Cassazione Penale, Sez. 7, 12 novembre 2019, n. 45790 - Rimozione dell'efficacia del dispositivo del cronotachigrafo


 

 

Presidente: TARDIO ANGELA Relatore: FIORDALISI DOMENICO Data Udienza: 20/06/2019

 

Fatto

 

1. M.A. ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Perugia dell'8 giugno 2018, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Terni del 17 dicembre 2013, con la quale era stata condannata alla pena di mesi sei di reclusione, in ordine al delitto di rimozione di cautele contro infortuni sul lavoro, ai sensi dell'art. 437 cod. pen., perché il 12 luglio 2012, in qualità di legale rappresentante della M.A. Group s.r.l., rimuoveva dolosamente l'efficacia del dispositivo del cronotachigrafo dal veicolo marca Iveco, modello Magirus in uso alla predetta società, provvedendo ad acquistare e a far inserire nel predetto veicolo un interruttore, posizionato sulla plancia dei comandi del mezzo, ed un connettore, installato nel vano porta oggetti, azionando i quali veniva interrotto il flusso dei dati diretti al cronotachigrafo e provenienti dai sensori esistenti nel mezzo, così rendendo inservibile un apparecchio destinato a prevenire disastri o infortuni sul lavoro.
2. Denuncia la ricorrente inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza e vizio di motivazione della sentenza impugnata, perché la Corte di appello avrebbe erroneamente quantificato la pena applicata. La ricorrente non comprende quale sia stato il ragionamento del giudice di merito, il quale ha inteso applicare a lei la stessa pena applicata al coimputato, V.V., dipendente della sua società e autista del mezzo, il quale aveva dei precedenti penali e al quale era stata contestata la recidiva.
La ricorrente, inoltre, evidenzia come il giudice di secondo grado avrebbe offerto una motivazione per relationem, omettendo di seguire i principi giurisprudenziali espressi sul punto, secondo i quali non può ritenersi sufficiente il mero richiamo al provvedimento di primo grado, ma è necessario che il giudice qualifichi gli elementi indicati nel provvedimento richiamato e, dunque, dimostri di non avere immotivatamente aderito alla precedente sentenza, di cui è tenuto a lasciare traccia visibile nel provvedimento.
Il vizio di motivazione del provvedimento impugnato si evincerebbe anche dal fatto che il giudice di merito aveva erroneamente ritenuto che il cronotachigrafo sia uno strumento che consente all'autista di correre a velocità elevata e ad eludere i controlli, quando tale oggetto, montato solo su automezzi pesanti, serve invece per registrare e controllare la velocità e le soste del veicolo durante il percorso.
La ricorrente, infine, contesta l'accertata sussistenza dell'elemento soggettivo, quando dagli atti processuali non è possibile affermare che la stessa fosse stata consapevole delle modifiche accertate sul mezzo, tanto più che da tali modifiche non abbia tratto alcun profitto.
 

 

Diritto

 


1. Giova premettere che nel giudizio di cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura di elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice di merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482); né è sindacabile in questa sede, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti tra le dichiarazioni di persone informate dei fatti o coindagati, e la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
Sempre in premessa, va ricordato che la mancanza, l'illogicità e la contraddittorietà della motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate, in modo logico e adeguato, le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (in tal senso, conservano validità, e meritano di essere tuttora condivisi, i principi affermati da Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
2. Alla luce dei principi sopra indicati, la Corte ritiene che il ricorso non sia consentito in sede di legittimità, essendo costituito da mere doglianze in punto di fatto. Va evidenziato, in effetti, come le doglianze sollevate appaiono tese a sovrapporre un'interpretazione delle risultanze probatorie diversa da quella recepita dai decidendi di merito, più che a denunciare un vizio rientrante in una delle categorie individuate dall'art. 606 cod. proc. pen.
In particolare, il ricorrente non tiene conto della ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici di merito, secondo i quali M.A., anche per la posizione ricoperta nel contesto societario, si era interessata a praticare la fraudolenta installazione del congegno abusivo, che aveva il chiaro scopo di bloccare il funzionamento del cronotachigrafo e dei sistemi di sicurezza per consentire all'autista di eludere i controlli. La Corte territoriale, inoltre, ha evidenziato che la pena inflitta era stata qualificata nel minimo edittale, alla luce dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen.
La Corte, inoltre, ritiene che nel caso di specie non risulti alcuna motivazione per relationem, come erroneamente affermato dal ricorrente, in quanto il ragionamento esposto dai giudici di secondo grado appare autonomo.
3. In forza di quanto sopra, il ricorso appare inammissibile. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in euro 3.000,00, tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» (Corte cost. n. 186 del 13/06/2000).
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro alla cassa delle ammende.
Così deciso il 20/06/2019.