Due importanti sentenze in materia di riconoscimento di malattia professionale in agricoltura: Cassazione n. 5576/2016 e Corte di Appello di Perugia n. 100/2017
 

di Alberto Vedrani


Come avvocato lavorista conosco bene, al di là della freddezza delle carte processuali, il valore morale ed umano delle cause per il riconoscimento di malattia professionale, perché a queste passano molto vicino sofferenze, dolori, e purtroppo eventi luttuosi come è avvenuto nel caso che ci occupa ed in altri decisi prima e successivamente dalla Corte di Cassazione.
Abbiamo qui riportato integralmente il testo delle sentenze soprarichiamate, attesa la loro palese e persistente attualità, ed anche per fornire qualche risposta alle domande di coloro che appartenendo al settore agricolo o a quello industriale debbano incamminarsi sull’ardua via che conduce o dovrebbe condurre, nelle loro intenzioni, al riconoscimento di malattia professionale. La vicenda che stiamo esaminando prende avvio dal decesso per neoplasia polmonare di un bracciante agricolo (C.A.) che per 25 anni aveva prestato la propria opera ininterrottamente alle dipendenze del “Pio Collegio della Sapienza”, ente collegato all’università di Perugia e proprietario della omonima tenuta agricola situata nel Comune di Marsciano (PG).
In questa azienda si eseguivano su vasta estensione varie coltivazioni: cereali, mais, barbabietole; il predetto bracciante era addetto, fra l’altro, alla effettuazione dei cosiddetti “trattamenti” consistenti nello spargimento ed irrorazione sulle colture di prodotti fitosanitari, di varia natura, alcuni dei quali sono risultati essere cancerogeni e quindi in stretto rapporto di causa-effetto con
la neoplasia polmonare che ne provocò il decesso.
In considerazione di quanto sopra la vedova citava in giudizio l’Inail per ottenere rendita ai superstiti, in conformità al disposto del d.P.R. 30/6/1965, prestazione negatale nella preliminare fase amministrativa.
L’Inail costituitosi ritualmente, pur non contestando le modalità del lavoro eseguito da C.A., chiedeva il respingimento del ricorso eccependo che la neoplasia polmonare non aveva causa professionale ma che era stata, viceversa, provocata dal filmo di sigarette al quale il lavoratore sembrava essere stato dedito. Al termine del giudizio di 1° grado, il tribunale di Perugia, sez. lavoro, respingeva la domanda affermando, in motivazione della sentenza, che non era possibile stabilire con certezza se la neoplasia fosse stata provocata da cause professionali o invece extraprofessionali (tabagismo).
Il ricorso in appello non aveva esito diverso, affermandosi da parte dei Giudici di secondo grado che vi erano solo probabilità che la neoplasia fosse stata provocata dai pesticidi con i quali il bracciante era stato a contatto, sia per inalazione, sia per via dermica conseguente a manipolazione.
Questa affermazione dubitativa-possibilista poneva le premesse, per un ricorso in Cassazione per violazione dell’art. 41 c.p. che una giurisprudenza di legittimità continua e risalente nel tempo ha sempre ritenuto applicabile anche alle malattie professionali; infatti citandosi testualmente le motivazioni della richiamata sentenza della Cassazione n. 5576/2016 si afferma nella medesima che “anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale fra evento e danno è governato dal principio della equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta, alla produzione dell’evento.
Deve, in proposito, osservarsi che è in atto ormai da molti anni, un braccio di ferro (non possiamo definirlo diversamente) fra Giudici di merito, e Cassazione, in quanto i primi continuano a disapplicare l’art. 41 c.p. in materia di malattie professionali. La Corte di Cassazione insiste, viceversa, giustamente nel proprio orientamento e il “braccio di ferro” si protrae così nel tempo, prova ne sia che a meno di un anno di distanza dalla sentenza n. 5576/2016 la problematica pressoché identica è tornata dinanzi ai Giudici di Legittimità, i quali con la sentenza 5704/2017 hanno riconfermato (una volta di più!) il proprio orientamento nei confronti di una decisione della Corte di Appello di Venezia, la quale aveva respinto il ricorso della vedova di un lavoratore petrolchimico, sempre in materia di concorso fra malattie provocate da cause professionali e fumo di sigarette.
Si aggiunge inoltre che la decisione della Corte di Cassazione, qui oggetto di note, aveva richiamato tra i propri conformi precedenti, la sentenza di legittimità 6105/2015 relativa al caso di un lavoratore, questa volta metalmeccanico, che era stato per 20 anni alle dipendenze dell’ILVA di Taranto: analogamente ai Giudici di Venezia e di Perugia la Corte di Appello di Lecce aveva, in modo erroneo, ritenuto che il tabagismo fosse stato la causa unica e determinante del carcinoma laringeo che aveva afflitto in vita il lavoratore interessato, provocandone poi il decesso.
Pur trovandosi di fronte ad ex dipendente di azienda a notoria pericolosità per la salute, era stato, di nuovo, da parte dei Giudici di merito, ignorato il disposto dell’art. 41 c.p. ritenendosi causa unica del decesso il fumo di sigaretta senza compiere alcuna pur doverosa e necessaria indagine (esperibile anche di ufficio in base al preciso disposto della legge n. 533/1973) su quelle che erano state le pesanti condizioni lavorative sopportate per 20 anni dal lavoratore poi deceduto.
Il principio sopra affermato, ex art. 41 c.p. può essere fatto valere, ovviamente per qualsiasi tipo di lavorazione, agricola, metalmeccanica, od altra e costituisce un ben giustificato favor nei confronti del lavoratore, onde consentirgli di conseguire (come ancora meglio vedremo in seguito) le prestazioni erogate dall’Inail. Tali prestazioni secondo l’ormai prevalente indirizzo di Dottrina e Giurisprudenza possono essere conseguite dal lavoratore affetto da qualsiasi malattia, con l’unico e preciso limite che questa resulti causata dalla attività lavorativa espletata, con la sussistenza di elevata probabilità, secondo i parametri basilari della scienza medico-legale.
Ricordo in proposito che fra il 2004 e il 2005, quando il morbo di Parkinson non era ancora stato ritenuto in Italia dalla Giurisprudenza e dal legislatore malattia professionale propria anche del settore agricoltura, ottenni una sentenza dalla Corte di Appello di Firenze (passata poi in giudicato) in riforma di precedente sentenza del Tribunale di Lucca, secondo la quale, a seguito di consulenza medico-legale disposta dalla stessa Corte, veniva dichiarata sufficiente la probabilità indicata nel 70 % circa il rapporto di causa-effetto fra uso di pesticidi a base di manganese e morbo di Parkinson, malattia che aveva colpito un floricultore della piana di Lucca.
Allo stato attuale la richiesta di riconoscimento di malattia professionale relativa al morbo di Parkinson, insorto per uso di pesticidi (manganese in primo luogo) è notevolmente facilitata dall’inserimento della patologia stessa nell’elenco delle malattie cosiddette “tabellate” chiarendo (per chi non abbia dimestichezza con la terminologia giuridica) che malattia tabellata significa malattia inclusa in un elenco (tabella), predisposto dal Legislatore, dove è presunto a fronte di una determinata lavorazione il rapporto di causa-effetto fra lavorazione e malattia insorta.
Tuttavia il sistema cosiddetto “tabellare” pur arrecando notevoli vantaggi alla posizione del lavoratore aveva il vistoso limite di non poter essere applicato a malattie nuove e diverse da quelle contemplate in “tabella” per motivi di rigidità assoluta.
La menzionata normativa, con il trascorrere del tempo aveva infatti dimostrato i propri limiti, perché l’innovazione nei processi lavorativi e la scoperta di nuovi principi attivi, nel campo chimico, aveva la deleteria conseguenza di lasciare una serie di situazioni, sempre in crescendo, fuori dalle disposizioni normative attinenti alle malattie professionali.
Pertanto nel 1988 la Corte Costituzionale (Sentenza n. 179) investita della questione da varie ordinanze dei Giudici di merito, i quali avevano accolto eccezioni di incostituzionalità formulate molto spesso dai legali dei patronati, affermò con decisione alla base della quale c’era una ammirevole sintesi di saggezza giuridica e pragmatismo, che il sistema tabellare poteva rimanere in vigore, ma che a fronte di malattie nuove e per il loro crescente numero, non poteva più avere luogo la vecchia rigidità, secondo la quale le malattie professionali erano solo quelle indicate in tabella, ma doveva darsi ingresso al principio secondo il quale non può essere esclusa dal novero delle malattie professionali alcuna patologia, purché sempre avuto riguardo ai canoni fondamentali della scienza medico-legale, possa affermarsi il rapporto di causa-effetto tra attività lavorativa e malattia professionale stessa.
Il Legislatore ha preso poi atto dei criteri fissati dalla richiamata sentenza della Corte Costituzionale allorquando ha formulato l’art. 10 del d.P.R. n. 38/2000 testo normativo che ha innovato grandemente il sistema indennitario degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, sostituendo al precedente criterio di perdita della capacità lavorativa, il nuovo criterio di danno biologico. Nella disposizione innanzi richiamata (art. 10), si prevede il mantenimento, previo allargamento, della tabella delle malattie professionali, istituendo anche una Commissione ad hoc avente il principale scopo di valutare l’ingresso in tabella di nuove malattie, sulla base di una attenta osservazione della relativa
casistica debitamente raffrontata a dati statistici ed epidemiologici. Ne consegue che siamo dinanzi palesemente ad un sistema cosiddetto “misto” , rappresentato in primo luogo dalla richiamata tabella, accanto alla quale sussiste la possibilità che venga riconosciuta come professionale ogni patologia che secondo la scienza medica si trovi in rapporto di causa effetto con il lavoro svolto dal richiedente.
Venendo poi all’altra decisione richiamata e cioè la sentenza n. 100/2017 della Corte di Appello umbra, quale Giudice di rinvio, designato dalla Corte di Cassazione, dopo la affermazione di tutti i soprarichiamati principi generali, rientriamo pienamente nel merito della vicenda che ci occupa.
I Giudici della Corte di Appello di Perugia si sono trovati dinanzi ad un quadro probatorio lineare ed univoco una volta sgombratosi il campo dall’eccezione dell’Inail di tabagismo rivelatasi in corso di causa non altro che una affermazione difensiva priva di riscontri oggettivi che le conferissero dovuta attendibilità.
Rimaneva quindi da accertare quali fossero state le condizioni lavorative del bracciante C.A. ed i prodotti con i quali era venuto a contatto in circa 25 anni del suo rapporto lavorativo con il Pio Collegio della Sapienza.
Al riguardo vi è stata una apprezzabile collaborazione probatoria fra la parte ricorrente e l’Inail in quanto l’istituto, pur contestando il fondamento della domanda, nel giudizio di primo grado, aveva prodotto una relazione da parte del proprio ufficio denominato CONTARP (consulenza tecnica accertamento rischi e prevenzione) dalla quale risultava in primo luogo che il lavoratore aveva eseguito tutte le operazioni relative alla coltivazione dei terreni, di proprietà del Pio Collegio della Sapienza, in secondo luogo, che aveva usato vari prodotti fitosanitari certamente di natura cancerogena, come tale accertata dallo IARC che è notoriamente l’ente internazionale avente il fine e lo scopo di compiere ricerche sul cancro ed accertare la cancerogenicità di vari prodotti non solo del settore agricolo.
Inoltre la difesa della parte ricorrente aveva prodotto attendibile attestazione egualmente di cancerogenicità per altri fitosanitari usati dal bracciante ed esattamente Atrazina (vietata in Italia a partire dal 1992), Folpet Maneb, Mancozeb. Per quanto riguarda il Folpet si tratta di un fungicida noto e molto usato in agricoltura, ed in modo ancora più massiccio in viticoltura, tantoché, pochi anni orsono la stampa nazionale dette grosso rilievo al largo uso che si faceva del medesimo fungicida nel Veneto e particolarmente nella provincia di Treviso, ove viene prodotto il ben noto “Prosecco”; in certi luoghi il medesimo Folpet veniva irrorato, insieme ad altri fungicidi, addirittura con elicotteri cosicché a seconda della direzione del vento oltrepassava grandemente i terreni interessati. Si parlò in quella occasione (coniandosi una espressione nuova ed esattissima) di rischio residenziale vedasi “il Salvagente” n. 6/2018.
Per quanto riguarda gli altri prodotti usati dal lavoratore, Maneb e Mancozeb è sufficiente osservare che oltre alla possibile cancerogenicità sono ritenuti entrambi dalla scienza medico-legale “perturbatori endocrini”, bastandosi qui sottolineare la delicatezza estrema che l’apparato endocrino riveste per l’organismo umano in qualsiasi età della vita.
Peraltro il Maneb ha cessato di essere usato con il 31/01/2018, in quanto la ditta produttrice non ha chiesto dopo la scadenza, nuova autorizzazione per continuare la produzione alla Commissione Europea, il che è molto spesso un modo furbesco e senza grosse conseguenze per togliere dal commercio prodotti che hanno manifestato una loro non indiziaria pericolosità e che, come tali, potrebbero andare incontro ad un ritiro di ufficio da parte della predetta Commissione.
Quanto al Mancozeb debbono essere citate anche le ricerche compiute dalla Fondazione Ramazzini di Bologna (istituto di notoria eccellenza per quanto riguarda lo studio delle malattie professionali) che ne hanno attestato la pericolosità e la cancerogenicità, come evidenziato anche da un articolo leggibile, su Internet, a firma Licia Granello (giornalista dedita a problematiche ambientali e del lavoro) avente come eloquente titolo “Può’ uccidere ma tutti lo usano Mancozeb un veleno legale”.
A questo carico già imponente di sostanze tossiche con le quali il bracciante venne a contatto debbono essere aggiunti due diserbanti 2, 4D e MCPA dichiarati cancerogeni per l’uomo dallo IARC, come risulta dalla stessa documentazione prodotta in giudizio dall’Inail. Se a questo si aggiunge ulteriormente che dalle prove testimoniali esperite, risulta che il lavoratore deceduto, come i colleghi, aveva sempre operato senza minime dotazioni di sicurezza, quali tute, guanti, maschere protettive, rispetto alla pericolosità dei prodotti usati (il che all’epoca avrebbe potuto legittimare anche una azione risarcitoria ex art. 2087 c.c. nei confronti del Pio Collegio della Sapienza) ne discende che la Corte di Appello di Perugia ha avuto, come già sottolineato, un compito non difficile peraltro assolto con estremo rigore, nel determinare il rapporto di causa-effetto fra malattia dedotta ed attività lavorativa espletata dal bracciante.
Altra semplificazione della istruttoria è derivata dal fatto che sono bastati due testi per coprire un lungo arco lavorativo di venticinque anni alle dipendenze di un unico datore di lavoro. Al momento attuale e particolarmente nel settore agricoltura, si assiste a rapporti di lavoro molto frastagliati nel tempo, episodici, quando addirittura non siamo di fronte a lavoro nero, fenomeno, quest’ultimo che trova larghissima diffusione, in primo luogo nel Sud d’Italia, dove manodopera clandestina è usata in modo sistematico per lavori di raccolta di prodotti di larghissimo consumo quali pomodori, agrumi ecc., tanto che lo scorso anno il quotidiano La Repubblica, dopo aver svolto una inchiesta in Calabria e precisamente nella piana di Sibari, sulla raccolta delle arance, intitolava un ben documentato servizio sulla vicenda:” LE ARANCE DELLA VERGOGNA”.
Quanto ai rapporti tra agricoltura e criminalità organizzata, il fenomeno è stato oggetto di denunzie precise ed allarmanti fin dal 2013, anno nel quale la Coldiretti, nel proprio convegno nazionale tenutosi a Cernobbio (Como) tentò con massimo vigore di richiamare l’attenzione dei politici sulla grave problematica. L’iniziativa utile e pressante non sfuggì al “Il Corriere della Sera”, il quale all’indomani della conclusione del Congresso, nella edizione di Domenica 20 ottobre, ne dette notizia ad ampio rilievo.
Da parte sua anche la CIA (Confederazione Italiana Agricoltori), nel proprio congresso nazionale, tenutosi nel febbraio del successivo anno 2014, fece un forte analogo richiamo sulla gravità del fenomeno al quale si aggiunse, come invitato al menzionato congresso, la voce di don Ciotti, sempre in prima linea per quanto riguarda la lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata. I politici del tempo (camera e senato compresi) ignorarono, di fatto, appelli così importanti ed il fenomeno si è sempre più allargato, come era logico attendersi e come confermato dai tragici e notori avvenimenti della Calabria.
E’ doveroso pertanto un richiamo a quanto avvenuto recentemente, nella stessa regione, nella baraccopoli di San Ferdinando, (Reggio Calabria), dove un bracciante senegalese trentenne ha perso la vita in seguito ad un incendio , sottolineandosi, (circostanza prevedibile e già in atto) che in quel luogo continueranno a vivere in condizioni disumane circa duemila extracomunitari sempre pronti a prestare la propria opera parimenti in condizioni disumane a favore della criminalità organizzata, di fatto, proprietaria di aziende agricole di vastissime dimensioni, attraverso individui prestanome e società finanziarie di comodo.
Quanto evidenziato fa facilmente prevedere che i lavoratori subordinati non solo in Calabria, ma anche nell’intero territorio nazionale, avranno sempre maggiori difficoltà, in occasione di richiesta di riconoscimento di malattia professionale, a fornire la prova dei prodotti con i quali sono venuti a contatto, anche se dal 2012 si è aperto uno spiraglio attraverso T istituzione del nuovo registro-trattamenti che è avvenuto con il d.l. n. 150/2012,
Al riguardo il Legislatore è stato abbastanza lungimirante, pur rilevandosi che rinnovazione è stata palesemente concepita, non ad immediata tutela dei lavoratori, ma dei consumatori, volendosi giustamente rendere trasparenti i vari trattamenti fitosanitari usati nella coltivazione dei prodotti agroalimentari a tutela della salute dei cittadini. Vi è di più, perché nel registro devono essere annotati con chiarezza non solo i pesticidi e fitosanitari usati nella coltivazione del fondo, ma debbono essere conservate in modo speculare le fatture di acquisto, per evitare, ovviamente, sempre possibili frodi tra le quali potrebbero esservi anche comportamenti omissivi consistenti nella mancata annotazione dei trattamenti, di fatto effettuati, ma che dovrebbero rimanere segreti per non nuocere alla presunta ed apparente correttezza del prodotto finale. Tuttavia il menzionato registro-trattamenti ha certamente valenza, come prima sottolineato, anche per le prove dei fitosanitari usati relativamente ad eventuali denunce di malattie professionali e questo toma certamente a vantaggio in primo luogo, del coltivatore diretto proprietario del fondo, essendovi l’obbligo di conservare ogni documento per tre anni dalla effettuazione dei trattamenti elencati. Tuttavia i tempi notoriamente lunghi che spesso intercorrono fra Fuso delle sostanze dannose e l’insorgere di eventuali malattie, anche gravi, consigliano, in primo luogo, di conservare ben oltre il triennio, la prova dei fitosanitari usati, perché con il trascorrere del tempo diventerebbe allo stesso coltivatore diretto, più difficile risalire indietro per i prodotti impiegati, una volta eliminata la relativa documentazione. Nella pratica giudiziaria, come tutti sappiamo, è molto più semplice produrre la copia autentica del registro trattamenti, piuttosto che formulare una prova per testi sulla effettuazione dei medesimi, la quale prova va anche ad incidere, ed in modo negativo, sui tempi di durata del giudizio che non sono davvero l’ultimo dei problemi. Comunque sia se il coltivatore diretto ha modo di prendere tutte le precauzioni per conservare più a lungo possibile il registro dei trattamenti, ciò non può dirsi viceversa per i lavoratori subordinati i quali quando si rivolgono all’Inail, prima, ed al Giudice eventualmente poi, per chiedere il riconoscimento di una malattia professionale, sono anche essi gravati dallo stesso onere probatorio proprio dei lavoratori autonomi, pur in posizione palesemente diseguale e più debole rispetto a questi ultimi, così da legittimare fortemente il sospetto di violazione dell’art. 3 della Costituzione. Questo problema come è facile prevedere dovrà essere affrontato in un futuro assolutamente non lontano da parte del Legislatore, stante come prima evidenziato, la mobilità sempre crescente dei lavoratori subordinati in agricoltura, i quali attraverso i patronati di riferimento, potranno, eventualmente, chiedere al servizio ispettivo dell’Inail di verificare quali trattamenti sono stati praticati durante la loro permanenza in azienda presso i diversi datori di lavoro, al fine di salvaguardare una prova diversamente destinata a scomparire e che potrebbe per loro essere necessaria anzi determinante in un prossimo futuro. Tale richiesta, a nostro avviso trova adeguato supporto negli art. 32 e 38 della Costituzione e non potrà comunque essere disattesa dall’Inail, non potendo l’istituto rifiutare di fare intervenire i propri organi ispettivi, ad espletamento di quello che ragionevolmente può configurarsi come dovere di ufficio. Giova puntualizzare che lo stesso Inail non è soltanto il titolare del rapporto assicurativo obbligatorio contro infortuni e malattie professionali, ma è altresì, fin dal 2010 e per effetto del d.lgs. n. 78 emanato in quell’anno, anche ente di prevenzione, dopo aver assorbito, per effetto della norma soprarichiamata, il cessato ISPESL che significava: Istituto Superiore di Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro.
Quindi siamo in presenza di due funzioni diverse, seppure oggi convogliate in un medesimo ente, il che ampia notevolmente le competenze ed i poteri di intervento dell’istituto, conferendogli il diritto-dovere di darsi una organizzazione più efficiente per raggiungere i nuovi scopi assegnatigli, conseguibili solo con un servizio ispettivo che abbia organici più ampi rispetto alla situazione attuale. Quanto sopra viene a riflettersi anche sul comportamento processuale dell’istituto stesso, così da permettergli quella collaborazione probatoria, (eccellente sotto un profilo di etica processuale) che come già evidenziato, era stata posta in essere nel giudizio definito dalla Corte di Appello di Perugia.
Si tenga ulteriormente presente che il richiesto impiego degli ispettori dell’INAIL trova forte motivazione anche in una indagine statistica eseguita, pochi anni orsono, da parte del CEPA, centro Patronati che coordina le attività del patronato ACLI e dei tre patronati confederali, INAS-CISL, INCA-C.G.I.L., UILTA - UIL. Tale indagine, svolta, tramite intervista telefonica rivolta in primo luogo a lavoratori italiani, aveva come oggetto la domanda circa la loro conoscenza della normativa vigente in materia di infortunio o malattia professionale; dalla stessa indagine è resultato che il 10% degli intervistati ha ammesso di ignorare completamente la normativa in questione, mentre un 20% ha dichiarato di esserne a conoscenza ma in modo giudicato dagli intervistatori minimale e insufficiente.
Queste percentuali si alzano notevolmente quando la domanda è stata rivolta a lavoratori stranieri residenti in ITALIA, dal che è facile dedurre che la richiesta da noi formulata in precedenza, circa le necessità di indagini ispettive particolarmente nel comparto agricoltura da parte dell’INAIL o dell’USL ha un preciso ancoraggio con la viva realtà e non può essere disattesa o minimizzata.
Comunque, lungi da noi la pretesa di voler suggerire in modo drastico una soluzione della problematica già prospettata. C’è invece da parte nostra la ferma intenzione (questo si!) di gettare, il sasso nello stagno, perché venga studiata nelle opportune sedi (INAIL, Organi legislativi. Ministero del Lavoro, senza ovviamente trascurare la concertazione con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro) un provvedimento normativo atto a salvaguardare nel modo più efficace la prova sulla esposizione a rischio di braccianti e salariati.
Le presenti note sarebbero fortemente incomplete qualora da parte nostra non vi fosse nemmeno un cenno alla durata del Giudizio che si è protratto per ben 15 anni, cioè dal 30/05/2002 al 03/05/2017.
Ad ognuno è dato vedere come il tempo di 15 anni, raffrontato alle comuni vicende della vita, alle quali è doveroso il riferimento, è eccessivamente lungo, perché equivale al periodo di tempo che intercorre fra la nascita di un bambino, la sua lunga fanciullezza sino al raggiungimento della adolescenza, sottolineandosi inoltre che il caso che ci occupa non è stato, quanto a tempi lunghi, purtroppo né unico né isolato. Qui non vi è motivo di censurare il disposto della legge n. 533/1973 che disciplina il processo del lavoro e quello previdenziale, perché il richiamato testo normativo non è assolutamente responsabile dei tempi lunghi delle cause menzionate, al contrario avendo disposto, almeno in teoria, una loro scorrevolezza al passo con i tempi.
Né dipende ovviamente dalla legge n. 533/1973 se in molte sedi, sguarnite di Giudici del Lavoro, pur previsti in organico, le cause sono costrette a forzate giacenze che ovviamente ne procrastinano i tempi di definizione all’infinito.
Il problema è viceversa e solo di politica giudiziaria, perché dai governi Berlusconi a quelli dei giorni nostri, con minime differenziazioni, fra gli uni e gli altri la Giustizia è stata di fatto una povera Cenerentola, per stanziamenti di anno in anno inadeguati rispetto alle effettive necessità.
Ci sia consentito peraltro rilevare che organizzazioni sindacali e patronati avrebbero dovuto, forti della loro rappresentatività dei lavoratori e dei cittadini, richiamare la attenzione dei governanti di turno e dei legislatori su problematiche troppo note e aggravatesi con il trascorrere del tempo. È auspicabile che ciò possa avvenire in un prossimo futuro, ma al riguardo l’orizzonte appare ad oggi nebuloso ed incertissimo.
Abbiamo detto all’inizio di queste note che le cause per il riconoscimento di malattie professionali hanno una forte valenza morale ed umana, qui riconfermata, dal comportamento di una vedova che ha inseguito tenacemente la Giustizia, anche quando questa sembrava sfuggirle.
La mente va così al noto brano evangelico definito dai commentatori parabola “della vedova e del Giudice iniquo” nel quale il Cristo stesso, ammaestrando, i discepoli sulla importanza della preghiera ne delinea le caratteristiche essenziali, costituite dalla fede e dalla insistenza, paragonando quest’ultima proprio alla insistenza con la quale una vedova riuscì ad ottenere una sentenza a lei favorevole da parte di un Giudice del tempo dimostratosi lungamente restio ad emetterla sia per negligenza sia per mancata consapevolezza del proprio ruolo!

Lucca, giugno 2019

Avv. Alberto Vedrani