Cassazione Penale, Sez. 4, 12 novembre 2019, n. 45935 - Ilva. Momento di insorgenza della malattia da amianto e corretta individuazione delle responsabilità


 


Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: DOVERE SALVATORE Data Udienza: 13/06/2019
 

 

Fatto

 


1. La sentenza indicata in epigrafe attiene alle imputazioni elevate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto nei confronti di trenta soggetti che si erano succeduti nel ruolo di datore di lavoro o di dirigente nell'ambito dell'impresa proprietaria dello stabilimento siderurgico denominato Ilva e posto in Taranto.
Tali imputazioni erano state formulate nell'ambito di due distinti procedimenti. Quello recante il numero 2822/99 RGNR, concerneva la morte o la malattia professionale cagionate a sedici lavoratori che venivano correlati all'esposizione a una particolare miscela di elementi dannosi per la salute dei lavoratori, costituita da acidi tossici, apirolo, diossina, amianto, polveri sottili e sottilissime, carbone, silice, ferro, IPA, metalli pesanti, solidi e inerti, PCB, mercurio, anidride carbonica e fibrosanti.
Quello recante il numero 9968/09 RGNR concerneva l'imputazione del reato di cui agli artt. 437, co. 1 e 2 e 449 cod. pen., in relazione all'art. 434 cod. pen. e all'art. 2087 c.c. - per aver omesso di adottare cautele dirette ad evitare l'esposizione dei lavoratori al pericolo di inalazione di fibre di amianto, in tal modo cagionando il disastro costituito dall'insorgenza in ulteriori quindici lavoratori di malattie tumorali e conseguentemente dalla morte degli stessi -, nonché le imputazioni di omicidio colposo cagionato esponendo a polveri di amianto i citati lavoratori deceduti all'esito di malattia professionale (mesotelioma pleurico, mesotelioma peritoneale e cancro al polmone).
Con pronuncia emessa il 23.5.2014 il Tribunale di Taranto condannava a pena detentiva e al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili ventisette imputati (A.A., B.G., B.A., C.L., C.R., C.F., C.M., F.B., G.L., GA.G., G.G., L.M., M.M., M.T.V. M.A., M.G., M.N., N.P., N.S., R.F.A., R.A., R.R., S.E., SA.C., S.F., SP. Gi. e Z.G.), giudicandoli responsabili di omicidio colposo plurimo e del reato di cui all'art. 437 cod. pen., aggravato dal disastro colposo.
Veniva esclusa per tutti la sussistenza delle ascritte lesioni personali in danno dei lavoratori LF.G. e R.C. e degli omicidi in danno di OMISSIS; per l'omicidio in danno di P.V. veniva
dichiarata l'estinzione del reato per prescrizione; taluni imputati venivano assolti da specifici omicidi per non aver commesso il fatto; un imputato veniva assolto da tutti i reati ascrittigli perché il fatto non costituisce reato; per gli imputati R.E. e T.S. veniva dichiarata l'estinzione dei reati loro ascritti per morte del reo. Si infliggeva a ciascun condannato la pena ritenuta equa, si davano le connesse statuizioni accessorie e si pronunciava condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
In estrema sintesi, il Tribunale riteneva che "la irrefutabile esposizione ad amianto per anni connessa al tipo di mansioni espletate dai lavoratori; la spiegata e dimostrata validità della teoria della dose dipendenza che assegna rilevanza a tutte le esposizioni ad amianto ripetute nel tempo ai fini dell’insorgenza del mesotelioma, del suo sviluppo e quindi anche della minore durata in vita della vittima; la conferma delle conclusioni della detta teoria anche quando applicata ai singoli decessi, come più volte chiarito dai CC.TT. del P.M.; l’esclusione di fattori eziologici capaci di determinare da soli l’insorgenza della neoplasia in guisa tale da interrompere il nesso di causalità" rendessero "soddisfatte le condizioni che, in materia di credibilità logico razionale, sono state indicate dalle S.Ü. con la sentenza Franzese a proposito dell’utilizzo di regole statistiche in materia di nesso di causalità per ipotesi di responsabilità omissiva impropria".
La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, riformava parzialmente tale pronuncia, confermando la condanna dei soli SP.GI., A.A. e N.S., peraltro limitandola ad alcuni dei decessi originariamente loro attribuiti; con varietà di formule mandava taluni imputati assolti da tutti i reati rispettivamente loro ascritti; dichiarava non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati in ordine al reato di cui all'art. 437 cod. pen. perché estinto per prescrizione; per il M.G. ed il B.G. giungeva dichiarazione di estinzione dei reati per morte del reo.
Più nel dettaglio, e per quanto qui di interesse, la corte distrettuale ha mandato assolto lo SP.GI. dal reato di omicidio colposo in danno dell'A., dell'An., di AA. e di P.G. perché il fatto non sussiste e dal reato di omicidio colposo in danno di C.G., di I.N. e di Ch.A. per non aver commesso il fatto, rideterminando la pena al medesimo inflitta, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, in anni due e mesi otto di reclusione; ha dichiarato la pena interamente condonata; ha revocato le statuizioni civili connesse ai fatti per i quali ha pronunciato l'assoluzione ed ha confermato quelle concernenti i reati per i quali ha mantenuto ferma la condanna pronunciata in primo grado.
Ha poi assolto il N.S. dal reato di omicidio colposo in danno dell'A., dell'An., di AA. e di P.G. perché il fatto non sussiste e dal reato di omicidio colposo in danno di C.G., di I.N. e di Ch.A., di S.D. e di Ta.A. per non aver commesso il fatto, rideterminando la pena al medesimo inflitta, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, in anni due e mesi quattro di reclusione; ha dichiarato la pena interamente condonata; ha revocato le statuizioni civili connesse ai fatti per i quali ha pronunciato l'assoluzione ed ha confermato quelle concernenti i reati per i quali ha mantenuto ferma la condanna pronunciata in primo grado.
Infine, ha assolto l'A.A. dal reato di omicidio colposo in danno dell'A., dell'An., di AA. e di P.G. perché il fatto non sussiste e dal reato di omicidio colposo in danno di C.G., di I.N. e di Ch.A., di S.D. e di Ta.A. e di M.V. per non aver commesso il fatto, rìdeterminando la pena al medesimo inflitta, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, in anni due di reclusione, che sospeso condizionalmente; ha revocato le statuizioni civili connesse ai fatti per i quali ha pronunciato l'assoluzione ed ha confermato quelle concernenti i reati per i quali ha mantenuto ferma la condanna pronunciata in primo grado.
Per effetto di tali statuizioni, lo SP.GI. risulta esser stato condannato per l’omicidio colposo di S.D., di Ta.A., di DeC.P., di DeM. D., di C.M., di C.S., di R.A., di M.V., di C.G., di L.A. e di Pi.A.; il N.S. risulta esser stato condannato per l'omicidio colposo del DeC., del DeM., del C., del C., del R., del M., del C., del L. e del P., l'A.A. per l'omicidio colposo del DeC., del DeM., del C., del C., del R., del L. e del P. .
2. La Corte di Appello ha ritenuto che i lavoratori sopra menzionati sono deceduti perché ammalatisi di mesotelioma pleurico contratto per aver inalato fibre di amianto aerodisperse, durante il periodo in cui essi svolsero attività lavorativa presso lo stabilimento Ilva di Taranto.
Siffatto convincimento è stato espresso attraverso un'articolata motivazione, che trova i seguenti caposaldi:
a) lo SP.GI. e il N.S., che avevano ricoperto il ruolo di direttore dello stabilimento (rispettivamente dal 1978 al 31.12.1982 e dal 31.12.1982 al 31.12.1984) e l'A.A., che era stato vicedirettore dal 1983 al 31.12.1984, vicedirettore e direttore sino al 30.6.1987, avevano svolto in concreto funzioni dirigenziali;
b) la diagnosi di mesotelioma per i lavoratori S.D., di Ta.A., di DeC.P., di DeM. D., di C.M., di C.S., di R.A., di M.V., di C.G., di L.A. e di Pi.A. era da ritenersi certa, poiché l'affermazione difensiva, della indispensabilità degli esami immunoistochimici - e peraltro di esami eseguiti secondo le linee guida internazionali - è risultata superata dalla perizia eseguita dal dr. Bruno M. su incarico affidato dalla Corte medesima, seguendo criteri in ordine ai quali hanno convenuto gli stessi consulenti della difesa (valutazione sia morfologica che immunoistochimica);
c) le malattie erano state determinate dall'inalazione di fibre di amianto avvenute durante il periodo dì lavoro svolto presso lo stabilimento Ilva di Taranto; infatti, da un canto, sulla scorta di quanto riportato dal perito, risulta acclarato nella comunità scientifica che il mesotelioma è una malattia causata dall'amianto nell'80% dei casi, e nelle vicende in esame non vi è evidenza probatoria dell'azione di una delle cause alternative che danno vita al restante 20% di casi di mesotelioma (esposizione ad erionite, a fluoro-edenite, a radiazioni, a fattori genetici). Dall'altro, i materiali probatori rendono certo che le vittime furono esposte ad amianto durante l'attività lavorativa espletata presso lo stabilimento, nel quale era presente amianto friabile in notevole quantità. Per altro aspetto la Corte di Appello ha osservato che il III Italian Consensus Conferenze on Maignant Mesothelioma of thè Pleura, pubblicato nel 2015, sostiene che quando l'aumento dell'esposizione determina un aumento dell'incidenza di casi si verifica necessariamente una doppia anticipazione: l'anticipazione del tempo con il quale una determinata popolazione raggiunge un predeterminato livello di incidenza e l'anticipazione del tempo di verificazione di ogni singolo caso di malattia che si verifica all'interno di tale popolazione. Dato tale effetto acceleratore, la teoria della dose dipendenza consente di ritenere che ogni esposizione ha rilievo causale nell'aggravamento della malattia; con l'eccezione di quelle che si verificano successivamente alla conclusione del cd. periodo di induzione, la cui durata sechilo non è misurabile in modo diretto ma che la corte territoriale, sulla scorta di quanto sostenuto dal prof. Ma., ha comunque determinato, condividendo l'indicazione del perito per la quale l'insorgenza biologica del mesotelioma pleurico può collocarsi in un arco temporale tra 6 e 20 anni prima della diagnosi clinica. L'esperto ha tratto la conclusione che tutte le esposizioni precedenti di almeno 20 anni la diagnosi sono causalmente rilevanti mentre quelle cadenti negli ultimi 6-10 anni certamente non lo sono; per quelle comprese nel periodo intermedio (tra i venti ed i sei/dieci anni dalla diagnosi) "l'effetto è plausibile con criterio probabilistico". Applicando tali premesse la Corte di Appello ha attribuito i decessi degli undici lavoratori sopra menzionati allo SP.GI., al N.S. e all'A.A., con le variazioni sopra descritte.
d) infine la Corte di Appello ha ritenuto sussistente l'elemento soggettivo del reato, per la prevedibilità da parte degli imputati del carattere potenzialmente letale della inalazione di fibre di amianto e per la concreta possibilità di evitare l'esposizione dei lavoratori adottando le cautele prescritte dalla legge, stante la disponibilità sul mercato di idonei dispositivi di protezione collettivi ed individuali.
3. Ricorre per la cassazione della sentenza il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce, articolando i seguenti motivi:
3.1. Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla declaratoria di prescrizione pronunciata nei confronti di SP.GI., N.S. e A.A. in ordine al reato di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen.
Rileva il ricorrente che la corte distrettuale ha individuato erroneamente e senza adeguata motivazione il momento dal quale far decorrere la prescrizione del reato, facendolo coincidere con il tempo della insorgenza della malattia- infortunio (mesotelioma pleurico). Al contrario, il momento da prendere in considerazione è quello del decesso del soggetto passivo poiché è quello il momento in cui le conseguenze dannose del delitto sono giunte alla loro massima espressione ed il delitto si è consumato. A conforto del proprio assunto il ricorrente richiama quanto sostenuto da Cass. Sez. 1 n. 7941/2014, che con riferimento alla analoga fattispecie di cui all'art. 434, co. 2 cod. pen. ha affermato che nel reato aggravato dall'evento la prescrizione decorre dal momento in cui si verifica l'evento. Ovvero, è la conclusione del ricorrente, dal momento del decesso dei lavoratori. Applicando tale criterio il reato di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. come contestato ai predetti imputati non è prescritto.
Il vizio della motivazione viene ravvisato dal ricorrente laddove la Corte di Appello ha ritenuto che l'evento dell'omicidio colposo è la morte del lavoratore mentre quello della fattispecie di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. è l'insorgenza della malattia.
3.2. Analoghi vizi vengono lamentati a riguardo della dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato di cui all'art. 437, co. 1 cod. pen. come contestato a C.L..
3.3. Violazione di legge e vizio della motivazione viene denunciato anche in relazione alla assoluzione di R.F.A. Fabio Arturo, per essere essa fondata sulla ritenuta insussistenza di una posizione di garanzia del R.F.A., dedotta dalla previsione contenuta nel verbale del C.d.a. del 29.1.1996. 
4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza N.S. , a mezzo del difensore avv. Fabrizio Lemme.
4.1. Osserva l'esponente che la Corte di Appello ha premesso di dover fare ricorso ad una legge probabilistica per l'accertamento del nesso eziologico tra la condotta del N.S. e i decessi di taluni lavoratori ammalatisi di mesotelioma pleurico e pertanto di dover ricercare gli elementi che confermano la fondatezza delle generalizzazioni e la loro applicabilità al caso concreto; ma poi non ha dato alcuna indicazione di tali elementi, in specie a riguardo delle modalità e del tempo di insorgenza e di evoluzione della patologia.
L'insieme di dati e di circostanze che la Corte di Appello enumera a sostegno della sussistenza del nesso causale tra le esposizioni non impedite dall'imputato N.S. ed i decessi dei singoli lavoratori che hanno lavorato presso lo stabilimento ILVA nel periodo in cui il primo aveva assunto la posizione di garanzia sono assolutamente generici, spesso incerti e comunque, sempre inidonei a compensare le carenze cognitive in ambito medico e scientifico, più volte segnalate. Si fa leva sulle testimonianze dei lavoratori (le quali sono assolutamente generiche e non temporalmente circoscritte a ben determinati periodi di attività dello stabilimento); si ricostruisce la vita lavorativa di ogni singola persona offesa sulla base di documentazione spesso incompleta e di incerta provenienza; si recepiscono valutazioni approssimative riferite ad indagini epidemiologiche che non considerano l'intensa industrializzazione dell'area tarantina e non considerano le ulteriori e diverse fonti di dispersione di fibre e gas oncogeni; si trascurano le precedenti esposizioni a fibra di amianto, patite dai lavoratori, anche in ambiti lavorativi diversi da quello siderurgico tarantino; si supera con indifferenza la carenza probatoria in ordine alle effettive misurazioni di soglia di esposizione dei lavoratori alla fibra nel periodo in esame; si sopravvaluta il riconoscimento dei benefici previdenziali per esposizione ad amianto, dal quale si deduce un'effettiva intensa inalazione di fibre da parte di tutti i lavoratori.
La mancanza di conoscenze in ordine alla durata del periodo di induzione e alla correlazione tra durata dell'esposizione e tempo di latenza avrebbero dovuto indurre la Corte di appello ad operare una verifica particolarmente attenta sulla fondatezza delle generalizzazioni e sulla loro applicabilità al caso concreto e condurre il giudizio di elevata probabilità logica alla luce delle particolarità del caso concreto. Invece, la corte territoriale è venuta meno ad entrambi gli obblighi.
Aggiunge l'esponente che il perito nominato dalla corte, il Prof. Ma., ha modificato le proprie conclusioni nel passaggio dall'elaborato scritto all'esame dibattimentale, tanto che sono state numerose le assoluzioni. In sostanza la corte distrettuale ha utilizzato un solo criterio dirimente, costituito dal tempo al quale risalgono le esposizioni; ma anche esso è estremamente generico ed impreciso. Ne consegue che la condanna del N.S. è stata pronunciata nonostante non sia stata raggiunta la certezza della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
4.2. Con un secondo motivo si lamenta il vizio di motivazione e la violazione di legge per aver la Corte di Appello ritenuto il N.S. responsabile degli omicidi colposi avendo questi omesso di impedire l'aerodispersione di ogni fibra di amianto; condotta tuttavia non considerata da alcuna regola cautelare. Siffatta violazione gli è stata attribuita nonostante il precetto, al tempo, fosse quello di dover impedire la dispersione di polveri nell'ambiente di lavoro.
4.3. Il terzo motivo denuncia il vizio della motivazione. Rileva il ricorrente che la Corte di Appello ha sostenuto come non vi siano soglie (ovvero valori di esposizione alla fibra di amianto) prive di effetto (durante il periodo di induzione della malattia). Se ciò è vero allora non può ritenersi sussistente il nesso causale perché la mera riduzione dell'esposizione, in ipotesi garantita dalla adozione delle cautele omesse, non avrebbe inciso sul pericolo di insorgenza e sull'evoluzione della malattia. Peraltro, si aggiunge, non è noto quale misura di riduzione assicurerebbe la protezione dell'esposto, ed anzi anche dosi inferiori a quelle normativamente accettate sono state indicate dal perito come comunque influenti sull'insorgenza e nell'accelerazione della malattia.
4.4. Il quarto motivo denuncia il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo, che la Corte di Appello ha affermato nonostante l'impossibilità per l'imputato di tenere il comportamento dovuto e necessario ad evitare l'evento e l'assoluta mancanza di consapevolezza che anche dosi minime di fibra potevano essere letali per i lavoratori.
4.5. Il quinto motivo concerne ancora le statuizioni concernenti l'elemento soggettivo e ravvisa il vizio della motivazione perché la Corte di Appello non ha reso la spiegazione che le era stata richiesta sulle ragioni per le quali la violazione di regole cautelari destinate ad evitare l'insorgenza di asbestosi potrebbe tradursi in colpa specifica per il diverso evento mesotelioma.
5. Ha proposto ricorso per cassazione A.A., con un primo atto a firma del difensore avv. Nicoletta Garaventa.
5.1. Egli ha denunciato il vizio di motivazione in relazione alle statuizioni della Corte di Appello concernenti l'attribuzione di una posizione di garanzia. La motivazione della sentenza sul si rivela contraddittoria laddove, dopo avere evidenziato la necessità di individuare le figure che concretamente esercitavano i poteri decisionali e di spesa, pone alla base del riconoscimento della posizione di garanzia dell'Ing. A.A. un ragionamento del tutto astratto, che si traduce nell'affermazione di una mera responsabilità "da posizione", non calata nella concreta realtà dello stabilimento in quello specifico periodo storico e non suffragata da alcuna indagine sugli effettivi poteri, soprattutto di spesa, attribuiti all’odierno ricorrente. Inoltre la Corte di Appello individua i poteri dell'A.A. sulla scorta di un verbale del C.d.a. risalente al 2002, quindi alla gestione privata dell'impresa, mentre l'imputato era stato direttore di stabilimento sotto la gestione pubblica, terminata nel 1995.
La Corte di Appello ha poi omesso di rendere motivazione in merito al rilievo mosso con l'atto di appello circa l'assenza di una specifica indagine sulla posizione di garanzia dell'A.A.; l'argomentazione svolta dalla corte è del tutto generica.
5.2. Ulteriore motivo investe la ritenuta sussistenza del nesso causale. Essa è stata affermata facendo ricorso a legge epidemiologica, ma la Corte di Appello non ha replicato alle critiche mosse dalla difesa nell'atto di appello e nella nota di udienza depositata prima della discussione nei confronti della fondatezza delle indagini epidemiologiche.
Si lamenta, poi, che la Corte di Appello abbia ritenuto l'esposizione dei lavoratori all'asbesto nonostante l'assenza di dati analitici in ordine all'effettiva esposizione alle fibre di amianto, non essendo stata eseguita alcuna indagine ambientale sulla composizione delle polveri presso lo stabilimento. La circostanza era stata evidenziata con l'appello ma la corte distrettuale non l'ha considerata.
Sostiene l'esponente che presso l'Ilva non vi era quella straordinaria diffusività dell'amianto tipica delle aziende dove si produceva cemento-amianto ma un ordinato e proporzionato utilizzo di tale materiale, in forme che non comportavano necessariamente il rilascio in atmosfera delle sue fibre. Nella motivazione non si rinviene alcun dato analitico che giustifichi la deduzione che dalla presenza di amianto sia derivata l'esposizione dei lavoratori a fibre libere di asbesto, in specie nei due anni e mezzo della dirigenza A.. La Corte di Appello ha utilizzato, al riguardo, le sole dichiarazioni dei colleghi di lavoro delle persone decedute e l'indagine epidemiologica condotta dalla dr.ssa B., che aveva accertato un tasso di mortalità per mesotelioma nei lavoratori della coorte Ilva maggiore del doppio rispetto a quello relativo ai soggetti confrontabili per sesso, classi di calendario e di età della Regione Puglia. La motivazione è viziata perché fa assurgere a legge di copertura uno studio epidemiologico non aderente ai canoni della consolidata giurisprudenza in materia. Quell'indagine non ha riguardato coorti omogenee, poiché la coorte Regione Puglia ha una forte componente agricola; se si fosse confrontato il tasso con quello della coorte del Comune di Taranto, ove sono presenti importanti siti produttivi ed è da tempo utilizzato l'amianto nelle opere civili, i risultati sarebbero stati opposti. Anche su questi rilievi la Corte di Appello non ha reso motivazione. Come non ha replicato ai rilievi che erano stati mossi alla contestazioni fatte dal Tribunale a riguardo delle testimonianze del dr. G. e del dr. Gi., che avevano riferito della situazione ambientale presso l'Ilva successiva (1996-1999) al periodo in cui l'A.A. ne fu dirigente (anni ottanta).
La Corte di Appello non ha replicato al rilievo dell'appellante che segnalava la inidoneità dell'indagine a colmare l'assenza di documentazione analitica relativa a campionamenti dell'aria resPI.bile nei reparti, perché inidonea a ricostruire le reali condizioni di lavoro nello stabilimento tarantino.
L'esponente contesta il giudizio di attendibilità dei colleghi di lavoro dei soggetti passivi del reato e rileva l'imprecisione e la genericità delle loro dichiarazioni.
Passando a trattare del tema dell'accertamento della causalità individuale, l'esponente osserva che nonostante il richiamo al rigore della giurisprudenza in materia di accertamento della causalità, la Corte di Appello, aderendo acriticamente alle risultanze della perizia del Dott. M., non abbia neppure fornito un'adeguata motivazione sia sull'accoglimento della teoria relativa all'insorgenza del mesotelioma sostenuta dal Prof. Ma. e, in particolare, della cosiddetta "formula di Berry", sia sulla riferibilità dell'insorgenza della patologia al segmento temporale in cui i singoli imputati hanno rivestito le supposte posizioni di garanzia. Inoltre, pur avendo il perito Ma. evidenziato la possibile valenza concausale delle esposizioni lavorative patite dai soggetti passivi prima ancora di lavorare presso l'Ilva la Corte di Appello non ne ha tenuto conto nella motivazione. La già menzionata assenza di indagini specifiche sull'esposizione dei lavoratori preclude anche l'accertamento della causalità individuale.
Sia pure correlando il rilievo al tema dell'accertamento della causalità generale l'esponente osserva che la Corte di Appello ha reso una motivazione apparente in ordine all'esclusione di cause efficienti alternative all'inalazione di fibre di asbesto poiché non ha preso in considerazione il dato della presenza ubiquitaria delle stesse.
Ancora: a riguardo della assunzione da parte della Corte di Appello della teoria dell'effetto acceleratore, l'esponente sostiene che la Corte di Appello ha affermato l'esistenza di una legge scientifica evidenziante l'effetto acceleratore dell'esposizione all'amianto dopo l'inizio del processo carcinogenetico sulla scorta dello studio epidemiologico del Prof. Ma., dell'affermazione di questi per la quale vi è la concreta possibilità che le fibre di amianto non solo avviino il processo di trasformazione maligna ma forniscano anche un successivo stimolo proliferativo e dell'equiparazione tra il tumore polmonare e il mesotelioma; senza spiegare per quale motivo la teoria accolta dal prof. Ma. sia degna di attendibilità.
In relazione al tema della latenza del mesotelioma, il ricorrente lamenta che la Corte di Appello abbia assunto a legge scientifica una teoria elaborata dal perito prof. Ma., non maggiormente accreditata rispetto ad altre, ed utilizzato la cd. formula di Berry come se fosse decisiva e non soltanto indicativa. In particolare, la Corte ha accolto la teoria del Prof. Ma., il quale ha collocato temporalmente l'insorgenza biologica del mesotelioma "valutando la cinetica di sviluppo della neoplasia attraverso lo studio della sopravvivenza dei pazienti" e fissando l'insorgenza del mesotelioma "... in un arco di tempo compreso tra circa 6 e 20 anni prima della diagnosi clinica"; con l'effetto che "tutte le esposizioni precedenti di almeno 20 anni la diagnosi sono certamente rilevanti, mentre quelle degli ultimi 6-10 anni certamente non lo sono e per gli intervalli intermedi l'effetto è plausibile con criterio probabilistico". Tuttavia la Corte nulla ha detto della diversa indicazione data dal consulente della difesa Prof. PI., per il quale la comunità scientifica concorda sul fatto che la latenza non può avere durata inferiore a venti anni, ed ha adottato quella del Prof. Ma., teoria che potrebbe anche essere valida, al pari, però, di alcune altre.
Sulla scorta dell'assunzione di quella teoria la Corte di Appello ha collegato i singoli decessi alle omissioni ascritte all'imputato. Con critica radicale, l'esponente afferma che allo stato non è possibile individuare una legge scientifica che permetta di conoscere il momento dell'inizio del processo patogenetico, quello in cui la cellula tumorale assume una autonomia proliferativa; non è possibile accertare se il singolo mesotelioma è stato causato proprio dall'esposizione presso l'Ilva e se proprio dall'esposizione verificatasi sotto la dirigenza dell'imputato A.A..
Per altro ma contiguo profilo l'esponente lamenta che all'A.A. siano stati attribuiti anche i decessi di due lavoratori (C. e Ci.) indicati come esposti (soltanto) nel periodo in cui egli era stato vicedirettore dello stabilimento, senza considerare tale particolare circostanza.
Si conclude affermando che la Corte di Appello non ha motivato in merito alla prova delle omissioni contestate all'A.A., nonostante le osservazioni svolte nell'atto di appello (pg. 44 e 45).
5.3. Ulteriore censura l'esponente muove alla sentenza impugnata per essere la Corte di Appello incorsa nella violazione degli artt. 42 e 43 cod. pen. e dell'art. 59 d.lgs. n. 277/1991, in relazione al d.p.r. n. 303/1956, nell'affermare la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato. Nella sentenza impugnata, si osserva, vengono addebitate all'imputato, tra l'altro, le violazioni del disposto degli artt. 4, 19, 20 e 21 dei D.P.R. 303/56, i quali prevedevano l'obbligo generico, per il datore di lavoro, di contenere l'esposizione dei lavoratori a polveri, nonché quello di dotare l'ambiente di lavoro di presidi, quali i mezzi di aspirazione, oltreché quello di fornire ai lavoratori dispositivi di protezione individuale. Nei motivi di appello (pag. 46), si era sottolineato come l'art. 59, lettera b) del D.lvo. 277/91 avesse abrogato, limitatamente alle polveri d'amianto, gli artt. 4, 5, 18, 19 e 21 del D.P.R. 303/56, in quanto con esse incompatibile, stante la specifica previsione delle polveri di amianto e di valori soglia. La Corte di Appello ha erroneamente ritenuto che non fosse intervenuta la menzionata abrogazione.
Inoltre ha giudicato che l'A.A. potesse avere conoscenza della capacità dell'amianto di indurre il mesotelioma pleurico perché già negli anni '80 era noto il rapporto fra il mesotelioma e l'esposizione all'amianto, richiamando a conferma due sentenze della Corte di legittimità, tuttavia inconferenti perché relative Luna alla nota vicenda di Porto Marghera (Cass. pen., sez. 4, 17.5.2006, n. 4674) e l'altra ad una fuga di gas, che aveva provocato un incendio ed un'esplosione (Cass. pen., sez. 4, 19.6.2008, n. 40785).
Con l'appello si erano indicate le circolari ed i decreti ministeriali che in quegli anni imponevano l'uso dell'amianto come mezzo di protezione dal fuoco o dal calore e che la stessa comunità scientifica era incerta in ordine all'esistenza di soglie di pericolosità. La Corte di Appello non ha reso motivazione sul punto. E tanto vale anche per l'esigibilità della condotta doverosa, alla luce delle conoscenze che all'epoca si avevano circa i dispositivi e le misure di protezione individuale e collettiva in allora disponibili; ribadendo che l'unica misura efficace sarebbe stato il divieto di utilizzo dell'amianto, sicché la condotta osservante non avrebbe comunque evitato l'evento.
5.4. Si lamenta, poi, la violazione dell'art. 437, co. 1 e 2 cod. pen. in relazione agli artt. 2, co. 1 e 25, co. 2 Cost., ed il vizio della motivazione, perché la Corte di Appello ha ritenuto il reato - che richiede l'omessa collocazione di impianti ed apparecchiature - sulla base di un quadro fattuale che evidenzia al più l'omessa vigilanza sull'uso dei dispositivi di protezione individuale e una inadeguata manutenzione degli impianti di captazione delle polveri.
In secondo luogo, la Corte di Appello ha acceduto ad una nozione di infortunio che ricomprende le cd. malattie-infortunio, non previste dalla norma incriminatrice, senza peraltro rendere motivazione sul punto.
5.5. In merito all'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 437 cod. pen., con autonomo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto dimostrato il dolo del reato per la reiterazione dei comportamenti illeciti 
e lo scopo di profitto. Evidenzia l'esponente che al tempo non solo l'A.A. ma anche gli organi di vigilanza avevano una limitata conoscenza dei rischi legati all'asbesto e che in allora la gestione pubblica dell'impresa era finalizzata alla creazione di posti di lavoro e non al conseguimento del profitto di impresa. Né si può volere, nella forma che vale ad integrare il dolo eventuale, ciò che non si conosce. Sul tema l'esponente ravvisa la mancanza di motivazione.
5.6. L'ultimo motivo investe il trattamento sanzionatorio, perché la Corte di Appello ha fornito motivazione meramente apparente in ordine alla ritenuta equivalenza delle attenuanti generiche sulle concorrenti aggravanti; e perché una corretta valutazione degli indici di cui all'art. 133 cod. pen. avrebbe condotto ad una pena più contenuta. Inoltre non è stata concessa la non menzione della condanna senza alcuna motivazione sul punto.
6. Ancora l'A.A., unitamente a SP.GI. , ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza con separato atto , sottoscritto dall'avv. Corrado Pagano.
6.1. Ci si duole che, a riguardo della riconducibilità delle malattie e quindi dei decessi all'esposizione ad amianto dei lavoratori presso l'Ilva, la Corte di Appello non abbia preso in considerazione - quale ulteriore causa alternativa - la possibilità che a causare la malattia potesse essere stata un'esposizione ad amianto avvenuta fuori dal cantiere; possibilità che è stata del tutto trascurata nonostante risultasse, come confermato dalla lettura della sentenza (pag. 216 ss), che molte persone offese, prima di essere assunte presso lo Stabilimento di Taranto, avessero svolto attività lavorative comportanti rilevanti esposizioni all'amianto.
Considerato che la difesa aveva proposto uno specifico motivo di appello in cui si censurava la sentenza di primo grado proprio perché il Tribunale aveva erroneamente scartato l'ipotesi per cui il mesotelioma fosse stato cagionato da esposizioni ad amianto avvenute al di fuori dello stabilimento di Taranto (pag. 30 ss motivi di appello), la nullità della sentenza discende, oltre che dalla già evidenziata illogicità della motivazione, anche dall'omessa indicazione delle ragioni che giustificavano il rigetto dell'appello sul punto.
In ciò viene ravvisata la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. ed il vizio della motivazione.
6.2. Rappresentando l'esistenza di analoghi vizi, ci si duole del metodo con cui la Corte di Appello ha individuato la legge scientifica di copertura da porre a base della propria decisione, in quanto non conforme agli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità riguardo al ruolo del giudice dinanzi al sapere scientifico. In particolare, la sentenza della Corte di Appello motiva solo apparentemente in ordine alla sussistenza della legge scientifica di copertura; l’esistenza dell'effetto acceleratore - e cioè del fenomeno per cui ad un prolungamento dell'esposizione ad amianto corrisponderebbe un'accelerazione del processo carcinogenetico - viene infatti affermata facendo esclusivo riferimento al parere espresso dal perito prof. Ma. e senza tener minimamente conto dei contributi scientifici offerti dagli altri esperti intervenuti nel corso del processo. Si assegna grande rilievo alle conclusioni della III Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of thè Pleura ma non viene fatto cenno ai numerosi contributi scientifici di segno opposto, veicolati nel processo dal consulente della difesa prof. PI. (studio Metintas, studi Frost ed Harding, Quaderno del Ministero della salute n. 15, uno studio del Berry del 2012); in sintesi, la corte distrettuale non ha compiuto quella documentata metanalisi della letteratura scientifica universale che viene richiesta dalla Corte di cassazione per l'individuazione di una affidabile legge scientifica di copertura.
Anche con riferimento all'accertamento della causalità individuale il ricorrente ravvisa una mancanza di motivazione, perché la Corte di Appello, dopo aver definito probabilistica la legge scientifica del cd. effetto acceleratore, lungi dal ricercare le contingenze fattuali che permettono di ritenere che tale effetto si fosse realizzato nei singoli casi concreti, si è limitata a richiamare un precedente giurisprudenziale. Rileva, al riguardo, che specificamente richiesto di operare tale accertamento, il perito prof. Ma. si era espresso in termini che, per il ricorrente, stanno ad indicare che allo stato delle conoscenze non è possibile sapere se le fibre eventualmente resPI.te dalla singola persona durante il periodo che coinvolge il singolo imputato hanno avuto un qualche effetto misurabile. Né viene dato conto, nella motivazione, del grafico del Prof. PI. con il quale erano stati rappresentati per ciascuna persona offesa gli anni di esposizione e i corrispondenti anni di latenza, e che permette di concludere che a maggiore durata dell'esposizione corrisponde maggiore durata della latenza della malattia.
Acquisito che la durata del periodo di induzione - e quindi della latenza vera - non è misurabile in modo diretto, la Corte di Appello è pervenuta comunque a determinare tale durata sulla scorta delle sole affermazioni del prof. Ma., il quale ha assunto la teoria della costanza della velocità di crescita di un tumore maligno solido sulla base di studi che si riferiscono al tumore polmonare, ammettendo egli stesso che per il mesotelioma maligno si hanno minori informazioni e che il mesotelioma presenta peculiari caratteristiche (la lesione non cresce in modo sferico). Ha quindi sviluppato le proprie conclusioni sulla base di una serie di assunzioni ipotetiche, senza citare alcuna fonte, studio o contributo scientifico; in sostanza egli ha rappresentato il proprio isolato, ancorché qualificato, punto di vista.
6.3. Violazione dell'art. 43 cod. pen. e vizio della motivazione vengono denunciati a riguardo dell'accertamento del versare in colpa, in senso soggettivo, dell'imputato.
Nel corso del processo è stato documentato che sino al 1992 si aveva conoscenza del solo rischio correlato a massicce esposizioni di amianto, perché inducenti l'asbestosi e neoplasie che ne costituiscono complicanza, e l'unico sistema di prevenzione previsto era il rispetto dei valori soglia. Pertanto si era segnalato alla Corte di Appello che l'evento mesotelioma non era né prevedibile né prevenibile.
La Corte di Appello si è limitata a replicare che non è necessaria la specifica rappresentazione ex ante dell'evento dannoso, risultando sufficiente la potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno. Con ciò facendo errata applicazione dell'art. 43 cod. pen. perché è necessario che l'evento verificatosi rappresenti la concretizzazione del rischio che la regola cautelare mirava a prevenire e che tale evento fosse prevedibile.
Quanto alle conoscenze scientifiche in tema di amianto nel tempo di interesse, la Corte di Appello ha da un canto fatto riferimento a quanto affermato nella sentenza delle S.U. nel processo Eternit e dall'altro ad un verbale interno del 1986 - nel quale si poneva il tema della rapida riduzione dell'amianto installato ed utilizzato e si vietava l'ulteriore acquisto di materiale contenente amianto - senza considerare l'epoca in cui i ricorrenti ricoprirono la carica.
6.4. Si denuncia, infine, violazione dell'art. 589, co. 2 cod. pen., anche in relazione all'art. 7 CEDU), per aver la Corte di Appello ritenuto sussistente l'aggravante dell'aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
L'art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, impone di valutare se, all'epoca della commissione dei fatti, l'incriminazione fosse sufficientemente chiara e prevedibile. Orbene, rileva l'esponente, nella legislazione del tempo che interessa, i casi di infortunio e di malattia non sono mai stati considerati un unicum ed anzi si distingueva in modo netto tra "norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" (DPR 547/55) e "norme generali per l'igiene del lavoro" (DPR 303/56); la legge introduttiva dell'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen., come risulta dai lavori parlamentari, intese offrire una risposta sanzionatola più grave ai soli casi di morte e lesioni dovuti ad infortuni sul lavoro, non facendosi cenno alle malattie professionali o alla violazione delle norme relative all'igiene del lavoro. 
Il tema della mancata tutela, in forma aggravata, della morte o delle lesioni conseguenti ad una malattia professionale si era già posto in relazione all'art. 437 c.p. e la Corte Costituzionale, chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevedeva la configurabilità del reato per l'omissione o rimozione di cautele contro il rischio di malattie professionali, ne dichiarava la manifesta inammissibilità affermando che «esula infatti dai poteri della Corte emettere una pronuncia dalla quale scaturirebbe una nuova fattispecie penale, la cui previsione è invece riservata al legislatore in forza del fondamentale precetto dell'art. 25 Cost.» (C. Cost., 232/1983).
La Corte di Appello, ritenendo che l'art. 437, co. 2 cod. pen. si riferisca anche alle malattie-infortunio, si è uniformata alla giurisprudenza di legittimità; ma si tratta di orientamento formatosi successivamente al tempo in cui i ricorrenti furono direttori dello stabilimento. Anzi, la citata decisione del giudice delle leggi dimostra che al tempo la giurisprudenza di merito riteneva che l'art. 437 cod. pen. non potesse essere riferito anche alle malattie-infortunio senza incorrere in un'analogia in malam partem.
Tanto osta a ritenere la colpevolezza degli imputati.
7. In data 4.1.2019 è stata depositata 'Memoria in difesa di N.S.', con la quale si svolgono osservazioni critiche nei confronti del ricorso del Procuratore generale.
8. Il 30.5.2019 sono state depositate 'Note d arringa del difensore dell'imputato N.S.' con le quale si ribadiscono taluni rilievi elevato nel ricorso.
 

 

Diritto

 


1. Preliminarmente va dato atto della disposta separazione delle posizioni concernenti i ricorrenti R.F.A. e C.L., con formazione di distinto fascicolo processuale.
2. La posizione di SP.GI. va definita con l'annullamento della sentenza per essere i reati a lui ascritti estinti per morte dell'imputato. Invero, risulta acquisito agli atti il certificato di morte rilasciato dal Comune di Genova, il quale attesta il decesso dello SP.GI., avvenuto il 9.3.2018.
La menzionata causa di estinzione del reato importa, essendo intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza, oltre alla cessazione del rapporto processuale penale, anche quella del rapporto processuale civile nel processo penale, e determina, di conseguenza, anche il venir meno delle statuizioni civilistiche (Sez. 3, n. 47894 del 23/03/2017 - dep. 18/10/2017, P.C. in proc. Modica, Rv. 271160).
3. Ragioni di sintesi consigliano di trattare, ed unitariamente, dapprima i ricorsi degli imputati A.A. e N.S.. Per quanto essi non abbiano un contenuto integralmente sovrapponibile, pongono ciò non di meno questioni in parte identiche. Sicché si procederà all'esame in unica sede, evidenziando le specificità di ciascun ricorso.
3.1. L'A.A. si duole della motivazione con la quale è stato giustificato il giudizio che lo ha riconosciuto titolare di una posizione di garanzia nel periodo in cui ha ricoperto il ruolo di direttore dello stabilimento Ilva, in Taranto.
Tuttavia non è fondata la censura di aver la Corte di Appello contravvenuto alla premessa che essa stessa aveva formulato, ovvero la necessità di indagare oltre la titolarità di una formale qualifica, alla ricerca di effettivi poteri dispositivi adeguati all'adozione delle misure richieste dalla tutèla della salute e della sicurezza dei lavoratori.
Alle pg. 131 e ss. la Corte di Appello ha evidenziato come il ruolo di direttore di stabilimento implichi ex se l'assunzione della qualifica di dirigente. L'affermazione è corretta. Avuto riguardo alla disciplina vigente al tempo delle condotte attribuite all'A.A., va rammentato che la giurisprudenza di legittimità derivava dall'art. 4 DPR 27 aprile 1955 n 547 il principio secondo il quale destinatari delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro erano i dirigenti e i preposti nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze (Sez. 5, n. 12936 del 01/04/1977 - dep. 13/10/1977, Mazzarello, Rv. 137102). Pertanto, in caso di evento colposo verificatosi per inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni - ma il principio era valevole anche per l'ambito della igiene del lavoro -, i preposti ai vertici di una organizzazione societaria sono esenti da responsabilità penale solo quando provino che all’interno dell'impresa esiste una rigorosa, specifica e puntuale divisione delle mansioni (Sez. 4, n. 4790 del 06/01/1983 - dep. 25/05/1983, Ghidini, Rv. 159194). Tra le attribuzioni del dirigente si rinveniva anche quella di esercitare un controllo continuo ed una efficace vigilanza, allo scopo di fare rispettare le disposizioni impartite dal datore di lavoro (Sez. 4, n. 5858 del 02/02/1981 - dep. 15/06/1981, Comini, Rv. 149346). E quando fosse manchevole una precisa distinzione di attribuzioni e di competenze specifiche, i datori di lavoro e i dirigenti erano ritenuti congiuntamente tenuti all'attuazione delle misure di sicurezza ed all'osservanza di tutti gli altri obblighi prevenzionistici (Sez. 4, n. 10039 del 09/04/1981 - dep. 07/11/1981, Capra, Rv. 150885).
Già al tempo si rimarcava che l'individuazione del responsabile della mancata attuazione delle misure di sicurezza va effettuata con riferimento alle mansioni in concreto disimpegnate e non alla astratta qualificazione del rapporto esistente tra i diversi destinatari delle norme antinfortunistiche, non essendo escluso che le attribuzioni e le competenze possano essere delegate dal dirigente al preposto (Sez. 3, n. 2625 del 04/09/1981 - dep. 10/03/1982, Colonnese, Rv. 152694).
Tali principi sono tutt'oggi valevoli; ed anzi essi sono stati positivizzati dal legislatore con il d.lgs. n. 81/2008.
Avendo il dirigente una posizione di garanzia originaria, risulta pertinente e corretta anche l'affermazione della corte distrettuale della irrilevanza di una indagine volta ad individuare la specifica fonte dei poteri del direttore dello stabilimento. In sostanza, una volta accertato che un determinato soggetto ha assunto una posizione che implica l'attribuzione di poteri e compiti dirigenziali se ne può legittimamente ricavare che egli abbia avuto in concreto tali poteri. La dimostrazione dell'esistenza di circostanze che nel caso concreto sovvertono l'ordinaria compenetrazione tra qualifica e poteri grava allora sulla parte che le afferma.
A ciò deve aggiungersi che la corte territoriale ha rinvenuto elementi di riscontro della menzionata ordinaria compenetrazione da un canto nel contenuto del verbale della riunione del C.d.A. dell'Ilva s.p.a. del 14.11.2002 e dall'altro nella stessa prospettazione difensiva, incentrata non sull'assenza dei poteri tipici del dirigente ma sulla esistenza in concreto delle condizioni necessarie all'adozione delle cautele necessarie.
Proprio perché elemento solo di conferma indiretta, non coglie il segno la critica del ricorrente di una illogica valorizzazione del menzionato verbale.
In conclusione, la censura del ricorrente risulta infondata. Dalla indiscussa assunzione di un ruolo dirigenziale da parte dell'A.A. è stato dedotto legittimamente dai giudici di merito che egli avesse avuto tutti i poteri connessi al ruolo; la contestazione di tale deduzione è stata operata unicamente sul piano astratto, senza offrire ai giudici di merito alcuna indicazione delle concrete circostanze che nel caso specifico avrebbero scisso qualifica e compenetrati poteri.
3.2. Il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Garaventa, il primo ed il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Pagano ed il primo motivo del ricorso nell'interesse del N.S. investono la motivazione impugnata nella parte in cui argomenta a riguardo del ritenuto rapporto causale tra le condotte dei ricorrenti e le malattie e quindi i decessi dei lavoratori.
Le censure si indirizzano alle diverse proposizioni dell'argomentazione:
a) valenza delle leggi epidemiologiche;
b) possibilità di accertare l'esposizione alle fibre di amianto in assenza di dati analitici;
c) positivo esito della prova scientifica in relazione all'accertamento della causalità individuale.
Ragioni di priorità logica impongono di prendere le mosse dalla motivazione in ordine alle condizioni dell'ambiente di lavoro, ovvero alla ritenuta esistenza, nei periodi che coinvolgono gli odierni ricorrenti, di polluzioni di fibre di amianto tali da realizzare una esposizione dei lavoratori alle stesse.
Questa Corte ha già avuto occasione di puntualizzare che l’esistenza e più ancora l’entità dell’esposizione può essere dimostrata anche attraverso la prova testimoniale. Ciò in quanto, sul piano generale, il vigente sistema processuale non conosce ipotesi di prova legale; tanto che anche nei settori nei quali risultano indicazioni normative per uno speciale rilievo di valori soglia e peculiari previsioni per il relativo accertamento, viene escluso che la prova possa essere data unicamente secondo tali metodiche. Ad esempio, in tema di accertamento dello stato di ebbrezza da assunzione di sostanze alcoliche è ius receptum che l’esame strumentale non costituisce una prova legale e che l’accertamento della concentrazione alcolica può avvenire in base ad elementi sintomatici per tutte le ipotesi di reato previste dall’art. 186 cod. strada (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 26562 del 26/05/2015, dep. 24/06/2015, Bertoldo, Rv. 263876). In relazione al reato di cui all’art. 137, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, concernente il superamento dei limiti di emissione per lo scarico di acque reflue recapitati in pubblica fognatura, si insegna che le indicazioni sulle metodiche di prelievo e campionamento del refluo, contenute nell’allegato 5 alla Parte II del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (campione medio prelevato nell’arco di tre ore), non costituiscono un criterio legale di valutazione della prova e possono essere derogate, anche con campionamento istantaneo, in presenza di particolari esigenze individuate dall’organo di controllo, delle quali deve essere data motivazione (Sez. 3, n. 30135 del 05/04/2017, dep. 15/06/2017, Boschi, Rv. 270325). Non è precluso neppure l’esame visivo, ancorché esso non sia da solo sufficiente, richiedendo di essere affiancato dal campionamento (cfr. Sez. 3, n. 12471 del 15/12/2011, dep. 03/04/2012, Bocini, Rv. 252226). Anche laddove la normativa extrapenale prevede specifiche presunzioni legali (come l’ordinamento tributario), il giudice penale resta tenuto alla valutazione dei sottostanti dati di fatto, da considerare unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa (Sez. 3, n. 30890 del 23/06/2015, dep. 16/07/2015, Cappellini e altro, Rv. 264251).
Pertanto, escluso che possa anche solo ipotizzarsi una qualche violazione di legge (i ricorrenti richiamano la violazione degli artt. 40 e 41 cod. pen.), per aver il giudice affermato l'esistenza dell'esposizione in assenza di 'dati analitici', ovvero dati registrati attraverso misurazioni, campionamenti e quant'altro, gli assunti della Corte di Appello vanno vagliati secondo i consueti canoni, onde accertare se la motivazione sia omessa, contraddittoria rispetto alle emergenze processuali o manifestamente illogica (essendo stata denunciata anche la carenza di motivazione).
Per tale versante la Corte di Appello, come riconoscono anche i ricorrenti, ha fatto perno sulla indagine epidemiologica effettuata dalla dr.ssa B., sulla relazione redatta dal dr. G., sulla perizia del prof. Ma. e sulle testimonianze di lavoratori già dipendenti dell'Ilva, che avevano prestato la loro opera nei reparti ove avevano lavorato anche le persone offese. Testimonianze sottoposte ad un vaglio di attendibilità che ne ha considerato l'eventuale interesse rispetto ai fatti di causa, la fonte di conoscenza, la specificità, la relazione di convergenza con altre emergenze probatorie.
A ciò i ricorsi oppongono da un canto l'affermazione di principio che si è già ritenuta infondata e dall'altro mere asserzioni critiche che finiscono per dare corpo ad una interpretazione alternativa del dato probatorio, che si vorrebbe avallata da giudice di legittimità, senza l'identificazione di taluno dei vizi motivazionali di cui all'art. 606, co. 1 lett. e) cod. proc. pen.
Infatti si sostiene: che in Italsider (poi Ilva) si faceva uso di prodotti contenenti amianto e non si lavorava il minerale come invece in Eternit, sicché non vi era quella straordinaria diffusività della fibra aerodispersa tipica delle aziende di produzione; che le deposizioni dei testi sono state generiche.
Si censura, poi, che i giudici di merito abbiano valorizzato quella parte della deposizione del dr. G. dalla quale si ricava la presenza nello stabilimento di amianto friabile in grande quantità ma abbiano ignorato le circostanze dalle quali si evinceva "una situazione decisamente diversa". Come può constatarsi, la censura è generica, perché non si descrivono tali circostanze (e non può supplire al difetto di precisazione il generico rinvio all'atto di appello), oltre che condotta in funzione della dimostrazione della "reale conoscenza del problema mesotelioma-amianto negli anni '80", ovvero di un presupposto dell'addebito a titolo di colpa.
3.3. I ricorsi sono per contro fondati laddove formulano censure che investono la motivazione nelle parti in cui giustifica il ritenuto nesso causale tra le condotte del N.S. e dell'A.A. e le morti loro rispettivamente attribuite.
Vale rimarcare che con i ricorsi non è posta in dubbio la correlazione tra l'inalazione di fibre di amianto aerodisperse e il mesotelioma pleurico. In altri termini, non è in discussione che nel processo sia stato acquisita l'esistenza di una legge scientifica secondo la quale l'amianto è causa del mesotelioma; o, se si preferisce, che il mesotelioma sia malattia asbesto-correlata. I rilievi dei ricorrenti si concentrano sulla motivazione in ordine all'accertamento della cd. causalità individuale; ovvero all'attribuzione del singolo decesso all'esposizione della persona offesa durante l'intero periodo di lavoro presso l'Ilva (piuttosto che a fattori alternativi) e specificamente a quella avutasi durante il tempo in cui il N.S. e l'A.A. assunsero la posizione di garanzia.
I ricorsi lamentano che tale motivazione, incentrata sulle risultanze della perizia M. e sulla teoria del prof. Ma. non rispetti i principi posti dalla giurisprudenza di questa Corte.
Per il primo aspetto (perizia M.) perché sarebbe solo apparente la motivazione con la quale la Corte di Appello afferma provata la 'causalità materiale generale', con ciò intendendosi la derivazione dall'esposizione presso Ilva delle malattie patite dai lavoratori in questione. Per il secondo aspetto (teoria Ma.) perché la Corte di Appello, facendo applicazione dei principi di questa Corte, non avrebbe potuto ritenere che esiste una legge scientifica evidenziante l'effetto acceleratore dell'esposizione all'amianto dopo l'inizio del processo carcinogenetico.
Ciò posto, è opportuno rammentare il quadro di principi definito dalla giurisprudenza di legittimità a riguardo del modo in cui il giudice penale deve condurre l'accertamento del nesso di causalità nel caso di malattie professionali asbesto-correlate.
Com'è noto il percorso ricostruttivo che impegna il giudice in tali casi è fortemente determinato dalle conoscenze scientifiche acquisite a riguardo della capacità oncogena specifica di un determinato fattore, delle modalità di azione dello stesso, tanto sul quadrante biologico che su quello temporale. Ed è ormai altrettanto patrimonio comune, quanto meno degli operatori del diritto, l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, nei giudizi debitori del sapere esperto, al giudice è precluso di farsi creatore della legge scientifica necessaria all'accertamento.
Poiché egli è portatore di una 'legittima ignoranza' a riguardo delle conoscenze scientifiche, "si tratta di valutare l'autorità scientifica dell'esperto che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gli enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo". 
Il giudice riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica come la legge esplicativa - si dice ne sia consumatore - e non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria. L'acquisizione della legge che funge da criterio inferenziale non è però acritica; anzi è in questo segmento dell'attività giudiziale che si condensa l'essenza di questa.
Non essendo esplorabile in autonomia la valenza intrinseca del sapere introdotto dall'esperto, l'attenzione si sposta sugli indici di attendibilità della teoria: "Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove". Si è aggiunto che "il primo e più indiscusso strumento per determinare il grado di affidabilità delle informazioni scientifiche che vengono utilizzate nel processo è costituto dall'apprezzamento in ordine alla qualificazione professionale ed all'indipendenza di giudizio dell'esperto".
La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla "logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza".
In ciò è anche l'indicazione del contenuto del sindacato del giudice di legittimità, che attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del ragionamento probatorio ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i menzionati criteri di razionalità, rendendo adeguata motivazione (così, tra le più recenti, Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270384-87, secondo un insegnamento risalente a Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 - dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248943).
Nel caso che occupa la Corte di Appello ha avuto ben presente la decisività della teoria dell'effetto acceleratore del processo carcinogenetico nell'accertamento della causalità individuale, ove il complessivo periodo di esposizione debba essere suddiviso in sottoperiodi ciascuno di essi corrispondenti ai diversi garanti tra loro succedutesi. Infatti, solo ove tale teoria superi la verifica già rammentata e risulti essere stata operante nel caso di specie è possibile pervenire all'attribuzione dell'evento tipico al determinato garante. 
La Corte di Appello ha quindi svolto una preliminare ricognizione, osservando che in ordine al determinismo oncogeno si sono contrapposte due teorie. Per quella della cd. dose grilletto è indifferente la dose di esposizione alle polveri perché anche una breve o molto limitata esposizione aziona il processo di cancerogenesi in individui 'suscettibili'; inoltre mentre le esposizioni iniziali sarebbero rilevanti per l'insorgenza della malattia quelle successive sarebbero ininfluenti.
Per la teoria multistadio o della dose cumulativa sarebbero causalmente rilevanti tutte le esposizioni subite dal lavoratore durante la sua vita lavorativa, sino al compimento dell'induzione.
Assunta questa seconda teoria si tratta ancora di accertare, ha aggiunto la corte distrettuale, "se è sostenibile la tesi secondo cui aumentando la dose di cancerogeno (e dunque aumentando la intensità della esposizione ad amianto, sia sotto il profilo della durata che sotto il profilo della intensità) da un lato si incrementa l'incidenza del mesotelioma, dall'altro si abbrevia la durata della latenza con conseguente anticipazione dell'evento-morte".
La Corte di Appello ha rilevato che alcuni studi epidemiologici indicano un rapporto di proporzionalità diretta tra esposizione ad amianto ed incidenza di mesotelioma e/o tumore al polmone, ovvero un aumento del numero delle morti all'aumentare dell'esposizione. Tali studi, ha aggiunto, sono confermati anche dagli studi-controllo citati dal prof. Ma., spiegando attraverso le parole di questi perché gli studi-controllo possono essere più efficienti di quelli di coorte (essi "raccolgono un largo numero di casi in un arco di tempo relativamente breve; inoltre i casi sono caratterizzati da maggiore eterogeneità di esposizione rispetto ai membri di una coorte ...").
La Corte di Appello ha quindi citato il III Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of thè Pleura, pubblicato nel 2015, per il quale con l'aumentare dell'esposizione si determina sia l'anticipazione del tempo con cui la popolazione raggiunge un predeterminato livello di incidenza, sia l'anticipazione del tempo di verificazione di ogni singolo caso di malattia che si verifica all'interno di tale popolazione.
Dopo aver illustrato tali affermazioni facendo riferimento ad alcune rappresentazioni grafiche la corte territoriale ha affermato che l'effetto acceleratore evidenziato dai dati epidemiologici trova riscontro in informazioni biologiche, giacché la scienza medica evidenzia che il processo carcinogenetico inizia con uno stato infiammatorio dell'ambiente respiratorio indotto dalle fibre di asbesto introdottesi nell'organismo; che questo stato si cronicizza a causa del ripetersi degli insulti infiammatori dando luogo a una condizione patologica (placche pleuriche o ispessimenti pleurici) che "costituisce 'terreno fertile' per quella che in seguito sarà la possibile prima mutazione genetica da cellula sana a cellula maligna". Ma neanche questa mutazione è sufficiente a determinare l'irreversibilità del processo tumorale, stante il meccanismo della cd. dearance, ovvero la risposta auto-conservativa dell'organismo, capace di annullare o ritardare le conseguenze dell'intrusione dei corpi estranei, ma a condizione che cessi o si riduca l'esposizione del lavoratore alle fibre di amianto. Ad avviso della corte, l'operatività della dearance dimostra l'incidenza della continuatività dell'esposizione sullo sviluppo del processo tumorale.
Fatta questa illustrazione la Corte ha riportato per due pagine il contributo del prof. Ma., esplicativo degli studi in forza dei quali risulta descritto il modo in cui l'amianto danneggia direttamente il DNA delle cellule bersaglio, interferisce con vie di comunicazione intra ed inter-cellulari importanti nella regolazione del ciclo cellulare; risulta ritenuto che la flogosi cronica dovuta all'amianto faccia da stimolo proliferativo e quindi favorisca la promozione tumorale; e la conclusione del perito per la quale "esiste pertanto la concreta possibilità per le fibre di amianto di causare sia l'avvio del processo di trasformazione maligna sia di fornire alle cellule un successivo stimolo proliferativo. Se l'amianto è un agente in grado di agire su diverse fasi del processo di cancerogenesi, è da attendersi che l'incidenza dei tumori dovuti all'esposizione aumenti con il suo protrarsi e con l'aumento della sua intensità. Pertanto, non vi è base razionale per escludere che esposizioni tardive contribuiscano alla malattia, sia nel caso del tumore polmonare sia nel caso del mesotelioma".
La Corte di Appello ha quindi concluso che:
- esiste una legge scientifica che evidenzia l'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione all'amianto dopo l'inizio del processo carcinogenetico;
- tale legge ha natura probabilistica perché fondata su dati statistici probabilistici e su un modello di cancerogenesi largamente diffuso.
Con indiscutibile coerenza metodologica la corte territoriale è poi passata a verificare se tale legge trovi riscontro nel caso concreto; ed ha identificato, quali dati rilevanti, quelli relativi alla vita lavorativa, alle mansioni espletate, alla durata e alla natura continuativa dell'esposizione, all'assenza di fattori causali alternativi, al decorso della malattia. Ma prima di muovere verso l'analisi di tali dati essa ha esplicitato il postulato dal quale partire: che tutte le esposizioni successive al momento in cui la patologia è insorta sono (giuridicamente) concausa dell'evento perché abbreviano la latenza.
La Corte di Appello ha quindi formulato una puntualizzazione, osservando che neN'ambito dell'intero tempo di esposizione va operato un distinguo, in quanto le esposizioni ricadenti in un periodo successivo al momento in cui il processo carcenogenetico si è completato in modo irreversibile sono irrilevanti da un punto di vista causale. Quanto alla individuazione dei due (macro-)periodi, la Corte di Appello si è affidata a quanto riferito dal perito Ma. in risposta allo specifico quesito postogli dall'ufficio.
Sul piano definitorio il perito ha indicato come periodo di 'latenza convenzionale' quello tra l'inizio dell'esposizione e la comparsa della malattia; tale periodo va da un minimo di 13 anni ad un massimo di 70; la latenza mediana è di 32 anni. Tale macro-periodo si distingue in due intervalli: il periodo di induzione e quello di latenza vera. Il primo va dall'inizio dell'esposizione all'insorgenza biologica del tumore, ovvero al momento in cui le cellule cominciano a replicarsi in modo autonomo e il processo cancerogenetico risulta irreversibile. Il secondo va dall'inizio biologico della malattia oncologica alla diagnosi della stessa. Le esposizioni ricadenti in questo secondo periodo sono irrilevanti. Il momento dell'inizio biologico della malattia non è osservabile e quindi non è possibile sapere quando esso accada.
Evocando le indicazioni fornite dal perito Ma. la Corte di Appello ha registrato che il mondo scientifico suggerisce di considerare una latenza (vera) minima di dieci anni; ma con un range sino a venti anni (e non oltre, a ritroso) dalla diagnosi clinica. La Corte distrettuale ha richiamato la citazione fatta dal Ma. dell'indicazione degli studiosi Friberg e Mattson (1997), di valutare, allo scopo della definizione cronologica della latenza vera, la velocità di reduplicazione del tumore durante la sua fase osservabile e estrapolarla a quella preclinica. Quindi ha riportato le ragioni dallo stesso perito esposte a sostegno della conclusione di una non attendibilità delle stime della velocità di crescita tumorale del mesotelioma.
A questo punto la Corte di Appello ha dato conto del fatto che il perito ha proposto una propria soluzione al problema della collocazione temporale della insorgenza biologica del mesotelioma, fondata sulla valutazione della cinetica di sviluppo della neoplasia sulla base dello studio della sopravvivenza dei pazienti.
Secondo il perito, considerati i tempi di sopravvivenza mediana indicati dagli studi (tra sei e dieci mesi) e il fatto che il mesotelioma conduce a morte essenzialmente per la sua crescita locale, con conseguente azione costrittiva o di infiltrazione delle strutture vitali del torace o dell'addome, "assumendo che 5 cicli di divisione cellulare intercorrano tra diagnosi e decesso, ogni ciclo della fase clinica durerebbe a! massimo 60 giorni nel 50% dei casi e al massimo 146 giorni nell'80% dei casi. Assumendo inoltre che la velocità di duplicazione sia rimasta costante, la corrispondente durata della fase pre-clinica si protrarrebbe a! massimo fino a 5,75 anni ne! 50% dei casi. Nel restante 50% durerebbe almeno 5,75 anni, ma comunque l'80% di tutti i casi arriverebbe alla diagnosi entro 14 anni e solo nel 20% occorrerebbe un tempo maggiore".
Ha chiosato la Corte di appello che, "sulla base di tali condivisibili rilievi", il perito è giunto a collocare l'insorgenza biologica del mesotelioma pleurico in un arco di tempo compreso tra 6 e 20 anni prima della diagnosi clinica. Queste le conclusioni: tutte le esposizioni precedenti di almeno 20 la diagnosi sono rilevanti sul piano causale; quelle degli ultimi 6-10 anni sono irrilevanti; per quelle intermedie l'effetto è plausibile con criterio probabilistico. In applicazione di tali indicazioni la Corte di Appello ha ritenuto di poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità degli odierni ricorrenti unicamente per le morti di quei lavoratori la cui esposizione era continuata sino a vent'anni prima della diagnosi clinica. Così, per esemplificare il percorso ricostruttivo seguito dalla Corte di Appello, per l'A.A. si è esclusa la responsabilità per il decesso di Giovanni Cavalchini perché questo lavoratore aveva ricevuto la diagnosi di mesotelioma nel 1997; pertanto le esposizioni rilevanti erano state quelle sino al 31.12.1976; l'A.A. era stato vicedirettore dello stabilimento dal 1983.
Un simile procedere manifesta lo sforzo della Corte di Appello di operare una ricostruzione al massimo grado selettiva in favore dell'imputato (prova ne sia il ripudio di quella cronologia della latenza vera calcolata secondo il criterio intermedio, per la sua plausibilità solo probabilistica; ovvero per l'incertezza del dato). Al contempo, tuttavia, lascia emergere una palese violazione delle regole del ragionamento probatorio che implica un dato di conoscenza per il quale il giudice è debitore della scienza; ed altresì il fraintendimento in ordine al ruolo che svolge l'incertezza in questi casi.
Quanto al primo aspetto, le censure dei ricorrenti colgono correttamente la mancata applicazione dei principi che questa Corte ha formulato a riguardo della valutazione del contributo reso dal perito.
Quella valutazione non può mai essere acritica e non può fare a meno di assumere una prospettiva dialettica che si avvantaggia dell'interlocuzione antagonistica (degli esperti) delle parti.
Nell'argomentazione sviluppata dalla Corte di Appello non vi è cenno alcuno alle tesi dei consulenti tecnici dei ricorrenti e neppure a quelle dei consulenti tecnici del P.M. Eppure, richiamando i motivi di gravame tra gli altri dell'A.A., la Corte di Appello ha rammentato che, messe in disparte "le conclusioni concordi sul punto dei consulenti di accusa e difesa" in ordine all'acquisizione secondo la quale il processo di cancerogenesi è di tipo multistadiale e si compone di due fasi, quella dell'induzione (a sua volta distinta in quelle della iniziazione della promozione) e quella in cui il mesotelioma è irreversibilmente contratto, il punto contrastato dagli imputati era quello della possibilità di collocare nel tempo il momento dal quale il protrarsi dell'esposizione alla fibra non ha più rilievo causale (44 e s.).
La difesa del N.S., dal canto suo, con l'appello aveva dedotto che non risulta la prova in ordine agli effetti delle inalazioni successive all'insorgenza della malattia, facendo leva sulle risultanze delle consulente tecniche espletate dal prof. Enrico PI. e dal prof. Gaetano C.. Ancorché non si tratti esattamente della medesima questione della identificazione del tempo di inizio della latenza vera, si tratta pur sempre di questione che con quella si interseca, contenendo in sé l'interrogativo in ordine alla collocazione nel tempo di quelli effetti, ove riconoscibili.
Orbene, nella sentenza impugnata in questa sede non vi è un solo riferimento alle tesi degli esperti dei ricorrenti e la Corte di Appello, si direbbe inevitabilmente, non ha potuto spiegare le ragioni per le quali ha ritenuto di fare proprie le conclusioni alle quali è pervenuto il prof. Ma.. Sul punto si è limitata ad affermare, peraltro in forma intercalare, che quelli dell'esperto erano 'condivisibili rilievi'.
Già per tale ragione la sentenza deve essere annullata, risultando che il giudice di merito ha omesso di giustificare la scelta della premessa maggiore del ragionamento probatorio, limitandosi a recepire le conclusioni del perito, senza operare alcuna delle verifiche richieste dalla giurisprudenza di questa Corte e senza dare conto di aver considerato, anche a quel fine, i contributi esperti offerti dalle parti.
Vi è poi un secondo aspetto, parimenti rilevante e conducente all'annullamento della decisione.
L'esposizione che si è fatta dei più importanti passaggi argomentativi contenuti nella sentenza impugnata a riguardo della collocazione temporale della latenza vera (e, per conseguenza, dell'induzione) trova giustificazione nella necessità di dare evidenza alla circostanza che la Corte di Appello, in definitiva, nonostante il prof. Ma. abbia con estrema correttezza riferito delle persistenti incertezze che connotano l'orizzonte scientifico al riguardo, ed abbia offerto un metodo ricostruttivo segnalato come personale, non si è posta in alcun modo il problema della verifica dell'attendibilità di tale tesi.
Verifica tanto più necessaria in quanto quel metodo si staglia sullo sfondo di una incertezza scientifica e si propone come originale.
Le direttive impartite dalla giurisprudenza di legittimità indirizzano il giudice di merito verso una indagine ancor più accorta quando si tratti di 'scienza nuova'. I parametri enunciati dalla sentenza Cozzini non pretendono di esaurire il novero degli indici che possono essere utilizzati per la verifica dell'attendibilità del contributo dell'esperto; e neppure si propongono con una interna relazione gerarchica. Il giudizio conclusivo che da essi scaturisce non è la risultante di un'operazione aritmetica bensì esito di un apprezzamento complessivo di fattori che non devono presentarsi ogni volta in un determinato, predefinito grado (ad esempio, sempre il massimo grado di indipendenza dell'esperto). Ma tanto implica anche che taluno degli indici può assumere un peso preponderante. Come dimostra l'esperienza giudiziaria formatasi laddove i temi della prova scientifica vengono da più lungo tempo elaborati in parallelo alle acquisizioni dell'epistemologia, la necessità di valutare l'attendibilità della conoscenza trasferita nel processo penale dall'esperto non si pone soltanto nell'ipotesi di conoscenza scientifica, ricorrendo anche nell'ipotesi di prova tecnica, di sapere esperienziale di settore, cioè di cognizioni che non appartengono all'uomo comune (e quindi al giudice), ma a una cerchia più ristretta di soggetti, e che non scaturiscono dall'applicazione del metodo scientifico, nella sua attuale prevalente accezione.
La circostanza offre indizio del fatto che l'uso di quei criteri può conoscere assetti diversi a seconda del tipo di sapere esperto.
Ad avviso del Collegio la puntualizzazione assume particolare rilievo; essa permette di comprendere la peculiarietà del controllo delle teorie scientifiche, nel caso di una tesi che si proponga come nuova, ovvero come teoria esplicativa originale, mai prima emersa all'orizzonte del dibattito scientifico (non interessa invece, in questa sede, l'ipotesi di una scienza nuova solo all'esperienza giudiziaria).
Orbene, in linea di massima non sembra legittimo dover rinunciare, perché si tratta di scienza 'nuova', alla verifica della discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio e del grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Non pare legittimo perché si finirebbe per contraddire il principale degli insegnamenti della sentenza Cozzini, ovvero il divieto per il giudice di farsi creatore della legge scientifica: ove non possa confidare sul giudizio della comunità scientifica il giudice è sostanzialmente privo di strumenti critici nei confronti della teoria e la assunzione di questa, in simili condizioni, equivale a far regredire la 'valutazione' della prova scientifica al tempo in cui il parere del perito non era sindacabile dal giudice.
Tuttavia, proprio la possibile dimensione gradualistica degli indici e il carattere non aritmetico del giudizio permettono di dare ingresso nel processo penale ad una teoria che non sia stata sottoposta al 'vaglio' della comunità scientifica quando ciascuna delle assunzioni a base della medesima sia verificabile e sia stata verificata secondo l'insegnamento di questa Corte.
Un simile livello di controllo, per quanto notevole, appare necessario. Mettendo da parte il parametro che in definitiva coglie la vita della teoria in seno alla comunità scientifica - secondo necessità per taluno giustificata dal rischio di non utilizzare una scienza che è 'nuova' al tempo della decisione giudiziale ma che successivamente potrà affermarsi - si pone a carico dell'imputato il rischio inverso: ovvero che lo svolgersi della conoscenza scientifica dimostri la inattendibilità di quella 'scienza'. Il precipitato giuridico di queste considerazioni appare evidente: ove sia il processo penale il luogo in cui si introduce una nuova scienza, fondata su assunzioni esse stesse non suscettibili di controllo di attendibilità, risulta irrimediabilmente inciso il principio per il quale la condanna presuppone che sia superato ogni ragionevole dubbio sulla responsabilità.
Quanto appena osservato deve essere sintetizzato nel seguente principio di diritto: "In tema di accertamento della causalità, ove vi sia necessità di fare ricorso ai sapere scientifico, non è consentito l'utilizzo di una teoria esplicativa originale, mai prima discussa dalla comunità degli esperti, a meno che ciascuna delle assunzioni a base della teoria non sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo della attendibilità scientifica di essa e dell'affidabilità dell'esperto".
Infine, è necessaria un'ulteriore determinazione. Come si è scritto, la Corte di Appello ha utilizzato il metodo offerto dal prof. Ma. nelle risultanze che più riducevano l'ampiezza del rimprovero penale. Anche in ciò un errore concettuale che mina la logicità del ragionamento probatorio.
Merita di essere ribadito (si veda per altra applicazione del principio Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016 - dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, non massimata sul punto) che allorquando una teoria scientifica si presenta incerta nelle sue asserzioni non è possibile risolvere l'aporia facendo ricorso ad un criterio che non ha natura epistemologica ma è esclusivamente processuale, quale quello del favor rei. Una tesi scientifica è 'vera' o non 'vera'; non può essere vera rispetto ad altra perché delle due la più favorevole all'imputato.
Nel caso che occupa l'incertezza in ordine alla collocazione cronologica dell'inizio del periodo di latenza vera avrebbe dovuto spingere la Corte di Appello ad approfondire il tema dell'attendibilità della tesi proposta dal perito Ma. (che, con reiterata correttezza, aveva anche evidenziato di operare delle assunzioni in premessa, la cui fondatezza la Corte di Appello non ha mai valutato).
Queste osservazioni, che precludono l'esame della motivazione in ordine alla esistenza di fattori causali alternativi, importano l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti di A.A. e N.S., limitatamente agli omicidi colposi ad essi rispettivamente ascritti, con rinvio alla Corte di Appello di Lecce per nuovo giudizio; trattasi degli omicidi in danno di DC. P., DM.D., C.M., C.S., R.A., M.V., C.G., L.A. e P.A.. La Corte di Appello di rinvio provvederà anche alla regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità.
3.4. Risultano infondati il terzo motivo proposto dall'A.A. con il ricorso a firma dell'avv. Garaventa e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Pagano; essi hanno riguardo all'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 589 cod. pen.
In primo luogo si critica l'identificazione delle regole cautelari la cui violazione integra la condotta colposa. Si sostiene che gli artt. 4, 19 e 21 d.p.r. n. 303/1956 erano stati abrogati, limitatamente alle polveri di amianto, dall'art. 59, lett. b) del d.lgs. n. 277/1991. La tesi non ha alcun rilievo ai fini che occupano; all'A.A. sono contestate condotte commesse sino al 1987 e pertanto prima che mutasse il quadro normativo. Né si può ricavare dalla previsione dell'art. 59 lett. b) ("limitatamente all'esposizione alla polvere proveniente dall'amianto o dal materiali contenenti amianto, non si applicano gli articoli 4, 5, 18, terzo comma, 19 e 21, del decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1956, n. 303", a sua volta abrogata dal d.lgs. n. 81/2008) il venir meno degli obblighi che già nascevano dai menzionati artt. 20 e 21 del d.pr. n. 303/1956. La più recente disciplina ha all'inverso meglio precisato e contenutisticamente arricchito il novero delle prescrizioni imposte per le attività che espongono il lavoratore all'amianto.
Quanto al profilo più strettamente soggettivo, ovvero alla possibilità dell'A.A. di conoscere quanto la comunità scientifica al tempo già aveva acquisito in merito alla capacità oncogena dell'amianto e alla possibilità di adottare misure di prevenzione dell'inalazione dell'asbesto aerodisperso, va osservato quanto segue.
Per il primo profilo va chiarito che mentre per la definizione del quadro cautelare in allora da osservare non rilevano le cognizioni del singolo e in particolar modo del soggetto la cui condotta è in esame perché la regola cautelare vale per chiunque si trovi nella situazione che attiva il dovere di diligenza - essa sarà quella fissata, a seconda dei casi, dalla migliore scienza ed esperienza del tempo ovvero tenendo presente ¡'homo ejusdem professionis et condicionis (cfr. per esplicazioni, Sez. 4, n. 16761 del 11/03/2010 - dep. 03/05/2010, P.G. in proc. Catalano e altri, Rv. 247015) -, per ciò che concerne la colpa in senso soggettivo si pone il tema della prevedibilità da parte dell'agente concreto. Quindi è dell'agente concreto che vanno valutate le reali condizioni di operatività, per comprendere se la violazione cautelare, ormai presupposto acquisito, anche nella sua efficienza causale, sia del tutto scusabile (perché non esigibile in concreto un comportamento pur dovuto); e ove non lo sia, per ponderare la misura del rimprovero, a seconda che emerga una colpa lieve, una colpa 'media', una colpa grave o gravissima (sul punto, le chiare indicazioni contenute in Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, Cantore, Rv. 255105).
Il quesito non è più, quindi, se le norme prescrivevano di evitare l'aerodispersione dell'amianto; ma è se di tale regola e degli effetti della sua violazione, la cui esistenza è stata acquisita, l'imputato avesse una ignoranza scusabile e se (passando al piano della prevenibilità) egli avesse la concreta possibilità di fare quanto sarebbe stato di sicuro effetto preventivo.
La Corte di Appello ha reso su tutti i punti ampia e non manifestamente illogica motivazione, con puntuali riferimenti a specifiche acquisizioni probatorie (pg. 308 e s.).
Il motivo elevato con il ricorso si propone come aspecifico perché non si confronta con tale motivazione ma si limita a reiterare quanto la Corte di Appello aveva già valutato e superato.
3.5. Risulta infondato il quarto motivo proposto dall'A.A., con il ricorso a firma dell'avv. Pagano, concernente la violazione dell'art. 589, co. 2 cod. pen., anche in relazione all'art. 7 CEDU, per aver la Corte di Appello ritenuto sussistente l'aggravante dell'aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, accomunando la nozione di infortunio e quella di malattia, nonostante al tempo della condotta ascritta al ricorrente non fosse prevedibile l'interpretazione del termine infortunio data dalla giurisprudenza penale.
Giova precisare che il motivo investe non il profilo della insufficiente determinatezza, sub specie di precisione, della fattispecie, sì che risulterebbe non prevedibile la sua portata applicativa (ambito tematico che vede nella decisione della Grande Chambre della Corte e.d.u., De Tommaso c. Italia, 23.2.2017 l'indefettibile punto di riferimento, unitamente alla sentenza delle Sez. U, n. 40076 del 27/04/2017 - dep. 05/09/2017, Paterno', Rv. 27049601 e alla sentenza della Corte cost. n. 25 del 24.1.2019), ma a quello della prevedibilità al tempo della condotta della illiceità della stessa in ragione della esistenza di una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile. Ovverosia, il profilo oggetto di disamina da parte di Corte e.d.u., sentenza del 14 aprile 2015, Contrada c. Italia. Profilo che l'esponente implicitamente declina come riferibile, oltre che alla illiceità della condotta, anche alla sua specifica conformazione (aggravata).
Il ricorrente, che argomenta anche evocando talune decisioni giurisprudenziali del tempo concernenti l'art. 437 cod. pen., sovrappone piani che vanno mantenuti distinti. L'aggravante di cui all'art. 589, co. 2 cod. pen. individua la commissione del fatto con violazione delle norme "per la prevenzione degli Infortuni sul lavoro" quale ragione di aggravamento della pena. Non si tratta quindi di identificare quale accezione la giurisprudenza al tempo della condotta abbia riconosciuto al termine infortunio nell'ambito dell'art. 437, co. 2 cod. pen. (ovvero, per l'esponente, escludente la malattia-infortunio), per poi derivarne che eguale significato assumeva il termine nell'ambito dell'art. 589, co. 2 cod. pen. (che di conseguenza non si poteva prevedere integrato anche dalla violazione di norme in materia di igiene del lavoro), come fa il ricorrente; piuttosto di tratta di verificare a cosa ci si riferisca con la locuzione "norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro" nell'ambito di tal ultima disposizione.
Ora è vero che la disciplina prevenzionistica che prese vita in particolare negli anni 1955 e 1956 conosceva la netta distinzione tra quella afferente la prevenzione degli infortuni (recata dal d.p.r. n. 547/1955) e quella attinente all'igiene del lavoro (recata dal d.p.r. n. 303/1956).
Tuttavia ai fini del presente giudizio è decisivo considerare che quando nel 1981 (e quindi in un tempo anteriore al termine delle condotte dell'A.A. ma anche del N.S.), con la legge n. 689 il legislatore volle modificare il regime di procedibilità del reato di lesioni colpose, reintroducendo, in via generale, la querela, egli mantenne la procedibilità di ufficio per i fatti di cui al primo e al secondo capoverso «commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale» (art. 590 co. 5 c.p.). L'innovazione non fu accompagnata dalla modifica del secondo capoverso, che come visto reca l'aggravante (anche) dell'aver commesso il fatto con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni. La novella sarebbe stata incongrua qualora quest'ultima previsione non fosse stata riferibile anche alle norme relative all'igiene del lavoro.
Ne consegue che, almeno a far tempo dall'entrata in vigore della legge 689/1981, il testo della legge rendeva certamente prevedibile che tanto il reato di lesioni personali colpose che quello di omicidio colposo trovassero motivo di aggravamento anche nell'aver commesso il fatto con violazione delle norme sull'igiene del lavoro.
Ma in realtà nella giurisprudenza di legittimità già in precedenza era stato affermato che "in tema di reato colposo, per norme sulla disciplina per la prevenzione di infortuni sul lavoro vanno intese non soltanto quelle contenute nelle leggi specificamente dirette ad essa, ma anche tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che, in genere, tendono a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (Sez. 4, 7/3/1978, Sottilotta). E ancora in quel medesimo torno di tempo era corrente l'interpretazione secondo la quale "la locuzione 'norma sulla disciplina per la prevenzione degli infortuni sul lavoro', di cui agli articoli 589 e 590 cod. pen., va intesa come comprensiva non solo delle disposizioni contenute nelle leggi, specificamente dirette alla disciplina medesima, ma anche di tutte le altre che, direttamente o indirettamente, perseguono il fine di evitare incidenti sul lavoro o malattie professionali e che tendono, in genere, a garantire la sicurezza del lavoro in relazione all'ambiente in cui esso deve svolgersi (Sez. 4, n. 4477 del 14/12/1981 - dep. 27/04/1982, Gaibiotti, Rv. 153473).
Va quindi ribadito quanto già ritenuto da Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019 - dep. 10/06/2019, PG c/ Abbona, non massimata sul punto, ovvero che in subiecta materia va esclusa la violazione del principio di affidamento dei consociati contro improvvisi mutamenti dell'interpretazione giurisprudenziale ("overruling") e che abbia avuto luogo una applicazione retroattiva dell'interpretazione giurisprudenziale di una norma penale, siccome avente un risultato interpretativo che non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui la violazione è stata commessa (v. Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256584-01; in conformità, più recentemente, cfr. Sez. 2, n. 21596 del. 18/02/2016, P.G., P.C. e altro in proc. Tronchetti Proverà, Rv. 267164-01; Sez. 5, n. 37857 del 24/04/2018, Fabbrizzi e altro, Rv. 273876-01).
Risulta opportuno scandire quanto appena ritenuto nel seguente principio: "Con riferimento alle circostanze aggravanti rispettivamente previste dagli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen., ai fini della verifica della prevedibilità al tempo della condotta della illiceità della stessa in ragione della esistenza di una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile (art. 7 C.e.d.u.), la locuzione "norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro", in essa leggibile, va intesa come riferentesi anche alle norme in materia di igiene del lavoro e non assume rilievo, al riguardo, la nozione di infortunio valevole ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 437 , co. 2 cod. pen., nella definizione datane dalla giurisprudenza del tempo ".
Facendo applicazione di tale principio al caso che occupa, non può realmente porsi in discussione che gli imputati fossero nella condizione di prevedere la più lata interpretazione giurisprudenziale propria degli artt. 589, co. 2 e 590, co. 3 cod. pen.
3.6. Infondati sono anche gli ulteriori due motivi articolati a riguardo della motivazione con la quale la Corte di Appello ha confermato la sussistenza del reato di cui all'art. 437 co. 2 cod. pen. (sia pure dichiarando il medesimo estinto per prescrizione).
Il primo rilievo (all'A.A. sarebbe stata ascritta l'omessa vigilanza sull'uso dei dispositivi di protezione individuale e una inadeguata efficienza o manutenzione degli impianti di captazione delle polveri, laddove la norma punisce l'omessa collocazione di impianti ed apparecchiature) è manifestamente infondato. All'imputato è stato ascritto di aver omesso l'installazione degli impianti di aerazione e di fornire ai lavoratori maschere respiratorie o altri dispositivi di protezione (pg. 319).
Con il secondo rilievo si asserisce che l'art. 437, co. 2 cod. pen. non contempla le malattie-infortunio. Si tratta della mera contestazione del consolidato orientamento giurisprudenziale, che anche in questa sede si intende ribadire, secondo il quale rientra nella nozione di infortunio derivante dal fatto, che, ai sensi del secondo comma dell'art. 437 cod. pen., determina l'aumento della pena prevista dal primo comma, anche la c.d. "malattia-infortunio" e che a questa è riconducibile anche la malattia asbesto-correlata (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270382; Sez. 1, n. 350 del 20/11/1998 - dep. 14/01/1999, PG in proc. Mantovani ed altro, Rv. 212203; Sez. 1, n. 12367 del 09/07/1990 - dep. 14/09/1990, Chili, Rv. 185325).
Quanto al motivo concernente l'elemento soggettivo del reato in parola, la censura si fonda essenzialmente sull'assunto che vi era al tempo una limitata conoscenza dei rischi legati all'esposizione all'asbesto e quindi non si può ritenere che abbia voluto colui che non conosce.
In realtà questa Corte ha chiarito che la natura dolosa del reato di cui all'art. 437 cod. pen. richiede che l'agente, cui sia addebitabile la condotta omissiva o commissiva, sia consapevole che la cautela che non adotta o quella che rimuove servano (oltre che per eventuali altri usi) per evitare il verificarsi di eventi dannosi (infortuni o disastri); quel che rileva è la consapevolezza della idoneità dell'oggetto a creare la situazione di pericolo (cfr. Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 - dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235665).
Sicché non rileva che si avesse o meno consapevolezza che l'omessa collocazione di impianti di aspirazione o di abbattimento delle polveri comportasse il rischio di contrarre una malattia mortale, essendo sufficiente la consapevolezza che da quella omissione poteva conseguire un infortunio (rectius: una malattia-infortunio); qual è, ad esempio, l'asbestosi, patologia la cui derivazione dall'inalazione delle fibre di amianto era nota da tempo ben più risalente.
3.7. Il motivo articolato per l'A.A. sul trattamento sanzionatorio risulta assorbito, dovendosi nuovamente valutare l'ampiezza del giudizio di responsabilità.
3.8. Riassumendo, i ricorsi vanno in parte rigettati. 
4.1. Il primo motivo è infondato.
Viene ritenuto che il delitto di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. si consuma con il decesso del lavoratore. L'affermazione trova una qualche eco nella contestazione, che identifica l'evento aggravatore (che quella del comma 2 dell'art. 437 cod. pen. sia circostanza aggravante è insegnamento costante di questa Corte: Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2015 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270381) nel "disastro costituito dall'insorgenza di malattie tumorali nei lavoratori dell'anzidetto stabilimento ..." ma aggiunge "... e, nello specifico, la conseguente morte dei sotto indicati lavoratori ...").
Ciò lascia intendere che l'accusa pubblica abbia considerato evento aggravatore del reato in parola anche le morti seguite alle malattie.
Si tratta di una ricostruzione giuridicamente errata; che peraltro muove dalla sovrapposizione dei distinti elementi del disastro e dell'infortunio.
L'ipotesi in considerazione propone due possibili eventi: il disastro e l'infortunio; quest'ultimo, nell'accezione giurisprudenziale corrente, comprende anche le cd. malattie-infortunio, alla cui classe appartiene anche la malattia asbesto-correlata (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016 - dep. 03/02/2017, P.G., P.C. in proc. Ferrentino e altri, Rv. 270382).
Orbene, mentre il disastro è rappresentato dalla immutatio loci che determina pericolo comune alle persone (secondo una felice formula: il danno alle cose come fattore di pericolo alle persone), sicché il danno alle persone che ne può conseguire non assume rilievo ai fini dell'integrazione del reato (cfr. ancora Sez. 4 n. 5273/2016), tanto che l'art. 437, co. 2 cod. pen. può concorrere con i reati di cui rispettivamente all'art. 590 e all'art. 589 cod. pen. (da ultimo, Sez. 4, n. 52511 del 13/05/2016 - dep. 12/12/2016, Espenhahn e altri, Rv. 269572), l'infortunio è in primo luogo l'accadimento che, incentrato su una causa violenta, produce una lesione personale nella contestualità dell'esplicarsi di questa; ma è anche, per quanto si è sopra esposto, la malattia- infortunio.
Il concetto di infortunio rilevante ai sensi dell'art. 437 cod. pen. è stato in origine definito attraverso il riferimento al disposto dell'art. 2 R.D. 1765/35 e dell'art. 2 T.U. 1124/65, essendo ritenuto di poter trarre da essi, quale nota caratteristica dell'infortunio, la causa violenta del danno prodottosi a carico dell'organismo umano. La prima a porre in dubbio tale impostazione è stata la giurisprudenza di merito (Trib. Padova 13.2.1978), presto seguita da quella dottrina che propose di intendere in modo autonomo il concetto di infortunio sul lavoro valevole a fini penalistici (rispetto alla matrice di derivazione assicurativa), parlando al riguardo, sia pure in termini problematici, di 'malattie- infortunio'.
La giurisprudenza di legittimità ha optato per tale interpretazione e, pur mantenendo ferma in via generale la differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale, ha riplasmato il concetto del primo, emarginando il connotato della causa violenta, almeno per quella sorta di tertium genus costituito dalle malattie-infortunio (comunque ricondotte alla nozione di infortunio). Esse risultano caratterizzate per l'essere causate da agenti esterni di varia natura (Sez. 1, n. 12367 del 09/07/1990 - dep. 14/09/1990, Chili, Rv. 185325): l'art. 437 cod. pen. allude non solo alle lesioni cagionate da agenti meccanico-fisici (infortuni), ma anche a tutte le lesioni derivanti da agenti esterni connessi all'ambiente di lavoro (malattie-infortunio), mentre rimangono escluse dall'applicazione della norma le malattie in senso stretto, ovvero le manifestazioni morbose non derivanti da agenti esterni. Il principio è stato ripreso e ribadito in una seconda decisione (Cass. 26.11.1996, Martini ed altri), nella quale è stata riconosciuta la sussistenza del reato in presenza di ipoacusia, definita come conseguenza dell'aggressione violenta e continua di agenti esterni nell'ambiente di lavoro (nonché in Sez. 1, n. 350 del 20/11/1998 - dep. 14/01/1999, PG in proc. Mantovani ed altro, Rv. 212203); e non è mai stato ripudiato dalla copiosa giurisprudenza di legittimità che nell'ultimo quindicennio è intervenuta in tema di malattie asbesto-correlate e di malattie professionali più in generale.
Il breve excursus dimostra come la morte che sia eventualmente seguita alla lesione da causa violenta o alla malattia-infortunio non è mai stata considerata 'interna' alla nozione di infortunio valevole per l'art. 437 co. 2 cod. pen. Essa rappresenta un evento esterno alla fattispecie tipica; un effetto dell'infortunio che il legislatore non ha preso in considerazione ai fini della integrazione della fattispecie circostanziata.
Calando tali precisazioni nel tema del termine di decorrenza della prescrizione del delitto, quando circostanziato, è agevole rilevare che alla varietà strutturale corrisponde diversità del momento in cui si consuma il reato aggravato.
A tal riguardo il Collegio ritiene di ribadire la condivisione dell'opinione prevalente secondo la quale nei delitti aggravati dall'evento il tempo di verificazione di questo segna il momento della loro consumazione (per tutti Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014 - dep. 23/02/2015, P.C., R.C. e Schmidheiny, Rv. 262789, che con riferimento alla analoga fattispecie di cui all'art. 434, co. 2 cod. pen. ha affermato che nel reato aggravato dall'evento la prescrizione decorre dal momento in cui si verifica l'evento).
Orbene, avuto riguardo all'ipotesi in cui l'evento aggravatore del delitto di cui all'art. 437 cod. pen. sia rappresentato dalla malattie-infortunio va ribadito il risalente insegnamento, tuttavia riproposto anche da Sez. 1 n. 7941/2015, per il quale con riferimento all'ipotesi di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen., il momento della consumazione coincide con l’epoca della verificazione della malattia- infortunio (o del disastro) derivante dalla condotta dell’agente descritta nel primo comma (cfr. Sez. 1, n. 2181 del 13/12/1994 - dep. 03/03/1995, Graniano ed altro, Rv. 200414). E puntualizzando ulteriormente, deve aggiungersi che quando si tratti di malattia-infortunio l'evento si realizza già con l'insorgenza della malattia; il suo progredire verso la morte può certo assumere rilievo sul piano della complessiva gravità del reato (trattandosi di conseguenza dello stesso), ma non muta la fisionomia dell'evento aggravatore, che si perfeziona solo che insorga la malattia-infortunio.
4.2. Il momento consumativo del reato di lesioni personali, quando queste consistano in una malattia, è generalmente fatto coincidere con il momento dell'insorgenza della stessa. Nel delitto di lesioni personali colpose derivanti da malattia professionale caratterizzata da evoluzione nel tempo, in particolare, si insegna che il momento di consumazione del reato non è quello in cui sarebbe venuta meno la condotta del responsabile causativa dell’evento, bensì quello dell’insorgenza della malattia prodotta dalle lesioni, sicché ai fini della prescrizione il "dies commissi delicti" va retrodatato al momento in cui risulti la malattia "in fieri", anche se non stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente (Sez. 4, n. 37432 del 09/05/2003 - dep. 02/10/2003, Monti e altri, Rv. 225989; si trattava appunto di malattia professionale derivante da prolungata esposizione a polveri di amianto).
Il fondamento di tale principio è da rinvenirsi nel favor rei-, si affermava, infatti, che in simili casi "il "dies commissi delicti", ai fini del calcolo del maturarsi della prescrizione, in applicazione del principio, del "favor rei", deve essere retrodatato al momento in cui risulti comunque la malattia "in fieri", anche se non stabilizzata" (Sez. 4, n. 2522 del 08/01/1998 - dep. 27/02/1998, Croci, Rv. 210173, in motivazione).
Il patrimonio di conoscenze che la Corte di appello ha ritenuto acquisito a riguardo della cancerogenesi del mesotelioma, e che si è esposto nella trattazione dei ricorsi degli imputati, ha quale implicazione logica che il momento di insorgenza della malattia deve farsi risalire all'inizio dell'esposizione (o, più verosimilmente, in un tempo prossimo ad esso).
La Corte di Appello ha fatto propria la teoria che indica nel mesotelioma una malattia dose dipendente, la cui insorgenza coincide con l'inizio delle inalazioni della fibra. Ed invero, pur con l'approssimazione insita nella natura convenzionale di tali asserzioni, l'inizio dell'esposizione e quindi dell'inalazione delle fibre induce una modificazione cellulare che ben può farsi rientrare nel
concetto di malattia, intesa come alterazione di natura anatomica da cui deriva un significativo processo patologico (Sez. 4, n. 22156 del 19/04/2016 - dep. 26/05/2016, P.C. in proc. De Santis, Rv. 267306).
Facendo coerente applicazione delle assunzioni scientifiche fatte proprie dalla Corte di Appello, l'evento 'malattia-infortunio' che aggrava il delitto di cui all'art. 437 cod. pen. deve collocarsi temporalmente in prossimità dell'inizio dell'esposizione del lavoratore alla fibra nociva. Un tempo quindi addirittura più remoto rispetto a quelli della cessazione della condotta o dell'esposizione del lavoratore.
Tuttavia, non è senza rilievo che la esposizione del lavoratore perduri nel tempo. Ciò determina, facendo ancora applicazione delle premesse scientifiche ritenute acquisite dal giudice di merito, che al persistere della condotta tipica corrispondano ulteriori alterazioni di natura anatomica da cui deR.F.A. un significativo processo patologico, e quindi la malattia nel senso che si è sopra rammentato.
Va quindi formulato il seguente principio: "In materia di determinazione del dies a quo del termine di prescrizione del reato di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen., ove l'evento aggravatore venga accertato essere l'infortunio, sub specie di malattia-infortunio, e segnatamente il mesotelioma asbesto-correlato, tale dies a quo coincide con un tempo prossimo all'inizio dell'esposizione all'agente nocivo; nel caso di esposizione durevole, deve farsi riferimento al più anteriore tra il tempo della cessazione dell'esposizione della persona offesa all'agente nocivo e il tempo della cessazione dell'imputato dalla posizione gestoria".
Ne consegue che la Corte di Appello ha correttamente individuato quale dies a quo del termine di prescrizione del reato di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. il più risalente tra il momento in cui l'imputato ha cessato la posizione di garanzia e la data di cessazione dell'attività lavorativa delle vittime ammalatesi.
4.3. Il secondo ed il terzo motivo non devono essere esaminati, giacché attengono alle posizioni degli imputati C.L. e R.F.A., per le quali è stata disposta la separazione.
4.4. In conclusione, il ricorso del Procuratore generale deve essere rigettato.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte dispone la separazione del procedimento a carico di R.F.A.  e C.L. e rinvia il processo a loro carico a nuovo ruolo.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di SP.GI. perché i reati sono estinti per morte dell'imputato e revoca le statuizioni civili a suo carico.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di A.A. e N.S. , limitatamente agli omicidi in danno di DC.P., DM.D., C.M., C.S., R.A., M.V., C.G., L.A. e P.A., loro rispettivamente ascritti, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Lecce cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo grado.
Rigetta nel resto i ricorsi di A.A. e N.S.
Rigetta il ricorso del Procuratore generale nei confronti di A.A. e N.S. .
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13.6.2019.