Cassazione Penale, Sez. 3, 11 febbraio 2019, n. 6361 - Violenze sul luogo di lavoro: condanna di un datore di lavoro




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAMACCI Luca - Presidente -
Dott. CERRONI Claudio - Consigliere -
Dott. REYNAUD Gianni Filippo - Consigliere -
Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -
Dott. ZUNICA Fabio - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
P.F., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 20-11-2017 della Corte di appello di Catanzaro;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Gaeta Piero, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
udito per la parte civile l'avvocato Ugo Ledonne, in sostituzione dell'avvocato Eduardo Florio, che depositava conclusioni scritte e conclusioni scritte.
udito per la ricorrente l'avvocato Paolo Pisani, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
 

 

Fatto

 


1. Con sentenza del 20 novembre 2017, la Corte di appello di Catanzaro confermava la sentenza del 18 giugno 2013, con cui il Tribunale di Cosenza aveva condannato P.F. alla pena di anni 1 e mesi 5 di reclusione in ordine al reato di cui all'art. 609 bis cod. pen., ritenuta l'ipotesi di minore gravità, per aver costretto T.O. a subire atti sessuali, abusando del suo ruolo di datore di lavoro, toccandole il seno e il sedere, baciandola sulla bocca, mettendole le mani dentro il reggiseno e nello spacco della gonna e appoggiando con forza la mano della ragazza sui suoi pantaloni all'altezza del pene, fatti commessi in (OMISSIS) tra il (OMISSIS).
L'imputato veniva altresì condannato al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile, T.O., da liquidarsi in separata sede.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello calabrese, P., tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
Con il primo, la difesa censura la valutazione di attendibilità della persona offesa, osservando che la versione dei fatti fornita dalla T. era risultata quantomeno ambigua, per cui la Corte di appello avrebbe dovuto prendere atto delle incongruenze e delle contraddizioni del suo racconto, peraltro segnalate dalla difesa, e pervenire a un giudizio di assoluzione nei confronti dell'imputato.
Con il secondo motivo, viene contestato il giudizio sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, rilevandosi che la T. non aveva mai manifestato il proprio dissenso in modo che P. potesse rendersene conto, il che consentiva di affermare il difetto di prova del dolo del reato.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della qualificazione giuridica dei fatti, lamentando in particolare la mancata applicazione dell'art. 56 cod. pen., avendo la stessa T. descritto i comportamenti dell'imputato, pur nella sua narrazione ondivaga, più in termini di tentativo che di fattispecie consumata.
Con il quarto motivo, infine, la difesa deduce la mancata applicazione dell'art. 660 cod. pen., evidenziando che la condotta dell'imputato, in quanto priva di finalità di concupiscenza, andava al più ricondotta non nell'ipotesi ex art. 609 bis cod. pen., ma in quella meno grave prevista dall'art. 660 cod. pen..
 

 

Diritto

 


Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
1. Iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che, a differenza di quanto dedotto dalla difesa, la valutazione di attendibilità della persona offesa non presenta vizi di legittimità rilevabili in questa sede.
Ed invero le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus argomentativo unitario, hanno operato una disamina unitaria delle dichiarazioni rese da T.O., rimarcandone la coerenza e precisione, avendo la persona offesa descritto in maniera chiara e puntuale i singoli episodi di cui il suo datore di lavoro, P.F., si è reso autore nei suoi confronti, sia all'interno della pasticceria dove la donna lavorava, sia in contesti esterni, come ad esempio l'8 marzo 2008, in occasione del servizio di catering organizzato al Museo del Presente di Rende, allorquando l'imputato si avvicinava alla T. e, approfittando dello spacco della gonna, le toccava le gambe e il sedere, facendo battute sul fatto che ella indossasse il reggicalze.
Tale episodio faceva seguito ad altri analoghi verificatisi nei giorni precedenti nel laboratorio di pasticceria gestito da P., il quale, in distinte occasioni, si era lanciato in toccamenti nelle zone intime (seno, sedere, cosce) della sua dipendente, conditi ogni volta da apprezzamenti fisici, spesso volgari.
Il racconto della T., oltre a essere intrinsecamente credibile in quanto lineare e privo di enfatizzazioni o manifestazioni di astio nei confronti di P., ha trovato inoltre significativi riscontri nelle dichiarazioni della teste Tr.Ve., che aveva assistito alle molestie subite dalla persona offesa a Rende, oltre che del teste B.E., che vide una volta la T. entrare nell'ufficio di P., per poi uscirne dopo poco infuriata, dicendo, rivolta al datore di lavoro, che avrebbe chiamato il suo ragazzo perchè lui le aveva messo le mani addosso. Lo stesso fidanzato della persona offesa, M.M., ha riferito di essere stato messo al corrente dalla T. delle molestie subite e che il (OMISSIS), all'indomani dell'episodio del museo, vi fu un incontro con P., nel quale la persona offesa e il fidanzato gli comunicarono l'intenzione di denunciarlo.
Peraltro, il fatto che P. non fosse affatto nuovo a certi comportamenti con le sue dipendenti è stato confermato anche dalla teste Santina Lupo, la quale ha dichiarato di essere stata ella stessa destinataria di attenzioni sessuali da parte del suo datore di lavoro, cui ogni volta ha dovuto opporre una ferma reazione.
In ordine a questo aspetto, peraltro, i giudici di merito hanno evidenziato, con argomentazione tutt'altro che illogica, come non fosse affatto paradossale che le dipendenti della pasticceria siano rimaste a lavorare nonostante fossero ben note nell'ambiente le avances del datore di lavoro, posto che il tratto comune della vicenda è costituito proprio dall'avere l'imputato agito in quel modo approfittando della condizione di bisogno economico delle sue lavoratrici e della loro necessità di conservare il lavoro, in un contesto economico non certo florido. A fronte di un solido apparato motivazionale, coerente con gli esiti probatori e privo di elementi di irrazionalità, la difesa, anche in questa sede, si è limitata a proporre una valutazione alternativa dei fatti non ammissibile nel giudizio di legittimità, anche perchè fondata su una lettura parziale del materiale istruttorio.
La sentenza impugnata, all'esito di una disamina attenta e non frammentaria delle prove acquisite, ha in tal senso rimarcato come le singole frasi estrapolate dalla difesa, una volta inserite nel ben più ampio contesto narrativo in cui erano state pronunciate, perdevano completamente il significato che le si voleva attribuire, rivelando in tal modo l'inconsistenza della ricostruzione difensiva.
Di qui la manifesta infondatezza del primo motivo, in cui è parimenti mancato un adeguato confronto con le pertinenti considerazioni dei giudici di merito.
2. Le restanti censure difensive possono essere affrontate in maniera unitaria, concernendo le stesse, sotto profili distinti ma tra loro sovrapponibili, la qualificazione giuridica dei fatti, aspetto sul quale la sentenza impugnata resiste ampiamente alle obiezioni difensive.
2.1. In ordine all'elemento soggettivo del reato, la Corte di appello, con motivazione non illogica, ha sottolineato come il dissenso della T. fosse ben noto a P., dal momento che la donna, sin dal primo momento, si era ripetutamente lamentata dei suoi approcci, senza che l'imputato si curasse del mancato consenso della persona offesa, approfittando anzi dei momenti in cui lei aveva le mani momentaneamente impegnate per partire con i suoi toccamenti.
La differente valutazione difensiva, anche in tal caso, risulta disancorata da una disamina completa delle dichiarazioni della persona offesa e dei testi escussi, dovendosi escludere profili di ambiguità della narrazione della T., avendo in proposito la Corte territoriale correttamente osservato che, se talora la reazione della donna non fu brutale, fu solo perchè la stessa aveva interesse a conservare il posto di lavoro appena trovato, fermo restando comunque che, anche prima dello scontro del (OMISSIS), da parte della vittima non ci fu mai alcuna forma di accondiscendenza alle iniziative a sfondo sessuale di P..
2.2. Correttamente, inoltre, i giudici di merito hanno escluso che la condotta dell'imputato si sia arrestata alla soglia del tentativo, posto che la gran parte delle avances di P. sono state portate a compimento, come il (OMISSIS) quando toccò il seno della T., o come il 7 marzo quando spinse la mano della donna in corrispondenza del suo organo sessuale, o come in occasione dell'episodio dell'(OMISSIS) durante il servizio di catering a Rende, quando toccò le cosce e il sedere della donna, dopo aver infilato la mano sotto la sua gonna.
Ciascuno di questi episodi si colloca pienamente nell'ambito del reato consumato e non tentato, dovendosi piuttosto evidenziare che, nonostante la pluralità dei fatti, è stata contestata una sola fattispecie, rispetto alla quale peraltro non è stato benevolmente riconosciuto neanche il vincolo della continuazione interna, il che rende ancor più irrilevante la considerazione che altre avances dell'imputato, diverse da quelle descritte, si siano arrestate alla soglia del delitto tentato.
2.3. Allo stesso modo, infine, devono ritenersi manifestamente infondate le censure difensive sulla mancata configurabilità del reato di molestia di cui all'art. 660 cod. pen., risultando le condotte poste in essere da P. inquadrabili nella più grave fattispecie ex art. 609 bis cod. pen., stante l'invasività dei gesti compiuti e la conseguente compromissione della sfera sessuale della vittima, costretta sua malgrado a subire le manifestazioni di concupiscenza dell'imputato.
3. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto nell'interesse di P. deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento e di provvedere altresì alla refusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile, liquidate nei termini di cui al dispositivo.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile T.O., che liquida in complessivi Euro tremila, oltre ad accessori di legge e spese generali, con distrazione in favore dello Stato.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2019