenza delle condizioni di sicurezza, così avendo entrambi concorso nel cagionare, per imperizia e per negligenza, sia l'incendio colposo sia il delitto, anch'esso colposo, di cui all'art. 589 c.p., commi 1 e 3.
Questa Corte deve rilevare che parte di quanto dedotto a censura di alcuni passaggi della sentenza impugnata in punto di nesso causale tra le omissioni ascritte e gli eventi letali e lesivi conseguiti alla verificazione dell'incendio è condivisibile.
Invero, il mancato controllo sulle uscite di sicurezza - le cui porte sono risultate non munite dei c.d. "maniglioni antipanico" e dotate di chiavi di apertura collocate in una teca posta a distanza tale dalla porta che i soccorritori avevano dovuto avvalersi di un'asta per prelevarle - assai dubitabilmente può essere ritenuto causa (rectius concausa) dei plurimi eventi letali in esame, posto che non risulta (non lo si afferma, almeno, nelle sentenze dei giudici di merito) che anche una sola delle persone decedute sia stata trovata dai soccorritori nei corridoi antistanti le stanze dell'albergo da loro rispettivamente occupate, sì che possa ritenersi provata l'ipotesi che dette persone avessero raggiunto l'altezza delle scale di sicurezza ma non fossero, a causa della chiusura delle relative porte, riusciti ad imboccarle per porsi in salvo.
Se è vero che teoricamente tale eventualità non può essere del tutto esclusa, potendosi anche ipotizzare un tentativo di tal genere, non riuscito, ed un successivo rientro di taluno dei clienti dell'albergo nella stanza, onde fuggire gettandosi dalla finestra, tuttavia tale ipotesi, ex se improbabile in considerazione del denso fumo che era penetrato nei corridoi dell'Hotel, non risulta essere stata avallata da testimonianze resa da coloro i quali hanno riportato lesioni personali di varia entità per essersi gettati dalle finestre al fine di sfuggire alle piante; in realtà, essa non è, prima ancora che provata, neppure univocamente affermata nella sentenza impugnata, e, comunque, non sarebbe sostenibile, sulla base dei dati a disposizione, all'esito di un giudizio controfattuale da effettuarsi ipotizzando come effettuato da parte dei predetti imputati quel controllo sulle condizioni delle uscite di sicurezza che viceversa è stato omesso nell'ambito della più generale omissione dell'attività di verifica delle condizioni di sicurezza della struttura alberghiera in oggetto.
Deve pertanto trovare applicazione il principio di diritto - da tempo consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità - secondo il quale, in tema di reati omissivi impropri, ovvero commissivi mediante omissione (come si configura, nel caso concreto ed in considerazione dell'accusa come formulata nel capo di imputazione, il delitto di cui all'art. 589 c.p.p., commi 1 e 3) qualora (come nella specie si dà limitatamente al punto specifico in questione) la prova sia quanto meno incerta, sì da legittimare il plausibile e ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all'interno della rete di causazione, ciò non può non comportare l'esito assolutorio stabilito dall'art. 530 c.p.p., comma 2, secondo il canone di garanzia "in dubio pro reo" (Cass. Sezioni Unite 10-7- 2002, n. 30328, Franzese; Cass. Sez. 4^ 25-11-2004, n. 19777, Nobili).
Sulla base di quanto appena rilevato si deve anche rilevare che la motivazione della sentenza impugnata non giunge alla sicura ed univoca affermazione di un contributo concausale alla verificazione degli eventi di omicidio colposo e lesioni colpose dato dalla circostanza della mancata (e non controllata dai Vigili del Fuoco) presenza di indicazioni luminose della via da percorrere per raggiungere le uscite di sicurezza, anche sotto questo aspetto valendo l'accertata circostanza - affermata nella stessa sentenza gravata di ricorso - che, in conseguenza del subitaneo insorgere dell'incendio e del rapido propagarsi del medesimo, i corridoi dell'albergo si riempirono di un fumo così denso ed impenetrabile da impedire di vedere alcunchè, sì da non potersi escludere con il necessario grado di certezza processuale che le suddette indicazioni luminose, quand'anche funzionanti, sarebbero state visibili ed utilmente utilizzabili dai clienti dell'albergo.
Da quanto da questa Corte appena affermato non può derivare, tuttavia, l'accoglimento dei ricorsi in punto sussistenza del nesso eziologico tra le condotte omissive ravvisate e gli eventi dei reati ascritti.
Ciò in quanto la indicazione in sentenza del complesso dato fattuale dal quale è stata tratta la prova di sussistenza del nesso causale tra omissioni rimproverate ed eventi verificatisi da comunque adeguato conto, per altro verso, delle fondate ragioni per le quali i secondi giudici hanno escluso la sussistenza nel caso di specie di cause di non punibilità ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2 e sono giunti alla declaratoria di estinzione per intervenuta prescrizione di ambo i reati colposi ascritti agli imputati S. M. e D.M.M. (una volta riconosciute anche al primo le circostanze attenuanti generiche) ed alla conferma delle statuizioni civili della sentenza resa in primo grado con l'affermazione - ai limitati sensi e per gli effetti dell'art. 578 c.p.p. - della responsabilità dei suddetti imputati, motivata sulla base delle condotte omissive loro rispettivamente contestate ed, appunto, del ritenuto rapporto (con)causale tra le medesime e gli eventi di cui ai due distinti delitti colposi.
Invero nelle sentenze rese dai giudici di merito è stato affermato, con richiamo alle risultanze delle disposte indagini peritali, che l'incendio in questione (del quale è stata motivatamente esclusa la natura dolosa sulla base di precise risultanze peritali) ebbe provatamente ad insorgere il 2 maggio 1995 proprio in quel locale adibito a pasticceria, la cui cucina era alimentata a G.P.L. e la cui esistenza non era stata accertata dal competente Comando dei Vigili del Fuoco di Caserta a causa degli omessi sopralluoghi (adempimento necessario per la definizione della pratica amministrativa del rilascio del CPI all'Hotel Reggia Palace, la quale giaceva inevasa dall'anno 1991), e che l'incendio stesso era stato determinato (così come accertato a mezzo di perizia) dalla formazione di una miscela infiammabile composta di aria e G.P.L. sul pavimento del suddetto locale, attivata da scintille prodotte dal motorino elettro- compressore di uno dei congelatori, funzionanti tutta la notte.
Dal responso peritale è emerso altresì che nel predetto locale adibito a pasticceria non esistevano aperture di aerazione poste in basso sulle pareti e comunicanti direttamente con l'esterno, aperture che tanto più erano indispensabili, secondo la circolare 8242 del 5 aprile 1979, in quanto la cucina era priva di rubinetti valvolati;
ciò spiegava la ragione per la quale, una volta innescatasi la miscela a causa della citata scintilla elettrica, il G.P.L. aveva generato la violenta deflagrazione la quale, oltre a provocare l'incendio dei materiali combustibili presenti nel locale, aveva causato il crollo parziale della parete divisoria con la sala Vanvitelli, costituita in parte da mattoni forati ed in parte da materiale ligneo, cosicchè si era aperto un varco attraverso il quale l'incendio si era esteso alla sala, attivando la combustione delle suppellettili presenti nella stessa, per poi propagarsi, una volta sviluppatosi con estrema forza e rapidità anche per la presenza nel locale de quo di materiale infiammabile, con altrettanta velocità ai piani superiori, complice la circostanza che le porte di comunicazione tra le scale ed i corridoi erano tenute aperte da vasi di fiori.
Orbene, è del tutto evidente che - anche ove fosse dato di prescindere (il che non è, per le ragioni già illustrate da questa Corte) dal colpevolmente omesso, nell'anno 1993 (dal Di Marco, omissione coinvolgente anche il Comandante S.M. sotto il profilo di una culpa in vigilando), controllo sulla esistenza di quell'impianto, non a norma, che poteva dar luogo a pericolo di incendio - ove comunque fosse stato eseguito dall'imputato D.M. M. quel sopralluogo, finalizzato alla definizione della procedura di rinnovo del certificato di prevenzione antincendi dell'Hotel in questione che era scaduto ben quattro anni prima ed in vista del quale il suddetto imputato si era recato in loco nel mese di febbraio del 1995 (dopo avere ricevuto il relativo incarico nel mese di novembre dell'anno precedente, in un contesto di tardività dell'affidamento dell'incarico rispetto alla data di scadenza del CPI che era già tale da rendere urgente l'esecuzione dello specifico accertamento), la situazione di pericolosità collegata a quel permanente impianto di cucina sarebbe sicuramente emersa, ed il Comandante S.M. (disinteressatosi invece del doveroso controllo sull'avvenuta esecuzione dell'incombente da parte del soggetto da lui incaricato) avrebbe potuto e dovuto (come da lui stesso dichiarato) attivarsi per ovviare al pericolo in tutte le forme previste dalla legge, sino a richiedere ed ottenere la chiusura di quell'esercizio alberghiero la cui attività era proseguita, senza che più esistesse un valido certificato di prevenzione, per circa quattro anni a causa della colpevole inazione del Comando dei Vigili Urbani di Caserta.
In sostanza, dalla motivazione della sentenza impugnata emerge la tutt'altro che illogica (e non affetta da vizi di legittimità di sorta) affermazione che segue: ove, almeno tre mesi prima della data dell'incendio, chi di dovere avesse espletato con la dovuta diligenza i propri, appunto doverosi, compiti d'istituto - esaminando tutti gli impianti suscettibili di dar luogo ad incendi presenti all'interno della struttura alberghiera de qua e rapportando doverosamente la conformazione degli stessi alle caratteristiche della suddetta struttura, nonchè controllando il rispetto, da parte del responsabile della medesima - sarebbe stato indubbiamente possibile accertare la complessiva oggettiva situazione di pericolosità derivante dalla inosservanza, da parte del gestore, di plurime norme di prevenzione e sicurezza, e ad essa sarebbe stato, quindi, posto rimedio imponendo le specifiche prescrizioni del caso ed adottando tutte le misure previste e consentite dalla legge, sino a quella più drastica costituita dalla temporanea chiusura, da parte dell'Organo competente, dell'esercizio fino a che non fosse stato concretamente garantito il rispetto di tutte le norme di prevenzione vigenti in subiecta materia;
norme viceversa violate dal C.A., come da constatazione oggettiva purtroppo postuma alla verificazione dell'incendio nonchè come dalle ammissioni del medesimo imputato.
Infatti costui aveva, come rimproveratogli nel capo A) di imputazione, concernente il delitto di cui agli artt. 449 e423 c.p.:
1) gestito nel citato locale d uso di pasticceria un impianto di cucina a più fuochi alimentato a G.P.L. e non conforme alle prescrizioni di cui ai nn. 1-2-3-4 della lettera circolare n. 8242/4813 del 5 aprile 1979;
2) costituito depositi di materiali combustibili, segature e linoleum sul ballatoio delle scale di servizio al piano terra, di moquette, linoleum, segatura, mobili e legname in vari ambienti del piano interrato, di archivi e documenti nel salone terra e nel piano rialzato, con carichi d'incendio superiori a 60 Kg. per metro quadrato;
3) omesso di provvedere alla compartimentazione orizzontale degli ambienti siti al piano terra e al piano ammezzato, alcuni di quali - come il locale pasticceria - erano divisi tra loro da porte o da pareti in legno;
4) omesso di provvedere alla compartimentazione verticale di tutti i piani i quali comunicavano tra loro, senza alcuna struttura di isolamento, tramite il montavivande, il cavedio cavi, i vani ascensori ed il montacarichi, questi ultimi realizzati in mattoni forati e non con pareti a calcestruzzo armato dello spessore di 20 centimetri;
5) realizzato le condotte di aria di ventilazione con materiale combustibile in legno nei locali compresi tra la pasticceria e l'ingresso posteriore di servizio al piano terra;
6) utilizzato per le tappezzerie e i rivestimenti di arredo con materiali aventi inadatto grado di resistenza al fuoco e tali da comportare la emissione di fumi nocivi e tossici;
7) realizzato le porte meccaniche di accesso ai corridoi dei piani in assenza dei prescritti dispositivi di chiusura;
8) disposto la chiusura delle porte esterne che davano sulle scale di sicurezza.
Le connotazioni per così dire "strutturali" e permanenti della maggior parte delle suddette violazioni (alle quali va aggiunta l'assenza, ammessa dallo stesso C.A., di campanelli di allarme attivabili dalla portineria in caso d'incendio, rimproveratagli nel capo B) sarebbero state sicuramente, quanto doverosamente, colte dai Vigili del Fuoco ove essi avessero eseguito quel sopralluogo che era loro normativamente imposto, si che altrettanto doverosamente sarebbero state fatte adottare le misure necessarie ad eliminare quel pericolo d'incendio e per la incolumità delle persone che la situazione concreta avrebbe evidenziato:
pericolo di insorgenza dell'incendio stesso che era costituito maxime dalla installazione della cucina non conforme a legge in quel locale avente le caratteristiche indicate, e pericolo di rapida diffusione del medesimo costituito da tutte le ulteriori caratteristiche stabili della struttura in partibus quibus, come colto dai giudici di merito sulla base delle risultanze delle eseguite indagini tecniche.
Pertanto la motivazione resa dagli stessi giudici per pervenire alla affermazione di sussistenza (in base alle risultanze suddette ed all'esame dei comportamenti degli imputati) del nesso eziologico tra le condotte omissive correttamente rimproverate allo S.M. ed al D.M.M. ed i tragici eventi rappresentati dalla verificazione dell'incendio e dalle morti e lesioni di più soggetti resiste agevolmente alle censure dei ricorrenti, avendo detta motivazione dato adeguatamente conto della sussistenza del suddetto nesso (con)causale in termini che si riflettono nella individuazione di un alto grado di credibilità razionale del fatto affermato che, ove le condotte omesse dagli imputati fossero state, invece, doverosamente tenute i tragici eventi in questione non si sarebbero verificati.
Per le sin qui esposte ragioni il ricorso proposto da C. A. va dichiarato inammissibile, ed i ricorsi degli altri imputati S.M. e D.M.M., e del responsabile civile Ministero dell'Interno vanno rigettati.
Tutti i predetti ricorrenti vanno condannati al pagamento in solido delle spese del presente grado di giudizio - il C.A. inoltre, essendo evidente la colpa del medesimo nella determinazione della causa di inammissibilità del proprio ricorso (vedasi Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186) anche al versamento, a favore della Cassa delle Ammende, di una somma a titolo di sanzione, a norma dell'art. 616 c.p.p., comma 1, che va congruamente quantificata in Euro 1000,00 - nonchè alla rifusione, in solido, delle spese sostenute dalle parti civili che hanno vittoriosamente resistito nel presente grado di giudizio, spese partitamente liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto da C. A. e rigetta i ricorsi proposti da S.M., D.M. M. e dal responsabile civile Ministero dell'Interno; condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed il C.A. anche al versamento di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna tutti i predetti in solido alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalle seguenti parti civili:
a) R.E., in proprio e quale procuratore speciale di Ro.El., R.M., nella sua qualità di erede di L.V., spese che liquida in complessivi Euro 6.750,00 di cui 6000,00 per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A.;
b) D.P.A., N.R., N.S., spese che liquida in complessivi Euro 5000,00 di cui 4000,00 per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A.;
c) M.T., M.D., M.V., M.G., in proprio e quali eredi di M.C., spese che liquida in complessivi Euro 7.875,00 di cui 7000,00 per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A. Così deciso in Roma, il 24 settembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2008