Cassazione Penale, Sez. 6, 16 settembre 2019, n. 38260 - Reato di peculato del dirigente che paga le sanzioni inflitte ad amministratori e dirigenti per violazioni in materia di sicurezza sul lavoro e ambientali


Presidente: PETRUZZELLIS ANNA Relatore: BASSI ALESSANDRA Data Udienza: 13/06/2019

 

Fatto

 


1. Con il provvedimento in epigrafe, il Tribunale di Palermo, sezione specializzata per il riesame, all'esito del giudizio ex art. 324 cod. proc. pen., ha confermato il decreto del 24 gennaio 2019 con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo ha disposto nei confronti di M.C. il sequestro preventivo ex artt. 322-ter e 640-quater cod. pen., anche per equivalente, di beni per un valore complessivo di 57.278,20 euro, pari al profitto dei reati di peculato ascrittigli sub capi a), b), c), d), e) ed f) della richiesta del P.M. depositata il 28 settembre 2018 nonché di beni nella disponibilità del predetto per un valore complessivo di 6.500,00 euro, pari al profitto del reato di peculato di cui al capo a) della richiesta del P.M. trasmessa il 27 dicembre 2018. Mette conto di precisare che, con riguardo alle contestazioni provvisorie di cui alla prima richiesta del P.M., M.C. - dirigente dell'area finanza e bilancio della R.A.P. S.p.A., società in house del comune di Palermo (incaricata dei servizi e delle attività connesse alla tutela dell'igiene e della sicurezza ambientale) - è indagato di avere concorso con altri nell'appropriazione di somme di cui aveva la disponibilità per ottenere l'estinzione dei reati contravvenzionali attribuiti a soggetti che rivestivano cariche all'interno della medesima società, segnatamente i coindagati R.D. (Presidente del C.d.A. di tale società), F.L. (dirigente dell'area manutenzione strade), L.C. (delegato per la sicurezza) ed i capisquadra G.M., A.R. e R.S.. In relazione alla seconda richiesta del P.M. a fondamento dell'ablazione della somma di 6.500 euro, il ricorrente è indagato di un'ulteriore ipotesi di peculato commessa nel gennaio 2018 per avere destinato risorse della R.A.P. S.p.A. al pagamento della sanzione pecuniaria applicata in misura ridotta da A.R.P.A. Sicilia, ai fini dell'estinzione di contravvenzioni attribuite al R.D. e ad altri dirigenti della società.
In estrema sintesi, secondo l'ipotesi d'accusa, M.C., approfittando della veste dirigenziale ricoperta, avrebbe distratto risorse della società ai fini del pagamento delle sanzioni pecuniarie inflitte ad amministratori e dirigenti persone fisiche per violazioni in materia di sicurezza sul lavoro e ambientali danti luogo a responsabilità penale personale dei singoli addetti.
1.1. Il Tribunale ha preliminarmente rilevato come il Gip abbia poggiato la ritenuta sussistenza del fumus boni iuris alla luce delle seguenti considerazioni: a) che, come sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 340 del 2001, quanto alle sanzioni amministrative a carico dei dipendenti e degli amministratori, non opera un generale principio di estensione della responsabilità o della solidarietà dell'ente; b) che la condotta di "distrazione" rientra a pieno titolo nel peculato ex art. 314 cod. pen.; c) che, in capo all'indagato sussiste la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio, dovendo essere riconosciuta tale veste anche a chi operi in società per azioni la cui attività sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche seppur con strumenti privatistici.
1.2. Dopo avere sunteggiato i motivi di ricorso, il Collegio siciliano ha rilevato come la valutazione circa la sussistenza del fumus commissi delieti debba essere compiuta sul piano della congruità e serietà degli elementi rappresentati a far sussumere il fatto concreto nella fattispecie astratta ravvisata, ma non consente di apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali. Tanto premesso, il Tribunale ha posto in luce: a) come i pagamenti concernessero sanzioni di natura non amministrativa ma penale, riferibili in via esclusiva alle persone fisiche responsabili degli illeciti; b) come il d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, non preveda fra i reati-presupposto della responsabilità dell'ente le contravvenzioni contestate ai dipendenti e dirigenti della R.A.P. nel caso in esame; c) come l'effetto liberatorio nei confronti del contravventore derivante dal pagamento anche effettuato da un terzo non si fondi su un meccanismo di natura premiale, legato all'atteggiamento soggettivo del contravventore, ma solo e soltanto sulla rimozione del pericolo e l'ottenimento della monetizzazione dell'illecito; d) come sia inconferente il richiamo difensivo alla disciplina del pagamento delle spese legali a favore del dipendente sottoposto a giudizio per responsabilità civile, penale o amministrativa in relazione a fatti o atti connessi al servizio, atteso che la possibilità dell'accollo da parte dell'ente di appartenenza delle spese sostenute per la difesa in giudizio è esclusa in caso di dolo o colpa grave dell'autore della violazione ed opera nel solo caso di sentenza di assoluzione o comunque di esito positivo del giudizio, situazione stimata insussistente nella specie; e) come nessuna norma legittimi l'ente al pagamento delle sanzioni in oggetto, in quanto volte ad evitare al singolo contravventore la sottoposizione a processo penale. Sulla base di tali considerazioni, il Collegio palermitano ha concluso per la sussistenza del fumus della sottrazione di denaro dell'ente da parte dell'indagato e dei concorrenti al fine di soddisfare un interesse squisitamente personale dei dipendenti dell'ente.
Con specifico riferimento al reato di cui al capo i), il Collegio ha aggiunto come la sottrazione in via definitiva dei fondi pubblici della R.A.P. per la soddisfazione di interessi esclusivamente privati (a pagamento della sanzione irrogata per contravvenzioni ex d.lgs 19 dicembre 1994, n. 758), nella consapevolezza della illiceità del comportamento, sia palesata dalla circostanza che M.C., nell'ordinare pagamento di cospicue somme prelevate dalla cassa dell'ente, appuntava di suo pugno il riferimento ad una delibera mai adottata (in relazione alla quale è contestato il delitto di cui agli artt. 479 e 493 cod. pen. di cui ai capi g) e h). Il pagamento veniva pertanto disposto in assenza di un vaglio dell'organo di amministrazione, senza alcuna verifica circa l'esistenza di norme che lo giustificassero ed in mancanza di una previa valutazione circa la rispondenza dell'erogazione all'interesse della società.
Quanto poi ai reati di cui capi d), e) ed f), il Tribunale ha posto in evidenza come M.C. - nella qualità di apicale dell'ente - ordinasse il rimborso delle somme che i dipendenti contravventori (segnatamente i capi-squadra dei cantieri in cui erano state accertate le violazioni) avevano già pagato, "per coerenza" rispetto al pagamento delle sanzioni, ben più elevate, applicate nei confronti dei soggetti apicali. 
1.3. Il Giudice della impugnazione cautelare ha svolto analoghe considerazioni in relazione all'incolpazione di peculato di cui al capo i) - oggetto di un'ulteriore richiesta di sequestro del pubblico ministero del 27 dicembre 2018 -, evidenziando come M.C. ed i coindagati abbiano versato somme dell'ente per estinguere reati contravvenzionali in materia di tutela ambientale, per i quali il d.lgs n. 152 del 2006 prevede una procedura identica a quella del d.lgs n. 758 del 1994. Al riguardo, ha rilevato come, nella seduta del 29 dicembre 2017, il collegio - allo scopo di evitare che l'Arch. R.D. perdesse la possibilità di avvalersi beneficio di cui avrebbe goduto nel pagare la sanzione in forma ridotta entro il termine di trenta giorni - desse mandato al M.C. di provvedere a detto pagamento ed incaricasse contestualmente il dottor G., responsabile delle risorse umane per la "R.A.P. S.p.A.", di avviare un'attività di accertamento in ordine alle responsabilità ascritte ai contravventori ai fini dell'avvio delle azioni di rivalsa; come quest'ultimo, sentito sommarie informazioni il 30 ottobre 2018, abbia peraltro chiarito di non avere avuto alcuna competenza per esprimersi in merito agli illeciti penali. Anche rispetto a tale capo d'incolpazione, il Tribunale ha dunque ritenuto sussistente il fumus della distrazione delle somme dalle finalità dell'ente, destinate a soddisfare gli interessi di natura squisitamente personale degli autori della violazione (id est evitare il pagamento della sanzione ed anche il processo penale), prospettando solo apparentemente azioni di rivalsa nei confronti dei trasgressori.
1.4. Con specifico riguardo alla posizione del M.C., il Collegio palermitano ha ancora notato come l'indagato svolgesse funzioni dirigenziali nell'ambito dell'azienda a capitale pubblico del Comune di Palermo occupandosi proprio dell’area bilancio e finanze, come egli avesse pertanto una conoscenza specifica circa i limiti e le condizioni dell'utilizzo delle risorse economiche della società e non potesse ignorare che i pagamenti non pertenevano all'attività dell'ente, essendo d'altronde inescusabile l'errore su norma extrapenale.
1.5. In relazione alla qualificazione giuridica dei fatti, il Tribunale ha fatto richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il peculato è integrato anche dalla condotta di "distrazione" allorché essa avvenga, come nel caso di specie, per soddisfare meri interessi privati, rimarcando altresì come debba ritenersi contraria ai principi di legalità e di efficienza dell'azione amministrativa la prassi di sostenere da parte dell'ente l'esborso delle somme di denaro concernenti le sanzioni irrogate alle persone fisiche in un procedimento penale, con ciò deresponsabilizzando i dipendenti rispetto alle conseguenze sanzionatorie delle violazioni da esse commessi nell'espletamento del servizio ed incentivandoli nell'illecito. 
2. Nel ricorso a firma del difensore di fiducia, M.C. chiede l'annullamento del decreto di sequestro denunciando l'erronea applicazione di legge in relazione agli artt. 314 cod. pen., 20 e seguenti d.lgs 19 dicembre 1994, n. 758, e 318-bis e seguenti d.lgs 3 aprile 2006, n. 152, 25-septies e 25- undecies d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, 6, comma 3, l. 24 novembre 1981, n. 689, 67 D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268, e 197 cod. pen.
A sostegno della doglianza, il ricorrente evidenzia come gli artt. 20 e seguenti d.lgs 19 dicembre 1994, n. 758, e gli artt. 318-bis e seguenti d.lgs 3 aprile 2006, n. 152, consentano a colui il quale si sia reso responsabile di taluna delle contravvenzioni previste da dette leggi di estinguere il reato mediante una procedura amministrativa implicante, da un lato, l’ottemperanza alle prescrizioni impartite dalla polizia giudiziaria al fine di eliminare le violazioni riscontrate, dall'altro lato, il pagamento di una somma a titolo di sanzione amministrativa. In tale procedimento, il datore di lavoro viene direttamente "responsabilizzato" per il fatto del dipendente, così come disposto dall'art. 318-terd.lgs n. 68/2015.
La difesa sottolinea come l’ente/persona giuridica non sia soggetto estraneo alla procedura di "monetizzazione" dell'illecito, atteso che, da un lato, le violazioni in esame scaturiscono - di norma - da problematiche coinvolgenti direttamente l’organizzazione aziendale, le risorse dell’impresa ed i limiti della struttura lavorativa, più che da un fatto personale del singolo agente; dall’altro lato, come sia del tutto pacifico che detti reati si estinguano anche in caso di pagamento della sanzione amministrativa da parte del datore di lavoro o persona giuridica.
Il ricorrente rileva inoltre: a) come non possa essere trascurata la circostanza che la normativa antinfortunistica e le relative prescrizioni si rivolgono quasi interamente al datore di lavoro/imprenditore ed alla sua organizzazione lavorativa e struttura gerarchica; b) come per le violazioni più gravi sia addirittura prevista la responsabilità amministrativa degli enti; c) come l’art. 2049 cod. civ. stabilisca che i padroni e committenti sono responsabili per i fatti illeciti commessi dai loro domestici o commessi nell’esercizio delle loro incombenze; d) come la pubblica amministrazione sia civilmente responsabile per il fatto illecito dei propri dipendenti in presenza di un nesso di occasionalità necessaria tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate; f) come - a norma dell’art. 6, comma 3, legge 689 del 1981 - la persona giuridica o l’ente sia obbligato in solido con il proprio rappresentante o dipendente autore della violazione, non potendo ritenersi che detta solidarietà venga meno in caso di reati contravvenzionali, come invece ritenuto dal Tribunale del riesame; g) come - a norma dell’art. 67 d.P.R. n. 268 del 1987 - l’ente pubblico debba tenere esenti i propri dipendenti da costi legati procedimenti penali e civili, potendosi poi rivalere nei loro confronti; h) come l'art. 197 cod. pen. sancisca espressamente che gli enti forniti di personalità giuridica - salvo lo Stato e gli enti territoriali - sono obbligati al pagamento in caso di insolvibilità del proprio rappresentante, amministratore o dipendente che sia stato condannato, di tal che sussiste uno specifico interesse della persona giuridica al pagamento in forma ridotta della sanzione prevista dal procedimento amministrativo per evitare le maggiori sanzioni comminate nel processo penale, alle quali sarebbe comunque esposta in forza del predetto art. 197 cod. pen.
La difesa ha dunque concluso che il pagamento da parte della R.A.P. S.p.A. delle somme in contestazione era del tutto legittimo, dovuto e conforme al dettato normativo, e non in violazione di legge, ed ha pertanto insistito per l'annullamento del provvedimento di sequestro.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito esposte.
2. In via del tutto preliminare, deve essere rilevato come, contro i provvedimenti emessi in materia di sequestro preventivo o probatorio, il ricorso per cassazione sia ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692). Come ha avuto modo di chiarire la Corte costituzionale, la disparità di trattamento rispetto ai ricorsi avverso i provvedimenti in materia di misure cautelari personali non può ritenersi irrazionale o contraria ai principi di eguaglianza e di difesa sanciti dagli artt. 3 e 24 Cost. stante la diversa tutela apprestata dall'ordinamento ai beni della libertà personale e della libertà patrimoniale. Il Giudice delle leggi ha invero evidenziato l'eterogeneità dei valori attinti in via cautelare dall'A.G.: "da un lato, l'inviolabilità della libertà personale, e, dall'altro, la libera disponibilità dei beni, che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad essere coinvolti. Ciò comporta, dunque, la possibilità di costruire differentemente il "potere" del giudice di adottare le misure e, conseguentemente, la tipologia del controllo in sede di gravame, con i naturali riverberi che da ciò scaturiscono sul piano della difesa che gli interessati possono sviluppare" (Corte cost. n. 48/1994; n. 176/1994 e n. 229/1994). 
2.1. Ne discende che non possono essere coltivati nel ricorso per cassazione avverso l'ordinanza in tema di misure cautelari reali tutti quei vizi che, pur formalmente dedotti in termini di violazione di legge, si traducano in eccezioni concernenti la motivazione del provvedimento. Ciò salvo non trasmodino nella mancanza assoluta di motivazione - anche sotto la forma della motivazione meramente apparente - in relazione ai presupposti di legge sostanziale o processuale, sì da riverberare in un vizio ex art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen.
3. Definito il perimetro del controllo di legittimità in materia di sequestri, giudica il Collegio che nessuna violazione di legge sia ravvisabile nel provvedimento sottoposto al proprio scrutinio con specifico riguardo alla contestata sussistenza del fumus del delitto di peculato.
3.1. Mette conto di rilevare brevemente - ed in linea teorica - come la normativa in materia di sicurezza e di igiene del lavoro preveda una duplice tipologia di sanzioni, di natura amministrativa e penale, e come a tali profili di responsabilità possa aggiungersi la responsabilità civile dell'autore del fatto illecito nei confronti del soggetto che sia stato eventualmente danneggiato.
Non pare inoltre superfluo precisare che, in relazione agli illeciti di natura amministrativa, trova applicazione l'art. 6, commi 3 e 4, della legge 24 novembre 1981, n. 689, là dove prevede la responsabilità della persona giuridica (datore di lavoro) al pagamento della sanzione in solido con l'autore - persona fisica - della violazione (responsabile legale o mero dipendente dell'ente) che abbia commesso l'illecito nell'esercizio delle proprie funzioni o incombenze, salvo il regresso nei confronti di quest'ultimo.
Diversamente, quanto ai reati contemplati dalla normativa de qua, versandosi in materia penale - in relazione alla quale la responsabilità è personale -, l'ente (datore di lavoro) non può rispondere penalmente delle contravvenzioni commesse dal proprio legale rappresentante o dipendente, salvo non ricorrano i presupposti per la responsabilità "amministrativa" derivante da reato ai sensi del d.lgs 8 giugno 2001, n. 231 (segnatamente ex art. 25-septies, per omicidio o lesioni gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).
La persona giuridica può invece essere chiamata a rispondere sul piano civile delle conseguenze pregiudizievoli provocate dal proprio addetto in forza della previsione dell'art. 2049 cod. civ., che contempla espressamente la responsabilità - per fatto altrui - del datore di lavoro per i danni cagionati dai propri dipendenti nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti. 
Con specifico alla responsabilità civile della P.A. per il reato commesso dal dipendente, questa Corte ha nondimeno avuto modo di precisare che l'ente può essere chiamato a rispondere civilmente soltanto qualora, tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate, sussista un rapporto di occasionalità necessaria, che - ad esempio - ricorre quando il soggetto compie l'illecito sfruttando comunque i compiti svolti, anche se ha agito oltre i limiti delle sue incombenze e persino se ha violato gli obblighi a lui imposti, dovendo essere escluso detto rapporto solo quando il dipendente, nello svolgimento delle mansioni affidategli, commette un illecito penale per finalità di carattere personale, di fatto sostituite a quelle dell'ente pubblico di appartenenza ed, anzi, in contrasto con queste ultime (Sez. 6, n. 44760 del 04/06/2015, Cantora e altri, Rv. 265356).
Va ancora aggiunto come la persona giuridica possa essere chiamata a rispondere del pagamento della sanzione pecuniaria applicata al proprio legale rappresentante, amministratore o dipendente ai sensi dell'art. 197 cod. pen., allorché si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole ovvero commesso nell'interesse dell'ente.
3.2. E' ancora necessario premettere come, con riguardo ai reati contravvenzionali previsti dal d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758 - che vengono appunto in rilievo nella specie -, il legislatore abbia previsto una specifica procedura amministrativa di estinzione, subordinata al verificarsi delle due condizioni dell'adempimento tempestivo della prescrizione impartita dall'organo di vigilanza e del pagamento in sede amministrativa, nel termine di trenta giorni indicato dall'art. 21 comma 2 del decreto legislativo citato, di una somma di denaro pari al quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione commessa.
Costituisce principio di diritto ormai acquisito che, in relazione alle contravvenzioni in materia di sicurezza e di igiene del lavoro, l'adempimento alle prescrizioni impartite dall'organo di vigilanza e il pagamento della sanzione amministrativa effettuato, ai sensi dell'art. 24 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, dal legale rappresentante della società faccia scattare l'effetto estintivo a favore del contravventore, amministratore o dipendente dell'ente all'epoca dell'accertamento (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, P.M. in proc. Cavaliere, Rv. 270148; Sez. 3, n. 18914 del 15/02/2012, Simone, Rv. 252394). Ed invero, una diversa interpretazione che impedisse il prodursi dell'effetto estintivo della contravvenzione in caso di pagamento della sanzione da parte dell'amministratore della persona giuridica, in luogo del contravventore persona fisica si risolverebbe in un'irragionevole limitazione dell'ambito di operatività della causa speciale di estinzione del reato, chiaramente introdotta dal legislatore allo scopo di interrompere l'illegalità e di ricreare le condizioni di sicurezza sul lavoro previste dalla normativa in materia a protezione dell'incolumità dei lavoratori, facendo passare in secondo piano l’interesse dello Stato alla punizione del colpevole.
E' dunque pacifico che l'ente possa legittimamente provvedere al (tempestivo) pagamento in sede amministrativa della somma di denaro (pari al quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione commessa) in luogo del proprio addetto o soggetto apicale, cosi da determinare - qualora ricorra anche l'ulteriore condizione dell’adempimento tempestivo alla prescrizione impartita dall’organo di vigilanza - l’effetto estintivo del reato contravvenzionale contestato.
Il che tuttavia non significa che la persona giuridica sia solidalmente responsabile al pagamento della sanzione amministrativa funzionale all'estinzione del reato contravvenzionale - come erroneamente sostenuto dal ricorrente -, là dove la procedura - certamente amministrativa - di estinzione del reato contravvenzionale, nell'ambito della quale può legittimamente inserirsi anche la persona giuridica, non trasforma l'illecito penale in un illecito amministrativo e non vanifica, pertanto, la regola costituzionalmente presidiata dall'art. 27, comma primo, della nostra Carta Fondamentale, trattandosi di contravvenzioni rispetto alle quali non è contemplata la responsabilità "amministrativa" dell'ente ex d.lgs n. 231/2001.
3.3. Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la diretta attivazione della persona giuridica nell'ambito della procedura estintiva dell'illecito penale prevista dall'art. 24 d.lgs. 19 dicembre 1994, n. 758, non può dunque ritenersi necessitata dalla previsione di una responsabilità (penale) in solido, ma può dipendere da regole interne all'ente ovvero dallo specifico rapporto contrattuale che lega ad esso il dipendente.
Deve di contro convenirsi con la prospettazione della difesa, là dove ha posto in evidenza come, in capo alla persona giuridica, possa ravvisarsi uno specifico interesse all'estinzione del reato contravvenzionale commesso dal proprio addetto nello svolgimento dell'attività lavorativa per conto dell'ente stesso in relazione ai già sopra delineati profili di responsabilità civile per il fatto del dipendente, salva sempre la possibilità di rivalsa nei confronti di quest'ultimo ove ne ricorrano i presupposti.
3.4. Sotto diverso aspetto, occorre ancora rilevare che, ferma la possibilità per l'ente di provvedere al pagamento della sanzione amministrativa con valenza estintiva della contravvenzione elevata al proprio dipendente, l'impiego di risorse economiche della persona giuridica a detto fine presuppone l'adozione di un atto formale da parte dell'ente che deliberi l'uscita di cassa, seguendo le procedure interne previste dal proprio statuto o comunque dal regolamento interno nonché previa verifica dei relativi presupposti. Come si è testé delineato, la responsabilità civile dell'ente per il fatto del proprio dipendente ex art. 2049 cod. civ. e l'obbligazione civile ex art. 197 cod. pen. non discendono automaticamente per il mero rapporto lavorativo fra ente e addetto, ma postulano la sussistenza delle specifiche condizioni sopra delineate (un rapporto di occasionalità necessaria fra l'illecito e le mansioni svolte dall'addetto, quanto alla responsabilità civile, la violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivesta dal colpevole ovvero la commissione nell'interesse dell'ente, l'obbligazione civile al pagamento della sanzione pecuniaria).
4. Delineate le coordinate normative ed ermeneutiche che regolano la materia sub iudice e passando alla disamina del caso di specie, deve rilevarsi come, in linea teorica, la R.A.P. S.p.A., società in house del comune di Palermo (incaricata dei servizi e delle attività comunque connesse alla tutela dell'igiene e della sicurezza ambientale), potesse legittimamente impegnare risorse dell'ente per provvedere al pagamento della sanzione in forma ridotta prevista ai fini dell'estinzione dei reati attribuiti ai propri dipendenti. Si trattava difatti di contravvenzioni derivanti da violazioni della normativa in materia di infortuni sul lavoro strettamente connesse all'attività della società, contestate a soggetti che rivestivano cariche all'Interno della medesima società (segnatamente ai coindagati R.D., Presidente del C.d.A. di tale società, a F.L., dirigente dell'area manutenzione strade, a L.C., delegato per la sicurezza) ed ai capisquadra G.M., A.R. e R.S., dalle quali avrebbero potuto discendere le responsabilità dell'ente ai sensi degli artt. 2049 cod. civ. e 197 cod. pen., tali da far sorgere in capo alla società un interesse legittimo - sebbene non un obbligo - al pagamento tempestivo delle sanzioni in forma ridotta con valenza estintiva dell'illecito.
4.1. Per quanto si è sopra già chiarito - e come correttamente evidenziato anche dal Collegio della cautela (v. pagina 12 del provvedimento in verifica) -, la destinazione all'estinzione di tali contravvenzioni delle risorse dell'ente, vincolate alla realizzazione di un interesse pubblico (segnatamente allo svolgimento di servizi connessi alla tutela dell'igiene e della sicurezza ambientale) presupponeva nondimeno l'adozione di un provvedimento formale da parte dell'organo d'amministrazione, previa verifica dell'esistenza di norme interne legittimanti la fuoriuscita di cassa e di uno specifico interesse della società alla pronta estinzione degli illeciti (connesso ai profili di responsabilità civile - e non penale - sopra delineati).
Provvedimento formale che, come ineccepibilmente chiarito dal Giudice a quo, nella specie, non risulta essere mai stato deliberato dalla persona giuridica, là dove M.C. ordinava il pagamento di cospicue somme prelevate dalla cassa dell'ente appuntando di suo pugno il riferimento alla delibera adottata dal C.d.A. della R.A.P. S.p.A. nella seduta del 27 ottobre 2016, in effetti mai adottata (da cui la contestazione di falso di cui ai capi g) ed h).
4.2. Correttamente il Collegio palermitano ha pertanto stimato sussistente il fumus del reato di peculato posto a base del provvedimento ablativo, là dove ha ritenuto - tenuto conto delle emergenze processuali sin qui acquisite al procedimento e rammentate nell'ordinanza in disamina - che M.C., nell'ordinare l'estinzione di reati contravvenzionali contestati ai dipendenti della società con l'impiego di risorse dell'ente, abbia conferito al denaro pubblico - di cui aveva la disponibilità giuridica in virtù dell'ufficio ricoperto - una destinazione non conforme agli scopi di pubblico interesse ad esso sottostanti, stante l'assenza di un provvedimento formale ricognitivo dell'esistenza di un obbligo giuridico o comunque di un interesse, concreto ed effettivo, della persona giuridica a provvedere in tale senso.
4.3. Ineccepibile si appalesa anche il precipitato giuridico del ragionamento seguito dal Tribunale: secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, ai fini del peculato, il concetto di "appropriazione" comprende anche la condotta di "distrazione", in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impadronirsene (ex plurimis, da ultimo, Sez. 6, n. 25258 del 04/06/2014, Pg in proc. Cherchi e altro, Rv. 260070).
5. Dal rigetto del ricorso consegue de iure la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
 

 

P.Q.M.

 


rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 13 giugno 2019