Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 aprile 2019, n. 11114 - Caduta dall'alto al primo giorno di lavoro. Le modifiche dell'art. 1, c. 1126, legge n. 145/2018, non trovano applicazione in relazione agli infortuni sul lavoro verificatisi prima dell'1.1.2019


 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: CALAFIORE DANIELA Data pubblicazione: 19/04/2019

 

Rilevato che
con sentenza del 17 gennaio 2013, il Tribunale di Bergamo accolse la domanda di regresso proposta dall'INAIL nei confronti di G.F., relativamente alle prestazioni erogate al dipendente F.M. a seguito dell'infortunio sul lavoro subito dallo stesso il 19 agosto 2006, per complessivi Euro 220.642,67 a titolo di danno biologico, patrimoniale ed indennità temporanea; su impugnazione di G.F., la Corte d'appello di Brescia, con sentenza n. 275 del 2013, ha rigettato l'impugnazione ritenendo condivisibile la ricostruzione della dinamica dell'infortunio operata dal primo giudice e precisamente che:
il 19 agosto 2006 F.M. - formalmente al primo giorno di lavoro - era stato incaricato di formare in quota un muro con blocchi di cemento armato e tale muro prevedeva dei vani di finestre in successione non protetti da alcuna opera provvisionale fissa; durante l'operazione il lavoratore, che operava su di un ponteggio fisso posizionato sul lato esterno del muro in fase di costruzione, era caduto da un vano di finestra alto circa 5 metri che avrebbe dovuto essere protetto attraverso un ponteggio mobile (cd. trabattello) destinato ad essere spostato via via che il lavoro andasse avanti ma che ancora non era stato posizionato al momento dell'infortunio;
la sentenza impugnata ha ritenuto che non vi fosse stata alcuna condotta dolosa o abnorme del lavoratore tale da escludere il nesso causale, neppure ha ravvisato nella condotta del lavoratore un possibile concorso di colpa in quanto lo stesso aveva posto in essere atti non certo imprevedibili o abnormi, essendo normale durante l'attività di lavoro il passaggio degli operai sul ponteggio davanti ai vani delle finestre;
la sentenza ha osservato pure che L'INAIL aveva attestato il proprio credito, pari alla capitalizzazione della rendita liquidata, tenendo conto dei miglioramenti economici intervenuti, con certificazione del direttore della sede ed il credito per il regresso era stato correttamente determinato al momento della liquidazione definitiva, senza
possibilità per il datore di lavoro di eccepire la modifica della domanda; è risultato, dunque, violato l'art. 2087 cod. civ. ed il disposto dell'art. 16 d.P.R. 164 del 1956 in materia di lavori eseguiti ad altezza superiore a due metri; la sentenza ha quindi ritenuto generiche ed infondate le censure legate alla quantificazione del danno biologico indennizzato dall'Inail all'Infortunato;
avverso tale sentenza ricorre per cassazione G.F. sulla base di due articolati motivi illustrati da memoria; resiste l'INAIL con controricorso;
 

 

Considerato che
con il primo motivo, contenente una doppia censura, si deduce violazione e o falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. (obbligo di tutelare l'integrità fisica e la personalità dei prestatori di lavoro) nonché omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti che si ravvisa nella condotta imprudente ed anomala che sarebbe stata tenuta dal lavoratore;
si ritiene che il non aver riconosciuto efficacia esclusiva alla condotta colposa del lavoratore infortunato ha comportato l'attribuzione della responsabilità dell'accaduto al datore di lavoro per responsabilità oggettiva;
con il secondo articolato motivo, si deduce la violazione e o falsa applicazione degli artt. 2043 cod. civ. (risarcimento per fatto illecito), 2056 cod. civ. (valutazione dei danni), art. 2059 cod. civ. (danni non patrimoniali) e degli artt. 1223 cod. civ. (risarcimento del danno), 1227 cod. civ. (concorso del fatto colposo del creditore) nonché omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti, che si ravvisa nella erronea concreta determinazione del danno permanente subito dall'infortunato, in ragione del fatto che la sentenza impugnata non si sarebbe fatta carico di accertare l'effettiva sussistenza del danno stimato e risarcito dall'Inail, del nesso di causalità tra le lesioni lamentate dal lavoratore e l'infortunio occorsogli, oltre che della valutazione dell'entità delle lesioni stesse sotto il profilo del risarcimento civilisticamente imputabile al datore di lavoro; il primo complesso motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato giacché in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394); nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un'erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5, che - nella versione ratione temporis applicabile - lo circoscrive all'omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014);
nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell'apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori;
la sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato, sulla base degli elementi istruttori raccolti, che il 19 agosto 2005 F.M. - formalmente al primo giorno di lavoro- era stato incaricato di formare in quota un muro con blocchi di cemento armato e tale muro prevedeva dei vani di finestre in successione che non erano stati protetti da alcuna opera provvisionale fissa; durante l'operazione il lavoratore, che operava su di un ponteggio fisso, che in teoria avrebbe dovuto essere protetto grazie ad altro ponteggio mobile (cd. trabattello) non ancora posizionato, era caduto da un vano di finestra alto circa 5 metri mentre il figlio del datore di lavoro si accingeva a spostare il trabattello; il lavoratore, inoltre, cadde mentre tentava di collocare una carta, utilizzata per pulirsi le mani, all'interno di uno dei blocchi con i quali si stava realizzando il muro; nei limiti residui in cui le dedotte censure di violazione e falsa applicazione di legge appaiono ammissibili, le stesse risultano infondate in quanto la Corte distrettuale, con motivazione esente da vizi logici, si è conformata ai principi espressi da questa Corte in materia di rispetto dell’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro; invero, l'omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del datore di lavoro che non abbia provveduto all'adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo nè imprevedibile nè anomala una dimenticanza dei lavoratori nell'adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi, del cd. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l'attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso (Cass. n. 21694 del 2011);
la Corte distrettuale ha correttamente applicato i principi di diritto affermati da questa Corte e ravvisato un inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di protezione e prevenzione dei rischi, inadempimento consistente nell'omesso apprestamento di opere provvisionali realmente adeguate ed idonee relative alla realizzazione del muro all'altezza di cinque metri da terra, in prossimità dei vani delle finestre da realizzare;
va quindi confermato il costante insegnamento di questa Corte Suprema anche in tema di c.d. rischio elettivo, posto che di esso e di conseguente responsabilità esclusiva del lavoratore può parlarsi soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere (cfr., ex aliis, Cass. n. 19494 del 2009; Cass. n. 4656 del 2011; Cass. n. 21694 del 2011); si è affermato, in particolare, che la condotta colposa del lavoratore è irrilevante (cfr. Cass. n. 1687 del 1998; Cass. n. 5024 del 2002; Cass. n. 3213 del 2004), atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, destinatari della tutela. Non essendo nè imprevedibili nè anomale le eventuali imprudenze, negligenze o imperizie dei prestatori di lavoro nell'espletare le mansioni loro assegnate, esse non sono idonee ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto ad adottare tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle concrete condizioni di svolgimento del lavoro;
quanto, poi alla concreta possibilità di ravvisare anche un mero concorso dì colpa del lavoratore infortunato, va ricordato che questa Corte (Cass. n. 4718 del 2008) ha pure ritenuto che < la colpa o la negligenza del lavoratore non necessariamente possono considerarsi concausa dell'evento dannoso, ove abbiano potuto esplicare efficacia causale solo a causa degli inadempimenti del datore di lavoro, [...] (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 1981 n. 6542; Cass. civ. 26 maggio 1981 n. 3453);
la decisione impugnata risulta quindi incensurabile anche nella parte in cui ha escluso il concorso di colpa della vittima;
quanto al secondo motivo, relativo al criterio di determinazione del danno civilistico che, ai sensi degli artt. 10 e 11 d.p.r. n. 1124 del 1965, costituisce limite all'azione di regresso dell'Inail, deve preliminarmente osservarsi che alla fattispecie non può applicarsi la disciplina introdotta dalla legge n. 145 del 2018 come affermato da Cass. n. 8580 del 27 marzo 2019; l'art. 1, comma 1126, della L. n. 145 del 2018 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019¬2021), entrata in vigore l'1.1.2019, ha introdotto significative modifiche degli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. 1124 del 1965;
per effetto di tali modifiche, i commi 6, 7 e 8 dell'art. 10 cit. risultano formulati nel modo seguente:
< Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo, non ascende a somma maggiore dell’indennità che a qualsiasi titolo ed indistintamente, per effetto del presente decreto, è liquidata all'Infortunato o ai suoi aventi diritto.
Quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66 e seguenti e per le somme liquidate complessivamente ed a qualunque titolo a norma dell'articolo 13, comma 2, lettere a) e b), del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38.
Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l'indennità d'infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita complessivamente liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39 nonché da ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo.
< L'art. 11 cit. è stato così modificato:
L'istituto assicuratore deve pagare le indennità anche nei casi previsti dal precedente articolo, salvo il diritto di regresso per le somme a qualsiasi titolo pagate a titolo d'indennità e per le spese accessorie nei limiti del complessivo danno risarcibile contro le persone civilmente responsabili. La persona civilmente responsabile deve, altresì, versare all'Istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell'ulteriore rendita a qualsiasi titolo dovuta, calcolato in base alle tabelle di cui all'art. 39 nonché ad ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo.
la sentenza, che accerta la responsabilità civile a norma del precedente articolo, è sufficiente a costituire l'Istituto assicuratore in credito verso la persona civilmente responsabile per le somme indicate nel comma precedente.
Nella liquidazione dell'importo dovuto ai sensi dei commi precedenti, il giudice può procedere alla riduzione della somma tenendo conto della condotta precedente e successiva al verificarsi dell'evento lesivo e dell'adozione di efficaci misure per il miglioramento dei livelli di salute e sicurezza sul lavoro. Le modalità di esecuzione dell'obbligazione possono essere definite tenendo conto del rapporto tra la somma dovuta e le risorse economiche del responsabile.
L'Istituto può, altresì, esercitare la stessa azione di regresso contro l'infortunato quando l'infortunio sia avvenuto per dolo del medesimo accertato con sentenza penale. Quando sia pronunciata la sentenza di non doversi procedere per morte dell'imputato o per amnistia, il dolo deve essere accertato nelle forme stabilite dal Codice di procedura civile; la legge n. 145 del 2018 ha inciso sui criteri di calcolo del danno cd. differenziale, modificando le voci da prendere in esame per determinare il quantum che, secondo il disposto dell'art. 10, comma 6, "ascende a somma maggiore dell'indennità liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto"; correlativamente, è stato modificato il quantum di ciò che l'Istituto può pretendere in via di regresso nei confronti del responsabile civile; sostanzialmente, la finanziaria del 2019 ha imposto, ai fini del calcolo del danno differenziale, l'adozione di un criterio di scomputo "per sommatoria" o "integrale", anziché "per poste", con conseguente diritto di regresso dell'Istituto per "le somme a qualsiasi titolo pagate";
occorre, in primo luogo, rilevare che la nuova legge non può intendersi quale legge interpretativa posto che:
il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali irrisolti, ma anche "quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore" (Corte Cost. n. 525 del 2000; in senso conforme, sentenze n. 374 del 2002, n. 26 del 2003, n. 274 del 2006, n. 234 del 2007, n. 170 del 2008, n. 24 del 2009; n. 209 del 2010); l'attuale sistema indennitario Inail è stato realizzato attraverso l'intervento sul testo originario di cui al d.p.r. n. 1124 del 1965 di decisioni della Corte Costituzionale (sentenze nn. 87, 356 e 485 del 1991) e di innovazioni normative attuate ( D.Lgs. n. 38 del 2000) mediante l'introduzione nella tutela indennitaria Inail di una componente di danno biologico; la modifica apportata dalla legge n. 145 del 2018 sul calcolo del danno differenziale (secondo il criterio dello scomputo integrale anziché per poste), in quanto presuppone il riconoscimento di una struttura bipolare del risarcimento del danno alla persona nelle sue componenti di danno patrimoniale e non patrimoniale, non può avere enucleato una variante di senso degli artt. 10 e 11 citati;
un intervento normativo di interpretazione autentica non potrebbe neanche dirsi giustificato in ragione di insanabili incertezze e contrasti interpretativi dovendosi dare atto di un indirizzo giurisprudenziale assolutamente consolidato e costante, quanto meno a partire dal 2015 (Cass. n. 13222 del 2015; n. 22862 del 2016; n. 9166 del 2017), che, ribadito il fondamento costituzionale del risarcimento del danno biologico e della tutela indennitaria Inail rispettivamente negli artt. 32 e 38 Cost., con la connessa esigenza di protezione effettiva ed integrale della persona del lavoratore, ha delineato in modo univoco la nozione di danno differenziale e dettato puntuali criteri di calcolo dello stesso, accuratamente distinto dal danno cd. complementare;
la natura interpretativa dell'art. 1, comma 1126 cit, deve, infine, escludersi sia per l'assenza di una espressa autoqualificazione in tal senso di tale disposizione e sia per la tecnica legislativa adoperata, che non ha reso evidente un significato compatibile col testo del 1965 ma, al contrario, ha inserito nell'originaria formulazione previsioni atte a modificarne il contenuto, anche attraverso il richiamo all'autonomo testo normativo di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000;
poste tali premesse, l'analisi della questione di applicabilità o meno dell'art. 1, comma 1126 cit. ai giudizi pendenti deve essere svolta considerando quest'ultima disposizione come norma innovativa della disciplina dettata dagli artt. 10 e 11 del dpr 1124 del 1965;
la successione di norme giuridiche nel tempo è regolata nel nostro ordinamento dall'art. 11 delle preleggi, che fissa il principio di irretroattività e tale principio "comporta che la norma sopravvenuta è inapplicabile, oltre che ai rapporti giuridici già esauriti, anche a quelli ancora in vita alla data della sua entrata in vigore, ove tale applicazione si traduca nel disconoscimento di effetti già verificatisi ad opera del pregresso fatto generatore del rapporto, ovvero in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso", (Cass. n. 3845 del 2017);
si è precisato che, in virtù del principio dell'irretroattività, "la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso; lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, quando essi, ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in sé stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore" (Cass. n. 2433 del 2000; n. 14073 del 2002; 16395 del 2007; n. 16620 del 2013; n. 16039 del 2016; n. 17866 del 2016; n. 4890 del 2019); posto che il danno, nella sua composita struttura, costituisce conseguenza dell'infortunio o della malattia professionale, e difatti il diritto al risarcimento sorge in connessione causale e temporale con la commissione dell'illecito, l'applicazione dell'art. 1, comma 1126 cit. ai giudizi in corso comporterebbe una modifica degli effetti ricollegabili agli infortuni o alle malattie professionali verificatisi o denunciati prima dell'entrata in vigore della stessa; nel sistema vigente prima della legge finanziaria del 2019, il danno differenziale (cd. quantitativo per distinguerlo da quello qualitativo o complementare, cfr. Cass. n. 9166 del 2017), concepibile unicamente per il surplus di risarcimento dei medesimi pregiudizi oggetto di tutela indennitaria Inail e in presenza dei presupposti di esclusione dell'esonero del datore di lavoro ("permane la responsabilità civile a carico di coloro che hanno riportato condanna penale per il fatto dal quale l'infortunio è derivato...", art. 10, comma 2, dpr 1124 del 1965), era calcolato, coerentemente alla struttura bipolare del danno-conseguenza, secondo un computo per poste omogenee, vale a dire che dalle singole componenti, patrimoniale e biologico, di danno civilistico spettante al lavoratore venivano detratte distintamente le indennità erogate dall'Inail per ciascuno dei suddetti pregiudizi;
si è affermato, ad esempio, come dall'ammontare complessivo del danno biologico dovesse detrarsi non già il valore capitale dell'intera rendita costituita dall'INAIL, ma solo il valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell'art. 13 del D.lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione ed alla capacità lavorativa dell'assicurato, volta all'indennizzo del danno patrimoniale, (Cass. n. 20807 del 2016, n. 13222 del 2015);
correlativamente, il diritto di regresso dell 'Inail nei confronti del responsabile civile poteva esercitarsi, in presenza dei presupposti escludenti l'esonero, per le indennità erogate al lavoratore ma nei limiti delle somme versate dal datore in relazione al ristoro dei singoli pregiudizi;
la legge n. 145 del 2018, art. 1, comma 1126, ha invece reso indifferente la natura (biologica o patrimoniale) delle voci del risarcimento del danno civilistico e dell'indennità Inail tra cui operare la detrazione ai fini del calcolo del danno differenziale; così ridefinendo il danno differenziale come il risultato ottenuto sottraendo dal risarcimento "complessivamente calcolato per i pregiudizi oggetto di indennizzo", la "indennità che, a qualsiasi titolo ed indistintamente ... è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto"; l'obbligo risarcitorio del datore di lavoro, ove non operi l'esonero, comprende ora unicamente la parte che eccede tutte le indennità liquidate dall'Inail all'Infortunato, ai sensi dell'art. 66 del T.U. e dell'art. 13, D.Lgs. n. 38 del 2000;
la legge finanziaria del 2019, nel mutare i criteri di calcolo del danno differenziale rendendo indistinte le singole poste (di danno biologico e patrimoniale) oggetto specularmente di risarcimento civilistico e di tutela indennitaria Inail, ha direttamente inciso sul contenuto di danno differenziale, cioè sulle componenti dello stesso, con inevitabili ripercussioni sulla integralità del risarcimento del danno alla persona, principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. per tutte Cass., S.U., n. 26972 del 2008);
l'applicazione del citato art. 1, comma 1126 nei giudizi in corso determinerebbe, in base a quanto detto, il disconoscimento di effetti, riconducibili agli infortuni verificatisi e alle malattie denunciate prima dell'1.1.19, già prodotti dai suddetti fatti generatori e si porrebbe, quindi, in violazione del divieto di retroattività di cui all'art. 11 delle preleggi; non può validamente richiamarsi, a sostegno della retroattività, la giurisprudenza in materia di criteri generali equitativi di risarcimento del danno (Cass. n. 25485 del 2016; n. 7272 del 2012) poiché nel caso in esame, non è questione di parametro equitativo per cui è ritenuto appropriato il riferimento all'attualità, ma di disposizioni di legge rispetto a cui opera il divieto di retroattività;
la L. n. 145 del 2018 dal punto di vista letterale difetta di qualsiasi statuizione espressa nel senso della retroattività e vi siano previsioni che depongono in senso contrario;
l'art. 1, comma 1126, stabilisce: "In relazione alla revisione delle tariffe operata ai sensi dell'articolo 1, comma 128, della legge 23 dicembre 2013, n. 147, con decorrenza dal 1° gennaio 2019 e dei criteri di calcolo per l'elaborazione dei relativi tassi medi, sono apportate a decorrere da tale data le seguenti modificazioni";
la data di decorrenza dall'l. 1.2019 è espressamente indicata e ripetuta in riferimento sia alla revisione delle tariffe e dei criteri di calcolo per l'elaborazione dei relativi tassi medi e sia quanto alle modifiche apportate agli artt. 10 e 11 del D.p.r. n. 1124 del 1965, come peraltro specificato nella relazione alla legge di bilancio 2019 (Dossier 27.12.2018, voi. II, A.C. 1334- B), con apposita sottolineatura ("Il comma 1126 prevede, con decorrenza dal 2019, alcune modifiche alla disciplina sulla tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nonché con riferimento ad alcuni settori, modifiche relative al livello dei premi Inail"); l'applicabilità delle modifiche normative ai giudizi in corso risulterebbe distonica anche rispetto ai criteri di ragionevolezza e di interpretazione logico sistematica, in quanto, come emerge dallo stesso incipit del comma 1126 sopra riportato, la modifica dei criteri di calcolo del danno differenziale è stata adottata a fronte della revisione delle tariffe che opera con decorrenza dall'1.1.19;
è significativa la circolarità che la stessa legge di bilancio traccia tra la riduzione delle tariffe dovute dai datori di lavoro, la modifica del calcolo del danno differenziale spettante al lavoratore in modo da sottrarre le indennità a qualsiasi titolo versate dall'Inail e l'inclusione di tutte queste indennità nello spazio in cui può operare il diritto di regresso dell'Inail;
posto che la riduzione delle tariffe decorre dall'1.1.19, sarebbe logico che le modifiche introdotte per calibrare i minori introiti dell'Istituto avessero medesima decorrenza e coinvolgessero le conseguenze di infortuni e malattie verificatisi o denunciati dopo la data suddetta;
la tesi di non applicabilità dell'art. 1, comma 1126 cit. ai giudizi pendenti appare la sola coerente con i principi desumibili dalla Carta costituzionale e dalla Carta Edu;
infatti, sebbene il divieto di retroattività, che pure costituisce valore fondamentale di civiltà giuridica, non abbia tutela costituzionale se non in materia penale ai sensi dell'art. 25 Cost., il potere del legislatore di emanare norme con efficacia retroattiva, anche di interpretazione autentica, è stato riconosciuto "purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell'esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti -motivi imperativi di interesse generale-, ai sensi della CEDU (Corte Cost. n. 170 del 2013; n. 78 del 2012; nn. 93 e 41 del 2011);
la Corte Costituzionale ha individuato una serie di limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi "il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario" (Corte Cost. n. 170 del 2013; n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
del tutto affini sono i principi in tema di leggi retroattive sviluppati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in riferimento all'art. 6 della CEDU;
la Corte di Strasburgo, infatti, ha ripetutamente affermato, con specifico riguardo a leggi retroattive del nostro ordinamento, che "in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una regolamentazione innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall'art. 6 della CEDU, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo neH'amministrazione della giustizia al fine di influenzare l'esito giudiziario di una controversia (pronunce 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi contro Italia; Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia) e si è pure rimarcato che le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere intese in senso restrittivo (pronuncia 14 febbraio 2012, Arras contro Italia) e che il solo interesse finanziario dello Stato non consente di giustificare l'intervento retroattivo (pronunce 25 novembre 2010, Lilly France contro Francia; 21 giugno 2007, Scanner de l'Ouest Lyonnais contro Francia; 16 gennaio 2007, Chiesi S.A. contro Francia; 9 gennaio 2007, Arnolin contro Francia; 11 aprile 2006, Cabourdin contro Francia);
viceversa, lo stato del giudizio e il grado di consolidamento dell'accertamento, l'imprevedibilità dell'intervento legislativo e la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia, sono tutti elementi considerati dalla Corte europea per verificare se una legge retroattiva determini una violazione dell'art. 6 della CEDU: sentenze 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas contro Francia; 26 ottobre 1997, Papageorgiou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society contro Regno Unito; le sentenze da ultimo citate, pur non essendo direttamente rivolte all'Italia, contengono affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico e che questa Corte considera vincolanti anche per l'ordinamento italiano", (Corte Cost. n. 170 del 2013 e altre ivi richiamate; cfr. anche Corte Cost. n. 24 del 2009; n. 303 del 2011; n. 127 del 2015; n. 12 del 2018);
la tutela dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, suscettibile di dar luogo al risarcimento dei danni conseguenza secondo la modalità del danno biologico, (cfr. Cass., S.U., n. 26972 del 2008), elevata a diritto inviolabile ai sensi dell'art. 32 Cost., appare certamente idonea ad integrare i "principi costituzionali" ed i valori di civiltà giuridica che si pongono quale ostacolo all'efficacia retroattiva delle disposizioni in esame;
d'altra parte, fatta eccezione per le ipotesi di norme autoqualificatesi come retroattive e ritenute compatibili con i principi costituzionali e sovranazionali (cfr. Corte Cosi. n. 303 del 2011; cfr. anche Cass. S.U. n. 494 del 1998; Cass. n. 14357 del 1999; n. 12625 del 2006, sui nuovi criteri di liquidazione del danno da occupazione appropriativa), la giurisprudenza di legittimità ha costantemente interpretato le leggi modificative dei criteri legali di quantificazione del danno come operanti in relazione a fatti generatori successivi all'entrata in vigore delle leggi stesse (così per le modifiche ai criteri di calcolo del danno da illegittima apposizione del termine ai contratti di lavoro, introdotte dall'art. 28, D.Lgs. n. 81 del 2015 (Cass. n. 21069 del 2015);
nella sentenza n. 17866 del 2016 si è affermato: "la nuova previsione ... è applicabile solo ai fatti generatori della (nuova) responsabilità risarcitoria, successivi all'entrata in vigore della nuova disciplina, e quindi alle ipotesi di illegittima apposizione del termine verificatesi dopo tale data"; in senso analogo, l'art. 1, comma 42 della legge n. 92 del 2012, che ha modificato l'art. 18 della L. n. 300 del 1970, è stato considerato applicabile "solo ai nuovi licenziamenti, ossia a quelli comunicati a partire dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della nuova disciplina", (Cass. n. 16265 del 2015);
deve quindi affermarsi che le modifiche degli artt. 10 e 11 del d.p.r. n. 1124 del 1965, introdotte dall'art. 1, comma 1126, della L. n. 145 del 2018, non possono trovare applicazione in riferimento agli infortuni sul lavoro verificatisi e alle malattie professionali denunciate prima dell'l. 1.2019, data di entrata in vigore della citata legge di stabilità e, dunque, tale nuovo testo degli artt. 10 e 11 del d.p.r. n. 1124 del 1965 non può trovare applicazione nel presente procedimento, avente ad oggetto infortunio sul lavoro avvenuto prima dell'entrata in vigore della legge n. 145 del 2018;
ciò premesso, il motivo richiama gli articoli del codice civile che regolano la liquidazione del danno civilistico da atto illecito e rileva la inopponibilità nei confronti del datore di lavoro del giudizio sull'accertamento dell'inabilità svolto in sede amministrativa dall'Inail;
si pongono all'esame della Corte due distinte questioni ovvero, in linea di pregiudizialità, quella della opponibilità degli accertamenti che hanno preceduto il riconoscimento dell'indennizzo da parte dell'Inail al datore di lavoro convenuto in regresso e quella, logicamente consequenziale, relativa ai criteri di liquidazione del danno cd. differenziale;
quanto al primo profilo va riaffermato il principio (Cass. 24/09/1991, n.9938) secondo il quale una volta che a conclusione delle procedure amministrative o dell'azione giudiziaria sia stato ritenuto il superamento del minimo indennizzabile e quindi sia stata costituita la rendita, questa deve essere corrisposta all'infortunato e non può essere soppressa se non per riscontrato miglioramento (art. 83 D.P.R. 1124-65) per tale motivo la richiesta di rimborso dell'INAIL fatta valere in giudizio è conforme al disposto dell'art. 11 d.p.r. n. 1124 del 1965 in relazione al punto in cui precisa che la somma da versare all'Istituto da parte del responsabile civile va ragguagliata al valore capitale della rendita "dovuta";
il datore di lavoro non può contestare il fondamento dell'accertamento per il mancato superamento del limite del 16% dei postumi invalidanti. Infatti, da un lato, il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra infortunato ed ente assicuratore e, dall'altro, è da escludere che l'indebita maggiore liquidazione si risolva in danno del datore di lavoro medesimo, in quanto l'obbligo di rivalsa a favore dell'I.N.A.I.L. è in ogni caso contenuto nei limiti del risarcimento che egli deve all'infortunato (in tal senso è la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte: v. Cass. 2050 del 1984, 7098 del 1987, 2286 del 1988; 7792 del 1998; 17960 del 2006; 5385 del 2018); l'INAIL eroga una prestazione che per il suo carattere — rigidamente predeterminato ex lege- e per la sua funzione- di assicurare un mero sostegno sociale all'infortunato- non corrisponde al danno risarcibile previsto nel modello della responsabilità civile, avente funzione di ristoro integrale delle conseguenze pregiudizievoli dell'illecito e la diversità trova ragionevole spiegazione nella differenza delle fattispecie disciplinate giacché le prestazioni erogate dall'Inail sono dovute in dipendenza dal semplice verificarsi dell'infortunio mentre il risarcimento da responsabilità civile presuppone la configurabllità di un illecito e l'accertamento della colpevolezza;
la censura, che pretende di contestare solo genericamente mediante una critica alle scelte istruttorie dei giudici di merito,il presupposto dell'obbligo risarcitorio riconosciuto dalla sentenza impugnata, muove, sostanzialmente, dall'erroneo assunto della omogeneità della funzione dell'indennizzo dell'INAIL rispetto al risarcimento del danno civilistico;
questa Corte di cassazione ha affermato che i n tema di prova della congruità dell'indennità corrisposta dall'INAIL al lavoratore nel giudizio di regresso intentato nei confronti del datore di lavoro, poiché l’Istituto svolge la sua azione attraverso atti emanati a conclusione di procedimenti amministrativi, tali atti, come attestati dal direttore della sede erogatrice, sono assistiti dalla presunzione di legittimità propria di tutti gli atti amministrativi, che può venir meno solo di fronte a contestazioni precise e puntuali che individuino il vizio da cui l'atto in considerazione sarebbe affetto e offrano contestualmente di provarne il fondamento;
pertanto, in difetto di contestazioni specifiche, deve ritenersi che la liquidazione delle prestazioni sia avvenuta nel rispetto dei criteri enunciati dalla legge, e che il credito relativo alle prestazioni erogate sia esattamente indicato in sede di regresso sulla base della certificazione del direttore della sede (Cass. n. 21540 del 2007; 11617 del 2010; 15716 del 2010; 1841 del 2015);
la statuizione impugnata non è stata censurata attraverso la concreta e specifica enunciazione di vizi specifici del procedimento amministrativo di liquidazione dell'indennizzo e la censura svolta si risolve nella prospettazione di mere ragioni di dubbio sulla correttezza delle valutazioni rese in quella sede e sulla critica alla non ammissione di una c.t.u. medico legale, per cui deve rilevarsi che la sentenza impugnata ha correttamente interpretato ed applicato le norme di legge indicate nella rubrica del motivo; il ricorso va, dunque, rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità devono essere poste a carico del ricorrente, in applicazione del criterio della soccombenza;
sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2019