Cassazione Civile, Sez. Lav., 22 marzo 2002, n. 4129 - Risarcimento danni del lavoratore sequestrato in Etiopia


 


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo MILEO - Presidente - Dott. Mario PUTATURO DONATI VISCIDO - Consigliere - Dott.  STILE - Rel. Consigliere - Dott. Saverio TOFFOLI - Consigliere - Dott. Camilla DI IASI - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA

 


sul ricorso proposto da:
STUDIO ING. G. P. SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MONTI PARIOLI 12, presso lo studio dell'avvocato GREGORIO IANNOTTA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
B.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE CARSO N. 20, presoo lo studio dell'avvocato FLAVIO DE LUCA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrente -
contro
B.S., domiciliato in ROMA presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato FRANCESCO LOPEZ, giusta delega in atti;
- controricorrente -
nonché contro
SORIGE PERFORAZIONI DITTA IND.;
e sul 2^ ricorso n^ 03069/00 proposto da:
SORIGE PERFORAZIONI DITTA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA TACITO 23, presso lo studio dell'avvocato MAURIZIO NOBILI, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato PIERO BAZINI, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
B.P.;
- controricorrente al ricorso incidentale -
nonché contro
STUDIO ING. G. P. SRL, B.S.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 110/98 del Tribunale di PARMA, depositata il 22/12/98 R.G.N. 129/96;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/07/01 dal Consigliere Dott.  STILE;
udito l'Avvocato IANNOTTA; udito l'Avvocato NOBILI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giuseppe NAPOLETANO che ha concluso per il rigetto del primo e del secondo motivo del ricorso principale; accoglimento del terzo motivo, assorbito il quarto, quinto e sesto, sempre del ricorso principale.
Accoglimento del ricorso incidentale.
 

 

Fatto

 


Con ricorso depositato il 1° agosto 1990, B.P. conveniva dinanzi al pretore di Parma la SO.RI.GE Perforazioni (*), ditta individuale, in persona del suo titolare dott. R.C., nonché la società "Studio Ing. G. P." S.r.l., in persona dell'amministratore unico, ing. G.P., esponendo che, in quanto perito industriale con specifica competenza quale operatore alle sonde, era stato assunto in data 4 ottobre 1987 dalla ditta SO.RI.GE.(*), specializzata in perforazioni, sondaggi e ricerche geologiche.
Pochi giorni dopo l'assunzione, aveva accettato la proposta dal dott. R.C. di andare a lavorare in Etiopia, più esattamente a Kunzila, a sud del lago Tana, dove la SO.RI.GE.(*) era stata incaricata dalla S.r.l. Studio Ing. G.P.(*), di effettuare rilievi geotecnici.
In data 19 ottobre 1987 partiva per Adis Abeba, da dove proseguiva per Balir Dar, nel cui cantiere lavorava per circa una settimana per preparare il trasferimento delle macchine e delle attrezzature nel cantiere di Kunzila.
Una volta giunto a Kunzila (distante da Bahr Dar circa tre ore), aveva appurato
che il campo era presidiato giorno e notte da truppe governative in assetto di guerra;
che militari armati di mitra accompagnavano maestranze e macchine operatrici durante il lavoro esterno;
che ogni movimento di chiunque era controllato dai militari.
Veniva, così, ad apprendere che si stava lavorando alla realizzazione di un canale di collegamento fra il Lago Tana e la Valle del Beles, denominato "Tana Beles Projet", della cui progettazione era aggiudicatrice - per conto dello Stato Italiano, finanziatore del progetto - la S.r.l. Studio Ing. G.P.(*), la quale aveva subappaltato alla SO.RI.GE.(*) i sondaggi geologici;
che il progetto era contrastato dai guerriglieri aderenti all'E.P.R.P. (Ethiopian People's Rivolutionary Party), che combattevano il regime governativo filo-sovietico di Menghistu;
che l'anno precedente in quella stessa zona erano stati sequestrati due tecnici italiani dopo un cruento scontro a fuoco che aveva provocato una trentina di morti;
che la presenza delle truppe governative mirava ad evitare il ripetersi di quanto avvenuto l'anno precedente ed a garantire l'incolumità personale degli addetti al progetto contro eventuali azioni di guerriglieri.
Il ricorrente proseguiva specificando che lo stesso - unitamente ad altri tecnici - aveva deciso di interrompere il lavoro sino a quando non fosse stata adeguatamente chiarita la situazione e non fossero state date precise garanzie di sicurezza, invitando il capocantiere, dott. Franco Truzzi, a far presente che, in difetto, sarebbero tutti tornati in Italia; e di tanto il dott. Truzzi informava il dott. R.C. della SO.RI.GE.(*) e l'ing. G.P..
In data 30 ottobre 1987 il dott. Truzzi consegnava un telex personale dell'ing. P. con il quale questi affermava che il 5 settembre 1987 in una riunione ad Adis Abeba fra le autorità etiopiche e quelle italiane era stato constatato "che i problemi di sicurezza emersi nel marzo 1987 erano stati eliminati";
che il successivo 26 ottobre 1987 presso l'ambasciata Italiana ad Adis Abeba le ultime informazioni disponibili erano state "riesaminate con conclusione positiva comunicata per via diplomatica a Roma";
che forniva la sua "personale garanzia scritta" al personale addetto ai sondaggi, "al quale questa comunicazione è destinata";
che non esistevano né "notizie di fonte ufficiale", né "notizie ufficiose" - "neppure verbali" - che inducessero a "ritenere non più valide le garanzie di sicurezza concordate in data 5 settembre" e che "i contatti continui con varie fonti confermavano che tutto procede secondo le previsioni".
Rassicurati da tale comunicazione, il ricorrente e gli altri tecnici decidevano di rimanere e riprendevano il lavoro.
Senonché in data 16 novembre 1987, durante un trasferimento a bordo di una jeep da Bahr Dar a Kunzila, venivano fermati da un gruppo di guerriglieri dell'E.P.R.P., i quali lo sequestravano insieme ad altro dipendente della SO.RI.GE.(*), B.S., tenendoli prigionieri sino al 10 agosto 1988.
Il ricorrente ricordava le sofferenze patite nel corso di tale periodo; specificava che dopo la liberazione era rientrato in Italia, dove era stato ricoverato dal 18 al 28 agosto 1988 all'Istituto di Clinica delle Malattie Tropicali ed Infettive e dove gli era stata diagnosticata "pregressa malaria, rinofaringite acuta e congiuntivite follicolare".
Deduceva che le assicurazioni dategli per riprendere il lavoro erano risultate consapevolmente false ed in contrasto con il contenuto del telex 28 ottobre 1987 dello Studio P. all'ambasciata Italiana in cui veniva riassunto il contenuto della riunione svoltasi presso tale ambasciata il giorno precedente. Aggiungeva che, comunque, - circa la loro permanenza a Kunzila - era stata adottata la soluzione consapevolmente più rischiosa rispetto a quella ritenuta più sicura.
Aggiungeva lo stesso ricorrente che la liquidazione del danno avrebbe dovuto comprendere le retribuzioni non percepite e la regolarizzazione delle contribuzioni previdenziali anche relative al periodo di prigionia; e, inoltre, che gli spettava il risarcimento del danno biologico, del danno morale e di quello relativo alla riduzione della specifica capacità lavorativa, da quantificarsi anche a mezzo di CTU, tenuto conto che la responsabilità relativa ai danni lamentati doveva essere ascritta in via solidale ad entrambe le convenute, sia a titolo contrattuale che a titolo extracontrattuale, per la violazione dallo stesso ricorrente prospettata, come sussistente nelle specie, dell'art. 1 della L. n. 1369 del 1960 e soprattutto dell'art. 2087 cod. civ.
Concludeva, quindi, chiedendo che, previa dichiarazione della responsabilità solidale (ovvero, in subordine, alternativa in parte equa) delle parti convenute per i predetti fatti, queste venissero condannate a risarcirgli i danni tutti subiti, oltre rivalutazione monetaria ed interessi fino al pagamento; chiedeva, inoltre, la condanna delle stesse parti convenute, in solido, al pagamento della somma di L. 3.001.785 a titolo di differenza del T.F.R., oltre accessori, ed a provvedere alla regolarizzazione della posizione previdenziale per il periodo ottobre 1987-settembre 1988 mediante versamento dei relativi contributi assicurativi.
Con successivo ricorso, sempre diretto al pretore del lavoro di Parma e depositato in data 16 aprile 1992,  B.S. conveniva in giudizio le predette parti convenute, esponendo di essere rimasto vittima delle stesse vicende occorse al B.P., posto che anch'egli era stato fatto prigioniero dei guerriglieri etiopici contrari al progetto, nella sua qualità di tecnico operatore alle sonde, anch'egli dipendente della ditta SO.RI.GE.(*), inviato a Kunzila, in Etiopia, per effettuare i rilievi geotecnici connessi alla realizzazione del progetto, affidata alla società "Studio ing. G. P." S.r.l., la quale aveva subappaltato alla SO.RI.GE.(*) la parte relativa alle ricerche geologiche.
Anche il B.S., analogamente al B.P., prospettava in diritto le medesime ragioni fatte valere da quest'ultimo, ai fini della affermazione della responsabilità solidale di entrambe le parti convenute, per violazione dell'art. 2087 cod. civ. e della legge n. 1369 del 1960, onde ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti.
Dopo la notifica dei ricorsi, entrambe le convenute si costituivano ritualmente in giudizio, deducendo quanto segue:
- la ditta SO.RI.GE.(*) assumeva che la responsabilità e la gestione del cantiere di Kunzila erano esclusivamente della Società P., di guisa che tale fatto sarebbe stato idoneo ad interrompere il nesso causale intercorrente tra il preteso inadempimento della SO.RI.GE.(*) e l'evento così verificatosi e lamentato dai ricorrenti; chiedeva, quindi, di essere considerata estranea al fatto con conseguente reiezione delle domande proposte nei suoi confronti; e - comunque - di essere manlevata e tenuta indenne da parte della S.r.l. ing. P..(*)
La Società P., a sua volta, eccepiva - in via pregiudiziale - la incompetenza per materia del pretore del Lavoro, ritenendo la causa di competenza del Tribunale di Parma. Chiedeva, inoltre, la sospensione del giudizio fino alla definizione della controversia pendente innanzi al Tribunale di Parma con la stessa SO.RI.GE.(*) e la "Indagini geognostiche" (parti attrici) in ordine ai contrasti emersi sulla validità del contratto di subappalto e relative inadempienze; eccepiva, poi, la insussistenza delle pretese violazioni della L. n. 1369 del 1960 e la conseguente carenza di legittimazione passiva di essa società non potendosi, sia il B.P. che il B.S., considerare in alcun modo dipendenti della società P., anche perché l'evento si era verificato al di fuori del cantiere di Kunzila, dove a far tempo dal 1° novembre 1987, il personale risiedeva stabilmente, dovendosi considerare arbitrario il viaggio effettuato dai ricorrenti a Bahr Dar.
Pertanto, la Società P. chiedeva di essere manlevata dalla SO.RI.GE.(*) e di respingere le domande dei ricorrenti nei confronti della stessa società spiegate, ferme rimanendo le eccezioni pregiudiziali; e in ogni caso di estendere il contraddittorio al Ministero degli esteri italiano, anch'esso tenuto alla manleva verso la medesima società convenuta.
Le cause venivano istruite mediante assunzione di prove orali e produzioni documentali. Venivano espletate CTU medico-legali su entrambi i ricorrenti e quelle contabili.
Le cause, dapprima riunite, poi separate e poi ancora riunite, venivano decise dal pretore di Parma, che respingeva tutte le questioni ed eccezioni pregiudiziali sollevate in ordine a:
- competenza del giudice adito;
- istanza di sospensione del processo;
- istanza di chiamata in causa del Ministero degli esteri italiano;
- difetto di legittimazione passiva della soc. "Studio Ing. G. P.".
Nel merito procedeva alla ricostruzione dei fatti sulla base delle prove orali e documentali acquisite agli atti, al termine della quale affermava che la soc. Studio ing. P.(*) sapeva, come sapevano i suoi collaboratori, che i lavori di realizzazione del progetto Tana Beles avrebbero provocato le reazioni dei guerriglieri contrari al progetto stesso;
che ciò nonostante venivano date formali assicurazioni scritte sulla inesistenza di qualsiasi pericolo, le quali si ponevano in stretto rapporto di causalità rispetto all'evento, con l'induzione in errore dei dipendenti SO.RI.GE.(*), che rinunciavano, di conseguenza, al rientro in Italia, a fronte di assicurazioni che la P. sapeva non corrispondenti al vero.
Per quanto riguardava la SO.RI.GE.(*) e per essa il dott. R.C., il pretore osservava
che lo stesso, pur sapendo della situazione di pericolo in cui versavano i propri dipendenti, aveva omesso di esercitare un adeguato controllo e tutti gli accertamenti del caso al fine di rendersi conto dell'effettiva situazione;
omettendo, ad esempio, di recarsi egli stesso a Kunzila, e lasciando dipendere, invece, ogni decisione dal personale "in loco" e dal responsabile del cantiere Truzzi;
omettendo, inoltre, di farsi parte attiva e diligente presso il Ministero degli esteri prima della cattura del B.P. e del B.S., al fine di concordare le iniziative e le strategie più opportune e del caso.
In ordine, poi, alla valutazione di tali fatti, il pretore escludeva, preliminarmente, la sussistenza, nei rapporti tra le convenute, di un appalto di mano d'opera vietato ai sensi dell'art. 1 della L. n. 1369 del 1960.
Affermato, quindi, che la chiave di lettura della causa, ai fini dell'accertamento delle rispettive responsabilità delle parti convenute, era in funzione della violazione dell'art. 2087 cod. civ., affermava ulteriormente che la responsabilità ascrivibile ad entrambe le convenute era di natura sia contrattuale che extracontrattuale.
In particolare, con riferimento alla SO.RI.GE.(*), metteva in risalto che la sua responsabilità era da ricollegarsi direttamente al fatto di essere datrice di lavoro del B.P. e del B.S., di modo che sulla stessa incombeva in via diretta ed immediata l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 cod. civ.
Respingeva, siccome infondata, la difesa della SO.RI.GE.(*) volta a mettere in luce la sua estraneità alla organizzazione ed alla conduzione del cantiere, con conseguente mancanza di responsabilità anche dal punto di vista logistico nella organizzazione del trasferimento, tutto facendo capo alla P..
Con riferimento, poi, alla posizione della soc. Studio P.(*), il pretore osservava che, rendendosi lo Studio P.(*) appaltatore dell'opera nei confronti del Governo etiopico e poi sub-appaltante rispetto alla SO.RI.GE.(*) per le attività di indagine geognostica, nei confronti di quest'ultima e quindi anche nei confronti dei dipendenti SO.RI.GE.(*), si era resa responsabile direttamente della sicurezza dei lavoratori, dal momento che, essendo alla stessa P. riservata tutta l'organizzazione tecnico-operativa del cantiere, nonché i trasferimenti del personale, la stessa si era resa anche contrattualmente garante dell'attuazione e della vigilanza relativa alle misure di sicurezza da adottare in concreto.
Pertanto concludeva sul punto il pretore nel senso che entrambe le parti convenute dovessero rispondere dei danni subiti dai ricorrenti, a titolo contrattuale per violazione dell'art. 2087 c.c. per quanto concerneva le inadempienze relative all'obbligo di sicurezza incombente, sia sulla SO.RI.GE.(*) quale datrice di lavoro e quindi in base al rapporto di lavoro subordinato, sia sulla società P. in base al contratto di sub-appalto, in relazione al quale era la responsabile dell'organizzazione, gestione e direzione del campo Kunzila nel suo complesso, anche verso la SO.RI.GE.(*) e i dipendenti di questa.
La responsabilità contrattuale delle convenute concorreva poi con la responsabilità extra-contrattuale, pure connessa alla violazione degli obblighi previsti dall'art. 2087 c.c., essendo da tale violazione derivati danni per lesione del diritto primario ed assoluto alla integrità fisica e alla personalità morale dei lavoratori, in forza del principio del "neminem ledere" di cui all'art. 2043 c.c.
Inoltre, allo Studio ing. P. S.r.l. era ascrivibile un rilevante grado di responsabilità, pure di carattere extracontrattuale, per avere con dolo e malafede, a mezzo del telex 30 ottobre 1987, data una falsa rappresentazione della reale situazione di pericolo e fornito garanzie di sicurezza che invece in base alla lettera 28 ottobre 1987 della stessa P. non potevano affatto essere fornite, posto che nello stesso documento del 28 ottobre 1987 si dava atto di una particolare e grave situazione di rischio, tanto da consigliare la prospettazione di una serie di rimedi alternativi. In tal modo, i dipendenti SO.RI.GE.(*) venivano indotti in errore, determinando gli stessi, sulla base delle garanzie offerte dallo stesso ing. P., a rimanere in Etiopia, rinunciando alla decisione di fare rientro in Italia, che dagli stessi dipendenti era stata presa a causa della pericolosità della situazione in cui si erano trovati ad operare.
Il pretore poi affermava la responsabilità solidale di entrambe le parti convenute che - ai soli fini dell'azione di regresso e della ripartizione interna alla luce delle proposte azioni di manleva reciproche - provvedeva a quantificare nella percentuale del 70% in capo alla società P. ed, ovviamente, nel restante 30% in capo alla SO.RI.GE.(*) Si rifaceva, poi, per la concreta determinazione alle disposte consulenze tecniche.
Avverso tale decisione proponevano appello entrambe le parti convenute in primo grado.
In particolare, la SO.RI.GE. Perforazioni(*) richiedeva che, in parziale riforma della predetta sentenza, venissero respinte le domande tutte proposte nei suoi confronti dal B.P. e dal B.S.. In via subordinata chiedeva che la società P. venisse condannata a manlevare completamente la SO.RI.GE.(*) per le domande comuni alle due parti convenute ed in ipotesi accolte.
In buona sostanza in tale atto si deduceva che il rapimento era avvenuto non a Kunzila, ma mentre i due ricorrenti-appellati facevano rientro nella giornata di lunedì da Bahr Dar (dove avevano trascorso il fine settimana) a Kunzila, dovendosi così al riguardo ravvisare una scelta personale e libera dei predetti dipendenti. Deduceva ancora l'appellante ogni sua mancanza di responsabilità nella organizzazione di tale trasferimento in quanto ogni decisione era di pertinenza della società P.; negava altresì la SO.RI.GE.(*) di avere influenzato le scelte al riguardo adottate dalla predetta società e dai propri dipendenti.
Affermava altresì di avere avuto assicurazioni dalla società P. in ordine alla sicurezza dei luoghi e dei lavori, con la conseguenza che era la società P. a dover essere ritenuta l'unica responsabile degli eventi dannosi, anche perché essa appellante non sapeva la verità in ordine alle reali condizioni di sicurezza dei luoghi e dei lavori, né poteva saperla in quanto non aveva alcuna possibilità e facoltà di tenere contatti con il Governo dell'Etiopia e con l'ambasciata italiana ad Adis Abeba.
Ribadiva, infine, che, in ogni caso, non poteva considerarsi responsabile della sicurezza dei suoi dipendenti a Bahr Dar, dove sia il B.P. che il B.S. si erano recati per passarvi il fine settimana.
Quanto alla Soc. P., questa insisteva, tra l'altro, nel sostenere l'incompetenza del giudice adito, in ordine alla sua posizione di "terzo" rispetto al rapporto di lavoro, e nel richiedere la chiamata in causa del Ministero degli affari esteri italiano, finanziatore del progetto Tana Beles, con controllo gerarchico sulla stessa società.
Nel merito, chiedeva il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti, sia perché era compito del predetto Ministero tutelare la sicurezza degli italiani all'estero, sia perché nella sua condotta non poteva ravvisarsi alcuna responsabilità per l'accaduto, né di natura contrattuale che extracontrattuale. Inoltre, contestava la determinazione dei danni così come determinati dal pretore. Si costituivano sia il B.P. che il B.S., i quali deducevano la infondatezza dei predetti atti di appello, concludendo per la integrale conferma della sentenza impugnata.
Riunite le cause, con sentenza del 29 ottobre-21 dicembre 1998, l'adito Tribunale di Parma, in parziale accoglimento dei proposti appelli, condannava in solido, fra loro, la SO.RI.GE.(*) e la società "Studio Ing. P.(*)" S.r.l. al risarcimento dei danni subiti dal B.P. e dal B.S., secondo la seguente determinazione:
quanto al B.P.:
1) per danno biologico, pari al 33%, la somma di L. 115.271.145; per danno biologico afferente alla accertata temporanea incapacità di lavoro, la somma di L. 2.700.000;
2) per danno alla specifica capacità lavorativa, pari al 17%, la somma di L. 126.774.216;
3) per danno morale, la somma di L. 33.000.000. Il tutto oltre rivalutazione monetaria ed interessi;
quanto al B.S.:
1) per danno biologico, pari al 25%, la somma di L. 84.400.225; per danno biologico afferente alla accertata temporanea incapacità lavorativa, complessive L. 2.700.000;
2) per danno morale, la somma di L. 25.000.000. Il tutto oltre rivalutazione ed interessi.
Il Tribunale, respingeva nel resto i proposti appelli, confermando la sentenza impugnata.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la società P. sulla base di sei motivi, ulteriormente illustrati da memoria, ex art. 378 c.p.c.
Resiste la SO.RI.GE. Perforazioni(*) con controricorso, proponendo, a sua volta, ricorso incidentale affidato ad un unico motivo e presentando anche memoria ex art. 378 c.p.c.
Resiste il B.P. con controricorso e così pure il B.S..
La SO.RI.GE.(*), tuttavia, con atto sottoscritto dal suo titolare, dott. R.C. e dai propri difensori, ha dichiarato di rinunciare ai motivi di cui al controricorso e ricorso incidentale nei confronti del B.P., mentre il difensore di quest'ultimo, che ha dichiarato di rinunciare al mandato, è stato sostituito da altro difensore.
 

 

Diritto

 


Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente principale, Società "Studio Ing. P.(*)" a r.l., denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 409, n. 1, c.p.c. nonché dei principi e norme che regolano la competenza del pretore nelle funzioni di giudice del lavoro (art. 360, n. 3, c.p.c.); ed, ancora, violazione degli artt. 1 e 4 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369 in relazione all'art. 409, n. 1, c.p.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c.).
In particolare, la Soc. P. sostiene che, se è pur vero che, con i ricorsi introduttivi il B.P. ed il B.S. avevano sostenuto la violazione della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, cosicché avevano convenuto in giudizio sia la Sorige(*) che la P., chiedendo la condanna anche della seconda ai sensi degli artt. 1 e 4 della legge suddetta, è anche vero che il pretore aveva accertato, ed il Tribunale confermato, che non sussisteva nella fattispecie la lamentata interposizione lavorativa; ne conseguirebbe - secondo la ricorrente - che, una volta accertata e dichiarata l'inesistenza della suddetta interposizione e, quindi, della instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato con i nominati lavoratori, il giudice di merito avrebbe dovuto rigettare la domanda avente ad oggetto una pretesa responsabilità della società "Studio Ing. P.(*)" a r.l. collegata ad un asserito rapporto di lavoro subordinato ed, al contempo, dichiarare la propria incompetenza per materia e funzionale in ordine a qualsivoglia altra domanda formulata da detti lavoratori nei propri confronti.
In altri termini - ad avviso della ricorrente -, non poteva il Tribunale ritenere la competenza del pretore nelle funzioni di giudice del lavoro a decidere in merito alle pretese risarcitorie del B.P. e del B.S. nei propri confronti, una volta che lo stesso giudice di primo grado, con sentenza peraltro passata in giudicato, aveva escluso la sussistenza del cosiddetto pseudo appalto e, quindi, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorrente tra i predetti B.P. e B.S. e la Soc. P..
La censura, priva di fondamento, trova già sufficiente risposta nella stessa sentenza impugnata, laddove, da un lato, si rileva che la competenza, ai sensi dell'art. 5 c.p.c., si determina in base alla domanda e questa aveva ad oggetto, tra l'altro, l'accertamento della responsabilità per danni in conseguenza della violazione, dalla stessa parte ricorrente prospettata, non solo dell'art. 1 della legge n. 1369 del 1960, ma anche e "soprattutto" dell'art. 2087 c.c. Pertanto, correttamente, il pretore - e, così pure, il Tribunale che ne ha condiviso la decisione -, accertata la insussistenza della interposizione lavorativa, ha affrontato la questione della responsabilità contrattuale della Soc. P. nei confronti dei due lavoratori nel senso, tempestivamente prospettato dagli stessi, della violazione dell'art. 2087 c.c., posto anch'esso a base dell'obbligazione contrattuale assunta dalla P. circa l'organizzazione del campo e la sicurezza di chi vi lavorava.
Ma il Tribunale ha giustificato la sua determinazione sul punto anche richiamandosi al principio ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui la competenza del giudice del lavoro deve essere ravvisata in tutti i casi in cui il rapporto di lavoro rappresenta l'antecedente ed il presupposto necessario e non già meramente occasionale della situazione di fatto in ordine alla quale viene invocata la tutela giurisdizionale, essendo irrilevante l'eventuale non coincidenza delle parti in causa con quelle del rapporto di lavoro ("ex plurimis", Cass., 9 novembre 1994 n. 9339; Cass., 27 gennaio 1993 n. 1002).
E tale situazione ha ritenuto sussistere nel caso in esame, alla luce di quanto dedotto dai ricorrenti in relazione non solo al loro rapporto con la propria datrice di lavoro (SO.RI.GE.(*)) ma anche alla circostanza che tale rapporto di lavoro (giustificante la loro presenza nel campo di Kunzila) aveva rappresentato il substrato sostanziale delle loro richieste espressamente avanzate nei confronti della società P. ed afferenti ad un aspetto essenziale del rapporto di lavoro: quello della sicurezza, intesa in senso lato.
L'assunto, che va condiviso, perché rispondente ai principi affermati da questa Corte e sopra richiamati, trova ulteriore riscontro nel più specifico orientamento della giurisprudenza di legittimità - anch'esso richiamato dalla sentenza impugnata - che ha ritenuto di competenza del giudice del lavoro la controversia nella quale la lavoratrice dipendente dall'appaltatore del servizio di pulizia agisce nei confronti della società appaltante che le abbia impedito l'accesso ai locali da pulire, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni sofferti per la mancata continuazione del proprio rapporto di lavoro con l'appaltatore del servizio; ciò perché il richiesto accertamento della illegittimità dell'impedimento frapposto (con il divieto di accesso predetto) allo svolgimento della prestazione lavorativa è inteso a far valere un diritto che dipende direttamente dal rapporto di lavoro (Cass., 18 febbraio 1985 n. 1406).
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 101 c.p.c. nonché dell'art. 102 c.p.c. e dei principi che disciplinano il litisconsorzio necessario (art. 360, n. 3, c.p.c.); ed ancora violazione e falsa applicazione degli artt. 270 e 420 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c.).
Secondo la P., "ogni valutazione e disposizione, in ordine alla sicurezza dei luoghi, in cui era compreso il cantiere di Kunzila, era stata fornita" dal Ministero degli esteri, cosicché era necessario esaminare "se nella fattispecie vi fosse la responsabilità della convenuta P. o quella del Ministero degli esteri"; ciò implicava una ipotesi di litisconsorzio necessario e, quindi, il giudice avrebbe dovuto ordinare la chiamata in giudizio del Ministero suddetto.
La censura è infondata sotto diversi profili.
Va anzitutto precisato che sia in primo che in secondo grado la P. aveva chiesto di essere autorizzata a chiamare in causa il Ministero degli esteri affinché venisse da esso manlevata da qualsivoglia rivendicazione avanzata dai due lavoratori.
Correttamente, pertanto, il giudice "a quo", ha inquadrato la richiesta nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 106 c.p.c., rilevando, per un verso di per sé assorbente, che, non essendo stata tale richiesta riproposta in sede di formulazione delle conclusioni con note autorizzate dal pretore in data 27 aprile 1995, essa doveva intendersi non più "coltivata" e quindi abbandonata nel corso del giudizio di primo grado; e, per altro verso e comunque, che, trattandosi di una cosiddetta causa di garanzia impropria perché fondata su un titolo autonomo, il cosiddetto "simultaneus processus" davanti al giudice del lavoro era attuabile - alla stregua del consolidato orientamento di questa Corte (Cass., 30 gennaio 1992 n. 979; Cass .8 novembre 1989 n. 4692) - solo ove il giudice competente per la causa principale fosse stato competente a decidere anche dell'altra, non essendo derogabili, nell'ipotesi di garanzia impropria, i normali criteri di competenza per valore e territorio.
Nella specie, pertanto, non potendo la domanda essere sussunta tra le cause previste dall'art. 409 c.p.c., l'autorizzazione non andava concessa.
In questa sede, tuttavia, la P. più che insistere nella pregressa richiesta come, del tutto correttamente, interpretata dal giudice di merito, prospetta, invece, una ipotesi di litisconsorzio necessario, che avrebbe imposto la chiamata in giudizio del Ministero degli esteri "iussu iudicis" ex art. 270 c.p.c., trattandosi "di esaminare, proprio con riferimento alle tematiche della domanda attrice, se nella fattispecie vi fosse la responsabilità della convenuta P. o quella del Ministero degli esteri".
Ma anche sotto tale profilo, la censura non può essere condivisa.
Come è noto, qualora il convenuto eccepisca di non essere titolare dal lato passivo del rapporto dedotto in giudizio ed indichi un terzo come legittimato passivo, non ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 cod. proc. civ., ma il giudice di primo grado, con valutazione discrezionale, può ordinare l'intervenuto in causa del terzo, a norma dell'art. 107 c.p.c., senza che il mancato esercizio di detto potere discrezionale possa formare oggetto di sindacato da parte del giudice di appello - il quale non potrebbe rimettere la causa al primo giudice, ostandovi il disposto dell'art. 354 cod. proc. civ., che si riferisce solo alla violazione delle ipotesi d'integrazione necessaria del contraddittorio - né da parte del giudice di legittimità (Cass., 19 aprile 1996 n. 3752).
Più precisamente, l'intervento in causa "iussu iudicis", rispondendo ad un interesse di ordine pubblico che trascende quello delle stesse parti originarie o dei terzi, e cioè all'interesse superiore della giustizia ad attuare l'economia dei giudizi e ad evitare i rischi di giudicati contraddittori, può essere ritualmente disposto, secondo le modalità di cui all'art. 270 c.p.c., sulla base di una valutazione che - giova ribadire - costituisce espressione di un potere discrezionale riservato al giudice del primo grado, il cui esercizio, ancorché motivato in modo scorretto, non è suscettibile di sindacato nelle fasi successive, né, in particolare, in sede di legittimità ("ex plurimis", Cass., 10 maggio 1995 n. 5082; Cass., 14 aprile 1989 n. 1793).
I presupposti che legittimano l'intervento "iussu iudicis" rappresentano, quindi, un "minus" rispetto a quelli posti a base dell'ipotesi del litisconsorzio necessario di natura sostanziale, che, ai sensi dell'art. 102 c.c., impone l'integrazione del contraddittorio e che si ha, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando si deduce in giudizio un rapporto giuridico plurisoggettivo concettualmente unico ed inscindibile, sicché la sentenza potrebbe conseguire un risultato utile e positivo, ossia sarebbe "inutiliter data", solo se pronunciata in contraddittorio di tutti i soggetti, attivi e passivi (tra le tante, Cass., 7 luglio 1988 n. 4475); ipotesi, questa, sicuramente non ricorrente nel caso in esame, in quanto la circostanza che la P. abbia opposto in giudizio di essere estranea al dedotto rapporto ed abbia indicato in un terzo, e cioè il Ministero degli esteri, il soggetto passivo dell'obbligazione, non determina, per il solo fatto di tale indicazione, un rapporto necessariamente consortile di diritto sostanziale, né, quindi, la necessità dell'integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2909 c.c. e dei principi che disciplinano il giudicato interno (art. 360, n. 3, c.p.c.); violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., avendo il Tribunale ritenuto la responsabilità contrattuale della Soc. P. malgrado la stessa fosse stata azionata solo con riferimento all'ipotesi di cosiddetto pseudo appalto (art. 360, n. 3, c.p.c.); violazione e falsa applicazione della legge n. 1369 del 1960 e dei principi che prevedono la responsabilità contrattuale dell'appaltatore nella sola ipotesi di pseudo appalto (art. 360, n. 3, c.p.c.); violazione e falsa applicazione degli artt. 1656 e 1676 c.c. nonché dei principi che disciplinano il subappalto e dei principi e norme che disciplinano la responsabilità e la categoria del subcontratto o contratto derivato (art. 360, n. 3, c.p.c.); violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 c.c. e segg. nonché dei principi che disciplinano la responsabilità contrattuale (art. 360, n. 3, c.p.c.); omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c.).
In particolare, la ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell'art. 2909 c.c. in materia di giudicato interno, perché, avendo il pretore escluso la sussistenza della interposizione lavorativa, ai sensi della legge n. 1369 del 1960 e, per ciò stesso, la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato tra la P. da un lato ed il B.P. ed il B.S. dall'altro, e non essendo stata impugnata la relativa statuizione, con conseguente suo passaggio in giudicato, rimaneva soltanto un'eventuale responsabilità extracontrattuale, laddove invece sia il pretore che il Tribunale avevano ritenuto sussistere ugualmente una responsabilità della P..
Sotto quest'ultimo aspetto, viene contestata l'opinione del Tribunale secondo cui l'asserita violazione degli obblighi, imposti dall'art. 2087 c.c., da parte della SO.RI.GE.(*), sarebbe idonea a determinare la responsabilità contrattuale anche della P., e ciò sia per l'esistenza di un contratto di subappalto tra la società e la SO.RI.GE.(*), sia perché la P. si era resa garante "anche contrattualmente dell'attuazione della vigilanza relativa alle misure di sicurezza da adottare in concreto poiché si era riservata tutta l'organizzazione tecnico operativa del cantiere nonché tutti i trasferimenti del personale".
Anche questa censura, così articolata, non può trovare accoglimento, benché la motivazione del Tribunale sul punto richieda alcune precisazioni ed esplicitazioni, imposte dalle stesse osservazioni avanzate dalla attenta difesa della P..
Non vi è dubbio che secondo la impostazione classica e, in un certo senso, tradizionale, la figura del lavoratore subordinato è strettamente legata alla compresenza di quella del datore di lavoro, con il quale, ai sensi dell'art. 2094 c.c., si instaura quel particolare rapporto obbligatorio, da cui discendono specifici diritti ed obblighi delle parti.
In coerenza con tale impostazione, l'art. 2087 c.c., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da leggi speciali, impone all'imprenditore l'adozione di misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori d'opera, sembra richiedere, quale necessario presupposto, l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato - come delineato dal richiamato art. 2094 - tra danneggiante e danneggiato.
Senonché, da tempo, specie quando si è trattato di procedere alla individuazione del datore di lavoro in quanto soggetto penalmente responsabile in materia di prevenzione infortuni, si è avvertita l'inadeguatezza della cennata impostazione dandosi rilievo al dato oggettivo, sì da ricomprendervi anche i soggetti che, pur non formalmente titolari del rapporto di lavoro, abbiano però la responsabilità dell'impresa o di una sua unità produttiva.
Eguale opzione ermeneutica, sia pure con riferimento al soggetto che subisce l'esercizio dell'altrui potere, è stata adottata in ordine alla individuazione del "prestatore d'opera".
Si è così esteso l'obbligo di tutela antinfortunistica a tutti gli addetti, "anche solo di fatto", ad una data attività lavorativa, prescindendo dalle modalità di assunzione al lavoro e dall'eventuale mancato perfezionamento del contratto, purché sia provata la consapevolezza dell'imprenditore circa l'attività svolta dal prestatore d'opera poi infortunatosi (v. Cass. Pen., 17 marzo 1989 n. 3860 e, più di recente, con analoga impostazione, Cass. Pen., 10 novembre 1998 n. 11606).
Questa tendenza ad ampliare il novero dei soggetti tutelati ha trovato conferma in ulteriori decisioni, secondo cui anche i terzi, quando si trovino esposti ai pericoli derivanti da un'attività lavorativa da altri svolta nell'ambiente di lavoro, devono ritenersi destinatari delle norme di prevenzione e che sussiste, pertanto, un cosiddetto rischio ambientale, che deve essere coperto da chi organizza il lavoro (Cass. Pen., Sez. IV, 7 luglio 1993 n. 6686).
Tale orientamento merita piena adesione, mostrandosi aderente non solo al dato fattuale, ma anche, limitatamente alla materia della prevenzione infortuni, al dettato normativo di cui all'art. 3 del D.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, che, nel definire lavoratore subordinato "colui che, fuori del proprio domicilio, presta il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione", consente, attraverso l'esclusione della indispensabilità del carattere oneroso e continuativo, di allargare la tutela non solo ai "tradizionali" lavoratori subordinati, ma anche a tutti i soggetti terzi che, non abusivamente, vengono a trovarsi a contatto con la situazione di pericolo creata dall'attività esercitata che necessita di prevenzione.
Nel caso in esame, il Tribunale, dopo avere richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia di appalto e di responsabilità del committente in relazione ai suoi poteri tecnico-organizzativi, ha ritenuto accertato, sulla base della esperita istruttoria, che la società P. si era resa garante anche contrattualmente dell'attuazione della vigilanza relativa alle misure di sicurezza da adottare in concreto, poiché si era riservata tutta l'organizzazione tecnico-operativa del cantiere, nonché tutti i trasferimenti del personale; e dopo avere esaminato analiticamente le dichiarazioni rese dai vari testi e dallo stesso ing. P. in sede di libero interrogatorio, ha concluso osservando che "la sussistenza dei predetti elementi di fatto (esistenza di un subappalto concernente la esecuzione di opere accessorie e specialistiche; completa responsabilità da parte della società P. in ordine al coordinamento di tali lavori; piena responsabilità di tale società in ordine alla organizzazione tecnico-logistica del cantiere di Kunzila) era sufficiente a ritenere operanti ... i principi giurisprudenziali sopra ricordati in tema di appalto, volti a ribadire la permanenza in capo al committente del dovere di provvedere alle misure di tutela dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, proprio in presenza di presupposti di fatto rinvenibili anche nel presente giudizio". Non vi è dubbio, dunque, per quanto sopra esposto, della correttezza dei principi giuridici che il Tribunale ha dichiarato di applicare ed ha applicato, così come della correttezza dell'analisi e della individuazione dei presupposti di fatto necessari per l'applicazione dei suddetti principi. Le conclusioni che ne discendono circa l'applicabilità del disposto dell'art. 2087 c.c. alla fattispecie ora esaminata, risultano, pertanto, coerenti ed immuni da ogni censura.
Con il quarto motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. e dei principi che disciplinano la responsabilità extracontrattuale, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.) lamenta che, in violazione del richiamato art. 2043 c.c., il giudice di merito abbia ritenuto sussistere la responsabilità extracontrattuale per avere il P. riferito ai dipendenti con telefax 30 ottobre 1987 quanto a proposito della sicurezza gli aveva comunicato l'ambasciata italiana di Adis Abeba; per non avere considerato che, non sussistendo rapporto di lavoro subordinato fra la P. e il B.P., il consenso della ricorrente al fine settimana a Bahr Dar era irrilevante, non avendo essa alcun potere gerarchico sul B.P. e sul B.S. per vietarlo; per non avere considerato la mancanza di qualsiasi nesso di causalità fra la condotta attribuita alla ricorrente e l'evento dannoso.
Il motivo è privo di fondamento.
Invero, il Tribunale, dopo avere sottoposto ad esame quanto riportato nel verbale della riunione del 27 ottobre 1987 presso l'ambasciata italiana e quanto scritto dal P. nel telex del 28 ottobre 1987 ai dipendenti, ha affermato che il contenuto di tale telex non era per nulla corrispondente al contenuto dell'incontro svoltosi il 27 ottobre 1987 presso l'ambasciata d'Italia"; ne ha spiegato, quindi, ampiamente i motivi, ed ha concluso, osservando che di tale situazione di fatto, con i pericoli alla stessa collegati, esplicitamente affrontata nel corso del più volte citato incontro del 27 ottobre 1987, non vi era il benché minimo accenno nel telex P. del 30 ottobre successivo. Ha quindi soggiunto che proprio tale oggettivo contrasto tra quanto emergeva testualmente tra il contenuto del telex P. del 30 ottobre e quanto emergeva dalla lettera della società P. in data 28 ottobre costituiva il primo fondamentale addebito posto a base della affermata responsabilità extracontrattuale della società P., perché le assicurazioni date nel più volte citato telex 30 ottobre hanno indotto il personale esistente 'in loco' a decidere di rimanere sul posto ed a proseguire nel lavoro", ma ciò in quanto "sono state date assicurazioni in ordine alla assoluta sicurezza dei luoghi e del lavoro che non corrispondevano assolutamente alle notizie in possesso della società P.", cosicché "tutto ciò viola il principio del 'neminem laedere' di cui all'art. 2043 c.c.".
A ciò era poi da aggiungere che la società P., consentendo al personale presente nel campo base di Kunzila (tra cui il B.P. e il B.S.) di recarsi regolarmente per ogni fine settimana a Bahr Dar, sostenendo anche le spese (vitto e alloggio) del pernottamento presso l'albergo Tana (il sequestro in oggetto era avvenuto proprio nel corso di tale tragitto), non aveva neppure dato esatta e regolare attuazione alla decisione, che, in quanto meno rischiosa, secondo i suggerimenti dell'ambasciata italiana, doveva essere adottata: quella, cioè, che - come da lettera inviata in data 28 ottobre 1987 dalla società P. alla ambasciata d'Italia di Adis Abeba - prevedeva la permanenza continua (anche durante i fine settimana) nel campo base di Kunzila, del "personale espatriato", tra cui espressamente il B.P. e il B.S..
Quanto al nesso di causalità fra la condotta della P. ed evento dannoso, la sentenza impugnata, dopo avere constatato che dalle dichiarazioni dei testi risultava confermata la ulteriore fondamentale circostanza che la società P. era l'unica destinataria, nell'interesse di tutti gli italiani presenti "in loco", delle informazioni sulla sicurezza fornite non solo dal Governo etiopico, ma anche dalla ambasciata italiana in Etiopia, cosicché era compito di tale società utilizzare correttamente tali informazioni per adottare le relative decisioni operative al fine di tutelare la sicurezza dei nostri connazionali, ha affermato che tutto ciò non era avvenuto perché non solo ai dipendenti della SO.RI.GE.(*) erano state fornite assicurazioni sulla sicurezza non corrispondenti al vero, ma anche perché neppure risultava avere avuto in concreto piena e corretta attuazione quanto deciso, secondo la difesa della società P., all'esito della riunione del 27 ottobre 1987.
Da ciò discendeva la esistenza del nesso di causalità tra tale condotta ed il sequestro subito dal B.P. e dal B.S. proprio perché tale sequestro risultava direttamente correlato sia con la situazione di pericolo esistente in zona, proprio a causa dell'atteggiamento fortemente contrario al progetto "Tana Beles" da parte dei guerriglieri dell'Eprp(*) autori del predetto sequestro, sia con le disposizioni sulla sicurezza degli italiani impiegati nel cantiere di Kunzila che erano - come in più occasioni chiarito - di diretta ed esclusiva pertinenza della società P..
Nella illustrata condotta della società P. (che aveva fornito assicurazioni sulla sicurezza non corrispondenti al vero; che aveva adottato una certa soluzione per poi disattenderla parzialmente nella sua attuazione concreta proprio con riferimento ad uno dei punti - viaggio a/r Kunzila-Bahr Dar - costitutivi della predetta situazione di pericolo) erano inoltre da ravvisare anche gli estremi tutti dell'elemento psicologico (quanto meno sotto il profilo della colpa) necessario ad integrare il tipo di responsabilità in esame.
Trattasi di motivazione puntuale, approfondita, immune, oltre che dalla lamentata violazione di legge, da vizi logici e giuridici, e pertanto si sottrae da ogni sindacato in questa sede, non potendo il giudice di legittimità procedere ad un riesame della ricostruzione dei fatti attraverso una diversa valutazione della espletata istruttoria.
Invero, - come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare (cfr., in particolare, tra le tante, Cass., S.U., 27 dicembre 1997 n. 13045) - il vizio di motivazione non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello auspicato dalle parti, perché spetta solo al giudice del merito di individuare le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti dall'ordinamento. Ne consegue che il giudice di merito è libero di formarsi il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori che ritiene rilevanti per la decisione, senza necessità di prendere in considerazione tutte le risultanze processuali e di confutare ogni argomentazione prospettata dalle parti, essendo sufficiente che indichi gli elementi sui quali fonda il suo convincimento, dovendosi ritenere per implicito disattesi tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene specificamente non menzionati, siano incompatibili con la decisione adottata.
In questa prospettiva, pertanto, il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione del giudice del merito non deve tradursi in un riesame del fatto o in una ripetizione del giudizio di fatto, non tendendo il giudizio di Cassazione a stabilire se gli elementi di prova confermano, in modo sufficiente, l'esistenza dei fatti posti a fondamento della decisione.
Il controllo, dunque, non ha per oggetto le prove, ma solo il ragionamento giustificativo. Esso ripercorre l'argomentazione svolta nella motivazione dal giudice del merito a sostegno della decisione assunta e ne valuta la correttezza e la sufficienza.
Alla luce di tale principio deve escludersi il lamentato vizio di motivazione della sentenza del Tribunale di Parma.
Con il quinto motivo la P., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2055 e 1227 c.c. nonché del principio della non risarcibilità del danno ricollegabile al concorso di colpa del danneggiato, ed, ancora, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), lamenta che la sentenza impugnata non abbia riconosciuto un concorso di colpa dei due lavoratori per essersi allontanati dal campo di Kunzila, "mentre era assolutamente pacifico che esisteva tale divieto".
Il motivo non può trovare accoglimento, poiché il Tribunale di Parma, dopo avere analizzato le testimonianze sul punto, è pervenuto alla conclusione che erra la P. quando "deduce che la decisione di porre il campo base a Kunzila fu adottata con il divieto espresso di uscire da tale campo base, con la conseguenza che l'evento dannoso di cui è processo si sarebbe verificato proprio a causa della violazione di tale prescrizione", perché in realtà "non pare sussistere in atti la prova della esistenza di tale divieto" e, comunque, non vi è la benché minima prova che la società P.... abbia poi in qualche modo cercato di dare allo stesso attuazione"; mentre invece "esiste - come si è visto - esattamente la prova contraria in atti, vale a dire che la società P. sapeva dei fine settimana trascorsi a Balir Dar, provvedendo al pagamento di tutte le spese di vitto ed alloggio relative". Ne consegue che non "sembra possibile ravvisarsi alcun loro concorso di colpa nella causazione del fatto di cui poi sono rimasti vittima dal momento che - come visto sopra - non vi era alcun divieto di allontanarsi dal campo di Kunzila ed inoltre e soprattutto gli stessi, all'evidenza, facevano affidamento sulle ampie assicurazioni (non però corrispondenti al vero) loro espressamente ed ufficialmente fornite per iscritto dal P. con il più volte citato telex del 30 ottobre 1987".
Non vi è dubbio che il Tribunale abbia dato ampio e coerente riscontro alle osservazioni della P., che in questa sede sottende la pretesa di un riesame e di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie rispetto a quella effettuata dalla sentenza impugnata con motivazione esauriente e priva di vizi logici e giuridici.
Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2059 c.c. e dei principi e norme che disciplinano il risarcimento del cosiddetto danno morale, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360, n. 3 e n. 5, c.p.c.), lamenta che la sentenza impugnata abbia riconosciuto al B.P. ed al B.S. anche il risarcimento del danno morale, sostenendo la erroneità e la illegittimità di tale riconoscimento perché, da un lato, ha fatto riferimento all'art. 2087 c.c. che presuppone un rapporto di lavoro subordinato - nella specie, inesistente nei confronti della Soc. P. - e, dall'altro, ha attribuito all'illecito addebitato ad essa Società natura di reato, nonostante l'assenza di ogni rilevanza penale.
Il motivo è infondato.
Invero, il Tribunale, richiamando l'orientamento di questa Corte in materia (v., in particolare, Cass., 20 aprile 1998 n. 4012), ha osservato sul punto che nella condotta delle parti appellanti - che hanno sostanzialmente disatteso il disposto dell'art. 2087 c.c. - possono ravvisarsi gli estremi del reato, quanto meno con riferimento alla fattispecie delle cosiddette lesioni colpose, rientrando nel danno sofferto dal lavoratore in conseguenza della violazione del predetto articolo anche il cosiddetto danno morale quante volte da quella inosservanza siano derivate al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia, acquisendo in tal caso la condotta della parte inadempiente a tale obbligo anche un rilievo penale che giustifica l'attribuzione del risarcimento ex art. 2059 c.c.
Ma il Tribunale ha tenuto anche a chiarire, con specifico riferimento alla posizione della Società P., che la fattispecie di reato idonea a giustificare l'attribuzione del cosiddetto danno morale emerge "in ogni caso" - cioè, come risulta in maniera implicita, ma non per questo poco chiara, sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale - anche in ordine alla sua condotta - quanto meno colposa - tenuta sia nel fornire al B.P. ed al B.S. le assicurazioni richieste in tema di sicurezza sia nel dare concreta attuazione a quanto deciso in ordine alla permanenza nel campo base di Kunzila.
La censura, quindi, appare non condivisibile, avendo, peraltro, il giudice "a quo" fondato l'obbligo del risarcimento del danno morale anche sulla accertata responsabilità aquiliana della "P.".
Infondato è anche il ricorso incidentale, proposto dalla SO.RI.GE. Perforazioni(*) nei confronti sia della società P. che del B.S. e del B.P., ma rinunciato, poi, unitamente al controricorso, nei confronti di quest'ultimo.
Con detto ricorso la SO.RI.GE.(*), denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c. e dei principi che disciplinano la responsabilità extracontrattuale (art. 360, n. 3, c.p.c.), nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, censura la sentenza impugnata laddove prevede una parte di propria responsabilità nei confronti del B.P. e del B.S. per i fatti in oggetto.
In particolare, la SO.RI.GE.(*), si duole che il Tribunale, pur riconoscendo che non competeva alla stessa l'organizzazione e la sicurezza del cantiere, egualmente aveva ad essa attribuito parte della responsabilità dell'accaduto, senza considerare, peraltro, che il rapimento era avvenuto fuori dal cantiere in circostanze di competenza della P..
L'assunto, che ripropone i motivi di impugnativa contenuti nell'atto di appello, ha trovato piena e convincente risposta nella contestata sentenza.
Invero, il Tribunale di Parma, nell'affrontare la questione, ha posto, alla base del suo ragionamento, la "constatazione fondamentale" che la condizione della SO.RI.GE.(*) di datrice di lavoro del B.P. e del B.S. le imponeva l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure ritenute necessarie o anche solo idonee - tenuto conto della concreta situazione di svolgimento del lavoro, della esperienza e della tecnica - ad evitare ai propri dipendenti danni alla salute ed alla integrità psicofisica.
Ponendo tale premessa il giudice "a quo" ha inteso uniformarsi all'indirizzo di questa Corte, secondo cui, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. - che è norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione - l'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisiopsichica dei dipendenti impone l'adozione - ed il mantenimento - non solo di misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell'ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività pur se allo stesso non collegate direttamente come le aggressioni conseguenti all'attività criminosa di terzi, giustificandosi l'interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.) sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro (cfr. Cass., 20 aprile 1998 n. 4012).
Orbene - ad avviso del Tribunale - tale obbligo fondamentale non è risultato essere stato soddisfatto, considerato, innanzitutto, che era da escludersi che la SO.RI.GE.(*) non sapesse la verità in ordine alla reale situazione di pericolo esistente in zona e che non potesse saperla perché non poteva tenere contatti con il Governo etiopico e con l'ambasciata italiana ad Adis Abeba. Ciò in quanto, per un verso, il campo di Kunzila era presidiato dalle forze militari etiopiche - e di ciò era a conoscenza il dott. R.C., titolare dell'impresa, e, per altro verso, vi erano state specifiche richieste di garanzia, circa l'assenza di pericolo, avanzate dai suoi dipendenti al fine di rimanere "in loco" e di continuare il lavoro.
Di fronte a tale conosciuta situazione, la SO.RI.GE.(*) - ad avviso del Tribunale - si sarebbe dovuta adeguatamente attivare, facendo uso di una maggiore diligenza e dei propri poteri decisionali in ordine alla sorveglianza nei confronti dei propri dipendenti, nonché all'accertamento della reale situazione, allo scopo di prevenire e di evitare ogni possibile evento.
A tal proposito, significativa risultava la circostanza che il R.C. non si era mai recato "in loco" e neppure aveva preso contatti con la società P. per avere tutti i possibili ragguagli in ordine alla reale situazione di pericolo esistente. Né era plausibile l'assunto secondo cui allo stesso sarebbe stata interdetta ogni possibilità di contatto con l'ambasciata italiana ad Adis Abeba.
Il quadro che emergeva evidenziava la circostanza che i dipendenti della SO.RI.GE.(*) erano stati lasciati del tutto liberi di decidere in ordine alla loro permanenza "in loco" o al loro rientro in Italia e, quindi, una sostanziale e piena abdicazione da parte della SO.RI.GE.(*) all'adempimento degli obblighi sulla stessa gravanti (e non di certo sui suoi dipendenti) in materia di sicurezza (intesa in senso lato) del luogo di lavoro.
Ma il Tribunale si fa carico altresì di superare la censura - riproposta in questa sede - circa una pretesa contraddittorietà tra l'affermata, responsabilità, a carico della società P., di ogni decisione in ordine alla sicurezza del luogo ed in ordine ai trasferimenti Kunzila-Bahr Dar e l'affermazione di una responsabilità, sia pure in misura ridotta, della SO.RI.GE.(*) nella vicenda.
Sul punto, infatti, osserva il giudice "a quo" - lasciando così intendere, negli esatti termini, il significato da attribuire alla accertata completa responsabilità della P. in materia di prevenzione - che mancava ogni prova che di fatto la SO.RI.GE.(*) non avesse la benché minima autonomia in ordine ai poteri direttivi ed organizzativi del proprio personale presente a Kunzila; anzi, al contrario, dalla espletata prova per testi, era emerso che la SO.RI.GE.(*) godeva di piena autonomia nell'esecuzione del lavoro affidatole, sì da non potere essere certamente considerata alla stregua di una semplice "longa manus" o di "nudus minister" della società P..
Ne discendeva che alla mancanza di autonomia circa l'aspetto organizzativo e logistico del campo base di Kunzila non corrispondeva identica mancanza di autonomia in capo alla SO.RI.GE.(*) in ordine ai propri poteri direttivi nei confronti dei propri dipendenti ed in ordine ai suoi obblighi in tema di sicurezza nei confronti dei predetti dipendenti.
Trattasi di valutazioni di merito, congruamente motivate, e come tali sottratte al sindacato di legittimità.
Analogamente è a dirsi in relazione al rilievo della SO.RI.GE.(*) con cui viene evidenziata la circostanza che il sequestro del B.P. e del B.S. non era avvenuto a Kunzila, bensì al rientro da Bahr Dar, prima della materiale ripresa del lavoro, avendo correttamente il Tribunale motivato sul punto, facendo riferimento all'ampia portata del disposto dell'art. 2087 c.c., applicabile sia all'ambiente di lavoro in genere - ed in relazione al quale la misure e le cautele da adottarsi dall'imprenditore devono riguardare sia i rischi insiti nell'ambiente sia i rischi derivanti dall'azione di fattori estranei all'ambiente di lavoro ed inerenti alla località in cui tale ambiente è posto - sia all'ipotesi in cui la pericolosità di tale ambiente di lavoro è anche e soprattutto collegata all'azione di terzi.
Non avendo la SO.RI.GE.(*) svolto alcuna attività positiva e concreta volta a tutelare la sicurezza del proprio personale in Etiopia, il Tribunale ha ritenuto, quindi, di confermare - e non vi è ragione che renda possibile disattendere tale valutazione - il concorso di responsabilità, riconoscendo che, nei rapporti interni era da attribuirsi un maggior grado di responsabilità alla P. (70%), stante la sua posizione di indubbia (anche se non assoluta ed assorbente) preminenza avuta in tutto lo svolgimento della vicenda in parola.
Per quanto esposto, sia il ricorso principale che quello incidentale vanno rigettati; quest'ultimo, tuttavia, limitatamente alla società "Studio Ing. P.(*)" a r.l. ed a  B.S., dovendosi invece dichiararsi estinto il giudizio relativo allo stesso nei confronti di  B.P. per avvenuta rinuncia.
Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo seguono la soccombenza. Vanno invece compensate le spese tra la SO.RI.GE. Perforazioni ed il B.P. nonostante l'avvenuta rinuncia, non risultando avvenuta l'accettazione di quest'ultimo, ai sensi dell'art. 391 c.p.c., e ricorrendo giusti motivi in relazione all'evolversi della vicenda processuale.
Anche le spese tra la società "Studio Ing. P." a r.l. e la SO.RI.GE. Perforazioni vanno dichiarate compensate sussistendo giusti motivi.
 

 

P.Q.M.
 

 

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e quello incidentale, quest'ultimo limitatamente alla società "Studio Ing. P." a r.l. ed a B.S.; dichiara estinto il giudizio relativo al ricorso incidentale nei confronti di B.P..
Condanna la società "Studio Ing. P." a r.l. al pagamento in favore del B.P. e del B.S. delle spese del presente giudizio, liquidate complessivamente in L. 91.970 pari ad euro 47,50, oltre L. 20.000.000 (venti milioni) pari a euro 10.329,14 per onorari; condanna la SO.RI.GE. Perforazioni al pagamento, in favore di B.S., delle spese del presente giudizio, liquidate in L. 42.790 pari ad euro 22,10, oltre L. 5.000.000 (cinque milioni) pari ad euro 2.582,28 per onorari e le dichiara compensate nei confronti del B.P.; dichiara compensate le spese del presente giudizio tra la società "Studio Ing. P." a r.l. e la SO.RI.GE. Perforazioni.
Così deciso in Roma il 5 luglio 2001
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 MARZO 2002.
(*) n.d.r.: così nel testo.