Cassazione Penale, Sez. 4, 17 febbraio 2020, n. 5957 - Caduta mortale dal ponteggio. Responsabile il datore di lavoro


Presidente: BRICCHETTI RENATO GIUSEPPE Relatore: CAPPELLO GABRIELLA Data Udienza: 23/01/2020

 

Fatto

 


1. La Corte d'appello di Napoli, In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Nola, appellata, tra gli altri, dall'Imputato M.F., con la quale costui era stato condannato per il reato di cui all'art. 589, comma 2, cod. pen. (oltre a un'ipotesi contravvenzionale), ha dichiarato non doversi procedere per il reato contravvenzionale perché estinto per prescrizione e rideterminato la pena, confermando nel resto.
In particolare, si è contestato al M.F., nella qualità di rappresentante legale della "AP Costruzioni s.r.l." e datore di lavoro di V.D., di averne cagionato la morte, conseguita alla caduta del predetto da un ponteggio, per colpa generica e specifica, consistita quest'ultima nella violazione delle norme sulla disciplina della prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 18 comma 1, lett. d, d. Lgs. 81/2008, per avere omesso di munire, e sorvegliare all'uso, di dispositivi di protezione Individuale i lavoratori impegnati in attività di montaggio e smontaggio dei ponteggi e di adibire a detti lavori solo soggetti adeguatamente addestrati; artt. 36 e 37 stesso d.lgs., per avere altresì omesso di provvedere a sottoporre gli addetti ai lavori per il ponteggio a specifici corsi di formazione, informazione e addestramento). Secondo l'editto accusatorio, il V.D., al momento del sinistro, stava smontando il ponteggio metallico utilizzato per i lavori di ristrutturazione di un edificio e si trovava su una passerella ad un'altezza di circa metri 5,50 da terra, intento a passare gli elementi smontati ad altro operaio che si trovava sulla passerella sottostante. Ad un certo punto, la vittima aveva perso l'equilibrio e, siccome privo di presidi di protezione (cintura di sicurezza con brache), era precipitato al suolo, procurandosi le lesioni descritte in imputazione, dalle quali era derivata la morte.
2. Il M.F. ha proposto ricorso avverso la sentenza d'appello, con proprio difensore, formulando tre motivi.
Con il primo, la difesa ha dedotto vizio della motivazione quanto alla valutazione delle doglianze formulate con il gravame di merito (con particolare riguardo: alla Inconferenza delle contestate violazioni dei citati artt. 36 e 37 ai fini della causazione dell'evento; alla causalità; alla regola di giudizio della certezza della penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio; alla omessa valutazione delle prove a discarico; infine, alla violazione dell'art. 18, comma 1 lett. d, del d.lgs. 81/08).
Con il secondo, ha dedotto inosservanza delle norme processuali e vizio della motivazione anche con riferimento alla valutazione delle prove.
In particolare, la parte ha rilevato che gli elementi acquisiti non consentivano di ricostruire con sufficiente grado di certezza la dinamica dell'evento e di stabilire, conseguentemente, se esso fosse riconducibile a un'omissione del datore di lavoro o a un comportamento abnorme della stessa vittima, tenuto conto della Incertezza della causa della caduta (scivolamento, malore...). Inoltre, l'istruttoria avrebbe dimostrato che il lavoratore, contravvenendo alle direttive del M.F., aveva modificato il modus operandi per lo smontaggio del ponteggio in corso di esecuzione (dopo la pausa caffè), avendo il primo disposto che quel lavoro fosse eseguito da tre persone e con l'utilizzo della carrucola, laddove il V.D. aveva Invece deciso che il lavoro poteva essere eseguito da due persone e senza l'impiego della carrucola.
In ciò la difesa ravvisa quel comportamento Imprevedibile del lavoratore, Idoneo a interrompere il nesso di causalità tra la condotta omissiva contestata al datore di lavoro e l'evento verificatosi, rilevando al contempo il travisamento probatorio da parte dei giudici del merito che avrebbero superato il valore delle evidenze dirette per accordare rilievo a fonti di prova solo indirette.
Con il terzo, ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in termini di prevalenza sulla contestata aggravante.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso va rigettato.
2. La Corte partenopea ha ritenuto che la ricostruzione della dinamica dei fatti e dei luoghi ove essi erano avvenuti fosse stata confermata dal compendio probatorio orale e documentale acquisito, precisando che, nell'occorso, il lavoro al quale era stato addetto il V.D. si stava svolgendo In quota e In assenza di dotazioni di sicurezza, essendo stata rinvenuta una sola cintura di sicurezza, peraltro priva del sistemi di ancoraggio. Inoltre, era pure emerso che il lavoratore deceduto (secondo la difesa, preposto in via di fatto dallo stesso datore di lavoro, in maniera comunque giudicata contraria alla normativa vigente, dai giudici d'appello) non era stato neppure formato per lo svolgimento di quel rischioso lavoro, né sottoposto ad alcun percorso di formazione sul montaggio e smontaggio dei ponteggi.
A fronte delle doglianze veicolate con i motivi d'appello, la Corte territoriale ha poi rilevato che, all'atto dell'accesso, erano state rinvenute sul cassone del mezzo usato per la fornitura del materiale delle cinture di sicurezza, tuttavia non indossate dai lavoratori, essendo emerso per via documentale che i lavoratori non erano stati formati per tale tipo di lavorazione, circostanza confermata anche in sede testimoniale.
Ha, poi, ritenuto irrilevante l'eventuale delega informale del datore di lavoro al V.D. In ordine alla direzione delle operazioni, residuando, in ogni caso, un obbligo, violato, di vigilanza In capo al delegante, trattandosi di mansioni proprie della posizione datoriale.
La prova orale aveva pure consentito di accertare che le impalcature non servivano solo allo scarico del materiale, ma anche all'accesso dei lavoratori per lo svolgimento delle proprie incombenze.
I testi presenti, inoltre, avevano confermato che il giorno dell'infortunio il M.F. aveva ordinato lo smontaggio della impalcatura, affidando il lavoro al V.D. e al C., senza verificare che costoro si munissero dei presidi di sicurezza, dispositivi - come pure emerso - acquistati solo dopo il montaggio della Impalcatura o in prossimità dell'evento. 
Del tutto irrilevante, inoltre, a fronte della doglianza difensiva, si era rivelato l'accertamento della causa della caduta (malore o scivolamento), atteso che il comportamento alternativo lecito (dotazione dei presidi di sicurezza e vigilanza sul loro effettivo utilizzo da parte dei lavoratori; formazione degli stessi) avrebbe scongiurato l'evento dannoso, proteggendo il lavoratore dal rischio di caduta concretizzatosi.
Quanto alla dosimetria della pena, infine, gli elementi che avevano giustificato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non consentivano di fondare il più favorevole giudizio di bilanciamento invocato a difesa, alla luce del dimostrato grado della colpa (superficialità e disinteresse per la sicurezza dell'ambiente di lavoro, nella consapevolezza dell'esposizione a rischio dei propri dipendenti).
3. I motivi sono infondati.
3.1. Richiamato il consolidato orientamento per il quale sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nel precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), vanno ulteriormente calibrati i confini del vizio della motivazione deducibile in sede di legittimità. È vero che - a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. dall’art. 8, comma primo, della legge n. 46 del 2006 - Il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilltà di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (cfr. sez. 3 n. 38341 del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche a seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 3 n. 18521 dell'l 1/01/2018, Ferri, RV. 273217; sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099, cit.).
In ogni caso, va ricordato che un ricorso per cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l’erronea interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l’omessa valutazione di circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di significato indiscutibilmente univoco (cfr. sez. 4 n. 14732 dell'01/03/2011, Molinario, Rv. 250133).
3.2. Quanto ai principi regolatori in materia antinfortunistica, poi, deve premettersi che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro [cfr. sez. 4 n. 4361 del 21/10/2014 Ud. (dep. 29/01/2015), Ottino, Rv. 263200],
Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse, il Supremo Collegio di questa Corte ha definitivamente chiarito che gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (cfr. Sez. Un. n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261108).
Anche più di recente, del resto, si è affermato il principio in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro, diretto precipitato di quelli già richiamati, secondo cui, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione [cfr. sez. 4 n. 6507 dell'11/01/2018, Caputo, Rv. 272464; già in precedenza cfr. sez. 4 n. 18826 del 09/02/2012, Pezzo, Rv. 253850 (in un caso in cui era stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto)].
Proprio con riferimento alla esatta individuazione del garante in tali specifiche ipotesi, si è precisato che il datore di lavoro deve controllare che il preposto, nell'esercizio dei compiti di vigilanza affidatigli, si attenga alle disposizioni di legge e a quelle, eventualmente in aggiunta, impartitegli (cfr. sez. 4 n. 26294 del 14/03/2018, Fassero Gamba, Rv. 272960).
3.3. Anche per quanto riguarda il nesso eziologico, con specifico riferimento al giudizio controfattuale che la difesa ha ritenuto positivamente risolvibile in favore dell'imputato e alla rilevanza del comportamento imprudente del lavoratore, emerge una congrua risposta da parte del giudice dell'appello. Questi ha, infatti, obiettato alle considerazioni difensivo, offrendo una valutazione in questa sede non sindacabile, rispetto alla quale mette conto evidenziare l'infondatezza degli assunti difensivi (secondo cui l'impossibilità di accertare la effettiva causa della caduta non avrebbe consentito di verificare il nesso causale tra le condotte omissive contestate e l'evento) che si annida nella semplice considerazione, chiaramente espressa dalla Corte d'appello napoletana e con la quale la difesa ha omesso di confrontarsi, che la dotazione del presidio di sicurezza o la vigilanza sul suo effettivo utilizzo da parte del lavoratore impegnato in lavori in quota erano intesi a prevenire proprio le conseguenze di cadute accidentali.
3.4. Alla stregua di tali principi, deve pertanto concludersi nel senso che la Corte del merito ha debitamente svolto la verifica demandatale, sulla scorta di un giudizio meramente ipotetico, per verificare se il comportamento omesso avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell'evento o comunque ridotto l'intensità lesiva dello stesso (sui connotati del quale pare sufficiente, in questa sede, un rinvio ai principi consolidatisi dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2002, Franzese in avanti e sino alla più recente Espenhahn e altri del 2014, citata).
3.5. Quanto poi alla rilevanza, sotto il profilo causale, della condotta imprudente o negligente del lavoratore, le doglianze difensive sono infondate anche alla stregua dell'orientamento (cfr., sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/02/2016, Santini e altro, Rv. 266073), secondo cui, in materia di prevenzione antinfortunistica, si è passati da un modello "iperprotettivo'', interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro Investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento, il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr. art. 20 d.lgs. 81/2008).
E' stato così individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore, una volta abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (cfr,, in motivazione, sez. 4 n. 41486 del 2015, Viotto) e si è passati, a seguito dell'introduzione del d.lgs 626/94 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.
Tuttavia, resta in ogni caso fermo il principio che non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.). All'interno dell'area di rischio considerata, quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13712/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv. 275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222).
3.6. Parimenti, non si rinviene - nella risposta approntata dalla Corte d'appello alle doglianze formulate con il gravame di merito - alcuna lacuna motivazionale idonea a inficiare il complessivo ragionamento probatorio svolto nella sentenza in questa sede censurata.
In ogni caso, questa Corte ritiene di ribadire il consolidato principio secondo cui non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (cfr. sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Caniello e altri, Rv. 256340; sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro Nicola, Rv. 275500). Trattasi di principi sui quali è da ultimo ritornato il Supremo Collegio di questa Corte, ritenendo non revocabile in dubbio la legittimità del ricorso alla motivazione implicita che non costituisce l'opposto di quella esplicita, bensì «una particolare tecnica espositiva, caratterizzata dal proporre un'argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica e giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda». Cosicché, deve concludersi che, nella motivazione implicita, manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo [cfr., in motivazione, Sez. Un. n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino e altri (in cui si è altresì precisato che il ricorso alla motivazione implicita, oltre a trovare riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga "una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto" su cui è fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc .pen.), è altresì compatibile con il diritto a un processo equo ex art. 6 della C.E.D.U., come interpretato dalla Corte di Strasburgo (richiamando in motivazione la sentenza della Quarta Sezione del 24.07.2015, nella causa Chipani ed altri c. Italia)].
3.7. Infine, la Corte territoriale ha adeguamente giustificato la propria decisione di non accedere ad un più favorevole giudizio di bilanciamento degli elementi circostanziali, attingendo a criteri a tal fine utilizzabili alla luce del disposto di cui all'art. 133 cod. pen. e assolvendo in tal modo all'onere di fornire idonea giustificazione dell'utilizzo del riconosciuto potere discrezionale nella individuazione della pena. Si ricorda, infatti, ancor prima che sul giudizio di bilanciamento, sulla stessa ratio della disposizione di cui all'art. 62 bis cod. pen., che essa non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l'indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (cfr. sez. 2 n. 3896 del 20/01/2016, Rv. 265826; sez. 7 n. 39396 del 27/05/2016, Rv. 268475; sez. 4 n. 23679 del 23/04/2013, Rv. 256201), rientrando la concessione delle stesse nell'ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l'adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (cfr. sez. 6 n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737), non essendo neppure necessario esaminare tutti i parametri di cui all'art. 133 cod. pen., ma sufficiente specificare a quale si sia inteso far riferimento (cfr. sez. 1 n. 33506 del 07/07/2010, Rv. 247959).
Da tale premessa, può ricavarsi, dunque, che tale funzione ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione (cfr. sez. 3 n. 44883 del 18/07/2014, Rv. 260627).
4. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
In Roma il 23 gennaio 2020