- Datore di Lavoro
- Infortunio sul Lavoro
- Informazione, Formazione, Addestramento
Responsabilità per la caduta di un lavoratore mentre stava smantellando un tetto in lastre di cemento-amianto di un capannone.
Il reato di lesioni colpose era stato addebitato al M., quale datore di lavoro: la sua responsabilità era ritenuta proprio sotto il duplice profilo della mancanza di organizzazione nell'impresa dei mezzi antinfortunistici e del loro mancato utilizzo nel caso concreto e per aver omesso di fornire al lavoratore un'adeguata formazione in materia di sicurezza del lavoro, comprendente la conoscenza dei rischi specifici derivanti dalle mansioni svolte.
Era poi stato contestato il reato di favoreggiamento allo S., altro dipendente del datore di lavoro, perchè, dopo che era stato commesso il reato di lesioni, aiutava il M. a mutare lo stato dei luoghi (ripristino della copertura del tetto, eliminazione delle tracce di sangue, posizionamento in loco, all'interno del capannone, di un ponte mobile), in modo da far credere che il P. fosse caduto da detto ponte mobile anzichè dal tetto; lo S., inoltre, aveva reso dichiarazioni mendaci alla polizia giudiziaria.
Propongono entrambi ricorso in Cassazione.
Il ricorso di M. non merita accoglimento.
Per quel che riguarda, poi, le misure di sicurezza approntate nel cantiere in cui è avvenuto l'incidente e l'effettivo utilizzo di tali misure, la sentenza ritiene motivatamente confermate da riscontri, e non smentite in modo decisivo da elementi di segno contrario, le dichiarazioni del P. il quale ha riferito che i responsabili dell'impresa lo stimolavano a eseguire in fretta il lavoro; che lo invitavano a trascurare di adottare le misure di sicurezza; che nessuno aveva controllato il modo in cui stava eseguendo lo smontaggio del tetto; che gli era stato detto di camminare sul ferro, cioè sulla intelaiatura costituita da ferri che assicuravano l'amianto alla struttura dell'edificio proprio per evitare di mettersi la cintura e fare prima; che non erano state collocate sul tetto le assi di legno per evitare di camminare direttamente sopra l'amianto di copertura.
La Corte d'appello, su tali questioni, ha replicato che, se il teste Sc. ha riferito che, in effetti, la fune di aggancio delle cinture di sicurezza era stata posta in opera, nulla ha detto sulla presenza dei tavoloni di legno che dovevano assicurare l'operazione di smantellamento senza camminare direttamente sulle lastre di amianto.
L'assicurazione di tali tavoloni era prevista nel piano di lavoro approvato dalla ASL e non ha senso giungere al giudizio di legittimità per sollevare, per la prima volta, la questione (di cui non v'è traccia nell'atto di appello) che i tavoloni non potevano essere alloggiati nel caso di specie, perchè ciò non risulta dalla sentenza impugnata e non può essere fatto luogo a tale accertamento in questa sede. Sono rimaste poi senza smentita tutte le altre affermazioni ora riportate del P..
L'imputato M., che non era presente in cantiere pur essendo anche direttore dei lavori, doveva assicurasi circa l'effettivo impiego da parte del P. dei mezzi di sicurezza predisposti anzichè pretendere il contrario dai propri dipendenti per ragioni di celerità del lavoro."
Per quanto riguarda S., la Corte, nell'accogliere il ricorso, prende atto che l'imputato svolgeva funzioni di operaio anziano da lungo tempo dipendente dell'impresa ed era la persona di maggiore esperienza e anche di autorità al momento dell'incidente occorso nella attività di smontaggio del tetto, tanto che svolgeva le funzioni di caposquadra.
S. doveva dunque verificare le condizioni di lavoro e impedire al P. di avventurarsi sul tetto senza mezzi di protezione.
La sua posizione lo esponeva al rischio di un'imputazione di concorso nel reato sub a). Nel mutare lo stato dei luoghi dopo l'incidente per far apparire che esso si era verificato in modo diverso e nel rispetto delle misura antinfortunistiche, in realtà non rispettate, egli, oltre a favorire il suo datore di lavoro finiva per favorire anche se stesso.
La Corte continua affermando di essere "consapevole del persistente contrasto giurisprudenziale in punto di volontarietà della causazione del pericolo da parte dello stesso agente ai fini della applicabilità dell'esimente di cui all'art. 384 c.p. nel senso che una parte considerevole della giurisprudenza (come pure della dottrina) ritiene che la causa di esclusione della punibilità di cui alla citata norma sia un'ipotesi speciale della esimente di carattere generale dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., onde si dovrebbe estendere alla causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. il requisito implicito della "non volontarietà" del pericolo causato. Non reputa però la Corte di poter aderire a tale impostazione, ritenendo comunque quest'ultima norma specificamente volta a garantire il diritto di difesa.
Per tali considerazioni la Corte ritiene che debba essere applicata allo S. la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p., in quanto egli ha posto in essere le attività addebitategli essendo stato costretto dalla necessità di salvare sè medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà."
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO' Antonio Stefano - Presidente -
Dott. COLLA Giorgio - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere -
Dott. PAOLONI Giacomo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
M.A., n. a (OMISSIS);
S.M., n. a (OMISSIS);
nei confronti della:
sentenza in data 17 luglio 2008 della Corte d'appello di Firenze;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. COLLA Giorgio;
udito il Procuratore generale nella persona del sostituto Dott. MONETTI Vito, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza per intervenuta prescrizione;
udito il difensore avvocato NICOLAIS Lucio per M..
Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Firenze, a seguito di impugnazione di M.A. e S.M., ha confermato quella del Tribunale di Lucca in data 21 maggio 2007 che aveva condannato alle pene ritenute di giustizia, il primo per il reato di lesioni colpose aggravate, e il secondo per il reato di favoreggiamento (reati rispettivamente di cui ai capi A e B).
(Commessi in (OMISSIS)).
Il reato di lesioni colpose era stato addebitato al M., quale legale rappresentante della "Edilpi s.a.s" per avere cagionato al proprio dipendente P.M. lesioni (dalle quali conseguiva un indebolimento permanente delle funzioni della deambulazione e della masticazione) conseguenti alla caduta da un'altezza di circa sei metri mentre stava lavorando allo smantellamento di un tetto in lastre di cemento - amianto di un capannone, che cedeva sotto il peso dello stesso P., a causa della mancata predisposizione e della mancata concreta utilizzazione di mezzi di protezione collettiva e personale.
Il reato di favoreggiamento era stato, invece, contestato allo S., perchè, dopo che era stato commesso il reato di lesioni, aiutava il M. a mutare lo stato dei luoghi (ripristino della copertura del tetto, eliminazione delle tracce di sangue, posizionamento in loco, all'interno del capannone, di un ponte mobile), in modo da far credere che il P. fosse caduto da detto ponte mobile anzichè dal tetto; lo S., inoltre, aveva reso dichiarazioni mendaci alla polizia giudiziaria circa il luogo dove lavorava l'infortunato e la presenza del ponte mobile al momento dell'infortunio.
La Corte d'appello riteneva fondato l'assunto accusatorio in ordine alla mancata predisposizione e alla mancata concreta loro utilizzazione delle misure di protezione in base, anzitutto, alle dichiarazione della vittima la quale aveva riferito che mentre era sul tetto per la sua rimozione questo si era improvvisamente sfondato; che era caduto all'interno del capannone; che era rimasto privo di sensi e che si era risvegliato in terra.
Osservava, in linea generale, la Corte che, anche ammesso che l'impresa disponesse dei necessari mezzi antinfortunistici, ciò non esonerava da responsabilità il datore di lavoro, essendo necessario che "a detta disponibilità si accompagnino un'adeguata organizzazione dei mezzi medesimi ed il controllo sul loro utilizzo da parte dei lavoratori".
La responsabilità del M. era ritenuta - sempre secondo le dichiarazioni del P. - proprio sotto il duplice profilo della mancanza di organizzazione nell'impresa dei mezzi antinfortunistici e del loro mancato utilizzo nel caso concreto.
Sulla concreta utilizzazione dei mezzi di cautela, il P. ribadiva che più volte l'impresa aveva sollecitato a non osservare le norme di sicurezza relative piuttosto che a osservarle; ciò che era confermato dall'accertamento che P., il quale stava operando sul tetto insieme con altri operai, non era risultato dotato di alcun mezzo di trattenuta al momento del fatto, e che nessuno gli aveva mosso obiezioni o richiami in proposito.
La veridicità del racconto del P. era stata definitivamente confermata dall'accertato tentativo, posto in essere subito dopo l'infortunio, da parte dell'impresa, di impedire la ricostruzione dei fatti, mettendo in essere attività volte a far apparire che l'infortunio si era verificato in altro modo.
Con riferimento alla posizione dello S., costui, aveva dichiarato, allo scopo di far apparire agli intervenuti una dinamica diversa dell'incidente, che l'infortunato, al momento dell'incidente, si trovava all'interno del capannone, e, dopo l'incidente, era stato soccorso disteso in terra a poca distanza da un "ponte svilupparle" che si trovava in posizione sollevata, all'evidente scopo - secondo la Corte d'appello - di far capire che l'operaio non era caduto dal tetto bensì "per qualche strano accidente" dal ponte stesso, del quale peraltro i soccorritori non avevano trovato alcuna presenza in prossimità del punto in cui la vittima era caduta in terra.
Avverso la sentenza propongono ricorso entrambi gli imputati, per mezzo dei difensori, che deducono quanto segue.
In via preliminare osservano che la mancata sospensione del pagamento della provvisionale richiesta alla Corte d'appello avrebbe potuto pregiudicare, in caso di esito del giudizio loro favorevole, le restituzioni, non essendo la parte lesa in condizioni economiche tali da poterlo fare.
La difesa del M., con un primo mezzo, censura la sentenza impugnata per mancanza di motivazione e violazione di legge processuale (art. 546, comma 1, lett. e)) e sostanziale (D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 4 e 5).
Con altro mezzo, lamenta la contraddittorietà e illogicità della motivazione relativamente alla ritenuta attendibilità del P., sulla quale la Corte d'appello ha motivato per relationem alla sentenza del Tribunale che ha ritenuto la deposizione precisa e circostanziata, oggettivamente credibile, coerente e ragionevole, nonchè corroborata da elementi obiettivi di prova, quali le deposizioni dei soccorritori in ordine al foro nel soffitto e alla mancanza di piattaforma mobile, e la consulenza medico - legale, che ha riconosciuto la compatibilità delle lesioni col racconto della parte lesa.
Deduce ancora, con altro motivo, la violazione di legge e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'art. 27 Cost. e art. 40 c.p. in relazione all'art. 609 c.p.p., comma 2.
Con riferimento all'art. 609 c.p.p., comma 2, deduce, con il quarto motivo, le stesse doglianze relativamente al D.P.R. n. 164 del gennaio 1956, art. 10.
Quanto alle sollecitazioni del datore di lavoro riferite dal P. a operare senza l'osservanza delle regole di cautela, il ricorrente deduce, con il quinto motivo, che la sentenza impugnata si limita a riportarsi a quella di primo grado, affermando che nessuno aveva mosso obiezione o rilievi a che il P. si avventurasse sul tetto senza cintura nonostante la presenza di altri colleghi, e che, stanti le dichiarazioni della vittima, era indifferente se sul cantiere si trovasse o meno il padre dell'imputato.
La difesa di S. deduce, con un primo motivo, l'assenza di motivazione e la violazione di legge con riferimento agli artt. 378 e 43 c.p.
Con altro mezzo, lamenta la conferma della misura della pena da parte della Corte d'appello, pur dopo avere dubitato sul contributo dato dall'imputato alla artificiosa ricostruzione dei luoghi.
Infine, con l'ultimo motivo, deduce violazione di legge in relazione all'art. 384 c.p.
Il ricorso di M. non merita accoglimento.
Con riferimento alla posizione di tale ricorrente, osserva preliminarmente la Corte che il reato contestatogli è prescritto.
Vertendosi in ipotesi di procedimento in cui l'imputato è stato condannato al risarcimento dei danni con provvisionale, questa Corte deve decidere ai sensi dell'art. 578 c.p.p. sulla impugnazione ai soli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
In proposito va osservato che il peculiare giudizio demandato ai Giudici di legittimità dalla norma in esame non può essere condotto che secondo le regole e i limiti del sindacato istituzionale della Corte suprema.
E ancora, di particolare rilievo è l'ulteriore principio stabilito dalle sezioni unite (Sez. un., n. 24 dep. 16 dicembre 1999, Spina), secondo cui il sindacato di legittimità sulla illogicità della motivazione riguarda i rilievi di macroscopica evidenza, restando irrilevanti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento.
Uno dei corollari fondamentali di tali principi è quello indicato ancora una volta dalle sezioni unite (Sez. un., n. 2110, dep. 23 febbraio 1996, Fachini) in forza del quale la Corte suprema non può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità delle fonti di prova, giacchè tale giudizio è attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da questo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottrae al sindacato di legittimità.
Tali ultimo principio ha un'importanza decisiva nel caso di specie in cui la doglianza cruciale del ricorrente concerne la inattendibilità del P., le cui dichiarazioni sono state, invece, ritenute capaci, dai Giudici di merito, di contrastare efficacemente, sulla ricostruzione dei fatti, ogni altra risultanza processuale.
Il nucleo fondamentale dei motivi di ricorso, come accennato, riguarda l'asserita (dai giudici di merito) attendibilità del P., ritenuto invece dalla difesa teste inattendibile.
Sulla attendibilità del P., la Corte d'appello si riporta in linea generale, del tutto legittimamente, alla conforme sentenza di primo grado (v., in proposito, Sez. un., n. 17, dep. 21 settembre 2000, Primavera), osservando che nella sede di appello erano state sollevate solo generiche considerazioni sulle dichiarazioni di detto teste, definite contraddittorie e prive di valore dimostrativo.
La sentenza di primo grado da, al contrario, una completa e logica motivazione sulla attendibilità, in generale, del teste P., ritenendo la sua deposizione precisa e circostanziata e osservando come la vittima abbia dato una versione del tutto precisa sull'incidente; versione corroborata da tutti i riscontri sulla sua esatta dinamica (pagg. 5 - 7 della sentenza del Tribunale).
Ma, al di là delle considerazioni della difesa, la sentenza impugnata, anche servendosi del meccanismo della motivazione per relationem, offre una esaustiva e adeguata giustificazione su ciascuno dei capisaldi delle dichiarazioni fornite dal P. e poste a base della dichiarazione di responsabilità.
Quanto alla mancata offerta da parte della ditta del M. di un'adeguata informazione e formazione del P. sui rischi del lavoro che doveva eseguire in generale in seno all'azienda, la risposta ai motivi di appello è data dalla sentenza impugnata con rinvio alla motivazione della sentenza del primo giudice, capace di contrastare e superare ogni doglianza del ricorrente.
Per quel che riguarda, poi, le misure di sicurezza approntate nel cantiere in cui è avvenuto l'incidente e l'effettivo utilizzo di tali misure, la sentenza ritiene motivatamente confermate da riscontri, e non smentite in modo decisivo da elementi di segno contrario, le dichiarazioni del P. il quale ha riferito che i responsabili dell'impresa lo stimolavano a eseguire in fretta il lavoro; che lo invitavano a trascurare di adottare le misure di sicurezza; che nessuno aveva controllato il modo in cui stava eseguendo lo smontaggio del tetto; che gli era stato detto di camminare sul ferro, cioè sulla intelaiatura costituita da ferri che assicuravano l'amianto alla struttura dell'edificio proprio per evitare di mettersi la cintura e fare prima; che non erano state collocate sul tetto le assi di legno per evitare di camminare direttamente sopra l'amianto di copertura.
L'imputato M., che non era presente in cantiere pur essendo anche direttore dei lavori, doveva assicurasi circa l'effettivo impiego da parte del P. dei mezzi di sicurezza predisposti anzichè pretendere il contrario dai propri dipendenti per ragioni di celerità del lavoro.
Infine è da osservare che la mancata considerazione delle dichiarazioni di M.M. in punto di reale fornitura ai dipendenti dell'impresa dei sistemi di sicurezza (in particolare le imbracature a cosciale) resta priva di significato, in quanto la fornitura degli apparati di sicurezza ai lavoratori non esaurisce l'obbligo del datore di lavoro (pagg. 4 e 5 della sentenza impugnata) se non si pongano in essere, da parte dei soggetti tenuti a garantire una continua vigilanza, tutte quella attività volte ad assicurare che nel singolo caso concreto i dipendenti ne facciano effettivamente uso.
Tanto è sufficiente per affermare la corretta applicazione della legge penale da parte della Corte d'appello nel ritenere la responsabilità del M..
Per quanto attiene al ricorso di S.M., ritiene la Corte che esso debba essere accolto essendo fondato il motivo terzo di ricorso con assorbimento degli altri.
Tale imputato, da quel che risulta dalle decisioni di merito, svolgeva funzioni di operaio anziano da lungo tempo dipendente dell'impresa ed era la persona di maggiore esperienza e anche di autorità al momento dell'incidente occorso nella attività di smontaggio del tetto, tanto che svolgeva le funzioni di caposquadra (al momento dell'incidente erano presenti nel cantiere lo S., altro operaio (OMISSIS) assunto da pochi giorni e l'infortunato: v. pag. 3 della sentenza di primo grado).
Il problema della applicabilità nei suoi confronti della esimente di cui all'art. 384 c.p. si pone ex officio nonostante la questione non sia stata dedotta dal ricorrente con l'atto di appello, vertendosi in ipotesi di cui all'art. 129 c.p.p..
La Corte è consapevole del persistente contrasto giurisprudenziale in punto di volontarietà della causazione del pericolo da parte dello stesso agente ai fini della applicabilità dell'esimente di cui all'art. 384 c.p. nel senso che una parte considerevole della giurisprudenza (come pure della dottrina) ritiene che la causa di esclusione della punibilità di cui alla citata norma sia un'ipotesi speciale della esimente di carattere generale dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., onde si dovrebbe estendere alla causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. il requisito implicito della "non volontarietà" del pericolo causato.
Per tali considerazioni la Corte ritiene che debba essere applicata allo S. la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p., in quanto egli ha posto in essere le attività addebitategli essendo stato costretto dalla necessità di salvare sè medesimo da un grave e inevitabile nocumento nella libertà.
Conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti del M. perchè il reato è estinto per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili a suo carico.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti del M.A. perchè il reato è estinto per prescrizione ferme restando le statuizioni civili. Annulla senza rinvio la medesima sentenza nei confronti di S.M. trattandosi di persona non punibile perchè il fatto non costituisce reato ai sensi dell'art 384 c.p..
Così deciso in Roma, il 4 marzo 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2009