Cassazione Civile, Sez. Lav., ordinanza 05 marzo 2019, n. 6346 - Danno biologico da mobbing e copertura Inail
Presidente Bronzini – Relatore Patti
Rilevato
che con sentenza 9 gennaio 2014, la Corte d’appello di Messina condannava Poste Italiane s.p.a. al pagamento, in favore della ex dipendente R.M.C. a titolo di risarcimento del danno biologico da mobbing, della somma di Euro 9.350,00 oltre accessori dalla data di collocamento in quiescenza al soddisfo, rigettandone le altre domande: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva condannato la società datrice pure al pagamento, in favore della predetta, della somma di Euro 4.675,00 a titolo di danno morale;
che avverso tale sentenza la società datrice ricorreva per cassazione con due motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 380bis.1 c.p.c., cui resisteva la lavoratrice con controricorso e per cui si costituiva nuovo difensore in virtù di procura notarile del 2 gennaio 2019;
che il P.G. comunicava le proprie conclusioni a norma dell’art. 380bis 1 c.p.c..
Considerato
che la ricorrente deduce violazione dell’art. 100 c.p.c., D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, D.Lgs. n. 38 del 2000, artt. 10 e 13, D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 3, comma 1 come integrato da Corte cost. 179/1988 e violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c., per difetto di legittimazione passiva della società datrice, nella sussistenza dei presupposti per l’esonero dalla responsabilità civile, avendo il C.t.u. accertato un danno biologico dipendente da mobbing (ben qualificabile malattia professionale non tipizzata, conseguente a prestazione di attività lavorativa) in misura dell’8%, pertanto coperto dall’assicurazione obbligatoria dell’Inail, unico soggetto tenuto (primo motivo); violazione dell’art. 2087 c.c. ed omessa considerazione di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, per l’apodittica affermazione di esistenza di un nesso causale tra patologia della lavoratrice e attività lavorativa, in assenza di documentazione sanitaria, tanto meno coeva ai fatti denunciati, alla base della C.t.u. medico-legale esperita;
che ritiene il collegio che il primo motivo sia fondato;
che occorre preliminarmente rilevare che il difetto di legittimazione attiva o passiva, intesa come legitimatio ad causam e pertanto quale astratta coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, siano destinatari degli effetti della pronuncia richiesta, è nozione diversa dall’accertamento in concreto che l’attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio, integrando una questione concernente il merito della causa (Cass. 24 marzo 2004, n. 5912; Cass. 6 marzo 2006, n. 4796; Cass. s.u. 16 febbraio 2016, n. 2951; Cass. 27 marzo 2017, n. 7776; Cass. 27 giugno 2018, n. 16904);
che nel caso di specie non si verte nell’ipotesi di difetto di legittimazione passiva della società datrice, ma piuttosto di accertamento della sua effettiva titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, integrante una questione di merito;
che, tanto chiarito, nell’ipotesi di richiesta del risarcimento del danno patito dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito è comunque tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati (esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale) possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e come tali ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, a norma dell’art. 2087 c.c., sia pure non accomunati dal medesimo fine persecutorio (Cass. 5 novembre 2012, n. 18927; Cass. 3 marzo 2016, n. 4222);
che, qualora sia accertata la sussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato si configura una condotta di mobbing (Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437);
che la Corte territoriale ha accertato, sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie (per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 3 all’ultimo di pg. 5 della sentenza), che i danni lamentati dalla lavoratrice devono essere ascritti alla condotta datoriale di mobbing e che pertanto sono riconducibili all’inadempimento della società al debito di sicurezza prescritto dall’art. 2087 c.c.;
che, in tema di malattia professionale, la tutela assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella: dovendo il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata (Cass. 5 marzo 2018, n. 5066, con ampio rinvio a citazioni conformi in motivazione);
che il giudice può procedere alla verifica di applicabilità dell’art. 10 D.P.R. nell’interezza del suo articolato meccanismo anche d’ufficio ed indipendentemente da una richiesta di parte, in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto (Cass. 10 aprile 2017, n. 9166, p.to 12 in motivazione);
che il motivo deve essere ritenuto fondato nel senso, non già del difetto di legittimazione passiva della società datrice, ma della non effettiva sua titolarità del rapporto fatto valere in giudizio, per l’accertamento a carico della lavoratrice di un danno biologico dipendente da mobbing (ben qualificabile malattia professionale non tipizzata, conseguente a prestazione di attività lavorativa) in misura dell’8% (come da conclusioni della relazione di C.t.u. integralmente trascritta da pg. 12 a pg. 30 del ricorso), coperto dall’assicurazione obbligatoria dell’Inail, nella sussistenza dei presupposti per l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro (Cass. 10 aprile 2017, n. 9166; Cass. 1 agosto 2018, n. 20392);
che pertanto esso deve essere accolto, con assorbimento del secondo e la cassazione della sentenza con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Catania.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Catania.