Cassazione Penale, Sez. 4, 07 maggio 2020, n. 13843 - Reato di disastro colposo: posizione di garanzia del direttore di stabilimento


 

 

 

Presidente: FUMU GIACOMO

Relatore: ESPOSITO ALDO Data Udienza: 12/12/2019





Fatto

 



1. Con sentenza del 14 dicembre 2015 il Tribunale di Alessandria, previa riqualificazione del reato contestato al capo 1) in quello previsto dall'art. 449, comma 1, cod. proc. pen., ha condannato B. Salvatore Francesco (nella qualità di responsabile funzione ambiente PAS per il sito industriale Ausimont dal 2000 al 2002), G. Luigi (nella qualità di direttore dello stabilimento della società Solvay Solexis s.p.a. dal luglio 2003 al dicembre 2007), C. Giorgio (nella qualità di dipendente Solvay s.s., sede secondaria per l'Italia, quale responsabile centro competenza ambiente HSE degli stabilimenti Solvay Solexis s.p.a., a decorrere dall'aprile 2008) e CA. Giorgio (nella qualità di responsabile funzione ambiente PAS per il sito industriale Ausimont dal 1995 al 2002 e di responsabile centro competenza ambiente HSE della Solvay Solexis s.p.a. a decorrere dal 1° gennaio 2004 nonché di responsabile del Centro di Spinetta Marengo nel medesimo periodo) alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ciascuno; ha assolto C.C., DL.B. e J.P.J. dal reato di cui al capo 1) per non aver commesso il fatto; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di T.G. in ordine al reato previsto dal capo 1) per intervenuta prescrizione; ha assolto C.C., B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio, CA. Giorgio, DL.B. e J.P.J. dal reato previsto dagli artt. 110 cod. pen. e 257 D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, di cui al capo 2), perché il fatto non sussiste (in Spinetta Marengo, nel maggio 2008, in permanenza).
Il Tribunale ha condannato altresì B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, gli ultimi tre in solido col responsabile civile Solvay Specialty Polymers Italy s.p.a., al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili: Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, da attuarsi nelle forme previste dall'art. 311 D. Lgs. n. 152 del 2006; Comune di Alessandria; Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta Onlus; WWF Italia Onlus; C.G.I.L. Camera del Lavoro Territoriale di Alessandria; Medicina Democratica, Movimento di Lotta per la Salute, società cooperativa; Associazione I due Fiumi Erica, Pro Natura, Alessandria; singoli privati meglio specificati nella sentenza impugnata.
L'originaria imputazione (delitto di cui al capo 1) era quella disciplinata dagli artt. 110 e 439 cod. pen., consistente nell'avvelenamento delle acque della falda sotterranea dello stabilimento Solvay-Archema (ex Ausimont) all'abitato di Spinetta Marengo e alle zone limitrofe. La Corte alessandrina riqualificava il reato in quello previsto dagli artt. 110 e 449 cod. pen..
Le condotte contestate erano le seguenti:
1) omessa manutenzione della rete idrica dello stabilimento;
2) omessa segnalazione alle autorità competenti della portata reale dell'inquinamento;
3) omessa adozione di qualsiasi opera rivolta ad eliminare, ridurre, confinare e contenere l'inquinamento in atto;
4) la perdurante somministrazione dell'acqua emunta dalla falda sottostante allo stabilimento alle abitazioni limitrofe e ai dipendenti.
Le indagini traevano origine dalla relazione dell'Arpa del 20 maggio 2008, che conteneva le seguenti conclusioni:
1) con riferimento alla falda acquifera superficiale:
a) lo stato qualitativo altamente compromesso delle parti centrale e settentrionale dello stabilimento per cromo esavalente, sommatoria di organoalogenati e solventi clorurarti, come desumibile dall'esito delle analisi chimiche;
b) l'inquinamento da cromo e da solventi clorurati localizzato nella zona esterna e a nord allo stabilimento, esteso fino alla cascina Pederbona; modesti superamenti di CSC per cromo e solventi clorurati a sud dello stabilimento;
2) con riferimento alla falda profonda:
a) l'inquinamento da cromo e solventi clorurati nella zona nord dello stabilimento;
b) la falda profonda attinta all'esterno sia dai solventi clorurati (cloroformio, tricloroetilene, tetracloroetilene), in concentrazione sotto soglia rispetto al D. lgs. n. 152 del 2006, sia dal cromo esavalente, in concentrazione di modestissimo supera­ mento delle soglie di legge; la falda attinta nei pozzi privati della Cascina Pederbona profondi novanta metri a nord ovest del sito Solvay da cromo in concentrazioni lievissimamente superiori alla soglia di legge.
L'Arpa considerava la falda sottostante allo stabilimento e quella fluente nella zona nord-ovest fino alla Bormida fortemente inquinata dalle sostanze più rilevanti sotto il profilo del potenziale tossico e/o cancerogeno (in particolare, cromo esavalente, cloroformio, tetracloruro di carbonio, tricloroetilene, tetracloro-etilene, 1.2. di-cloro­ etilene, fluoruri).
Ad avviso del giudice di primo grado, emergevano dati altalenanti dell'inquinamento con variazioni in più o in meno dei composti chimici. L'Arpa individuava una delle principali cause di inquinamento dell'acquifero nell'enorme massa di residui di lavorazione contenenti cloro e di altri metalli pesanti ammonticchiati per lunghissimi anni nelle discariche site all'interno dello stabilimento (autorizzate solo per rifiuti speciali e non per rifiuti tossico-nocivi) e in numerose altre aree del sito industriale (vedi gli accertamenti della ENSR, società di consulenza ambientale, e coautore del Piano di Caratterizzazione del 2001 nonché le deposizioni del prof. Vincenzo Francani, consulente di difesa del C., e del dr. Pietro A.i, dipendente ENSR e coautore del Piano di Caratterizzazione del 2001).
Secondo la Corte alessandrina, i contaminanti attaccavano per contatto il terreno e da questo passavano in falda attraverso la lisciviazione o la solubilizzazione. Sin dal 2001 la ENSR aveva constatato la presenza di tali due fenomeni. Nel documento di analisi dei rischi del 2006, si evidenziava che il dilavamento era fortemente influenzato dall'alto piezometrico, a sua volta determinato dalle perdite delle reti idriche industriali.
Dalle risultanze deli studi effettuati dalla Ausimont e dalla Solvay emergeva l'esistenza di collegamenti tra la falda freatica e l'acquifero profondo.
La Corte di assise di Alessandria condivideva l'impostazione del pubblico ministero circa la natura permanente del reato, avendo rilevato, da un punto di vista naturalistico, una contaminazione della matrice d'acqua costante e in progressiva estensione di area e confutava la tesi difensiva dell'istantaneità e della mera permanenza degli effetti. L'organo giudicante sosteneva che, a fronte di conclamate esportazioni di inquinante in falda del sito, il mancato intervento e il ritardo dell'opera di bonifica mediante menzogne e silenzi equivalevano a produrre contaminazione e ad aggravarla. Il giudice di primo grado riteneva il reato di cui all'art. 439 cod. pen. di pericolo presunto e posto a tutela dell'incolumità pubblica; circoscriveva l'oggetto di tutela all'acqua destinata all'alimentazione. La falda era sottostante all'abitato e all'area industriale di Spinetta e il terreno circostante era destinato in via attuale all'alimentazione umana.
I valori delle sostanze tossiche e cancerogene superavano i limiti soglia. Non risultava dimostrato l'avvelenamento di acque destinate all'alimentazione nei pozzi prelevati della frazione di Spinetta e sobborghi limitrofi.
Relativamente al profilo soggettivo, si evidenziava la chiara volontà delle due società succedutesi nel sito (Ausimont e Solvay) di edulcorare o di omettere i dati relativi all'inquinamento, per far apparire la situazione della falda acquifera interna ed esterna migliore rispetto a quella reale. Si trattava di una colpevole sottovalutazione del fenomeno volta a ridurre quello che occorreva apprezzare come disastro ambientale, concausato dalla gestione attuale ma ereditato da altri.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte di assise di appello di Torino, in parziale riforma della sentenza della Corte di assise di Alessandria, ha assolto T.G. dal reato ascritto di cui al capo 1) perché il fatto non costituisce reato; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di B. Salvatore Francesco in relazione al reato di cui al capo 1), per essere estinto il reato per intervenuta prescrizione; previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato in anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a CA. Giorgio, G. Luigi e C. Giorgio, concedendo i benefici della sospensione condizionale e della non menzione.

La Corte torinese ha ritenuto corretta la derubricazione nel reato previsto dall'art. 449 cod. pen., anziché in quello di avvelenamento colposo ex art. 452 cod. pen.. Al riguardo, ha sottolineato che, nell'esercizio del potere di riqualificazione del reato, il giudice non può farsi condizionare da diversi fattori, quali ad esempio il termine di prescrizione previsto per l'uno o per l'altro reato.
Il giudice a quo ha ritenuto pienamente legittima la configurabilità di un'ipotesi di disastro innominato, previsto dall'art. 449 cod. pen., norma di chiusura inserita per disciplinare anticipatamente disastri non ipotizzabili dal legislatore del 1930 in quel contesto storico. Tra l'altro, con sentenza n. 327 del 2008, la Corte costituzionale dichiarava infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 434 cod. pen. e ribadiva la ratio della disposizione di colmare ogni possibile lacuna del sistema.
Nel configurare un'ipotesi di disastro ambientale, la Corte di assise di appello ha richiamato le argomentazioni della Corte alessandrina circa i dati e le cause dell'inquinamento, il livello di quest'ultimo e le modalità di diffusione dei contaminanti: dai rifiuti tossico-nocivi appoggiati senza protezione ovvero con insufficiente protezione, al terreno, da questo per lisciviazione e solubilizzazione alla sottostante falda, superficiale e profonda. I valori delle sostanze tossiche e/o cancerogene derivanti dal pro­ cesso chimico-industriale risultavano più volte moltiplicati rispetto ai limiti normativi previsti per le singole sostanze.
Nella sentenza impugnata si è rilevato che la bonifica non era stata completata e che i seguenti interventi attuati dalla Solvay erano stati insufficienti: a) l'installazione di una barriera idraulica composta da 32 pozzi di emungimento in grado di prelevare oltre 350 mc/h di acqua da inviare e inviata all'impianto di trattamento; b) l'installazione di alcuni presidi di pompaggio; c) l'intervento di riduzione chimica dei solventi clorurati. Dal 2004 al 2016 era stati spesi dieci milioni di euro per la caratterizzazione del sito e per la progettazione della bonifica, venti milioni di euro per realizzare gli interventi e sette milioni di euro per la manutenzione della rete idrica.
La Corte torinese ha poi negato che, per affermare il pericolo per la pubblica incolumità, occorra l'indicazione di precisi e misurati dati tecnici relativi all'inquinamento, essendo sufficienti quelli relativi alle tipologie di sostanze tossico-nocive e l'enormità della massa di rifiuti sversati sul terreno.
Nella fattispecie, la sussistenza del rischio è stata verificata tramite il metodo del risk assessment adoperato dal prof. Giorgio G. nella consulenza redatta per il pub­ blico ministero, e, cioè del pericolo di danni alla salute umana, con la finalità di valutare i rischi cronici o a lungo termine associati ai siti contaminati. Ad avviso del prof. G., le sostanze tossiche e/o cancerogene per l'uomo rinvenute nella falda acquifera di Spinetta nell'area dello stabilimento industriale e in quella limitrofa derivavano originariamente dalle lavorazioni del sito. Dal terreno passavano alla falda acquifera superficiale e profonda.

La tossicità delle sostanze è stata considerata un dato scientifico indiscutibile, avendo la legislazione ambientale imposto dei livelli-soglia, sia pure ispirati alla sicurezza e alla cautela. Il metodo di analisi di rischio costituisce una lettura approfondita, di livello superiore e sistematica dei valori tabellari. Le sostanze in questione sono: cromo esavalente; tricloroetilene; cloroformio; tetracloroetilene; tetracloruro di carbonio; DDT; arsenico. I superamenti non erano modesti, bensì spesso eccezionali, ben oltre l'ordine di grandezza tollerato, non solo del limite tabellare (oltrepassato centinaia o migliaia di volte) ma anche di quello calcolato come dose accettabile.
L'art. 1 D. lgs. n. 31 del 2001 relativo alle acque destinate al consumo umano indica il fine di proteggere dalla salute umana dagli effetti derivanti dalla contaminazione delle acque, garantendone la salubrità e la pulizia; l'art. 2 stabilisce che le acque destinate al consumo umano sono quelle per uso potabile, quelle destinate alla preparazione di cibi e bevande e quelle per altri usi domestici, tra i quali devono annoverarsi l'innaffiamento di orti e giardini ovvero l'irrigazione di colture.
Relativamente al momento consumativo del reato, si è ritenuto che la riconducibilità dei fenomeni disastrosi ad un macroevento di dirompente portata distruttiva non costituisce un requisito essenziale per la configurazione del reato di cui all'art. 434 cod. pen.. L'applicazione di tale disposizione, infatti, non può essere limitata ai soli fenomeni naturalistici macroscopici, visivamente percepibili.
L'evento naturalistico diacronico, tipico del disastro innominato, significa un lento processo di contaminazione della matrice ambientale, attraverso la lasciviazione e la solubilizzazione delle sostanze tossiche presenti negli enormi cumuli di scarti di lavorazione che penetrano nel terreno e, quindi, nell'acqua di falda, senza alcuna soluzione di continuità. Tale evento è inevitabilmente collegato alla condotta umana e, in quanto tale, eventualmente permanente. Il dies a quo della prescrizione del reato va individuato nel momento di cessazione della funzione ricoperta dal singolo imputato. I dati della contaminazione non erano contestabili, perché riportati proprio dalle aziende e dai loro consulenti ambientali: a) la contaminazione della falda acquifera si era spinta fino a settanta metri di profondità, come risultava dalle analisi e dalle relazioni del geologo dr. Mauro M., incaricato dalla Montefluos, società della Montedison; b) il duomo piezometrico esisteva da decenni, si era incrementato e aveva contribuito al processo di contaminazione delle acque, non rilevando la sua origine artificiale e non naturale; c) i soli soggetti che dovevano indicare ed attuare gli interventi erano i proprietari del sito industriale contaminato, mentre gli enti, preso atto delle comunicazioni della proprietà, erano deputati al controllo della procedura. I quattro pozzi-barriera installati nel 2004 intercettavano il 3,75% della portata. Solo in epoca attuale la barriera è composta da trentadue pozzi, con capacità di captazione dell'87,5% della portata e, ciò nonostante, si prefigura il completamento della bonifica nel 2029.

Sin dagli anni '90 si indicava la situazione dei terreni contaminati, al netto delle discariche, in duecentocinquantamila metri cubi di terreno con concentrazioni superiori al limite di legge per tossico-nocivo, centomila metri cubi per terreno oltre i limiti del D.M. n. 471 del 1999, centocinquantamila metri cubi di terreno contaminato.
Quanto alla gestione Ausimont, emergeva la falsità del primo Piano di Caratterizzazione del 30 marzo 2001 in relazione al "modello idrogeologico", alle discariche e ai cumuli di scarti di lavorazione, all'assenza di notizie sul duomo piezometrico e alla falsificazione delle analisi (vedi fax dei consulenti di ENSR).
Secondo le difese degli imputati, tali falsità rilevava quale cautela perpetrata dall'Ausimont nei confronti degli enti pubblici e di truffa nei confronti della Solvay. Appariva però poco credibile che una multinazionale come la Solvay avrebbe deliberatamente omesso di accertare le condizioni del sito industriale e della zona limitrofa nonostante le proprie competenze nel settore, senza chiedere la documentazione precedente tra cui le relazioni idrogeologiche sicuramente esistenti.
A fronte di una gravissima contaminazione del sito e della zona limitrofa, nessun intervento era stato attuato per contenerla, diminuirla o eliminarla, per cui il giudizio controfattuale si risolveva nella constatazione della totale mancata adozione di rimedi a fronte delle innumerevoli soluzioni adottabili.
La Corte torinese ha condiviso le valutazioni del giudice di primo grado circa la responsabilità a titolo di colpa del CA., del C. e del G.; ha dichiarato il reato estinto per prescrizione nei confronti del B., essendo decorsi oltre quindici anni dalla data del fatto, ma ne ha comunque riconosciuto la responsabilità ai fini civili.
In base all'assetto organizzativo la PAS seguiva le problematiche ambientali per la Ausimont e la HSE per la Solvay. La Ausimont si rapportava col consulente esterno attraverso il B. e il CA., approntando e trasmettendo agli enti pubblici il primo Piano di Caratterizzazione; la Solvay si rapportava coi consulenti esterni e con gli enti pubblici attraverso il CA., il C. e il G., partecipando alle Conferenze di servizio e trasmettendo i piani di caratterizzazione e le varie relazioni sullo stato del sito.
Il B., responsabile centrale funzione ambiente (PAS) per tutti i siti industriali Ausimont s.p.a. dal 2000 al 2002, possedeva grande esperienza e professionalità, designato all'indomani del decreto Ronchi. Egli guidava i responsabili PAS e trattava le singole criticità. Conosceva le condizioni del sito e collaborava alla predisposizione del Piano di Caratterizzazione.
Sotto la gestione Ausimont, il CA. era stato addetto alla funzione PAS dello stabilimento di Spinetta sin dal 1993, poi responsabile della stessa funzione dal 1995 fino al cambiamento di proprietà; ricopriva sotto la gestione Solvay lo stesso incarico in HSE; poi dal 1° gennaio 2004 era promosso a responsabile anche di HSE centrale di Solvay Solexis; manteneva entrambi gli incarichi sino all'inizio dell'indagine di cui al presente procedimento. Era di elevata competenza, partecipava alle riunioni interne coi consulenti e col G. nonché alle Conferenze di Servizio con gli enti. Non si occupava soltanto della funzione ambiente, altrimenti il B. non si sarebbe rapportato con lui. I monitoraggi e le relazioni tra il 2001 e il 2008, dei quali era uno degli autori, erano tutti falsi, in quanto non rappresentavano la contaminazione del sito. Il CA. non indicava se e a quali eventuali soggetti avrebbe indicato gli interventi idonei a contenerla.
Il G. ricopriva il ruolo di Direttore dello stabilimento di Spinetta dal 2003 al 2007 e, cioè, interamente durante la gestione Solvay. Le riparazioni da lui disposte non riguardavano le perdite delle tubazioni che implementavano l'alzo piezometrico (divenuto alto tre piani). Egli conosceva il livello di contaminazione del sito; si impegnava a prendere le decisioni finali non solo per le questioni di produzione, sicurezza e lavoro, ma anche per le questioni ambientali.
Per le questioni ambientali la Solvay agiva per mezzo dei suoi rappresentanti, quali il C., il CA. e il G.. La Corte di assise di appello ha ritenuto inverosimile la tesi difensiva del G. di una truffa commessa da Ausimont ai danni della Solvay.
Il C. decideva di non effettuare nuovi controlli per stabilire il tasso di inquinamento. Durante un colloquio con tale Phillippe, il C. non raccontava di essersi basato esclusivamente sul primo Piano di Caratterizzazione del 2001, per conoscere le condizioni ambientali del sito di Spinetta: egli sostanzialmente ammetteva che era venuto a conoscenza dello stato di inquinamento e che non erano stati adottati meccanismi idonei ad eliminarlo. Egli non informava gli enti pubblici dei problemi esi­ stenti, ma riteneva necessario studiare preventivamente i rimedi per risolverli.
La Corte di assise di appello ha confermato le statuizioni di condanna in favore delle parti civili: il Ministero dell'Ambiente, essendo il danno ambientale comprovato dai plurimi interventi effettuati dalla proprietaria Solvay e solo in parte conosciuti; il Comune di Alessandria, in quanto, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, non sussiste nessuna disposizione che limita il diritto al risarcimento del danno all'immagine solo qualora l'imputato sia dipendente dell'ente; le persone fisiche, il cui diritto generalmente scaturiva dalla degradazione del fondo di loro proprietà.

3. PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI TORINO (un motivo di ricorso)
3.1. Vizio di motivazione con riferimento all'ingiustificata concessione delle circo­ stanze attenuanti generiche.

Si deduce l'illogicità della motivazione in ordine alla concessione delle attenuanti previste dall'art. 62 bis cod. pen., alla luce del riconoscimento da parte dalla medesima Corte di assise di appello della sussistenza di plurimi fattori sfavorevoli agli imputati.

4. G. LUIGI (sei motivi di ricorso - avv. Francesco Arata)
4.1. Violazione di legge con riferimento all'individuazione delle condotte tipiche del reato di disastro di cui all'art. 434 cod. pen. e all'estensione di queste anche alla condotta di mancata bonifica dei siti inquinati o di occultamento della contaminazione.
Si deduce che l'art. 434 cod. pen. prevede quale fatto tipico un reato istantaneo, come il crollo e gli altri eventi tipici previsti nelle altre fattispecie di cui al capo I del titolo VI. Il reato in esame non prevede un obbligo di far cessare una condotta anti­giuridica tenuta in precedenza o un onere di attivarsi presso le pubbliche amministrazioni. Così ragionando, si finisce col ricondurre nell'alveo sanzionatorio dell'art. 434 cod. pen. la semplice condotta di omessa bonifica di un sito inquinato, che è sanzionata da altre norme. Si tratta della medesima conclusione alla quale la giurisprudenza era pervenuta nel processo c.d. Eternit.
Non sussiste, d'altronde, un generale obbligo di rimuovere le conseguenze di una condotta quale comportamento tipico di una fattispecie. Anche a voler ammettere che le condotte di inquinamento fossero state effettivamente minimizzate, si verserebbe in ipotesi di post factum penalmente irrilevante, in quanto intervenuto a disastro già verificatosi.
4.2. Violazione di legge in relazione al momento consumativo del reato.
Si osserva che erroneamente la Corte di merito ha identificato il momento della cessazione della permanenza in quello di ottenimento dei risultati positivi di contenimento della contaminazione in seguito agli interventi di bonifica; ha evidenziato la non necessità di un evento esteriore macrodistruttivo ai fini della configurazione del reato, ma non ha indicato una specifica data di consumazione.
La condotta non può essere considerata protratta oltre il momento di cessazione delle dispersioni degli inquinanti nelle matrici ambientali. La consumazione coincide col momento in cui la compromissione delle matrici ambientali interessate dalle con­ dotte attive degli agenti abbia raggiunto un livello tale da provocare un pericolo per la pubblica incolumità.
4.3 Momento consumativo in relazione al contenuto delle sentenze di merito.
Si sostiene che l'evento disastro si era già realizzato parecchi decenni prima dell'ingresso della Solvay nella gestione, anteriormente al conferimento dell'incarico al G. (v. pagg. 68-71 della sentenza di primo grado): gli elementi inquinanti e la relativa contaminazione erano riconducibili a lavorazioni del passato (vedi le produzioni di cromo esavalente iniziate negli anni '30 e cessate nei primi anni '70, con lo smantellamento degli impianti).
Sin dagli anni '90, i tecnici interni conoscevano il reale contenuto tossico-nocivo delle discariche e dei cumuli di scarti di lavorazione, privi di protezione, con contaminazione del terreno e da qui alle acque. L'alto piezometrico esisteva sin dal 1989 (vedi relazione del geologo dr. Mauro M. effettuata per conto della Montefluos, società di Montedison). Dalle medesime indicazioni dei giudici di merito emergeva l'assenza di incidenza causale della condotta del G., ingegnere dal 2003, su un disastro già consumato decenni prima del suo arrivo.
4.4. Violazione di legge in relazione all'assenza di una posizione di garanzia del G..
Si rileva che la mera accettazione della carica di direttore dello stabilimento di Spinetta Marengo non comportava un'automatica ricaduta di responsabilità sul G.. Il manuale ambiente della Solvay (v. 5 par. 4.4.1.) prevede che il direttore di stabilimento deve «assicurare la disponibilità delle risorse umane e delle competenze specialistiche, le infrastrutture organizzative, le tecnologie e le risorse finanziarie».
Tale documento illustra i compiti derivanti da una rigorosa organizzazione interna, nodale nella realtà aziendale particolarmente complessa del gruppo industriale chimico più importante al mondo. La Corte piemontese ha omesso ogni riferimento alle singole attribuzioni dei soggetti, limitandosi a configurare una generica ed omnicomprensiva posizione di garanzia. Alla responsabilità dei delegati non poteva essere inspiegabilmente associata quella del direttore di stabilimento. La funzione ambientale era effettivamente operativa ed affidata a soggetti particolarmente competenti. Il G., direttore di stabilimento, non era responsabile dell'ambiente e non gli potevano essere affidate le specifiche decisioni in materia, le quali erano state devolute a tecnici iperspecializzati della Solvay, dotatasi di due apposite strutture: l'HSE di sede specifico dello stabilimento di Spinetta Marengo e l'HSE di gruppo.
4.5. Vizio di motivazione in ordine all'esistenza e all'incidenza dell'omessa manutenzione.
Si osserva che l'omessa manutenzione delle reti idriche sotterranee aveva contribuito a formare l'anomalia della falda, il c.d. alto piezometrico, non integrava una concausa del dilavamento dei terreni contaminati e della conseguente propagazione degli inquinanti. L'alto piezometrico, però, era in atto senza soluzione di continuità da diversi lustri prima dell'arrivo del G. a Spinetta Marengo.
Le perdite idriche dello stabilimento erano significative e ciò dimostrava l'inidoneità delle attività di manutenzione delle condotte sotterranee. Si trattava di una contestazione formulata in seconda battuta dopo che, a seguito delle produzioni difensive e delle attività suppletive di indagini, la Procura aveva dovuto abbandonare l'originaria incolpazione - tra l'altro cristallizzata nel capo d'imputazione - di omessa manutenzione delle condotte sotterranee. La Procura aveva convenuto sulla circostanza della destinazione da parte della Solvay di ingentissime risorse sulla manutenzione, interventi però dimostratisi non risolutivi a causa del mancato arresto delle perdite sotterranee.
Le perdite d'acqua delle conduzioni sotterranee erano ineliminabili, per cui la loro presenza non costituiva sintomo di cattiva manutenzione. Le perdite d'acqua dello stabilimento erano calcolabili attorno all'8-10% a fronte di una dispersione media in Italia del 40% circa. Dal punto di vista tecnico-scientifico, gli esperti del settore consideravano reti idriche efficienti quelle idonee a limitare le dispersioni al 25% (consulenza tecnica G., Bargna-Tagliabue). La ridotta percentuale di perdite al 10% individuata dall'ing. Francesco ME., consulente di parte del C., costituiva il sintomo che l'attività copiosa di manutenzione, della quale il giudice aveva dovuto prendere atto, consentiva di contenere le dispersioni in percentuali migliori rispetto a quelle delle più importanti reti idriche italiane.
4.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili, da annullare in conseguenza della fondatezza dei motivi suindicati.

5. B. SALVATORE FRANCESCO (cinque motivi di impugnazione - avv. Nadia Alecci e Francesco Centonze)
Si premette la sussistenza dell'interesse ad impugnare, in quanto, l'eventuale accoglimento dei primi quattro motivi di ricorso determinerebbe la caducazione delle statuizioni civili ed una rivalutazione della prevalenza della più ampia formula assolutoria nel merito rispetto alla declaratoria di estinzione del reato di cui al capo 1) per intervenuta prescrizione.
5.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all'individuazione dello spazio temporale dell'evento del reato di disastro innominato.
Si deduce che la Corte di merito non ha descritto e non ha individuato il momento in cui l'evento disastroso si sarebbe verificato presso il sito industriale di Spinetta Marengo. Tali carenze non consentono di addebitare la responsabilità per omesso impedimento ex art. 40, comma secondo, cod. pen., perché l'evento potrebbe essersi verificato prima dell'assunzione da parte del garante della carica e dei rispettivi doveri e poteri di intervento.
Diversamente da quanto sostenuto dalla Corte torinese, secondo la principale dottrina e la giurisprudenza (caso Eternit), il reato di disastro innominato è istantaneo ad effetti permanenti. Non è stato stabilito il preciso momento nel quale, dalla contaminazione connessa ad un'attività industriale chimica per definizione inquinante, si era passati ad una compromissione grave, diffusa e difficilmente reversibile.

5.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'individuazione di una condotta omissiva rimproverabile al B..
Si osserva che la Corte di assise di appello ha erroneamente imputato al Boncora­ glio una responsabilità da mera posizione, sostenendo che, quale titolare della funzione PAS centrale di Ausimont, egli era in possesso de plano di poteri e doveri im­ peditivi rispetto all'evento in concreto verificatosi. In realtà, la posizione di garanzia in capo ad un determinato soggetto non può essere automaticamente desunta dal ruolo occupato all'interno dell'organigramma aziendale.
Il PAS centrale è chiamato a svolgere un'attività ausiliaria nella verifica dell'idoneità degli assetti organizzativi in materia ambientale, privo di doveri e poteri di accertamento delle specifiche criticità riguardanti i singoli siti industriali. E' un incarico di natura consultiva, senza poteri di spesa e di intervento diretto sui singoli stabili­ menti del gruppo, di supporto all'amministratore delegato e ai responsabili PAS di stabilimento, per aggiornarli sulle normative in materia di ambiente e di sicurezza e per comunicare le necessarie misure da intraprendere al direttore di stabilimento, dal quale continuavano a dipendere.
Per imputare una condotta omissiva al B., sarebbe stato necessario individuare un preciso atto di autonomia privata della Ausimont di affidamento al medesimo di doveri e poteri impeditivi dell'evento, cioè di adottare interventi idonei a contenere, limitare e ridurre l'inquinamento. Sarebbe stato necessario i rimedi da lui attivabili nel periodo 2000 - 2002 per interrompere il decorso causale che avrebbe determinato il disastro, quando il medesimo era titolare dell'asserita posizione di garanzia.
Secondo la Corte di assise di appello, l'operatività e il diretto interessamento del B. alle problematiche ambientali del sito di Spinetta Marengo era desumibile dai seguenti elementi: a) il ricevimento da parte dello stesso della proposta metodo­ logica ed economica per l'esecuzione dell'indagine di caratterizzazione ambientale del sottosuolo dello stabilimento Ausimont di Spinetta Marengo in data 28 novembre 2000; b) l'esclusione dal primo Piano di Caratterizzazione delle discariche contenenti rifiuti tossico-nocivi; c) la posizione di rilievo nella caratterizzazione preliminare del sito di Spinetta Marengo, in quanto soggetto di riferimento dei consulenti esterni della società ENSR incaricata dalla Ausimont di tale attività.
La Corte torinese, tuttavia, non ha compreso la mera finalità notiziale dell'invio della richiamata documentazione al B., non essendogli stato richiesto un commento o la revisione delle analisi e della caratterizzazione portata avanti nei mesi precedenti all'interno del sito. L'unico elemento a sostegno di tale assunto, consisteva nella testimonianza del dr. Pietro A., dipendente ENSR e coautore del Piano di Caratterizzazione del 2001, la quale però era stata travisata. Egli riferiva di non ricordare se il B. conoscesse il contenuto delle discariche e che, in ogni caso, solo l'ing. L.C., direttore di stabilimento dell'epoca, aveva deciso di non includerle in detto Piano.
5.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla condotta rimproverata al B. e all'asserito disastro.
Si rileva che la Corte territoriale ha erroneamente desunto l'esistenza del nesso causale tra le condotte doverose omesse e l'evento di disastro dal mancato compi­ mento di interventi idonei a tentare di contenere o di eliminare la contaminazione.
La Edison, infatti, aveva eseguito quanto stabilito dalla normativa ambientale.
Inoltre, l'accusa avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza di un legame causale tra le condotte doverose omesse e l'evento disastroso. Il meccanismo controfattuale, infatti, deve fondarsi su affidabili informazioni scientifiche e sulle contingenze significative del caso concreto.
Peraltro, il B. avrebbe rivestito una posizione di garanzia solo tra il 2000 ed il 2002, per cui, sarebbe stato necessario verificare se effettivamente l'adozione di rimedi proprio in tale biennio avrebbe scongiurato la contaminazione disastrosa.
5.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 449 cod. pen..
Si deduce che la responsabilità per colpa è stata basata automaticamente sull'insussistenza degli elementi evidenziati dall'accusa come possibili indicatori del dolo di avvelenamento. La regola cautelare violata, sulla quale si sarebbe dovuto concen­ trare il giudizio sulla responsabilità colposa del B. e degli altri imputati, non è stata ricercata.
5.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alle statuizioni civili riconosciute in sentenza.
Si rileva che il B. non aveva contribuito all'aggravamento della situazione ambientale, che, anzi, nel periodo di interesse era migliorata. Il Ministero dell'Ambiente non aveva dimostrato l'incremento dei valori di contaminazione in falda tra il 1995 ed il 2002 e neanche lo stato delle risorse anteriormente all'evento dannoso.
Analogamente, in base alle circostanze relative all'omessa bonifica, riportate nel capo 2) della sentenza di primo grado di assoluzione per insussistenza del fatto, il B. non aveva cagionato un danno all'immagine del Comune di Alessandria. La procedura di bonifica, peraltro, era stata eseguita a decorrere dal giugno 2003, quando il B. ormai non ricopriva più la carica societaria di responsabile centrale della funzione ambiente.
Le associazioni ambientaliste e le organizzazioni sindacali formulavano una generica domanda risarcitoria in via equitativa, senza dimostrare l'ammontare del danno. Nonostante il riconoscimento dell'inesistenza del c.d. danno da esposizione, la Corte territoriale ha illogicamente ritenuto le parti civili titolari di una meritevole situazione di protezione autonomamente risarcibile.

6. C. GIORGIO (trentadue motivi di impugnazione - avv. Dario Bolognesi)
6.1. Violazione degli artt. 521, comma 2, e 522 cod. proc. pen. e vizio di motivazione per mancata correlazione tra imputazione e fatto ritenuto in sentenza.
Si osserva che la negazione del rilievo della diversità della contestazione si fondava sull'erroneo presupposto della corrispondenza tra le nozioni di inquinamento, contaminazione e avvelenamento.
Secondo l'accusa originaria, gli abitanti di Spinetta Marengo e dei Comuni limitrofi e i lavoratori dello stabilimento avevano prelevato e bevuto l'acqua dell'acquedotto di Spinetta e dei pozzi privati dalla falda sottostante al sito industriale, la quale sarebbe stata avvelenata dagli imputati. Le difese degli imputati, invece, dimostravano che le acque estratte per il consumo umano avevano sempre rispettato i parametri posti dalla legge per la potabilità (separazione tra la falda più profonda che riforniva acqua per consumo alimentare e gli strati superiori dell'acquifero, destinati ad usi diversi; omesso prelievo da parte dei pozzi da strati di falda diversi da quello più profondo).
Secondo la Corte di assise di appello, la rilevanza della contaminazione dei terreni non costituiva una novità per la difesa degli imputati. In realtà, doveva distinguersi tra i terreni come veicolo dell'evento di avvelenamento o di disastro e tra l'inclusione dei terreni nell'oggetto materiale del reato di disastro: in tale ultima ipotesi, infatti, i temi da trattare divenivano la loro contaminazione e la loro idoneità a generare un pericolo per l'incolumità pubblica.
Il fatto descritto nella sentenza di primo grado era diverso da quello originaria­ mente riportato nel capo d'imputazione, anche perché implicava un pericolo per la pubblica incolumità diverso da quello oggetto di tutela dell'art. 439 cod. pen.. La decisione della Corte piemontese di rigetto della richiesta di nuovi mezzi di prova a fronte della diversa qualificazione giuridica era contraddittoria; la richiesta, infatti, atteneva a tutti i profili fattuali connessi al mutamento dell'oggetto materiale del reato.
6.2. Violazione di legge con riferimento alla qualificazione del disastro innominato come reato eventualmente permanente .
Si deduce che mancavano le condizioni previste dalla giurisprudenza per poter qualificare il reato di disastro come eventualmente permanente (realizzazione delle condotte da parte dello stesso soggetto o degli stessi soggetti in concorso tra loro; inserimento delle condotte in un contesto unitario, con medesima pianificazione originaria e loro realizzazione senza soluzione di continuità; le modalità esecutive frazionate e progressive, così da portare a compimento l'operazione criminosa, pervenendo alla massima estensione della lesione del bene giuridico, con la quale il reato eventualmente permanente si consuma).
Nella fattispecie, la configurazione del disastro come reato unitario eventualmente permanente trovava un ostacolo insuperabile nella cesura verificatasi tra l'epoca di cessione del sito dalla Montedison alla Solvay avvenuta nel 2002 e l'effettivo cambio di gestione dello stabilimento, avvenuto solo nel 2004, quando la Solvay entrava in possesso dei dati della contaminazione del sito e li trasmetteva immediatamente agli enti. Le condotte, quindi, erano imputate a soggetti diversi non in concorso tra loro, per cui non poteva essere riconosciuta l'ipotesi di reato eventualmente permanente.
6.3. Violazione di legge in relazione alla qualificazione della fattispecie di cui all'art. 449 cod. pen. come reato eventualmente permanente.
Si rileva che la contaminazione non era stata causata o aggravata dalle condotte. Le condotte sono entrate nel fuoco d'interesse della Corte d'assise di appello non per la loro incidenza rispetto ad essa, ma in quanto non contrastavano l'evento dinamico facendolo cessare. Si rimproverava al ricorrente non di aver aggravato la contaminazione storica, ma di non averla rimossa.
Il reato di disastro è istantaneo con effetti permanenti. Secondo la giurisprudenza della S.C., quanto la contaminazione raggiunge un livello di gravità tale da costituire un pericolo per la pubblica incolumità, le condotte di conservazione di tale stato di compromissione non rilevano penalmente, perché si tratta di mere conseguenze del reato e non già della condotta di consumazione dello stesso (i c.d. effetti permanenti).
6.4. Violazione di legge per impossibilità di individuare e collocare nel tempo l'evento di disastro "perenne".
Si rileva che nella sentenza impugnata l'evento disastroso si sarebbe svolto in un arco temporale molto esteso e consisterebbe in un lento processo di contaminazione della matrice ambientale, per cui sarebbe impossibile stabilire il momento in cui tale processo avrebbe eventualmente integrato un evento di disastro come quello previsto dall'art. 434 cod. pen..
Nel reato di disastro colposo l'evento disastroso costituisce requisito necessario ed indefettibile. Le condotte successive al verificarsi dell'evento sono irrilevanti. Secondo la non condivisibile ricostruzione della Corte di secondo grado, il reato non si consumerebbe mai, se non grazie all'attività umana evocata in sentenza.
6.5. Violazione di legge per mancata individuazione di un evento disastro successivo al 2002/2004.
Si osserva che la gravissima contaminazione della falda acquifera sottostante e a valle idrogeologica del sito di Spinetta Marengo risaliva ad un lontano passato. Il C. è stato ritenuto responsabile del reato di disastro colposo nonostante il mancato accertamento di un evento disastroso autonomo e diverso da quello occorso nel lontano passato, verificatosi dopo il 2004 e causato dalle condotte ascrittegli.
Il mantenimento di una contaminazione preesistente integrava un comportamento meramente irrilevante. Nel periodo di gestione della Solvay, peraltro, il trend delle concentrazioni di contaminanti era decrescente.
6.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'insussistenza di un evento di disastro successivo al 2002/2004.
Si deduce che nella sentenza impugnata è stato dato atto di un andamento della contaminazione altalenante e oscillatorio. Il presunto aggravamento è stato postulato sulla base di asserzioni indimostrate. Un ipotetico aggravamento, d'altronde, non costituisce di per sé un evento distruttivo di proporzioni straordinarie e non determina un nuovo ed ulteriore pericolo per la vita o per l'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone. Dalle risultanze dibattimentali emergeva un trend di contaminazione decrescente all'esterno e all'interno del sito nel corso di periodo di gestione Solvay (vedi la diminuzione delle concentrazioni di cromo esavalente, cloroformio e tetracloruro di carbonio (i c.d. markers dell'inquinamento), come evidenziato dai grafici mostrati dal dr. C. e dalla dr.ssa T., consulenti di parte della Solvay. Contrariamente a quanto indicato in sentenza, i consulenti della difesa avevano preso in considerazione i valori delle sostanze citate riportati nei diversi documenti disponibili (articolo del prof. Sergio Conti, geologo presso l'Università di Genova; il libretto nero; le tabelle contenenti le analisi eseguite sui pozzi delle cascine esterne a cavallo degli anni '70 e '80; il Monitoraggio ambientale della zona Fraschetta).
Nella sentenza di primo grado erano citati i punti di crisi e i dati analitici ed elencate le misurazioni, ma l'evoluzione del fenomeno non era analizzata nella sua globalità. L'attenzione era concentrata sui dati immediatamente precedenti o successivi, mentre la difesa considerava tutte le variazioni occorse nell'arco di decenni.
La Corte di assise di appello, replicando gli errori metodologici del giudice di primo grado, si è focalizzata sui valori di concentrazione delle sostanze nei singoli pozzi ed ha escluso dalla propria valutazione i dati che le avrebbero consentito di apprezzare la reale evoluzione della contaminazione e, pertanto, il mancato verificarsi di un evento di disastro.
6.7. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurazione del pericolo per la pubblica incolumità.
Si evidenzia che la Corte torinese, a differenza di quella Alessandrina, ha affermato la tesi della necessaria concretezza del pericolo, ma non ha valutato le conseguenze applicative di tale principio; non ha controllato l'effettiva sussistenza di un rischio di lesione dei diritti alla vita e all'integrità fisica di un indeterminato numero di persone, prescindendo dalla tipologia di uso dell'acqua, non essendo sufficiente il pericolo di un pericolo.
6.8. Violazione degli artt. 434 e 449 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione alla configurazione del pericolo per la pubblica incolumità.
Si deduce che erroneamente la Corte torinese ha attribuito rilievo non solo all'esposizione per uso alimentare dell'acqua ma a qualsiasi tipo di destinazione (irrigazione delle colture, abbeveraggio degli animali o riempimento delle piscine). La responsabilità penale non poteva essere configurata in relazione ad un rischio futuro, non valutabile neanche al momento dell'accertamento. La causazione di un pericolo indefinito, di cui non si sapeva quando si sarebbe verificato, non poteva costituire il fondamento di una sentenza di condanna.
6.9. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata individuazione di un pericolo per la pubblica incolumità.
Si rileva che la condotta di colui il quale subentra in un sito contaminato non può assumere rilievo penale solo a condizione che abbia autonomamente prodotto un nuovo ed ulteriore evento disastroso. Le acque - anche quelle emunte dai monti e destinate ad uso modesto - erano risultate sempre potabili. Ciò valeva anche per le acque. I dati relativi ai pozzi della cascina Pederbona dimostravano la diminuzione della contaminazione.
6.10. Violazione di legge in relazione alla consulenza tecnica del prof. Giorgio G.. Si osserva che la sussistenza del pericolo per la pubblica incolumità è stata basata sulle conclusioni del prof. G., consulente tecnico del pubblico ministero, che però si esprimeva in termini generici e non specificava l'epoca in cui si era determinata. Le sue valutazioni concernevano le acque emunte dai piziometri, dai pozzi della barriera idraulica e dai pozzi industriali. Tali acque, tuttavia, non erano destinate a pervenire in contatto con l'uomo né per ingestione né per contatto dermico. Mancava l'esposizione dell'uomo alla sostanza, costituente condizione per l'affermazione di un pericolo concreto ed attuale.
Per valutare l'esposizione occorreva identificare i singoli percorsi di esposizione attivi, cioè le modalità di contatto dei recettori umani con la contaminazione riscontrata. Pur premettendo l'uso di tale metodologia, il prof. G. non l'aveva correttamente applicata, avendo assunto l'esposizione quale postulato ed avendo effettuato una stima di rischio per la salute umana con riguardo a pozzi e piezometri rispetto ai quali non v'era nessuna esposizione.
6.11. Violazione di legge e vizio di motivazione circa la valutazione della consulenza in relazione al postulato del .peggior caso possibile».
Il prof. G. ammetteva di aver applicato il criterio del «peggior caso possibile», logica del tutto estranea ai criteri posti alla base della valutazione del rischio, in quanto essa assume che un individuo beva per tutta la vita o per lunghi periodi esclusivamente acqua coi più elevati livelli di contaminazione, evenienza evidentemente irrealistica. La valutazione di rischio, per avere qualche aggancio con la realtà, avrebbe dovuto adottare come parametro il valore medio di concentrazione.
6.12. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al postulato del prof. G. dell'uso esclusivo di acqua contaminata per l'intera vita dell'individuo.
Si osserva che il prof. G. aveva postulato che le acque di piezometri e pozzi fossero bevute dalla popolazione, nelle peggiori condizioni di contaminazione rilevata, in via esclusiva e per l'intera durata della vita. Tale congettura doveva ritenersi connotata non da concretezza ed attualità, bensì solo da ipoteticità.
6.13. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla valutazione della consulenza tecnica del prof. G. in relazione al metodo del risk assessment.
Si rileva che il metodo del risk assessment aveva scopi diversi rispetto a quelli di verificare se nel passato la salute pubblica aveva corso un rischio di effettivo pericolo. L'analisi di rischio, infatti, consiste in una procedura standard codificata in sede nazionale ed internazionale divenuta un passaggio essenziale della procedura di bonifica dei siti contaminati. I calcoli matematici utilizzati in tale procedura non hanno collegamenti con situazioni reali di pericolo, ma rispondono a logiche prevenzionali per far fronte a situazioni di possibile rischio.
6.14. Vizio di motivazione in ordine al tema dell'alto piezometrico.
Si deduce che il fenomeno dell'alto piezometrico era già in atto da decenni prima dell'acquisizione da parte della Solvay nel 2002. E' stato attribuito rilievo causale all'alto piezometrico, senza distinguere tra i periodi storici di interesse per la posizione di ciascun imputato. La Corte piemontese avrebbe dovuto specificare le ragioni del rilievo causale, soprattutto rispetto al periodo finale, successivo alla cessione del sito alla Solvay.
Contraddittoriamente, la Corte di secondo grado ha affermato che l'alto piezometrico aveva contribuito ad una contaminazione che rimaneva oscillatoria e in seguito affermava che esso avrebbe determinato un aggravamento della contaminazione.
Analoga contraddizione si riscontrava laddove dapprima si affermava che in mancanza dell'alto piezometrico la contaminazione avrebbe raggiunto livelli diversi da quelli misurati e, successivamente, che i livelli sarebbero stati gli stessi.
6.15. Violazione di legge in tema di alzo piezometrico e rilievo attribuito a condotte omissive eterogenee rispetto a quelle commissive circa la causazione della contami­ nazione.
Si rileva che, all'epoca del subentro della Solvay nella gestione del sito di Spinetta, l'alto piezometrico era già presente e la contaminazione si stava espandendo. L'omessa eliminazione delle perdite d'acqua che provocavano l'alto equivaleva al mancato contenimento della portata dei fattori inquinanti, condotta non integrante gli estremi del delitto di disastro.
6.16. Vizio di motivazione in relazione alle dimensioni dell'alto piezometrico.
Si deduce l'assenza di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui è affermato che l'alto piezometrico si era incrementato nel tempo con conseguente ritenuta incidenza causale sulla contaminazione.
Nella sentenza, infatti, non si è tenuto conto delle risultanze analitiche indicative dell'andamento progressivamente decrescente dell'alto piezometrico, a partire dalla data del subentro della Solvay, addirittura in contrasto con quanto affermato nel giudizio di primo grado.
6.17. Vizio di motivazione circa l'incidenza causale dell'alto piezometrico.
Si deduce che dalle risultanze dibattimentali emergeva chiaramente la mancanza di effetti dell'alto piezometrico rispetto al processo di contaminazione.
L'alto piezometrico, infatti, non poteva aver dilavato in falda i rifiuti depositati nelle discariche, poiché queste erano tutte ubicate in aree non interessate dal medesimo, che trovava sviluppo nella falda superficiale sottostante al reparto Algofrene.
Il consulente dell'accusa dr. Adriano F. non aveva esaminato i dati relativi alla contaminazione dei terreni né aveva svolto le indagini da lui stesso ritenute necessarie, al fine di comprendere i fenomeni in atto relativamente a: a) raggiungimento dei terreni contaminati da parte dell'acqua di falda; b) qualità dei terreni attraversati dalle singole perdite; c) mancata valutazione del contestuale effetto di diluizione; d) impossibilità di stabilire l'eventuale pregressa lasciviazione dei terreni e, pertanto, di comprendere la rilevanza di tale fenomeno durante la gestione Solvay.
La sentenza impugnata ha ignorato le critiche difensive sull'effetto dell'alto sulla contaminazione della falda profonda. Nel richiamare il documento della Aquale (società di consulenza ambientale per la Solvay), la Corte alessandrina non ha considerato lo stato iniziale della modellazione matematica descritta in tale studio, in quanto basata su un modello concettuale di cui si era avviata la revisione, ma che era stato possibile modificare solo in seguito alle numerose indagini successive.
Erano altresì travisate le affermazioni del prof. F., consulente di difesa del C.: egli, nel corso del dibattimento, aveva evidenziato che, nonostante l'alto piezometrico determinasse effetti idrochimici e piezometrici sulla falda, essi dovevano essere valutati nel loro complesso, esaminando le reali conseguenze che ne derivavano, anche alla luce degli altri fattori causali e delle attuali conoscenze.
6.18. Vizio di motivazione in riferimento alla posizione di garanzia.
Si evidenzia che il C. era stato indicato erroneamente nel capo di imputazione quale responsabile del centro di competenza HSE degli stabilimenti Solvay - Solexis in Italia a decorrere dal 1° gennaio 2004, mentre in realtà, all'epoca dei fatti era Coordinatore dell'HSE di Solvay S.A., funzione corporate della Holding belga. Egli, quindi, non aveva un rapporto funzionale o gerarchico all'interno di Solvay Solexis. La Solvay Solexis, invece, era priva di un HSE, prevedendo solo un HSE di stabilimento ed un coordinatore degli HSE dei vari stabilimenti (prima il B. poi il CA.). L'incarico attribuito al C. dalla Solvay non consisteva nello svolgimento di funzioni di vigilanza per i vari stabilimenti italiani, ma in una consulenza fornita di volta in volta. Il potere di decidere e di agire permaneva in capo all'HSE di sito e al direttore di stabilimento (vedi testimonianze di D.P.S., coordinatore di progetto del sito di Spinetta Marengo dal 2003 al 2007, e dell'ing. C.D.C., prima dipendente dell'Ausimont poi della Solvay, incaricata di seguire la procedura di bonifica e il piano di caratterizzazione). In realtà, nel corso di una conference call - vedi intercettazione telefonica n. 214 del 30 luglio 2008 - il C. si lamentava proprio della mancata adesione dello stabilimento ai suoi consigli.
6.19. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'elemento soggettivo del reato.
Si rileva che non era stata provata la comunicazione da parte della Montedison alla Solvay delle notizie sulle problematiche ambientali e che le tesi accusatorie e difensive costituivano espressione di argomenti logici, in qualche modo dotati di identica valenza, per cui non era possibile stabilire la tesi preferibile. Contraddittoriamente, è stato affermato che il C. conosceva la situazione di gravissimo inquinamento del sito.
6.20. Vizio di motivazione in merito alla conoscenza delle problematiche ambientali del sito.
Si deduce che la Solvay non conosceva i documenti dai quali emergeva la presunta falsità del Piano di Caratterizzazione del 2001 messo a disposizione dalla Montedison. Si trattava in realtà di un giudizio privo di qualsiasi fondamento nelle risultanze processuali, frutto di una mera intuizione soggettiva, smentito dalle acquisizioni dibattimentali. La presunta conoscenza di tali circostanze da parte del C. era sempre basata su congetture. La netta cesura tra le due gestioni, acclarata dai giudici di merito, appariva logicamente incompatibile con un ipotetico travaso di conoscenze.
6.21. Vizio di motivazione in relazione alla mancata informazione da parte della ENSR circa le reali problematiche ambientali del sito.
Si osserva che il Piano di Caratterizzazione del 2001 conteneva notizie false sulle problematiche ambientali. La rappresentazione del modello idrogeologico del sito era opposta a quella reale e tale da indurre in errore nell'interpretazione dei dati analitici relativi alla falda profonda. La falsificazione era stata realizzata dalla ENSR tramite il dr. A. e la dr.ssa Chiara C. (geologa alle dipendenze della ENSR), su mandato della Montedison. La mancata comunicazione alla Solvay della presenza di rifiuti tossico-nocivi nelle discariche emergeva dalle dichiarazioni della dr.ssa C., del dr. A. e di D.P.S., coordinatore di progetto del sito di Spinetta Marengo dal 2003 al 2007. Analoghe omesse comunicazioni concernevano l'esistenza dell'alto piezometrico, l'assenza di separazione tra falda superficiale e falda profonda e i documenti storici comprovanti le problematiche ambientali del sito.

Non v'erano elementi per ritenere contraddittorio l'opposto comportamento mantenuto dalla Solvay nei confronti della ENSR in Bussi e in Spinetta Marengo; d'altronde, quando nel 2007 la Solvay comprendeva che il Piano di Caratterizzazione del 2001 di Bussi era derivato da dolose manipolazioni tra la ENSR e l'Ausimont, presentava l'esposto per truffa e la licenziava anche a Spinetta.
6.22. Vizio di motivazione con riferimento alle conoscenze disponibili in ordine alle problematiche ambientali del sito e alla relazione del geologo dr. Mauro M. del 1994.
Si rileva che la ENSR non aveva mai trasmesso alla Solvay le conoscenze in ordine alle reali problematiche del sito di Spinetta Marengo e, in particolare, le dichiarazioni della dr.ssa C. e del dr. A.i nonché la relazione del dr. M., presente in alcune bozze rinvenute nel server della ENSR.
I documenti inviati dalla ENSR alla Solvay e all'altro consulente A. non contenevano riferimenti alle stratigrafie allegate alla relazione del dr. M. e alla mancanza di separazione tra le falde.
La ENSR non aveva neanche informato la Solvay della falsità del Piano di Caratterizzazione del 2001 e della mancanza della separazione tra le falde, dato quest'ultimo non conosciuto neanche da D.P.S., dipendente ENSR, iniziatosi ad occupare del sito di Spinetta dal 2003.
6.23. Vizio di motivazione in ordine al rinvenimento della documentazione storica nel 2008.
Si osserva che la Solvay aveva conosciuto le problematiche ambientali del sito, emergenti dalla documentazione storica, rinvenuta solo nel 2008 all'interno dello stabilimento di Spinetta.
6.24. Vizio di motivazione in riferimento al modello idrogeologico del sito e al rapporto tra falda superficiale e falda profonda.
Si deduce che la Corte di assise di appello non ha illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto il C. informato della mancata separazione tra falde e della falsità del PDC del 2001; inoltre, ha ignorato che la contaminazione dei pozzi era attribuita inizialmente alla loro tipologia (vedi dichiarazioni dei tecnici dell'Arpa e le risultanze delle intercettazioni). Proprio il C., a fronte dei primi risultati del monitoraggio della barriera idraulica, incaricava le società di consulenza ambientale - prima la Aquale e poi la Environ - all'approfondimento delle cause dell'insufficienza della stessa.
6.25. Vizio di motivazione in ordine alla gestione dei dati relativi alla contaminazione dell'acqua emunta dai pozzi industriali.
Si rileva che la Solvay non era intenzionata a mantenere gli enti all'oscuro di dati rilevanti, ma solo a comprendere il significato delle risultanze prima di comunicarle (vedi testimonianze del dr. Aldo T., dell'ing. ambientale DC. e dell'ing. S.B., direttore di stabilimento succeduto al G. il 1° aprile 2008).
6.26. Vizio di motivazione con riferimento alla progettazione e al dimensionamento della barriera idraulica.
Si osserva che l'insufficienza della barriera idraulica progettata nel 2004 non era attribuibile alla responsabilità del C., bensì derivava dalle limitate conoscenze del periodo 2004-2007, epoca in cui si ignorava la mancata separazione tra falda superficiale e falda profonda. Peraltro, non si trattava di un'opera definitiva, ma solo di un primo intervento da sviluppare sulla base dell'osservazione degli effetti ottenuti (vedi testimonianze del D.P.S., il SAL del 16 febbraio 2005 e il documento di attività di bonifica del sito della ENSR del marzo 2005).
6.27. Violazione degli artt. 5 e 10 D.M. n. 471 del 1999 e della L. n. 241 del 1990 e vizio di motivazione.
Si sostiene che nella sentenza impugnata era affermato che il C. avrebbe dovuto attivare la barriera idraulica nonostante l'opposizione manifestata dagli enti, assunto derivante da un'erronea interpretazione delle leggi regolatrici della bonifica dei siti inquinati, indicativa dell'esistenza di poteri di bonifica dell'amministrazione procedente.
L'amministrazione procedente o la Conferenza dei Servizi doveva interloquire col privato, al fine di stabilire concordemente le misure idonee ad eliminare la fonte di inquinamento. La mancata tempestiva realizzazione della barriera idraulica dipendeva da una precisa richiesta formulata dall'amministrazione procedente nell'ambito di una procedura di bonifica già avviata.
6.28. Vizio di motivazione in ordine alle perdite di acqua dalla rete idrica di stabilimento e all'alto piezometrico.
Si deduce che la Corte di assise di appello ha configurato uno dei profili di colpa del C. nell'omessa manutenzione delle reti idriche interrate sotto lo stabilimento, allo scopo di riparare le perdite d'acqua e di far cessare l'anomalia piezometrica e che si sarebbe provveduto alla loro riparazione solo dal maggio 2008 in poi, dopo l'inizio delle indagini di cui al presente procedimento; la Corte territoriale ha osservato che il raggiungimento di un notevole risultato dopo appena un anno comprovava l'assenza di pregressi interventi utili a rimediare.
Le errate considerazioni del giudice a quo derivavano dai seguenti plurimi travisa­ menti di sommarie informazioni, testimonianze e perizie:
A) Il C. e il CA. non avevano affermato che la Solvay si era attivata per la riparazione delle perdite della rete idrica solo dopo il maggio 2008: essi avevano solo evidenziato che nel 2008 erano stati raggiunti notevoli risultati nella riduzione delle perdite e che le complesse attività occorrenti erano iniziate negli anni precedenti.
B) L'ing. S.B., direttore di stabilimento subentrato al G., non aveva dichiarato che la maggior parte della riparazione delle perdite idriche era stata attuata dopo l'inizio delle indagini; egli, infatti, aveva illustrato le complesse ed estese attività propedeutiche, svolte negli anni pregressi e di aver programmato per l'anno 2008 importanti interventi sulle reti idriche diretti ad eliminare l'alto piezometrico.
C) L'ing. A.C., responsabile della manutenzione fino al settembre 2008, non si era limitato a dare atto di riparazioni limitate alle acque di processo, bensì aveva evidenziato quelle effettuate sulle reti idriche, che causavano l'alto piezometrico; egli, infatti, ricordava gli interventi di manutenzione straordinaria della rete idrica dagli anni 2003 in poi, soprattutto dal 2004, tra i quali la sostituzione del collettore dell'acqua industriale che passava nel «viale principale dello stabilimento»; sosteneva che la Solvay, avendo assegnato massima priorità alla sicurezza e all'ambiente, aveva deciso di effettuare, una volta individuate le perdite, riparazioni puntuali ed interventi radicali mediante la sostituzione delle intere linee.
D) G.P., dipendente dello stabilimento dal 1969 e direttore dei servizi ausiliari alla produzione (SAP) tra il 1994 e il 1999, e G.F., direttore dal 1979 al 1996 dell'impianto di Algofrene, riferivano delle sole attività manutentive svolte nel periodo di gestione Montedison.
E) L'ing. E.M., impiegato dal 1989 al 2008 presso la programmazione della manutenzione, evidenziava di non ricordare di interventi di manutenzione idrica straordinaria (cioè di sostituzioni di parti consistenti richiedenti un vero e proprio investimento) non rientranti nella sua sfera di competenza.
F) L'ing. ME. aveva dato atto dello svolgimento di una serie di attività prodromiche all'individuazione delle perdite, che si presentavano particolarmente complesse perché le reti idriche erano interrate; la ricerca delle perdite si basava sul controllo del rumore delle tubazioni danneggiate, per cui si rendeva necessaria una lunga attività di monitoraggio e di ricerca per individuare l'area compromessa. La documentazione allegata alla sua relazione tecnica atteneva ad attività accessorie e prodromiche alla riparazione delle perdite idriche.
6.29. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al decorso del termine di prescrizione.
Si osserva che, anche a voler qualificare il disastro quale reato eventualmente permanente, una volta verificatasi la lesione massima, la mancata rimozione, il mantenimento della stessa e il protrarsi delle relative conseguenze non erano penalmente rilevanti. Ritenuta l'impossibilità di collocare nel tempo l'evento disastroso, il tempus commissi delicti doveva essere determinato in base al principio del favor rei.
6.30. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla L. n. 251 del 2005.
Si deduce che, dovendosi ritenere la condotta interamente posta in essere nel 2004, a prescindere dalla data in cui si era verificato l'evento, il termine di prescrizione era quello previsto dalla legge più favorevole e cioè anteriore alla riforma della L. n. 251 del 2005, che ne prevedeva il raddoppio.
6.31. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 133 cod. pen.. Si rileva che è stata inflitta una pena eccessiva e che non sono stati valutati molteplici elementi favorevoli al ricorrente: la compromissione della situazione già anteriormente al 2004; la contaminazione causata da soggetti diversi dal C.; il
tempestivo impegno del C. quando si presentavano segnali di allarme.
6.32. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili. Si osserva che il Comune di Alessandria non era legittimato a chiedere il risarcimento del danno per lesione all'immagine, in quanto tale diritto era riconosciuto solo in presenza di reati ascrivibili a pubblici dipendenti in danno della pubblica amministrazione. Inoltre, la Corte torinese non ha illustrato i motivi per riconoscere in concreto un danno di immagine, in quanto sarebbe stato necessario provare una menomazione del rilievo istituzionale dell'ente nonché il legame eziologico tra la condotta del soggetto attivo e il danno.
6.33. Nella memoria difensiva depositata in data 26 novembre 2019, si premette che il C. era stato condannato non per aver contribuito allo stato di contami­ nazione del sito attraverso condotte di immissione di nuovi contaminanti, bensì per non essersi attivato per rimuovere gli effetti di una contaminazione già in atto da anni e realizzata dagli altri.
La soluzione del giudice a quo si pone in contrasto con la sentenza Eternit, secondo cui il disastro innominato integra una fattispecie di reato istantanea a effetti permanenti, non rilevando il protrarsi della situazione pericolosa derivante dalla mancata o incompleta bonifica.
Gli esiti dell'analisi di rischio condotta dal prof. G. e dalla dr.ssa M. (biologa sua collaboratrice) dimostravano l'assenza di un qualsivoglia pericolo reale per la popolazione di Spinetta, in ragione dell'assenza di uno dei requisiti essenziali previsti dalla procedura di risk assessment, ossia la valutazione in ordine ai reali ed effettivi percorsi espositivi attraverso cui tale popolazione sarebbe entrata in contatto con le sostanze contaminanti presenti nelle acque della falda sottostante lo stabilimento. I giudici sostenevano che il pericolo nasceva da percorsi espositivi mai contestati all'imputato, ossia dalla parziale contaminazione di animali e vegetali abbeverati e irrigati con acqua contaminata e dal potenziale contatto dermico con acqua utilizzata per innaffiare i giardini o riempire le piscine, in violazione del principio di necessaria cor­ relazione tra imputazione e sentenza.
La ricostruzione del delitto fornita dai giudici di appello si poneva in insanabile contrasto coi principi espressi dalla recente giurisprudenza (vedi casi Eternit, Porto Tolle e Bussi). Occorreva considerare esclusivamente il momento dell'ultima immissione nell'ambiente di nuova contaminazione, non rilevando il perdurare degli effetti della contaminazione.
La contaminazione era stata causata principalmente dalle produzioni pregresse, in particolare quella dei pigmenti colorati. Dodici anni prima che il C. si iniziasse ad occupare del sito di Spinetta le cause, l'estensione e l'entità dell'inquinamento già verificatosi erano già state accertate.
Nessun accertamento aveva verificato un effettivo contributo causale dell'alto piezometrico rispetto alla contaminazione del sito. Esso, peraltro, era stato alimentato esclusivamente da perdite di acqua pulita.
Non era ravvisabile un obbligo di intervento a carico del C., non sussistendo un obbligo di bonifica e ripristino dei siti inquinati in capo al proprietario del sito non responsabile dell'inquinamento. Il C. non era mai stato titolare di una posizione di garanzia in quanto dipendente di Solvay s.a., non di Solvay Solexis. Non era tenuto ad eseguire la manutenzione della rete idrica dello stabilimento.

7. C. GIORGIO (diciassette motivi di impugnazione - avv. Luca Santa Maria)
7.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di qualificazione della fattispecie penale come reato di pericolo presunto.
Si rileva che erroneamente la Corte di assise di appello ha ritenuto il mero pericolo di assunzione di acque contaminate e non destinate ad essere ingerite sufficiente per la configurabilità del reato. Tale interpretazione estenderebbe eccessivamente il bene giuridico protetto dalla disposizione penale: non più la salute pubblica, ma il patrimonio idrico e l'ambiente.
7.2. Vizio di motivazione in tema di accertamento del pericolo del reato di disastro innominato colposo.
Si osserva che la sussistenza del rischio era stata desunta dall'esito delle indagini svolte dai consulenti del pubblico ministero prof. G. e dr.ssa M. col metodo del risk assessment, che però erano state travisate dall'organo giudicante. Essi, però, concludevano nel senso che le uniche acque con cui la popolazione era venuta a contatto presentavano livelli di contaminazione marginali e tali da non poter essere registrati come negativi in un'analisi di rischio sanitario.
Nella premessa del suo elaborato il prof. G. dichiarava di aver adottato il metodo APAT. In realtà, egli se ne discostava, perché non individuava un reale percorso espositivo tra le acque esaminate e i potenziali bersagli, ossia gli abitanti della zona, non essendogli stato richiesto (vedi chiarimenti resi a verbale).
7.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di configurazione del disa­stro innominato colposo per la contaminazione di matrici ambientali diverse dalle acque di falda.
Si deduce la nullità della sentenza, in quanto al C. non era mai stato imputato di aver cagionato un avvelenamento o un disastro innominato per aver contaminato animali o vegetali.
7.4. Violazione di legge circa l'identificazione del momento consumativo del reato colposo.
Si osserva che, secondo la Corte torinese, il reato di disastro innominato si consuma quando l'evento cessa di essere pericoloso per l'incolumità pubblica, principio però contrastante coi più recenti arresti della Corte di Cassazione. Rileva, infatti, solo il momento dell'ultima immissione attiva di nuova sostanza inquinante nell'ambiente; tale principio è valido anche qualora l'immissione sia dinamica, cioè quando, una volta essa sia cessata nell'ambiente di nuova contaminazione, si siano verificati fenomeni di migrazione della contaminazione stessa da un'area all'altra o anche da una matrice ambientale all'altra.
In ordine al sito di Spinetta Marengo, le immissioni erano avvenute mediante la realizzazione di discariche abusive e l'abbancamento di residui di produzione sui terreni del sito produttivo in epoche remote, certamente anteriori al periodo oggetto di imputazione e al 2004, anno in cui il C. iniziava ad occuparsi dello stabilimento.
7.5. Vizio di motivazione in punto di accertamento del pericolo per la pubblica incolumità tramite la procedura del risk assessment.
Si deduce che il risk assessment poteva definirsi una procedura tecnica, avente una funzione predittiva ed essenzialmente pragmatica: la determinazione dei valori limite di esposizione a una data sostanza, associati a soglie di rischio di volta in volta ritenute accettabili dal valutatore, alla cui osservanza sono tenuti, da un certo mo­ mento in avanti, gli esercenti di attività rischiose; una metodologia che guarda al futuro, i cui risultati non sono in grado di dir nulla rispetto a rischi riferiti al passato. Lo scopo del risk assessment non consiste nella misurazione dei reali livelli di rischio per la salute umana dovuti all'esposizione a sostanze chimiche. Le stime di rischio prodotte da tale metodo non hanno pretesa di verità o di scientificità.
7.6. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza di una posizione di garanzia in capo al C. in qualità di consulente ambientale.
Si deduce che il C. si limitava a fornire alla società proprietaria del sito e ai suoi consulenti ambientali (ENSR ed Environ) pareri tecnici qualificati, in assenza dei poteri gestori e di spesa costituenti requisiti essenziali della posizione di garanzia.
Il C. era dipendente della Solvay s.a., società diversa da Solvay Specialty Polymers s.p.a., che gestiva lo stabilimento di Spinetta Marengo. Era il coordinatore nazionale per la sicurezza e l'ambiente ed era chiamato a fornire una consulenza tecnica in tali materie alle altre società del gruppo. L'attendibilità riconosciuta al suo parere non significava libertà di assumere decisioni, quali impartire ordini vincolanti al responsabile HSE e al direttore di stabilimento.
Dalla conversazione intercettata n. 40 del 29 maggio 2008 non si evinceva che il C. avesse contribuito alle decisioni in materia ambientale ma solo che era informato di tutte le notizie sul sito. L'attribuzione di una posizione di garanzia solo in virtù del conferimento di un incarico di consulenza di alto livello contrasta coi principi regolatori dell'istituto disciplinato dall'art. 40, comma secondo, cod. pen.. Né egli era titolare di poteri decisionali, di spesa o di controllo sulle funzioni della società che gestiva il sito.
7.7. Violazione del D.lgs. n. 22 del 1997, del D.M. n. 471 del 1999 e del D. lgs. n. 152 del 2006 e vizio di motivazione in punto di sussistenza di una posizione di garanzia in capo al dr. C..
Si osserva che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte torinese, l'unico soggetto tenuto alla bonifica di un sito inquinato non è il proprietario, bensì il respon­sabile dell'inquinamento come previsto dagli art. 17, comma 13-bis, D. lgs. n. 22 del 1997 e 9 D.M. n. 471 del 1999.
7.8. Vizio di motivazione in ordine all'obbligo di impedire l'evento da parte del C., all'alto piezometrico e alla fuoriuscita della contaminazione dal sito.
Si contestano gli addebiti relativi alle condotte omissive attribuite al C., tra le quali la mancata riparazione della perdita idrica.
Fin dal 2004 il C. aveva trasmesso agli enti della conferenza di servizi due informazioni chiave per la conoscenza della situazione ambientale del sito: la pre­senza di un'anomalia piezometrica dovuta a perdite della rete idrica dello stabili­mento; la fuoriuscita della contaminazione dal sito produttivo e l'esigenza conseguente di attuare misure per il suo contenimento. Gli enti, d'altronde, conoscevano la situazione del sito ben prima dell'arrivo della Solvay.
Non si comprendeva quale condotta alternativa esigere dal C. a fronte della precisa indicazione, proveniente dagli enti, di attendere la loro approvazione prima di procedere a "qualsiasi tipo di intervento".
7.9. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ad omissioni e ritardi nella realizzazione della barriera idraulica.
Si deduce che era stato adeguatamente chiarito agli enti che la barriera, come realizzata fino ad allora, non era ancora in grado di intercettare tutta la contaminazione in uscita dalla falda e che una nuova sarebbe stata predisposta mediante passi successivi e muovendo da un primo impianto pilota.
Il documento di monitoraggio delle acque sotterranee non era stato trasmesso agli enti, perché la Solvay aveva scoperto gravi comportamenti infedeli ascrivibili alla ENSR, storico consulente ambientale dello stabilimento.
Non era esatto ritenere che fosse stata predisposta la realizzazione della barriera in un unico intervento completamente inutile. Per progettarla correttamente, infatti, occorreva iniziare con pochi pozzi per poi ottimizzarla gradualmente. La Solvay possedeva informazioni insufficienti e comunque in seguito si attivava per adeguare il sistema di contenimento a fronte dell'accertamento della relativa inefficacia. Gli enti non avevano mai rilasciato l'autorizzazione, alla quale il Comune subordinava la possibilità per la Solvay di compiere interventi.
7.10. Vizio di motivazione in tema di efficacia causale dell'alto piezometrico rispetto all'evento di disastro.
Si rileva che la Corte torinese non ha accertato l'incidenza causale dell'alto piezometrico, presente almeno dagli anni '40, sulla diffusione della contaminazione.
7.11. Vizio di motivazione in punto di omessa riparazione delle perdite dalle reti idriche dello stabilimento.
Si sostiene che la Corte di assise di appello aveva completamente ignorato la copiosa documentazione difensiva comprovante l'impegno della Solvay nell'attività di manutenzione condotta nel tempo ed affidata a cinque società.
I giudici di merito non si erano confrontati con l'enorme mole di documenti depositati dalla difesa, richiamando solo tre ordini di acquisto su un totale di trecentonovantasei atti analizzati dal consulente di difesa e considerando i soli incarichi affidati alla società appaltatrice Aquaservice.
7.12. Vizio di motivazione relativamente all'omessa trasmissione dei dati relativi alla qualità dell'acqua dei pozzi industriali.
Si osserva che la Corte territoriale non si è confrontata con le argomentazioni difensive, secondo cui i dati dei pozzi industriali asseritamente non trasmessi alla conferenza di servizi sull'analisi dei pozzi industriali non rappresentavano lo stato di contaminazione dei livelli acquiferi più profondi. Inoltre, mancava la motivazione sulla sussistenza di una relazione causale tra l'omissione addebitata agli imputati e il disastro nonché sulle ragioni tecniche che avevano indotto gli imputati a rimandare l'invio delle analisi consistite nella necessità di comprendere il loro reale significato.
7.13. Violazione di legge in tema di accertamento dell'elemento soggettivo sulla base di intercettazioni telefoniche inutilizzabili.
Si rileva che la Corte territoriale ha desunto la prova di un sovraordinato potere decisionale del C. e della conoscenza da parte sua delle criticità ambientali del sito di Spinetta Marengo. Tuttavia, il pubblico ministero aveva richiesto le intercettazioni e il giudice per le indagini preliminari le aveva autorizzate in epoca in cui gli organi dell'accusa non disponevano di elementi che giustificassero il mutamento dell'imputazione provvisoria di contravvenzione nel delitto di avvelenamento doloso. Esse, infatti, si basavano su una comunicazione di notizia di reato trasmessa dall'Arpa in data 27 maggio 2008 palesemente falsa, in quanto attestava erroneamente il superamento dei limiti di potabilità, che in realtà non era stato accertato. I campioni di acqua sotterranea, infatti, erano stati prelevati il successivo 28 maggio 2008.
7.14. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di legittimazione del Comune di Alessandria.
Si evidenzia che il Comune non poteva chiedere il risarcimento dei danni all'immagine nei confronti di soggetti diversi da quelli di propria appartenenza.
7.15. Violazione di legge e vizio di motivazione in tema di entità del risarcimento richiesto dal Comune di Alessandria.
Si osserva che la Corte di assise di appello non aveva spiegato le ragioni che in concreto avevano apportato danni all'immagine del Comune.
7.16. Violazione di legge e vizio di motivazione in punto di liquidazione del danno in favore del Comune di Alessandria.
Si rileva che sono stati violati i criteri di applicazione in via equitativa del danno.
7.17. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni in tema di spese processuali.
Si evidenzia che non risultavano applicati i criteri di liquidazione sostitutiva del danno.

8. CA. GIORGIO (sette motivi di impugnazione - avv. Roberto Fanari e avv. Silvana Del Monaco)
8.1. Violazione degli artt. 521, 522 cod. proc. pen., 24, 111 e 117 Cost. e 6 par. 1 e 3, lett. A) e B), CEDU per mancata correlazione tra imputazione e sentenza.
Si rileva che la Corte di secondo grado ha ritenuto il fatto inequivocabilmente di avvelenamento delle acque, salvo poi confermare la legittimità dell'ampliamento dell'oggetto dell'imputazione.
Nel capo di imputazione, tuttavia, il concetto di avvelenamento non risulta in nes­ sun modo impiegato in termini alternativi a quelli di contaminazione ed inquinamento. Emergevano palesi diversità fattuali e strutturali tra il riqualificato delitto di disastro innominato ambientale colposo e il contestato delitto di avvelenamento doloso di acque. Non si era mai discusso di disastro e di evento distruttivo di proporzioni straordinarie e non era mai stato apprestato nessun contraddittorio sul punto.
L'esigenza del rispetto del principio di correlazione tra contestazione e sentenza non poteva essere ritenuta soddisfatta per la sola circostanza dell'aver evocato l'esistenza di un diverso processo in cui l'una e l'altra ipotesi di reato erano contestate. I giudici di secondo grado hanno confermato la condanna non per un reato diversa­ mente qualificato, ma per un reato autonomo e concorrente, in relazione al quale gli imputati non erano stati posti in condizione di difendersi.

8.2. Violazione degli artt. 434 e 449 cod. pen. e vizio di motivazione per insussistenza del delitto di disastro ambientale.
Si deduce che non ricorreva un'ipotesi di evento distruttivo di proporzioni straordinarie.
Per supportare il proprio giudizio, la Corte torinese ha dovuto invocare le «brevi note sugli interventi di messa in sicurezza e di bonifica realizzati a Spinetta Marengo... prive di valenza dimostrativa dell'evento disastro, sia sotto il profilo logico sia sotto quello giuridico; non ha provato l'esposizione della collettività ad un pericolo per la propria salute e per la propria sicurezza. La messa in pericolo non poteva consistere esclusivamente nei possibili utilizzi futuri di acqua contaminata. Il pericolo di esposizione ad un pericolo non poteva essere sottoposto a sanzione penale in violazione del principio di offensività.
Il metodo di valutazione del rischio invocato dai giudici di merito - il risk assessment - presuppone, per poter valutare i rischi della salute pubblica, l'esistenza di vie di esposizione mediante le quali il potenziale bersaglio umano entra in contatto (in­ gestione di acqua, contatto dermico, inalazione di aria e vapori) con la sostanza inquinante. In assenza di siffatti accertamenti, il richiamo agli esiti del risk assesment effettuato in sentenza rende inevitabilmente fallaci le conclusioni sviluppate sul punto ai fini dell'affermazione della responsabilità degli imputati.
Nella sentenza impugnata il rischio per l'incolumità pubblica è stato ricavato dall'esistenza di numerosi pozzi di attingimento contaminati dalle sostanze suindi­cate. Le acque messe a disposizione della popolazione, tuttavia, erano sempre risultate ampiamente rispondenti ai parametri di potabilità (vedi relazioni dell'Arpa e del prof. G.). L'unica eccezione del pozzo irriguo situato all'interno della cascina Pederbona non poteva rappresentare la prova dell'effettiva capacità diffusiva del pericolo per la pubblica incolumità.
8.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla posizione soggettiva del CA..
Si osserva che, secondo la Corte torinese, il CA. aveva assunto una posizione di garanzia dal 16 dicembre 1999, con l'entrata in vigore del D.M. attuativo del d.lvo Ronchi, mentre il dettato normativo era divenuto operativo solo il 31 marzo 2001, come stabilito con la conversione in legge del D.L. n. 160 del 2000. Solo allo scadere di tale termine sorgeva in capo al proprietario di un sito intenzionato ad attivare di propria iniziativa le procedure di messa in sicurezza e di emergenza la facoltà di comunicare agli enti territoriali la situazione di inquinamento rilevata.
Non si comprendeva come il responsabile della funzione Protezione, Sicurezza e Ambiente di Stabilimento potesse aver assunto una posizione di garanzia a seguito dell'entrata in vigore di una normativa, che imponeva obblighi di intervento, ma li contestualizzava in capo al responsabile dell'inquinamento o al proprietario del sito non responsabile. Il CA., peraltro, era privo di poteri decisori, di spesa e di intervento attivo; egli, quale responsabile PAS, svolgeva un'attività di consulenza e di supporto alla Direzione di Stabilimento e alle funzioni tecniche operative nelle diverse aree di attività e dipendeva gerarchicamente dal Direttore di Stabilimento. La Corte di assise di appello non ha spiegato come il CA., privo di un ruolo di controllo, avrebbe potuto adoperarsi, per attivare un'efficace rete idrica dello stabilimento.
Erroneamente il CA. è stato indicato quale autore della denuncia del 28 marzo 2001 e del Piano di Caratterizzazione del 30 marzo 2001 trasmessi agli enti pubblici e, durante la gestione Solvay, dei successivi piani di caratterizzazione, monitoraggi, relazioni trasmessi agli enti pubblici tra il 2004 e il maggio 2008. In realtà, da tali documenti non emergeva nessun riferimento al CA. ed altri soggetti erano indicati quali referenti. Solo nel PC del 2001 emergeva un mero ruolo esecutivo del CA..
Non era stata neanche dimostrata la conoscenza di situazioni di criticità da parte del CA.. Fin dal 2004, col Piano Integrativo di Caratterizzazione, gli enti erano stati dettagliatamente informati della presenza di sostanze inquinanti nei terreni dello stabilimento, dell'alto piezometrico nonché della contaminazione dei terreni e delle acque di falda. La Corte torinese non ha verificato se le presunte omissioni avevano rivestito un effetto causale rispetto all'evento e se lo stato di contaminazione rivestisse gli estremi di un evento disastroso di portata straordinaria.
In ordine all'omessa manutenzione della rete idrica, la Corte di assise di appello non ha rinvenuto nessun argomento a carico del ricorrente e non ha stabilito come avrebbe potuto attivare un'efficace manutenzione della rete idrica dello stabilimento, in mancanza di un ruolo di controllo. Si trattava di poteri demandati a dirigenti di altro peso, tra i quali in primis il direttore di stabilimento.
Dai dati trasmessi dalla Regione e dall'Arpa relativi al 2000/2004 non emergevano stati di contaminazione al di fuori del sito industriale. La Solvay, nonostante avesse potuto omettere di attivarsi, comunicava nel settembre 2004, col Piano Integrativo di Indagine, che, sulla base dei propri dati, fuori dal perimetro della fabbrica, ma dentro la proprietà e a valle dello stabilimento, erano stati rilevati superamenti; essa suggeriva di attivare una barriera idraulica in via del tutto preliminare con l'obiettivo di contenere la diffusione della contaminazione all'esterno. La Solvay mostrava chiaramente di voler condividere con le autorità pubbliche le scelte in merito all'adozione di misure di sicurezza, come dimostrato dalla presentazione del Progetto specifico di Messa in Sicurezza del 23 marzo 2005). Gli interventi di bonifica non apparivano più adeguati ad avviso degli enti territoriali, per cui la Misura di Messa in Sicurezza doveva essere inserita nel Progetto Preliminare di Bonifica (v. comunicazione del Comune di Alessandria del 27 maggio 2005). Il passaggio successivo consisteva nella trasmissione agli enti di controllo del 30 marzo 2006 del Progetto Preliminare di Bonifica del 30 marzo 2006. Il 25 ottobre 2006, la Solvay trasmetteva l'Analisi di Rischio Specifica, cioè il documento tecnico richiesto dal D. lgs. n. 152 del 2006 e l'11 novembre 2006 comunicava agli enti interessati la volontà di provvedere entro trenta giorni all'attivazione della barriera idraulica. Al tavolo tecnico del 29 novembre 2006, gli enti si dichiaravano d'accordo all'installazione della barriera. Nel documento dell'8 maggio 2008, poi discusso al tavolo tecnico del 22 maggio 2008, la Solvay forniva una descrizione puntuale delle attività di investigazione ambientale condotte e degli interventi realizzati tra il febbraio 2007 e il marzo 2008. In sentenza è mancato uno sviluppo motivazionale dei percorsi eziologici, che avrebbero consentito di imputare un ruolo di causa alla condotta tenuta da ciascun imputato.
8.4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 43 cod. pen..
Si osserva che la Corte torinese non ha fornito risposta ai plurimi motivi di doglianza circa la sussistenza dell'elemento soggettivo formulati con l'atto di appello.
Il CA. aveva sempre manifestato con forza l'intento della società di risolvere le problematiche in atto, tra le quali principalmente la contaminazione della falda superficiale sottostante allo stabilimento e i rischi di una sua estensione nelle aree esterne. E' stato ignorato il dato che il CA. vive con la moglie e i tre figli a poche centinaia di metri dal sito industriale di Spinetta.
8.5. Violazione di legge in riferimento al momento consumativo del reato ambientale e all'intervenuta prescrizione del reato.
Si deduce che il momento consumativo del reato doveva essere individuato in quello del verificarsi del disastro, al quale il persistere del pericolo o il suo inveramento in una concreta lesione erano estranei ed ulteriori. Lo stato di inquinamento rilevato all'interno dello stabilimento e in alcune aree limitrofe aveva un'origine storica e risaliva ad un momento antecedente a quello di assunzione della posizione di garanzia da parte del CA.. Per tale ragione il reato era prescritto.
8.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla commisurazione della pena.
Si osserva che la Corte di assise di appello non ha assolto all'obbligo di motivazione, essendosi limitata a richiamare la gravità del fatto. Non erano stati considerati vari elementi favorevoli all'imputato quali la risalenza della contaminazione nel tempo, la complessità del fenomeno e l'attività di rimozione dell'inquinamento eseguita successivamente al maggio 2008.
8.7. Vizio di motivazione con riferimento alle statuizioni civili. Si richiama quanto esposto nel ricorso proposto dalla Solvay.
Il Comune di Alessandria non poteva agire a tutela del danno all'immagine nei confronti di imputati non dipendenti dell'ente. Inoltre, non è stato fornito nessun elemento a sostegno della condanna al risarcimento del danno morale. Né l'entità dell'importo del danno liquidato dalla Corte di secondo grado era giustificata.
Risultava altresì insufficiente la prova del danno subito dalle singole persone fisiche costituitesi parti civili.

9. SOLVAY S.P.A. (dieci motivi di ricorso - avv. Giulio Ponzanelli)
9.1. Vizio di motivazione in ordine alle statuizioni civili in favore del Omissis.
Si rileva che la Corte di assise di appello ha confermato le statuizioni civili, senza dar conto degli specifici motivi di impugnazione e limitandosi a ricopiare le medesime argomentazioni del giudice di primo grado, così eludendo l'obbligo di motivare.
9.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla prova del danno ambientale.
Si osserva che la domanda di risarcimento del danno ambientale proposta dal Ministero dell'Ambiente era inammissibile ai sensi degli artt. 300 e ss. D. Lgs. n. 152 del 2006 ed era stata impostata su fonti normative erronee ed era stata strutturata su criteri risarcitori del danno ambientale del tutto estranei e comunque difformi da quelli previsti dalla legge, i quali escludono in toto qualsiasi forma di risarcimento per equivalente pecuniario e impongono l'adozione di misure di riparazione primaria, complementare e compensativa.
Peraltro, il danno ambientale non era stato provato neanche sotto il profilo dell'an. Come riconosciuto dalla Corte alessandrina, mancavano le prove della c.d. baseline e della portata del deterioramento. Non si era tenuto conto della natura storica della contaminazione, per cui non erano stati esclusi i danni pregressi e successivi.
9.3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta ammissibilità della costituzione della parte civile Omissis.
Si sostiene che non era stata dimostrata l'esistenza di un danno ambientale ai sensi dell'art. 300 D.L. n. 152 del 2006. Peraltro, l'azione di risarcimento del danno ambientale prevista dall'art. 311 D.L. n. 152 cit. è ormai un'azione di reintegrazione in forma specifica di un danno a statuto speciale.
9.4. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento ai principi relativi al risarcimento del danno non patrimoniale.
Si rileva che la Corte torinese non ha spiegato le ragioni del rigetto delle censure prospettate dalla Solvay nel giudizio di appello. Anche il danno non patrimoniale, costituente danno conseguenza, doveva essere allegato e provato. Il generico ed astratto diritto al benessere ed alla tranquillità psicologica non costituiscono situazioni meritevoli di tutela.
9.5. Violazione di legge e vizio di motivazione in tema di prova del danno morale o da metus.
Si deduce che le persone fisiche non avevano dimostrato di aver subito un turba­mento psichico, non emergendo la consapevolezza dell'esposizione a fattori di rischio per la salute. Le ordinanze sindacali si basavano su un principio di iperprecauzione e su alcune analisi preliminari, in attesa di riscontri scientifici.
9.6. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle medesime linee guida stabilite dall'organo giudicante sulle statuizioni alle singole persone risarcite.
Si rileva che la Corte torinese si è limitata a copiare le motivazioni della sentenza di primo grado in relazione al risarcimento del danno a tre parti civili, ritenendo tali situazioni omogenee a quelle di altri soggetti.
9.7. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle statuizioni civili in favore dei comproprietari B-V.
Si sostiene che la Corte di assise di appello non ha risposto agli specifici motivi di appello relativi all'azione civile proposta dal DB. e dal V. in ragione della loro qualità di comproprietari dei fondi rustici con annessi fabbricati rurali costituenti l'azienda agricola denominata «Cascina Granera». Essi avrebbero dovuto fornire evidenza delle analisi condotte su campioni d'acqua prelevati dal pozzo del fondo «Stivardi» di loro proprietà.
9.8. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle domande risarcitorie delle associazioni ambientaliste e degli enti esponenziali.
Si rileva che le associazioni ambientaliste e gli enti esponenziali non erano legittimati a costituirsi parte civile, in quanto perseguivano un interesse genericamente inteso all'ambiente o comunque caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico. Tali enti potevano costituirsi solo per i danni diretti e specifici subiti, diversi rispetto a quello di natura pubblica della lesione dell'ambiente, per cui potevano essere risarciti solo per l'offesa allo scopo della loro esistenza e, cioè, l'interesse concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio aveva fatto il proprio scopo.
Un'associazione ambientalista poteva essere ritenuta titolare di un diritto della personalità, suscettibile di tutela risarcitoria solo quando: a) l'interesse perseguito è distinto dal mero interesse diffuso della tutela dell'ambiente; b) costituisce lo scopo esclusivo o prevalente dell'ente.
Gli enti non avevano dimostrato un contributo rilevante e concreto alla tutela della posizione giuridica ritenuto leso e i danni asseritamente subiti. L'interesse non risultava perseguito prima del fatto illecito e correlato ad una situazione storicamente circostanziata.
Le associazioni non avevano dimostrato il nesso eziologico tra l'illecito penale contestato e il danno patrimoniale subito:
a) il «WWF Italia» non aveva provato un danno autonomo e direttamente risarcibile in conseguenza della condotta degli imputati e non aveva individuato un interesse relativo ad una situazione storica circostanziata;
b) la «Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta Onlus» non dava conto di iniziative correlate all'ambito spazio-temporale dei fatti di causa, in quanto nel periodo successivo al 1991 i suoi interessi si erano indirizzati altrove;
c) l'Associazione «I Due Fiumi E.R.I.C.A. - Pro natura - Alessandria» non si concretizzava in un ambito coerente (per tempo, spazio ed argomento) con quello dei fatti di causa e non dimostrava l'esistenza di un danno risarcibile;
d) la «Medicina Democratica-Movimento di Lotta per la Salute» soc. coop. a r.l. era priva di legittimazione attiva per carenza di interesse ad agire e non prospettava la lesione concreta di un diritto soggettivo proprio del sodalizio, emergendo anche segnali di poca attenzione o comunicazione rispetto alla realtà di Spinetta Marengo ed un suo interessamento solo nel 2008 successivo all'avvio del procedimento penale;
e) la «C.G.I.L. - Camera del Lavoro Territoriale di Alessandria» aveva individuato la causa petendi nei danni subiti a seguito delle condotte aziendali tenute nei confronti dei lavoratori dipendenti dell'impianto di produzione, ma la prevenzione dei rischi professionali e la tutela delle condizioni di lavoro costituivano ragioni di fatto estranee all'oggetto del giudizio; inoltre, la CGIL non aveva neanche dimostrato l'iscrizione di alcuni lavoratori dello stabilimento alla propria confederazione.
9.9. Violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla liquidazione dei danni in via equitativa.
Si deduce che le parti civili non avevano fornito mezzi di prova o criteri di calcolo idonei. La valutazione equitativa non è consentita in caso di mera difficoltà di prova e di quantificazione.
9.10. Violazione in ordine alle statuizioni delle spese processuali.
Si chiede, in conseguenza dell'accoglimento dei suindicati motivi di ricorso, l'annullamento di tutte le statuizioni sulle spese pronunciate in ogni grado di giudizio.

10. MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE (parte civile - memoria difensiva dell'Avv. Stato)
10.1. Si rileva che, contrariamente a quanto affermato dalle difese degli imputati, nella sentenza della Corte costituzionale n. 327 del 01/08/2008 il disastro innominato non era stato considerato necessariamente istantaneo ad effetti permanenti. La Corte costituzionale si limitava a evidenziare che, ai fini del perfezionamento del reato, occorrevano due elementi: a) il primo, dimensionale, cioè un evento distruttivo di proporzioni straordinarie; b) il secondo, offensivo, cioè il pericolo per la pubblica incolumità; null'altro era possibile desumere sulla qualificazione/classificazione del reato.
Il reato non si consumava istantaneamente in considerazione della reiterazione di fatti inquinanti, consistenti nelle perdite del sistema idraulico e nella dilavazione dei residui tossici illecitamente dispersi in discariche abusive. Non era individuabile un momento di raggiungimento della massima offesa al bene tutelato, in quanto i dati delle analisi compiute comprovavano una non remissione dell'inquinamento nel tempo, per cui la Corte torinese correttamente ha indicato l'esistenza di un evento diacronico.
Nella fattispecie, l'offesa al bene giuridico era rinnovata ed aggravata dalle successive colpevoli omissioni; il livello di lesività della condotta in esame cresceva col decorrere del tempo. La mera assunzione da parte degli imputati di una posizione di garanzia solo in un momento successivo all'inizio dell'offesa al bene giuridico non li esonerava da responsabilità, perché la loro condotta omissiva e colpevole aggravava la lesione dell'interesse tutelato. Diversamente dalle fattispecie Bussi ed Eternit citate dagli imputati, nel caso in esame l'inquinamento e il disastro non si fermavano dopo l'accumulo indiscriminato dei residui delle lavorazioni, stante anche la permanenza dei problemi di fuoriuscite dalle tubature dello stabilimento.
Plurime condotte reiterate nel tempo sostenevano nel tempo il disastro e il suo perdurare, perché consentivano la prosecuzione del funzionamento dell'impianto produttivo e della discarica: a) condotte commissive in quanto gli impianti continuavano a funzionare, con conseguente prosecuzione dell'interazione inquinante con l'am­biente circostante tra terreno e falda; b) gli occultamenti e i depistaggi; c) condotte omissive per non essere stati attuati i rimedi necessari per fermare l'inquinamento e il rinnovarsi del disastro. Il giudizio controfattuale è stato congruamente svolto dal giudice a quo, il quale metteva a fuoco la circostanza della mancata attuazione dei molteplici interventi possibili per ridurre o per eliminare l'inquinamento.
10.2. Relativamente alle posizioni di garanzia degli imputati, si deduce che le contestazioni presenti nei ricorsi degli imputati non scalfivano le ricostruzioni fattuali operate dai giudici di appello con riferimento alle mansioni concretamente svolte e alla possibilità di interagire coi vertici aziendali per segnalare tali criticità.
10.3. In ordine al ricorso della responsabile civile Solvay, si osserva quanto segue:
1) il primo motivo di ricorso è generico e comunque manifestamente infondato, avendo la Corte torinese motivato in modo congruo sulle doglianze sollevate con l'atto d'appello, che peraltro non erano espressamente riprodotte nel ricorso;
2) il secondo motivo di ricorso è aspecifico, in quanto la ricorrente Solvay ripropone le medesime argomentazioni defensionali giuridiche già esposte e disattese dal giudice; in ordine al danno-conseguenza i giudici di merito non si sono pronunciati, trattandosi di profilo rimesso al giudice civile; circa il danno evento, esso è stato configurato dai giudici di merito sulla base delle prove legittimamente acquisite;
3) il terzo motivo di ricorso è inammissibile in quanto meramente riproduttivo delle doglianze già formulate in sede di appello; in ogni caso, il giudicato sul danno-evento non comportava necessaria­ mente la sussistenza di un danno-conseguenza in sede civile, non essendo vincolato il giudice civile alle misure da adottare per ripararlo.

11. «WWF ITALIA» ed altre parti civili private (memoria difensiva - avv. Vittorio Spallasso, Laura Pianezza e Giuseppe Lanzavecchia)
11.1. In relazione all'eccezione di nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e ss. cod. proc. pen., si osserva che il fatto addebitato dal pubblico ministero non era mutato, consistendo secondo i giudici di merito nell'accertamento nel sito industriale di un diffuso ed imponente inquinamento dei terreni e delle acque di falda; l'unica diversità riguardava il profilo soggettivo affermato doloso dalla parte pubblica e ritenuto colposo dal giudice di primo grado.
Su tale riqualificazione operata dalla Corte alessandrina, le difese degli imputati avevano modo di proporre la questione di nullità e di chiedere nuovi mezzi di prova.
11.2. Con riferimento alla riqualificazione del reato operata dai giudici di merito, si evidenzia che non tutte le ipotesi di disastro rivestono necessariamente caratteristiche di un macroevento di immediata manifestazione esteriore.
11.3. Relativamente al momento consumativo del reato, si sottolinea che l'evento tipico del disastro può essere diacronico, come nei casi dei disastri di Porto Marghera ed Eternit, nei quali si evidenziava la possibilità di realizzazione di talune ipotesi di disastro nominato anche in un arco di tempo prolungato (come la frana e l'inondazione). Il disastro innominato, peraltro, non è integrato dal solo macroevento di immediata manifestazione esteriore, ma anche l'evento non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in un periodo pluriennale (casi Centrale Termoelettrica di Porto Talle e Bussi).
Una precisa condotta umana omissiva era alla base della produzione dell'evento: l'omessa manutenzione della rete idrica dello stabilimento, che determinava il fenomeno del duomo piezometrico, cioè l'innalzamento della falda freatica producente un effetto di saturazione dei terreni, con totale immersione nell'acqua degli inquinanti ivi contenuti e la loro sottoposizione ad una continua azione di solubilizzazione. Il duomo piezometrico produceva altresì un effetto di inversione locale del senso di falda, con diffusione a raggiera degli inquinanti a partire dal centro, con conseguente comparsa della contaminazione in zone dove la stessa non avrebbe dovuto essere presente, data l'inesistenza di fonti di inquinamento. Le perdite derivanti da omessa manutenzione, inoltre, producevano un ulteriore effetto di immissione in falda degli inquinanti depositati sul terreno, attraverso il meccanismo della lisciviazione nelle parti dello stabilimento pavimentate. V'erano anche prove certe di perdite di cinque­ cento chili di cloroformio nei reparti della Solvay Solexis con conseguente moria di pesci nel fiume Bormida.
Le parti civili, risiedendo in prossimità del sito o avendovi lavorato, utilizzavano a scopi alimentari l'acqua emunta dalla falda avvelenata. Erano poi destinatarie del divieto di utilizzare l'acqua in questione per qualsiasi ragione, non solo a fini di consumo. Il pericolo di esposizione a sostanze inquinanti e il mutamento delle proprie abitudini di vita (ad es. bere esclusivamente acqua minerale, non coltivare l'orto per paura di ammalarsi) avevano causato un grave perturbamento psichico.

 

Diritto
 



1. I ricorsi sono infondati.
Si ritiene di trattare i motivi di impugnazione secondo l'ordine logico delle questioni prospettate, accorpandoli qualora siano strettamente connessi tra loro. Quasi tutti i singoli motivi di ricorso sono infondati, tranne alcuni, di cui sarà dato conto in seguito, da ritenere generici o manifestamente infondati.
Si premette che, laddove i due difensori del medesimo imputato abbiano presentato separati motivi di ricorso, nel corso della trattazione sarà precisato il nominativo dell'avvocato che li ha presentati.

2. Col primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Bolognesi e col terzo motivo del ricorso presentato dall'avv. Santa Maria, entrambi nell'interesse del C., e col primo motivo del ricorso del CA. si deduce l'omessa correlazione tra l'imputazione contestata e il fatto ritenuto in sentenza; inoltre, si rileva che gli imputati erano stati condannati per aver cagionato un avvelenamento o un disastro innominato per contaminazione di animali o di vegetali, nonostante il diverso tenore dell'imputazione.
La censura non merita accoglimento alla luce dell'orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l'aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, a quello originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell'obbligo di contestazione suppletiva di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e dell'eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell'art. 521 stesso codice (Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, Di Landa, Rv. 273265; Sez. 4, n. 27389 del 08/03/2018, Siani, Rv. 273588, secondo cui, una volta contestata la condotta colposa e ritenuta dal giudice di primo grado la sussistenza di un comportamento commissivo, la qualificazione in appello della condotta medesima anche come colposamente omissiva non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito, in fattispecie in cui la Corte ha precisato che i profili di colpa commissiva per il reato di disastro colposo individuati nella sentenza impugnata non potevano considerarsi estranei all'imputazione originaria, in quanto ricompresi nel fatto storico in essa delineato e, soprattutto, rientranti nella colpa generica contestata all'imputato; Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Galdino De Lima C/ Castellano, Rv. 274500, secondo cui, nei procedimenti per reati colposi, il mutamento dell'imputazione, e la relativa condanna, per colpa generica a fronte dell'originaria formulazione per colpa specifica non comporta mutamento del fatto e non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito).
La Corte di assise di appello ha correttamente ritenuto la contaminazione dei terreni inclusa nel capo di imputazione, nella parte contenente il riferimento alla fonte dei contaminanti rinvenuti nelle acque costituita dal percolamento di sostanze tossico-nocive contenute nei cumuli, costituiti da scarti di lavorazione non protetti, così come il comportamento omissivo della mancata segnalazione agli enti pubblici della reale portata dell'inquinamento del sito e della falda con particolare riferimento al contenuto delle discariche autorizzate e non.
Si è sottolineato che il capo di imputazione comprendeva esplicitamente l'avvelenamento delle acque e la contaminazione di terreni e falda sotterranea allo stabili­mento, all'abitato di Spinetta Marengo e alle zone limitrofe, e non era circoscritto alla contestazione di un diffuso inquinamento del sito dei terreni.
Conformemente all'impostazione accusatoria, la Corte territoriale ha confermato la pronunzia di condanna degli imputati per il reato di cui all'art. 449 cod. pen. in relazione proprio a tale addebito, avendo coerentemente rilevato quanto segue: a) la riqualificazione del reato originariamente contestato era consentita, non essendo intervenuto nessun mutamento del fatto; b) gli imputati avevano avuto modo di chiedere nuovi e diversi mezzi di prova rilevanti a fronte della modifica; c) alcuni imputati, come responsabili dello stabilimento già Montedison di Bussi sul Tirino, erano già stati sottoposti ad un diverso procedimento penale, nell'ambito del quale la Procura aveva contestato alternativamente l'avvelenamento delle acque ed il disastro ambientale. Tale ultima argomentazione, ovviamente ha carattere esclusivamente aggiuntivo e complementare rispetto all'ampia ed esauriente motivazione esplicitata dalla Corte di secondo grado.
Non si disconosce nella presente sede la diversità dei significati di «inquinamento», «contaminazione» ed «avvelenamento», rimarcata dalla difesa. Sotto il profilo della completa possibilità di difendersi, rilevano l'inclusione nella contestazione di tutte le possibili cause produttive dell'evento e l'omnicomprensiva disamina della vicenda criminosa svolta a seguito degli accertamenti peritali e dell'audizione in dibattimento di periti e consulenti tecnici.
Nel capo di imputazione, infatti, sono contenuti riferimenti alle «discariche di sostanze chimiche», al «dilavamento delle sostanze inquinanti presenti negli strati superficiali del terreno del sito industriale, con dispersione delle stesse [ ...] nell'acqua di falda sottostante», all'«inquinamento del sito e della falda, con particolare riferimento al numero, alla collocazione ed al contenuto delle varie discariche, autorizzate e non autorizzate, esistenti nel sito industriale», all'omesso impedimento che «l'acqua della falda venisse a contatto con i rifiuti ammassati nelle varie discariche o comunque sotterrati nel sito industriale» e alla presenza nel sito o nel terreno di plurime sostanze inquinanti che «cagionavano la costante e continua contaminazione dell'acqua predetta».
In sostanza, la riqualificazione del reato doloso originariamente contestato di cui all'art. 439 cod. pen. in quello previsto dall'art. 449 cod. pen. era ammissibile in quanto la descrizione del fatto contenuta nell'imputazione integrava anche gli estremi di tale fattispecie colposa e non era circoscritta al solo «avvelenamento colposo di acque» punito dall'art. 452 cod. pen.. Tenuto conto della natura articolata delle condotte criminose e dell'evento, idoneo a produrre conseguenze dannose per l'uomo, per la salute pubblica e per l'ambiente e non vertendosi in ipotesi di mero avvelenamento di acque o di sostanze destinate all'alimentazione, il reato contestato non poteva essere riqualificato in quello previsto dall'art. 452 cod. pen..
Secondo la tesi difensiva, non era mai stata contestata nel capo di imputazione o in sede dibattimentale un'accusa di disastro o di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, per cui non era mai stata apprestata nessuna difesa sul punto.
Deve osservarsi, tuttavia, che integra il cosiddetto disastro innominato non soltanto il macroevento di immediata manifestazione esteriore, che si verifica in un arco di tempo ristretto, ma anche l'evento, non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in un periodo pluriennale, sempre che comunque produca una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità (Sez. 1, n. 2209 del 10/01/2018, Conti, Rv. 272366, fattispecie in tema di disastro innominato doloso ex art. 434 cod. pen. in cui la Corte ha ritenuto idonea ad integrare l'evento distruttivo la diffusione nell'aria per anni di polveri sottili derivante dall'attività produttiva di una centrale termoelettrica).

3. Col secondo e col terzo motivo del ricorso proposto dall'avv. Bolognesi e col quarto motivo del ricorso presentato dall'avv. Santa Maria, entrambi nell'interesse del C., si censura la qualificazione del reato di cui all'art. 449 cod. pen. come reato eventualmente permanente considerandolo istantaneo. Col quarto motivo di ricorso il CA. deduce l'impossibilità di individuare il momento di consumazione del reato; col quinto motivo di ricorso il CA. rileva che l'inquinamento si era prodotto in epoca anteriore all'epoca di assunzione della posizione di garanzia. Col primo motivo di ricorso il G. deduce che la mancata bonifica di siti inquinati non rientra tra le condotte tipiche del reato di disastro e che il reato è istantaneo, con conseguente irrilevanza penale di tutte le condotte successive alla data di consumazione; inoltre, il reato dovrebbe essere riqualificato in una delle altre fattispecie di disastro colpose previste dalla normativa penale. Col secondo motivo di ricorso il G. rileva che il reato sarebbe stato consumato nel momento della cessazione della dispersione delle matrici ambientali. Col terzo motivo di ricorso, il G. osserva che inquinamento e la contaminazione si sarebbero realizzati in epoca remota, anteriore al 2003, anno di inizio dell'incarico di ingegnere presso la società. Col primo motivo di ricorso il B. deduce che non era stato individuato il momento consumativo del reato, da considerare istantaneo con effetti permanenti, per cui l'evento poteva essersi verificato prima dell'assunzione della posizione di garanzia.
La risoluzione delle problematiche in questione presuppone una disamina della struttura del reato previsto dall'art. 449 cod. pen., da svolgere alla luce dei principi affermati da questa Corte in materia.
3.1. In ordine alla condotta, il reato di cui all'art. 449 cod. pen. richiede, quale elemento costitutivo, un'azione o un'omissione colposa, che si ponga in rapporto di causalità con un evento di danno che colpisca la collettività e produca effetti gravi, complessi ed estesi a cose o persone, esponendo a serio pericolo la pubblica incolumità (Sez. 4, n. 3191 del 24/10/1990, dep. 1991, Galbusera, Rv. 186983). E' necessario che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente e quindi caratterizzato per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all'incolumità di un numero collettivamente non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie diverse, in un modo non precisamente definibile o calcolabile e, altresì, che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un senso di allarme per la effettiva capacità diffusiva del nocumento (Sez. 4, n. 45836 del 20/07/2017, Tagliabue, Rv. 271025, in applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva accertato il disastro colposo in un caso di rilascio di un ingente quantitativo di prodotti petroliferi e di scarico di acque reflue industriali in pubblica fognatura, poi confluiti in un fiume e, quindi, in mare, con gravi danni alla fauna ittica, alle comunità ornitiche del fiume e alla vegetazione spondale; Sez. 4, n. 14859 del 13/03/2015, Gianca, Rv. 263146).
Nella forma commissiva, oltre alle condotte genericamente imprudenti, vengono in considerazione quelle contrastanti con le norme presenti in vari rami dell'ordina­mento, che dettano particolari cautele, pongono divieti, prescrivono obblighi in funzione di prevenzione delle varie ipotesi di disastro, nell'esercizio di attività rischiose, o anche in contrasto con ordini o discipline, come le disposizioni interne a fabbriche dove si svolgono lavorazioni pericolose (Sez. 4, n. 18997 del 09/03/2009, Durantini, Rv. 243994, fattispecie in tema di incendio).
Nella forma omissiva, la condotta criminosa può consistere nella mancata adozione delle misure consigliate dalla più moderna tecnologia atta ad aumentare la sicurezza: ove vi sia disponibilità di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi, è necessario adottare (salvo il caso di impossibilità) quello più idoneo a garantire un maggior livello di sicurezza (Sez. 4, n. 37599 del 02/07/2007, Di Giovanni, Rv. 237774).
3.2. Con riferimento all'evento, il delitto di disastro colposo innominato (ex artt. 434 e 449 cod. pen.) è integrato da un "macroevento", che comprende non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza (crollo, naufragio, deragliamento ecc.) che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche gli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv. 235669; Sez. 1, n. 2209 del 2018, cit.).
Il richiamato principio di diritto è stato successivamente ribadito da questa Corte, osservandosi che rispetto al disastro innominato previsto dall'art. 434 cod. pen. con l'espressione "altro disastro", viene in rilievo non soltanto il macroevento di immediata manifestazione esteriore che si verifica in un arco di tempo ristretto, ma anche l'evento, non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in un periodo molto prolungato, sempre che comunque produca una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità; con la conseguenza che rientrano nella nozione di disastro innominato pure i fenomeni derivanti da immissioni tossiche che incidono sull'ecosistema e sulla qualità dell'aria respira­ bile, determinando imponenti processi di deterioramento, di lunga e lunghissima durata, dell'habitat umano (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, Rv. 262790).
La Corte regolatrice ha pure chiarito che, nel delitto previsto dal capoverso dell'art. 434, cod. pen., il momento di consumazione del reato coincide con l'evento tipico della fattispecie e, quindi, con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione. Muovendo da tali assunti, la Suprema Corte ha affermato che non rilevano, ai fini dell'individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro; ed ha ritenuto che la consumazione del disastro doloso, mediante diffusione di emissioni derivanti dal processo di lavorazione dell'amianto, non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione (Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014, dep. 2015, Schmidheiny, cit., Rv. 262789).
Si è successivamente precisato che, anche nel delitto di disastro colposo previsto dall'art. 449 cod. pen., il momento di consumazione del reato coincide con l'evento tipico della fattispecie e quindi con il verificarsi del disastro, da intendersi come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rileva, ai fini dell'individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, la mancata rimozione degli effetti dannosi della condotta, in quanto la fattispecie di disastro non può essere ricostruita secondo uno schema bifasico, ove ad una prima condotta commissiva faccia seguito una seconda di natura omissiva, violativa dell'obbligo di far cessare la situazione antigiuridica prodotta (Sez. 4, n. 47779 del 28/09/2018, Di Paolo, Rv. 274355, in fattispecie relativa alla realizzazione di discariche che avevano determinato l'avvelenamento di pozzi di captazione per l'acqua potabile, in cui la Corte ha ritenuto che la consumazione del disastro colposo non potesse considerarsi protratta oltre il momento in cui avevano avuto fine le condotte inquinanti).
Appare altresì utile richiamare la distinzione tra le ipotesi criminose di cui al primo e al secondo comma dell'art. 434 cod. pen.: in tema di reati contro l'incolumità pubblica, per la configurabilità del delitto di disastro colposo (artt. 434 e 449 cod. pen.) è necessario che l'evento si verifichi, diversamente dall'ipotesi dolosa (art. 434, comma primo, cod. pen.), nella quale la soglia per integrare il reato è anticipata al momento in cui sorge il pericolo per la pubblica incolumità mentre, qualora il disastro si verifichi, risulterà integrata la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso art. 434 (Sez. 4, n. 35684 del 05/07/2018, Salzano, Rv. 273414; Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006, dep. 2007, Bartalini, Rv. 235668). Il disastro innominato, quindi, è reato di pericolo a consumazione anticipata, che si perfeziona nel caso di contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, con la sola immutatio foci, purchè questa si riveli idonea a cagionare un danno ambientale di eccezionale gravità (Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011, Passa­ riello, Rv. 251592).
3.3. Venendo al caso in esame, in linea coi predetti principi, la Corte torinese ha sottolineato che la condotta criminosa era stata attuata mediante plurime azioni ed omissioni. In particolare, le prime erano le seguenti: immissioni da parte di condotte che veicolavano scarichi nel sottosuolo direttamente fino al livello di falda; percolazione di sostanze allo stato fluido quali oli e solventi, che sotto l'azione della forza di gravità permeavano il sottosuolo sino a raggiungere la falda; trasporto in direzione verticale ad opera di acque meteoriche o di infiltrazioni che scioglievano sostanze inquinanti presenti nel terreno, trasferendole in falda; trasporto in direzione orizzontale di sostanze presenti nel sottosuolo a livello di profondità corrispondenti a quelli della falda nella sua evoluzione temporale, per innalzamento o abbassamento stagionale del livello piezometrico.
Da tali considerazioni deriva l'impossibilità di seguire l'impostazione delle difese, secondo cui si sarebbe solo una condotta di inquinamento, di natura istantanea, avvenuta in epoca remota e, successivamente, plurimi comportamenti di natura omissiva integranti un mero post factum non punibile.
3.4. La Corte di assise di appello ha descritto l'evento lesivo del reato ex art. 449 cod. pen. come un evento naturalistico diacronico, tipico del disastro innominato, consistente in un lento processo di contaminazione della matrice ambientale, attraverso la lasciviazione e la solubilizzazione delle sostanze tossiche presenti negli enormi cumuli di scarti di lavorazione che penetrano nel terreno e, quindi, nell'acqua di falda, senza alcuna soluzione di continuità; lo ha rappresentato come un fenomeno continuo e ininterrotto, che produce una situazione di gravità incrementatasi anche per la mancata adozione di interventi da parte degli imputati.
In più parti della sentenza, la Corte territoriale ha dato atto dell'esecuzione da parte degli imputati di condotte incessanti, che provocavano il disastro, principalmente di «avvelenamento», «inquinamento» e «contaminazione»: l'immissione di metalli, cloruri, fluoruri, solfati cancerogeni, ecc.; la mancata eliminazione del duomo piezometrico e, cioè, di un'enorme massa d'acqua che determinava il dilavamento delle sostanze inquinanti presenti negli strati superficiali del terreno del sito con dispersione a raggiera; la perdurante contaminazione di cromo esavalente e dell'arsenico, nonostante l'intervenuta cessazione, in epoca antecedente al periodo indicato in imputazione, delle relative lavorazioni.
Alla luce delle caratteristiche evidenziate è stato riscontrato un inquinamento persistente e incessante, fronteggiato con rimedi precari, il cui evento si è protratto fino all'ultima contaminazione delle falde acquifere, la cui consumazione cessava per ciascun imputato alla data di dismissione della propria carica all'interno della società di riferimento (dapprima Ausimont poi Solvay).
Va comunque specificato che tale assunto non si pone in contrasto con le conclusioni riportate nelle sentenze sopra richiamate, attinenti a fattispecie di natura diversa.
Nel caso Eternit, ad esempio, v'era una data precisa di consumazione del reato, individuabile in quella di cessazione delle immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione (Sez. 1, n. 7941 del 2015, Schmidheiny, cit.), per cui ovviamente non erano ritenuti rilevanti, ai fini della consumazione del reato, i successivi decessi o lesioni riconducibili al disastro.
Le difese degli imputati richiamano altresì la vicenda di avvelenamento delle acque del fiume Pescara di cui all'art. 434 cod. pen. (Sez. 4, n. 47779 del 2018, cit., peraltro a carico anche di alcuni degli odierni imputati), al fine di anticipare il momento consumativo, con conseguente effetto sul decorso dei termini di prescrizione.
In tale decisione, il delitto di disastro doloso di cui all'art. 434 cod. pen. è configurato come reato istantaneo ad effetti permanenti, in cui la persistenza del pericolo, come pure il suo inveramento quale concreta lesione della pubblica incolumità, non sono richiesti per la realizzazione del delitto, giacché non sono elementi del fatto tipico e non assumono rilievo rispetto alla consumazione del reato.
Premettendosi che anche nella pronunzia richiamata, la consumazione era ritenuta coincidente col momento della conclusione delle dispersioni nelle matrici ambientali (situazione di fatto, quest'ultima, non tanto dissimile rispetto al caso in esame), non si condivide l'assunto circa la natura istantanea del reato, in quanto la fattispecie di cui all'art. 449 cod. pen. è eventualmente permanente.
Si tratta, infatti, di reato a forma libera, che può consistere in un macroevento di immediata evidenza e di notevoli dimensioni (crollo, naufragio, deragliamento, ecc.), ma anche in un evento non immediatamente percepibile, che si dispiega in un arco di tempo molto prolungato (Sez. 4, n. 4675 del 2006, Bartalini, cit., in tema di reato ex art. 434 cod. pen., in cui l'evento materiale coincide col verificarsi del disastro, qualora ricorra l'ipotesi aggravata di cui al comma secondo).
Il disastro colposo, pertanto, è un reato eventualmente permanente, in cui il fatto previsto dalla legge può esaurirsi nel momento in cui si concretano gli elementi costitutivi della ipotesi tipica di reato, ma può anche protrarsi con una ininterrotta attività che in ogni momento riproduce l'ipotesi stessa (Sez. 1, n. 714 del 17/12/1992, dep. 1993, Daprea, Rv. 192800). Nel reato eventualmente permanente, peraltro, la fattispecie tipica esige o ammette una protrazione nel tempo senza soluzione di continuità (Sez. 3, n. 16042 del 28/02/2019, Antonioli, Rv. 275396, in cui il reato eventualmente permanente è distinto dal reato a consumazione prolungata o frazionata, caratterizzato dalla ripetizione di singole condotte lesive dell'interesse protetto dalla norma che determinano il superamento dei limiti soglia nel tempo).
Tali principi trovano conferma nella variegata tipologia di disastri ipotizzabile in natura, in quanto, in materia di pubblica incolumità, il legislatore ha ravvisato la più pregnante esigenza di sanzionare la produzione colposa di determinati eventi anche soltanto pericolosi rispetto ad altri settori penali. Da qui scaturisce l'esigenza di stabilire, in base al tipo di disastro in questione (incendio, inondazione, frana, valanga, naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, disastro nell'attentato alla sicurezza dei trasporti e degli impianti di energia e di comunicazione, crollo, disastro innominato) e alle concrete modalità in cui si è realizzato l'evento, se il reato di disastro possa qualificarsi istantaneo o eventualmente permanente.
Per le ragioni anzidette, nella fattispecie sottoposta al vaglio di questa Corte, il reato deve ritenersi realizzato nella sua forma permanente.
3.5. Il reato configurabile non può essere riqualificato in una delle fattispecie di "disastro ambientale colposo", di cui agli artt. 452-bis e quinquies cod. pen. oppure di cui agli artt. 452-quater e quinquies cod.pen.).
In tema di disastro ambientale, infatti, anche dopo la legge 22 maggio 2015, n. 68, che ha introdotto specifici delitti contro l'ambiente disciplinati negli artt. 452-bis e ss. cod. pen., la previsione di cui all'art. 434 cod. pen. continua a trovare applicazione nei processi in corso per fatti commessi nel vigore della disposizione indicata in forza della clausola di riserva contenuta nell'art. 452-quater cod. pen. (•Fuori dai casi previsti dall'articolo 434•: Sez. 4, n. 49766 del 12/11/2019, Vendola, non massimata; Sez. 1, n. 58023 del 17/05/2017, Pellini, Rv. 271840).

4. Col quinto e col sesto motivo di ricorso il C. (avv. Bolognesi) osserva che il danno si era realizzato in epoca anteriore al 2004 e che un ipotetico aggravamento del danno pregresso non aveva determinato un nuovo ed ulteriore pericolo per la vita o per l'incolumità fisica.
La Corte territoriale, con argomentazioni ineccepibili sotto il profilo logico, ha ritenuto non necessario un macroevento di dirompente portata distruttiva per la configurazione del reato di disastro, in quanto, sussistendo una sorgente continua di contaminazione, il pericolo si sviluppava al momento del superamento di determinate soglia, dal quale non poteva più prodursi una riduzione della contaminazione della matrice ambientale. La contaminazione dalle sostanze inquinanti sopra indicate non era più reversibile senza una complessa azione da parte dell'uomo.
La vicenda criminosa è caratterizzata dalla persistenza di eventi realizzabili in un arco temporale molto prolungato, «goccia a goccia», per mesi o anni e dall'impossibilità di individuare il momento storico del raggiungimento dell'acme della contami­nazione, a differenza delle fattispecie di disastro per loro natura istantanee quale, ad esempio, il crollo.
Le singole condotte dei concorrenti - per quanto ampiamente esposto dai giudici di merito sulla scorta di rilevazioni oggettive - hanno contribuito alla realizzazione del macroevento svoltosi mediante condotte plurime ed ininterrotte, idonee a destare un senso di allarme per l'effettiva capacità diffusiva del nocumento.
Peraltro, in relazione a tali motivi di ricorso, la difesa del C. basa il proprio assunto sulla configurabilità del delitto di disastro colposo come reato istantaneo, mentre - come osservato innanzi - si tratta di reato eventualmente permanente, realizzatosi nel caso in esame per accumulo e progressivo incessante incremento della contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante.
Non occorre, peraltro, l'effettivo verificarsi di danni per la salute dell'uomo. Ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale colposo (artt. 434, comma se­ condo, e 449 cod. pen.) è necessario che l'evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane, essendo sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettiva­ mente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva.
In tal senso si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo (Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006, Pellini, Rv. 236295).

5. Nei motivi dal settimo al dodicesimo del ricorso presentato dall'avv. Bolognesi nell'interesse del C. e nel secondo del ricorso del CA., si deduce l'insussistenza del pericolo concreto per la pubblica incolumità e della prova dell'esposizione della collettività ad un pericolo per la salute e per la sicurezza. Col primo motivo del ricorso proposto dall'avv. Santa Maria nell'interesse del C. si censura l'ingiustificata dilatazione del reato in esame a reato di pericolo presunto, per essere stata ampliato il bene giuridico tutelato all'ambiente e non solo alla salute pubblica.
5.1. Per quanto attiene all'elemento del pericolo, va premesso che, nel reato di disastro colposo, si configura un'ipotesi di reato con duplice evento, di danno e di pericolo (per la vita, l'incolumità fisica o la salute di una pluralità indeterminata di persone). Il pericolo deriva dalla potenzialità espansiva del disastro, cioè della capacità di coinvolgere un'intera collettività.
Il reato di cui all'art. 449 cod. pen. è di pericolo astratto, in cui il pericolo non è inserito quale requisito effettivo, ma un fatto ritenuto una fonte tipica di pericolo è tipizzato sulla base di una valutazione effettuata in via generale.
In proposito, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della configurabilità del delitto di disastro colposo, costituente un reato di pericolo astratto, va comunque accertata l'offensività in concreto del fatto, verificando, con giudizio ex ante, se, alla luce degli elementi concretamente determinatisi, dell'espansività e della potenza del danno materiale, il fatto fosse in grado di esporre a pericolo l'integrità fisica di un numero potenzialmente indeterminato di persone (Sez. 4, n. 14263 del 14/11/2018, dep. 2019, Ratze, Rv. 275364).
Ai fini della configurabilità del delitto di disastro innominato, costituente un reato di pericolo astratto, va comunque verificata l'offensività del fatto alla luce del criterio della "contestualizzazione dell'evento", con giudizio ex ante, nel senso che occorre verificare dalla visuale di un osservatore avveduto, posto nella stessa situazione materiale dell'agente, e dunque, alla luce degli elementi concretamente determinatisi se il fatto era in grado di esporre a pericolo l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone, richiedendosi, nella specie, la verosimiglianza della presenza di un numero indeterminato di persone nella sfera di esplicazione del fatto (Sez. 4, n. 5397 del 20/05/2014, dep. 2015, Meile, Rv. 262024, in fattispecie di disastro aviatorio).
Per la configurabilità del reato di disastro innominato colposo di cui agli artt. 449 e 434 cod. pen. è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; a tal fine, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione ex ante, accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova che dal fatto derivi un pericolo per l'incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un danno (Sez. 4, n. 19342 del 20/02/2007, Rubiera, Rv. 236410).
5.2. Ciò posto, nel caso in esame, la Corte territoriale ha offerto corretta applicazione dei criteri valutativi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte.
La Corte torinese ha innanzitutto richiamato il principio secondo cui, per stabilire la sussistenza di un pericolo di un numero indeterminato di persone (individuabile nei lavoratori del sito industriale e negli abitanti della zona limitrofa), non occorrono precisi e misurati dati tecnici relativi all'inquinamento, in quanto la prova del delitto non deve avere esclusivamente un fondamento scientifico, potendo fondarsi anche sul ragionamento logico e su massime di esperienza (Sez. 1, n. 58023 del 17/05/2017, Pellini, Rv. 271841, relativa a fattispecie di disastro doloso ex art. 434, comma se­ condo, cod. pen., in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza di merito che, nonostante la mancanza di verifiche scientifiche, aveva considerato dimostrato il reato di disastro ambientale derivante dal continuo e ripetuto sversamento di rifiuti pericolosi, per milioni di tonnellate, in maniera incontrollata in un territorio delimitato).
La Corte di assise di appello, quindi, ha escluso la necessità di precise misurazioni sul terreno e ha considerato sufficienti i dati relativi alle tipologie di sostanze e all'enormità della massa di rifiuti sversata sul terreno, individuando il pericolo nell'avvenuta immissione nella matrice ambientale composti estranei di natura tossico-nocive, a prescindere dall'effettivo verificarsi di lesioni nei confronti di lavoratori e abitanti delle zone circostanti. Tale assunto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di disastro ambientale col­ poso (artt. 434, comma secondo, e 449 cod. pen.), è necessario che l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tali da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo (Sez. 4, n. 46876 del 07/11/2019, Chiodi, Rv. 277702). Ha poi dato atto della tossicità delle sostanze immesse, come dimostrato dall'imposizione di cui alla legislazione ambientale di livelli-soglia nelle matrici ambientali sia pur ispirati alla «sicurezza» e alla «cautela».
Nella sentenza della Corte di assise di Alessandria era stato sottolineato che, per integrare il reato contestato, doveva ritenersi sufficiente la produzione del grave e complesso inquinamento della falda con capacità altamente diffusive, che arrecava una contaminazione dell'acqua - per una profondità misurata in alcuni punti fino a 70 metri - tale da poter creare pericolo per l'incolumità pubblica di una moltitudine indistinta di persone, concetto più vasto del pericolo per la salute intrinsecamente connesso all'avvelenamento, il quale richiede, invece, la possibilità concreta che una moltitudine indistinta di persone possa bere.
A fronte di una comprovata contaminazione, si era effettivamente verificato l'evento-disastro.
A tale proposito, la Corte torinese - nel recepire le conclusioni della Corte di assise di primo grado - ha chiarito che le acque destinate all'uso umano sono sia quelle per uso potabile, sia quelle destinate alla preparazione di cibi e bevande, sia in generale quelle «per altri usi domestici», tra i quali devono annoverarsi l'innaffiamento di orti e giardini, ovvero l'irrigazione di colture (art. 2 D. lgs. n. 31 del 2001) e ha sottolineato il numero e la varietà delle sostanze tossiche idonee a contaminare animali e vegetali nonché ad avere contatti dermici direttamente con le persone. Per tale ragione, quindi, non rilevava stabilire se l'acqua potesse effettivamente pervenire in contatto con l'uomo per ingestione o per contatto dermico né apparivano censurabili i criteri adottati dal consulente del pubblico ministero prof. G..
Deve, quindi, escludersi che sia stato riconosciuto il reato di disastro ai fini della sola tutela dell'ambiente e non dell'incolumità pubblica delle persone, così anticipando eccessivamente la soglia di tutela del bene giuridico. Il rischio per la salute dell'uomo è stato illustrato in misura adeguatamente specifica entro i limiti richiesti per un reato di pericolo astratto.

6. Col tredicesimo motivo del ricorso proposto dall'avv. Bolognesi nell'interesse del C. e col secondo e col quinto motivo del ricorso del CA. si deduce l'illogicità della motivazione nella parte in cui erano condivisa la scelta del metodo del risk assesment per valutare il pericolo per la salute umana. Col secondo motivo del ricorso presentato dall'avv. Santa Maria nell'interesse del C. si rilevano il livello marginale dell'inquinamento e gli errori metodologici del prof. G. nella redazione del suo elaborato tecnico sul risk assessment.
La Corte di assise di appello ha scelto il metodo del risk assesment, applicato dal consulente prof. G., consistente nell'analisi del rischio di danni alla salute umana, con l'evidente finalità, di valutare «i rischi cronici o a lungo termine associati ai siti contaminati, piuttosto che quelli che si verificano in condizioni di esposizione acuta», procedimento che si fonda, sperimentalmente, sugli effetti delle sostanze tossiche rinvenute nella matrice ambientale (sito-specifiche) e oggetto della contaminazione, sostanze somministrate agli animali e poi «riconvertite» secondo linee guida per verificarne gli effetti sul c.d. «bersaglio umano».
L'Accademia delle Scienze indica tale metodo come «la caratterizzazione dei potenziali effetti avversi per la salute umana in seguito ad esposizione ad inquinanti ambientali»; nel D. lgs. n. 152 del 2006 è riconosciuto come «la procedura da adottare per la valutazione dell'effettivo stato di contaminazione dei suoli e delle acque di falda e per la stima degli eventuali obiettivi di bonifica».
L'utilizzazione del metodo del risk assessment ha consentito di stabilire che le sostanze rinvenute nella falda acquifera di Spinetta nell'area dello stabilimento industriale e in quella limitrofa derivavano dalle lavorazioni del sito.
Occorre ora rammentare che l'apprezzamento espresso dai giudici di merito circa risultati della cd. "prova scientifica" è soggetto a controllo di legittimità solo con riferimento agli aspetti motivazionali, che sostengono l'approccio del Giudice al sapere scientifico e che giustificano l'affidabilità delle informazioni da esso ricavabili.
In tema di prova scientifica, questa Corte di legittimità non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; questa Corte, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato» (Sez. 5, n. 6754 del 07/10/2014, dep. 2015, Scardaccione, Rv. 262722).
Ebbene, anche in ordine a tale profilo, le argomentazioni espresse dalla Corte di assise di appello non risultano censurabili. Sul piano della valutazione degli apporti scientifici, la Corte di merito ha inteso condividere le conclusioni espresse dal consu­ lente tecnico del pubblico ministero prof. Giorgio G., evidenziando la completezza del suo elaborato e la persuasività tecnico scientifica delle sue conclusioni anche alla luce di tutti gli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio, oggetto di puntuale disamina in sentenza nella parte dedicata alla ricostruzione dei fatti. La Corte territoriale ha fornito ampie indicazioni relativamente alla correttezza, all'utilità e all'indi­spensabilità del risk assessment, articolando, quindi, una ragionata esposizione dei motivi posti a base della decisione assunta, senza limitarsi a recepire le conclusioni di cui all'elaborato tecnico del prof. G.. Ha riconosciuto altresì un certo grado di concretezza al rischio per la salute umana, escludendo che nella fattispecie fosse stata eccessivamente anticipata la soglia del pericolo.
D'altronde, il metodo del risk assessment adoperato nello svolgimento dell'incarico è internazionalmente riconosciuto e la professionalità del predetto consulente è generalmente acclarata. Tenuto conto dei limiti entro i quali occorreva valutare la sussistenza del pericolo per la pubblica incolumità, non dovevano essere disposti ulteriori accertamenti peritali.
7. Coi motivi di ricorso dal quattordicesimo al diciassettesimo l'avv. Bolognesi e con l'ottavo e il decimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria, entrambi nell'interesse del C., nonché col quinto motivo di ricorso il G. deducono il vizio di motivazione in quanto l'alto piezometrico si era formato in epoca remota e non è stata distinta la posizione dei vari imputati in relazione ai rispettivi periodi di espletamento delle funzioni loro assegnate, escludendone l'efficacia causale rispetto all'evento di disastro; inoltre, si afferma che l'alto piezometrico non si era incrementato nel corso del tempo restando di caratteristiche e dimensioni sempre comparabili. Con l'undicesimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria contesta l'addebito formulato agli imputati di non aver provveduto a riparare le perdite idriche dello stabilimento e ad eliminare l'alto piezometrico.
Va premesso che l'alto piezometrico consiste in una cupola d'acqua che giace sulla superficie della falda acquifera e dall'interno della quale l'acqua defluisce verso l'esterno; è una zona circondata in tutte le direzioni da livelli piezometrici inferiori, ovvero le anomalie del livello piezometrico di falda che si manifestano quando in alcuni pozzi o piezometri il livello risulta superiore a quello che naturalmente si rileverebbe nell'area monitorata.
Secondo i giudici di merito, l'alto piezometrico era stato causato da perdite della rete idrica dello stabilimento, composta da oltre cinquanta chilometri. Il duomo piezometrico aveva causato: 1) l'inversione del senso della falda, con diffusione a raggiera degli inquinanti a partire dal centro dell'alto e nella conseguente comparsa di contaminazione in zone ove la stessa non dovrebbe essere presente, non essendovi sorgenti di inquinamento; 2) il potenziamento (rispetto alle acque meteoriche) del processo di lisciviazione/solubilizzazione dei contaminanti contenuti nel terreno; 3) la spinta dell'acqua contaminata verso gli strati più profondi e meno inquinati dell'acquifero.
La Corte territoriale ha evidenziato che l'alto piezometrico esisteva da decenni e si era incrementato col tempo. La sua origine era artificiale, in quanto era alimentato dalle perdite di acqua dell'impianto idrico dello stabilimento e, solo dopo l'inizio del procedimento penale in oggetto (maggio 2008), si provvedeva a riparare le perdite, per cui esse si riducevano di percentuali fra il 50% e il 70%; il raggiungimento di tali risultati dimostrava il mancato pregresso svolgimento di analoghe operazioni.
In base all'analisi della documentazione difensiva di cui alla consulenza dell'ing. Francesco ME., tecnico di parte del C., il giudice a quo ha ritenuto che gli interventi manutentivi svolti all'epoca della direzione del G. non concerne­ vano le tubazioni danneggiate, le quali invece implementavano l'alto piezometrico.
Al riguardo, va ricordata la testimonianza dell'ing. E.M., impiegato dal 1989 al 2008 presso la programmazione della manutenzione, che ricordava solo un'interruzione dell'impianto produttivo avvenuta nel 2000 e non l'esecuzione di interventi alla fatiscente rete idrica. La motivazione sull'analisi della documentazione appare adeguatamente sviluppata e la valutazione formulata dal giudice a quo non è smentita dal richiamo a singoli e settoriali interventi alla rete idrica, che comunque incontestabilmente non ottenevano l'esito positivo auspicato. La documentazione risulta sufficientemente analizzata, a prescindere dal mancato esplicito riferimento a tutti gli ordini di spese per manutenzione delle tubazioni e ai nominativi di tutte le società affidatarie di tale incarico.
Va poi specificato circa le osservazioni difensiva circa l'inesistenza della prova di un incremento dell'alto piezometrico che sul punto non v'è divergenza di valutazioni tra i giudici dei due gradi di merito.
In proposito (vedi pagg. 109 e ss. della sentenza di primo grado), l'attenzione dell'organo giudicante non si è tanto incentrata sull'aspetto dell'incremento, che viene ritenuto non decisivo, ma comunque effettivo, tanto da aver realizzato «effetti acceleratori e propulsori della diffusione dell'inquinamento».
La Corte alessandrina, infatti, dopo aver approfonditamente criticato le considerazioni del prof. Francani, consulente della difesa, valutava principalmente le conseguenze di tale fenomeno sull'inquinamento, spiegando le ragioni dell'inefficacia della barriera (confermata anche dalla stessa ENSR).
Si è ritenuta rilevante soprattutto la circostanza che l'alto piezometrico era stato causato da perdite della rete idrica. Il profluvio torrenziale di sostanze tossiche riversatesi in falda era attribuito alla presenza nel sito di: a) terreni altamente contaminati per effetto di una gestione di materie prime o di rifiuti divenuta illecita già da epoca remota; b) perdite d'acqua, potenzialmente inquinata da residui di produzione, che cagionavano un imponente e costante dilavamento dei terreni contaminati.
La Corte alessandrina ha considerato le enorme perdite di acqua di processo (di per sé contaminate) e di raffreddamento della rete idrica quale fattore eziologico che provocava il dilavamento delle sostanze tossiche presenti nel terreno e la loro dispersione nell'acquifero sottostante, interno ed esterno al sito.
Sono stati ritenuti dimostrati: l'imponente e continua contaminazione degli acquiferi; la contaminazione quale effetto della lasciviazione e della solubilizzazione delle sostanze incorporate nel terreno e disciolte dall'acqua che intercetta l'acquifero (atmosferica e proveniente dalla circolazione idrica sotterranea); l'attribuibilità delle perdite, almeno in parte, ad acque di processo, di per sé contaminate da sostanze quali cloroformio o tricloroetilene, ancor oggi in uso agli impianti produttivi; l'influenza su tale diffusa contaminazione dell'alto piezometrico, formato dalle perdite e dall'incremento del potenziale di solubilizzazione nelle zone più impregnate da so­ stanze inquinanti, anche per l'inversione del senso di falda.
7.1. In merito ai molteplici richiami difensivi al contenuto degli elaborati tecnici di parte va aggiunto che il giudice non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi formulati nella consulenza tecnica che è atto difensivo di parte, quando indichi, con esauriente e congrua motivazione, le ragioni della decisione adottata fondandola su molteplici elementi probatori, che rendono superfluo un particolare approfondimento delle osservazioni del consulente di parte (Sez. 5, n. 42821 del 19/06/2014, Ganci, Rv. 262111; Sez. 6, n. 8716 del 13/01/1978, Coppola, Rv. 139526).
La consulenza tecnica, infatti, costituisce solo un contributo specialistico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve necessariamente prendere in esame in modo autonomo.
7.2. Ricollegandosi a quanto esposto in precedenza in tema di elementi costitutivi del disastro, va ricordato che si tratta di reato causalmente orientato, in cui la condotta era attuata mediante il prosieguo dell'attività produttiva, proseguita senza che i funzionari addetti si occupassero del problema.
L'evento non è prefigurato dalla legge, in quanto la norma è tipizzata solo sotto il profilo della dimensione del danno.
Nella fattispecie in esame, il reato è caratterizzato come permanente, in quanto attuato mediante una condotta prolungata e progressiva, mediante il prosieguo delle attività di inquinamento e di sversamento, via via incrementatesi, senza poter configurare un momento dal quale le successive condotte non rilevassero sotto il profilo penale. L'allargamento della falda persisteva e proseguiva, giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità, anche a causa delle tubature fatiscenti e della mancata adozione di sistemi efficaci a contenerla.
L'aggravamento della contaminazione si perpetrava nel tempo e non rilevava la riduzione dell'entità dell'incremento rispetto alle pregresse epoche.
Come si preciserà nel paragrafo dedicato alla posizione di garanzia del C., emergeva un obbligo immediato, per legge, di adozione dei rimedi necessari ad impedire il prosieguo della contaminazione, senza dover attendere le decisioni degli enti territoriali, e non di mera comunicazione agli stessi delle problematiche riscontrate.

8. Col nono motivo del ricorso presentato dall'avv. Santa Maria nell'interesse del C., si osserva che la barriera idraulica installata costituiva un rimedio efficace ai fini della riduzione dell'inquinamento, occorrendo solo pochi pozzi per ottimizzarla gradualmente.
I giudici di merito hanno evidenziato che, sino al maggio 2008, la Solvay aveva predisposto una modesta barriera idraulica costituita da quattro pozzi; essi pompa­vano una quindicina di mc/h di acqua dalla prima falda, inviandola all'impianto di trattamento, a fronte di una portata dell'acquifero superficiale che, sommata a quella dell'alto piezometrico, era di circa 400 mc/h.
Inoltre, in base ai risultati esposti dalla ENSR di Milano (consulente ambientale per conto della Solvay) nel c.d. monitoraggio (mai consegnato agli enti di controllo e acquisito dal NOE), le Corti di assise avevano ritenuto inefficace la barriera idraulica predisposta dalla Solvay, la quale, secondo gli enti territoriali preposti, doveva essere inserita in un modello di intervento organizzato nelle fasi di approfondimento progressivo delineate dal D.M. n. 471 del 1999.
Nella sentenza impugnata si è osservato che, nonostante l'ingente spesa, le perdite della rete idrica non si erano ridotte in modo molto significativo almeno fino al 2008 e che i testi concordemente avevano escluso l'avvenuta esecuzione all'interno dello stabilimento di lavori di ricerca e di risoluzione delle perdite dell'impianto idrico; inoltre, gli stessi C. e CA. avevano riferito che, per effetto dell'esecuzione dei predetti lavori, la riduzione delle perdite aveva superato il 50%. Secondo la Corte torinese, il raggiungimento di tale ottimo risultato nel ristretto arco temporale di pochi mesi confermava la mancanza di iniziative negli anni pregressi.
La Corte territoriale ha chiarito che, in base al monitoraggio delle acque sotterranee del luglio 2006 - agosto 2007 effettuato dalla ENSR (mai consegnato agli enti di controllo e acquisito dal NOE) e alla valutazione contenuta in un documento della Aquale del novembre 2007, la causa della contaminazione profonda era stata individuata nella «discontinuità del setto argilloso, aumento del gradiente verticale dovuto all'alto piezometrico e al cono di richiamo dei pozzi industriali»; la contaminazione, peraltro, era evincibile dalle analisi dell'acqua prelevata da una serie di pozzi interni ed esterni all'area industriale, svolte nel periodo tra il 1956 ed il 1962 (vedi il c.d. «libretto nero» con le concentrazioni di cromo e la deposizione della dr.ssa Chiara C., geologa alle dipendenze della ENSR, all'udienza del 27 maggio 2013) ed allegate al Piano di Caratterizzazione della ENSR con quelle del periodo 2004 - 2007 di acque dei pozzi industriali, che pescavano in una falda non superficiale, da trenta a centosette metri.
In sostanza, con una motivazione esauriente ed articolata, priva di vizi logici e giuridici, la Corte territoriale ha dato conto della sussistenza dell'inquinamento da decenni e della natura tardiva e parziale del rimedio della barriera idraulica per eliminarlo, escludendo la possibilità di ricollegare l'inadeguatezza dello stesso ai presunti comportamenti infedeli della ENSR. In proposito, si è specificato che già nel 2004 presso il sito di Bussi era stata scoperta una frode più o meno analoga, di gravità così elevata da giustificare l'immediato azionamento di un ritardo contrattuale nei confronti della venditrice Edison nonché la presentazione di una querela per truffa. Al contrario, la Solvay non programmava iniziative nei confronti della ENSR, società con cui proseguiva il rapporto lavorativo di consulenza ambientale fino all'ottobre del 2007, per poi essere sostituirla con la Environ.
La Corte di assise di appello ha rilevato che, contrariamente all'assunto difensivo, il C. e gli altri soggetti titolari di posizione di garanzia avevano scoperto la reale situazione del sito non nel 2007, bensì molti anni prima.
9. Col diciottesimo motivo del ricorso proposto dall'avv. Bolognesi e del sesto motivo di ricorso presentato dall'avv. Santa Maria, entrambi nell'interesse del C., si deduce l'insussistenza della posizione di garanzia di tale imputato. Col settimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria, sempre a sostegno della tesi della mancanza di una posizione di garanzia, rileva che l'unico soggetto tenuto alla bonifica di un sito inquinato non è il proprietario, bensì il responsabile dell'inquinamento come previsto dagli artt. 17, comma 13-bis, D. lgs. n. 22 del 1997 e 9 D.M. n. 471 del 1999. Col dodicesimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria esclude ogni efficienza causale dell'omessa trasmissione dei dati relativi alla qualità dell'acqua dei pozzi industriali alla produzione dell'evento lesivo, rileva che i dati non erano indicativi del grado dell'inquinamento e che le analisi non erano state inviate alle autorità pubbliche, perché occorreva prima comprenderne il significato.
9.1. La Corte territoriale ha sottolineato che il C. partecipava agli incontri
con gli enti e coi consulenti dell'azienda e prendeva decisioni concordemente col CA. e col G.; ha escluso di potergli attribuire un ruolo meramente consultivo, in quanto la società madre aveva inviato un tecnico esperto, di posizione di vertice, non certo per consentire che il responsabile CA. e il direttore di stabilimento G. ne criticassero i consigli.
Secondo la difesa dal contenuto dell'intercettazione n. 214 del 30 luglio 2008 emergerebbe la sussistenza di contrasti tra il C. e gli altri tecnici (C., B.e interlocutori stranieri), che non avrebbero condiviso i suoi suggerimenti su come procedere; ad avviso dei giudici di merito, invece, si evinceva che il CA. e il C. avevano falsamente sostenuto di essere stati all'oscuro della doppia versione di uno studio fondamentale, inerente specificamente ed esclusivamente il loro settore e la procedura di bonifica, che in quel momento stava impegnando l'azienda. Si comprendeva che proprio questi ultimi due avevano ordinato all'Environ di omettere la parte del documento relativa alla falda profonda; lo stesso C. aveva ammesso nel corso dell'interrogatorio del 22 aprile 2009 di conoscere i dati relativi alle analisi sul c.d. inquinamento della falda profonda, ma di non essere competente a trasmetterli agli enti.
Il dr. Aldo T., l'ing. ambientale C.D.C. e l'ing. S.B. lasciavano intendere che, per prassi, i dati circa la contaminazione della falda profonda non erano forniti immediatamente agli enti per diversi anni, occorrendo prima comprenderne il significato. Tali condotte violavano l'obbligo di immediata informativa di cui al D. lgs. n. 152 del 2006 e al D. lgs. n. 22 del 1997. Il C., quindi, era perfettamente consapevole, se non artefice, delle scelte societarie di non ottemperare al dovere di comunicazione alle autorità pubbliche.
Alla luce del ruolo effettivamente svolto in concreto, pertanto, non rilevava la tematica relativa all'esatta qualifica di responsabile del centro di competenza HSE degli stabilimenti Solvay - Solexis o di Coordinatore dell'HSE di Solvay S.A., funzione corporate della Holding belga.
Nelle organizzazioni societarie complesse, infatti, possono assumere posizioni di garanzia anche organi di livello superiore, con funzione apparentemente solo consultiva, ove sia ravvisabile la loro reale partecipazione ai processi decisori, cioè la loro ingerenza nelle scelte decisionali e nell'ambito operativo della società (Sez. 4, n. 55005 del 10/11/2017, Pesenti, Rv. 271719).
9.2. Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del C., deve escludersi che l'unico soggetto responsabile alla bonifica del sito inquinato sia il responsabile dell'inquinamento.
Al riguardo, va richiamato il D.M. del 25 ottobre 1999, n. 471, che, in attuazione del D. lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, prevede «[ ...] i criteri, le procedure e le modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'art. 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modifiche ed integrazioni [...]» (art. 1).
All'art. 7 del D.M. n. 471 del 1999, infatti, è previsto «1. Chiunque cagiona, anche in maniera accidentale, il superamento dei valori di concentrazione limite accettabili di cui all'articolo 3, comma 1, o un pericolo concreto e attuale di superamento degli stessi, è tenuto a darne comunicazione al Comune, alla Provincia e alla Regione non­ché agli organi di controllo ambientale e sanitario entro le quarantottore successive all'evento. [ ...] Entro le quarantotto ore successive al termine di cui al comma 1, il responsabile della situazione di inquinamento o di pericolo di inquinamento deve co­municare al Comune, alla Provincia e alla Regione territorialmente competenti gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza adottati e in fase di esecuzione. [...] Entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 2, il Comune o, se l'inquinamento interessa il territorio di più comuni, la Regione verifica l'efficacia degli interventi di messa in sicurezza d'emergenza adottati e possono fissare prescrizioni ed interventi integrativi [ ...]».
Nella fattispecie, pertanto, pur in presenza di un inquinamento pregresso, di natura «storica», non a loro imputabile, la Ausimont e la Solvay, dopo aver assunto la gestione del sito nei rispettivi periodi, constatato il prosieguo della contaminazione e dei vari fenomeni di lisciviazione e di solubilizzazione, avrebbero dovuto direttamente adottare i rimedi per scongiurare pericoli alle persone e all'ambiente e, solo successivamente, comunicarli agli enti territoriali competenti, eventualmente anche interrompendo la produzione e gli sversamenti nel sito. L'intervento delle autorità pubbliche, pertanto, si realizza solo a seguito delle comunicazioni circa i rimedi attuati ed in corso di espletamento, nel caso in cui non siano ritenuti inidonei.
9.3. Secondo i giudici di merito, poiché il C. era pienamente consapevole dello stato del sito, avrebbe dovuto comunicare l'esito delle analisi dei dati relativi alla qualità. Tale condotta omissiva, pertanto, si poneva in rapporto di stretta causalità con l'evento lesivo, unitamente alle ulteriori condotte contestategli; la Corte torinese ha logicamente escluso la necessità di un approfondimento del significato dei dati prima di trasmetterli, trattandosi di elementi obiettivi, insuscettibili di diversa valutazione.
10. Col terzo motivo di ricorso il CA. deduce l'insussistenza di una sua posizione di garanzia e la natura meramente esecutiva del ruolo da lui ricoperto.
La Corte di assise di appello ha dato atto della posizione rivestita dal CA. di addetto alla funzione PAS dello stabilimento di Spinetta Marengo fin dal 1993 al 1995 sotto la gestione della Ausimont, dello stesso incarico in HSE col subentro della Solvay, nonché della promozione intervenuta il 1° gennaio 2004, quale responsabile anche di HSE centrale di Solvay Solexis.
Nella sentenza impugnata, per la continuità degli incarichi del CA. presso lo stesso sito e per il suo cursus honorem si è ritenuta dimostrata la sua posizione di tecnico di elevata competenza, in grado di collaborare coi consulenti esterni delle due aziende (ENSR e poi Environ) e coi responsabili di Ausimont e di Solvay.
Secondo la Corte territoriale, il CA. essendosi concretamente occupato della gestione ambiente delle due aziende, doveva conoscere i dati relativi al sito; inoltre, il B. o il C. non avrebbero potuto decidere di rapportarsi con una persona ignara su tali dati e incapace di leggerli. Il CA., peraltro, dipendeva direttamente dagli amministratori delegati.
L'addebito al CA. riguardava il periodo dal dicembre 1999, entrata in vigore del D.M. attuativo della legge Ronchi, al 2008, cioè nell'epoca di svolgimento della sua funzione presso l'Ausimont e la Solvay.
La sua posizione di garanzia derivava dalla funzione di responsabile del settore ambiente, prima PAS-Ausimont e dopo Solvay-HSE.
Se il CA. avesse adottato i necessari rimedi a contenere i fenomeni di inquinamento e avesse comunicato agli enti preposti il reale stato del sito, avrebbe scongiurato il verificarsi dell'evento. Al riguardo, va ricordato che, nei reati colposi omissivi impropri, l'addebito della responsabilità presuppone l'individuazione di una posizione di garanzia da cui discenda l'obbligo giuridico di impedire l'evento, il quale si caratterizza rispetto agli altri obblighi di agire in ragione della previa attribuzione al garante degli adeguati poteri di impedire accadimenti offensivi di beni altrui (Sez. 4, n. 22614 del 19/02/2008, Gualano, Rv. 239900).
Peraltro, come tutti i correi, il CA. è responsabile delle condotte attive di immissioni di materie inquinanti nel terreno e nelle falde acquifere. Egli, in ragione della propria qualifica, avrebbe potuto impedirne la prosecuzione, per cui la questione sollevata dalla difesa circa l'epoca di operatività del D.M. attuativo del D.lvo Ronchi appare del tutto irrilevante. Peraltro, il differimento stabilito dalla legge 28 luglio 2000, n. 224 al 31 marzo 2001 riguarda solo il termine di cui all'art. 9, comma terzo, D.M. 25 ottobre 1999, n. 471 per l'esecuzione delle opere di bonifica, ma non l'assunzione della posizione di garanzia a carico del proprietario o del soggetto interessato, tanto vero che è ivi prevista la possibilità per tali soggetti di provvedere anche anteriormente alla scadenza di detto termine. E, in ogni caso, la posizione di garanzia ha un contenuto ben più ampio rispetto all'esecuzione di tali opere.
Va altresì ricordato che, secondo i giudici di merito, Valeria Giunta, direttrice del laboratorio interno di analisi della Solvay a Spinetta Marengo, nel corso delle conversazioni intercettate n. 10 del 16 luglio 2008 e n. 16 del 17 luglio 2008, mostrava enorme preoccupazione per i sequestri eseguiti dal NOE presso il suo ufficio e per la mancata comunicazione di dati agli enti su indicazione del CA.. Nel corso della testimonianza del 13 maggio 2013, la Giunta ammetteva di aver ricevuto in alcuni casi richieste del CA. di non scrivere dati relativi ai fluoruri e di aver appreso della mancata comunicazione di dati in altre occasioni.
11. Col quarto motivo di ricorso il G. deduce l'insussistenza della propria posizione di garanzia all'interno dello stabilimento Solvay.
La Corte di assise di appello ha evidenziato che il G. aveva ricoperto la carica di direttore dello stabilimento di Spinetta Marengo dal luglio 2003 al dicembre 2007, durante la gestione Solvay e che il ruolo propulsivo per eliminare l'inquinamento spetta alla società titolare dell'azienda tramite i suoi incaricati.
Nella sentenza impugnata i lavori di manutenzione straordinaria svolti sotto la sua gestione sono stati ricollegati alle perdite delle tubazioni che implementavano, in continuo crescendo, l'alto piezometrico. Al riguardo, si è richiamata l'edulcorazione dell'entità dell'inquinamento rispetto alla realtà - anche durante la gestione Solvay - e l'accettazione da parte del medesimo della funzione di direttore dello stabilimento con delega in materia di "questioni ambientali", di primaria importanza per la tipologia di produzione chimica in questione, per la quale occorrono reiterati controlli analitici.
Alla luce del rilievo del ruolo ricoperto e della posizione della Solvay di leader mondiale del settore, la Corte territoriale ha escluso che il G. potesse dedurre di essere ignorante in materia ambientale e di non essersi reso conto della totale inadeguatezza della procedura di bonifica (peraltro avviata solo con "caratteristiche cartacee") e di decidere di affidarsi totalmente ai responsabili di HSE. In caso contrario, si sarebbe dovuto lamentare - e ciò non è avvenuto - di essere stato ingannato da loro in merito alle reali condizioni del sito.
Il ricorrente nega l'esistenza di sue attribuzioni in materia di ambiente e l'esclusiva competenza in tale settore dei responsabili di HSE.
In contrario, va osservato che il direttore di stabilimento è responsabile anche in relazione al settore ambiente, altrimenti non potrebbe neanche garantire la sicurezza dei lavoratori dalle contaminazioni e dalle immissioni di sostanze inquinanti, compito di tutela integrante un'altra sua specifica attribuzione (vedi, per riferimenti, Sez. 4, n. 13858 del 24/02/2015, Rota, Rv. 263287; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259228).
Non è emerso, d'altronde, il conferimento ad altro soggetto interno allo stabili­mento di una delega esclusiva in materia di ambiente. Né il ricorrente indica chi sarebbe stato delegato al suo posto.
Il direttore dello stabilimento di una società per azioni, quale nella specie era l'imputato, è destinatario iure proprio, al pari del datore di lavoro, dei precetti antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega di funzioni, in quanto, in virtù della posizione apicale ricoperta, assume una posizione di garanzia in materia antinfortunistica a tutela della incolumità e della salute dei lavoratori dipendenti (Sez. 4, 07/02/2012, Pittis, Rv. 255001). Il compito del direttore dello stabilimento non si esaurisce nella predisposizione di adeguati mezzi di prevenzione e protocolli operativi, essendo lo stesso tenuto ad accertare che le disposizioni impartite vengano nei fatti eseguite e ad intervenire per prevenire il verificarsi di incidenti, attivandosi per far cessare eventuali manomissioni o modalità d'uso pericolose da parte dei dipendenti o il mancato impiego degli strumenti prevenzionali messi a disposizione. Il suo compito di tutela della sicurezza del lavoratore non può essere arbitrariamente delimitato alla sola materia antinfortunistica ed escluso in relazione a quella ambientale. Proprio in una struttura articolata e complessa quale la Solvay i predetti obblighi possono e devono gravare, anche sul direttore di stabilimento, soprattutto quando, come nel caso in esame, egli sia dotato di ampi poteri. Sono a lui imputabili anche le carenze organizzative di carattere generale (Sez. 4, n. 13858 del 2015, cit.).
A ciò va aggiunto che, anche secondo il teste D.P.S. (coordinatore di progetto del sito di Spinetta Marengo dal 2003 al 2007), il G. partecipava attivamente alle riunioni col CA. e col C. e assumeva formalmente la responsabilità per le decisioni prese concordemente coi vertici aziendali (vedi sul punto la sentenza di primo grado).
12. Col secondo motivo di ricorso il B. deduce l'insussistenza della propria posizione di garanzia e l'impossibilità di individuare una condotta omissiva a lui rimproverabile nonché il travisamento della testimonianza del dr. Pietro A., dipendente ENSR e coautore del Piano di Caratterizzazione del 2001.
La Corte di assise di appello ha rilevato che il B. aveva ricoperto il rilevante ruolo di responsabile centrale funzione ambiente (PAS) per tutti i siti industriali Ausimont s.p.a. dal 2000 al 2002 e, in tale qualità, informava direttamente l'amministratore delegato di tutte le problematiche ambientali.
Secondo la Corte territoriale, il B. rivestiva una posizione sovraordinata rispetto ai responsabili PAS di stabilimento, non occorrendo quindi nessuno specifico ordine di servizio in tal senso: possedeva un'elevata esperienza nel settore dell'ambiente ed era nominato nel periodo immediatamente successivo all'entrata in vigore del decreto ministeriale attuativo del decreto c.d. Ronchi, che prevedeva le prime autodenunce e l'obbligo di predisporre e trasmettere agli enti pubblici i primi piani di caratterizzazione del sito. Sebbene privo di poteri di spesa, in forza del ruolo rivestito e delle sue notevoli conoscenze guidava e correggeva i responsabili PAS dei singoli stabilimenti, affrontando le specifiche criticità; manteneva, inoltre, i contatti diretti coi consulenti esterni in materia ambientale.
Nella sentenza impugnata si è evidenziato che, tenuto conto di tale assetto aziendale, il B. non poteva sostenere di essere estraneo alla formazione e alla predisposizione dell'autodenuncia e del primo Piano di Caratterizzazione trasmesso agli enti e contenente notizie non veritiere sullo stato del sito. Il B. non aveva mai indicato all'amministratore delegato C.C. interventi idonei a contenere o ad eliminare la contaminazione, chiedendone il finanziamento. Tenuto conto della sua condizione di lavoro, a stretto contatto col CA., memoria storica dello stabilimento di Spinetta Marengo in quanto responsabile PAS dal 1993, non poteva sostenere di ignorare lo stato di inquinamento del sito.
La Corte territoriale ha sottolineato che il ruolo del B. non era evanescente e privo di contenuto operativo, altrimenti non avrebbe avuto titolo per ricevere la proposta metodologica ed economica per l'esecuzione dell'indagine di caratterizzazione ambientale del sottosuolo dello stabilimento Ausimont di Spinetta Marengo in data 28 novembre 2000, la bozza finale del Piano di Caratterizzazione in data 4 aprile 2011, il fax relativo alle concentrazioni di arsenico e il documento definitivo dei siti di Spinetta e Bussi in data 16 maggio 2001.
Egli, peraltro, aveva deciso di omettere completamente dal primo Piano di Caratterizzazione le discariche contenenti rifiuti tossico-nocivi oltre ai «cumuli» e di avvisare gli enti territoriali della sola esistenza di discariche autorizzate, ma per altra tipologia di rifiuti. La notizia della scelta di non informare le autorità pubbliche derivava dalle dichiarazioni del dr. Pietro A. (consulente della ENSR e coautore del Piano di Caratterizzazione del 2001) e della dr.ssa Chiara C. (dipendente della ENSR) nonché dal contenuto degli appunti di quest'ultima; la dr.ssa C. dava atto altresì che il B. partecipava alle riunioni tra i rappresentanti dell'azienda e i consulenti, a conferma del suo ruolo operativo e di sovraordinato, tanto che al riguardo l'ing. ambientale C.D.C., dipendente prima della Ausimont e poi della Solvay, lo indicava quale capo del CA.. L'ing. DC., peraltro, riferiva che il CA. e la dr.ssa C. erano stati incaricati di esaminare i certificati, i quali, secondo una prassi anomala, erano stati realizzati in più versioni. Il B., d'altronde, ammetteva di aver richiesto ai funzionari ENSR - la dr.ssa C. e il P.i (superiore di quest'ultima assieme all'A.) - di raccogliere informazioni sull'eventuale attività di messa in sicurezza di alcuni terreni dell'astigiano, risultanti da notizie di stampa fortemente inquinati per cromo VI, nonché di conoscere quantomeno del cromo esavalente nel sito di Spinetta Marengo.
Vanno altresì richiamate sul punto le indicazioni di vari testi circa la sovraordinazione del PAS centrale rispetto al direttore di stabilimento e, in particolare, quelle rese da Pio DI., dirigente responsabile della funzione tecnologie tra il 1995 e il 1999, da Giuseppe A., componente di PAS centrale tra il 1994 e il 1999 e dall'ing. ambientale C.D.C., dipendente di Ausimont dal 2000, tanto che quest'ultima lo qualificava espressamente come capo del CA. (vedi sentenza di primo grado).
La Corte torinese, quindi, ha correttamente applicato il principio sancito da questa Corte, secondo cui, in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia - che può essere generata da investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipi­che delle diverse figure di garante - deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere - dovere di protezione dello specifico bene giuridico che necessita di protezione, e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, n. 38624 del 19/06/2019, B., Rv. 277190; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Piccioni, Rv. 277629). Il B. ha comunque assunto la gestione del rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto (Sez. 4, n. 34975 del 29/01/2016, Biz, Rv. 267539; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, dep. 2016, Bearzi, Rv. 265797).
Al di là di un'assunzione formale della posizione di garanzia (che in ogni caso esisteva), la fonte dell'obbligo giuridico può radicarsi in molte situazioni della vita quotidiana in cui di fatto si realizza un contatto fra consociati in cui uno dei due assume per impegni contrattuali pregressi, di fatto ed anche spontaneamente un ruolo di garanzia rispetto all'altro.
Ciò è riscontrabile nel caso di specie, in cui - al di là delle investitura formale - evidentemente il B., per il proprio ruolo dirigenziale e per gli atti concretamente intrapresi e per quelli scientemente omessi, assumeva un obbligo di garanzia rispetto a quella data fonte di pericolo (inquinamento di terreni, acque e falde) di un bene costituzionalmente garantito qual è l'incolumità pubblica.
La Corte di secondo grado ha illustrato adeguatamente le ragioni dell'infondatezza dei plurimi rilievi difensivi, escludendo la natura meramente consultiva del ruolo del PAS nonché dando atto della concreta ingerenza del B. nelle problematiche ambientali specifiche del sito e della mancata comunicazione di dati conoscitivi essenziali alle autorità preposte.
12.1. Deve poi escludersi che l'organo giudicante abbia travisato la testimonianza del dr. Pietro A..
Inizialmente, il dr. A. riferiva di aver ricevuto dall'ing. L.C., direttore dello stabilimento dell'epoca, la direttiva di escludere le discariche dal Piano di Caratterizzazione, perché soggette ad un autonomo piano di verifica e di controllo e di non ricordare se il B. avesse impartito analogo ordine. Dopo l'indicazione in aiuto alla memoria secondo cui il B. e l'ing. L.C. erano a conoscenza del reale contenuto delle discariche, ovvero che contenessero quasi esclusivamente rifiuti tossico-nocivi, sia in risposta al Presidente del Collegio sia al difensore (in sede di controesame), il dr. A. riferiva che se tale dichiarazione era riportata a verbale evidentemente si era espresso in detti termini (vedi il verbale di udienza del 12 giugno 2013 allegato ad alcuni ricorsi), così confermando per due volte la piena conoscenza della situazione da parte del B..
Né una diversa soluzione può rinvenirsi sulla base del commento reso dalla dr.ssa dr.ssa Chiara C., secondo cui la barriera idraulica era localizzata solo in uno dei punti critici e che altre situazioni ugualmente difficoltose erano state tralasciate:
«Ipotesi sbarramento Pl +P2+P3+P4 solo a valle, tralasciamo altri interventi in aree critiche»; tale sua indicazione era da lei riassunta in un foglio di appunti del 27 gennaio 2003 ed attribuita al B. (vedi pag. 128 della sentenza di primo grado). Tale vicenda comprovava la scelta di intercettare il 5% della falda freatica tramite la barriera idraulica, del tutto inefficace a risolvere la problematica in questione.
La dr.ssa Ch., d'altronde, non era ritenuta pienamente credibile, avendo reso dichiarazioni contraddittorie sulla separazione tra le falde e sulla conoscenza dell'esistenza dei rifiuti tossico-nocivi (vedi pag. 257 della sentenza di primo grado). In ogni caso riferiva della presenza del B. durante la prima fase dei rapporti con la Ausimont, anche se non ricordava il ruolo da lui svolto.
13. Col terzo motivo di ricorso il B. contesta l'esistenza del nesso causale tra il presunto mancato compimento di interventi idonei a tentare di contenere o di eliminare la contaminazione e l'evento di disastro.
Come già analizzato nei precedenti paragrafi, la Corte di assise di appello ha evidenziato la sottovalutazione da parte del B. dei numerosi segnali d'allarme manifestatisi da tempo remoto, quali l'inquinamento della falda profonda, l'espansione dei contaminanti al di fuori del sito industriale, l'esistenza dell'alto piezometrico con effetto radiale e l'entità delle perdite che lo causavano, senza informarne gli enti territoriali in modo completo e chiaro e senza proporre agli amministratori della Ausimont idonee azioni di contrasto.
Egli, mediante i predetti comportamenti e, in primis, la redazione del primo Piano di Caratterizzazione, contribuiva al prosieguo della contaminazione del sito, per cui sin da tale epoca avrebbe potuto impedire la prosecuzione dell'evento lesivo.

14. Col quarto motivo di ricorso il B. rileva l'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 449 cod. pen..
Al riguardo, va osservato che, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, la Corte torinese ha enucleato plurimi profili di rimproverabilità nelle condotte del B., desumibili dall'effettiva conoscenza dello stato del sito, dalla mancata adozione di rimedi idonei a fronteggiare l'inquinamento e dalla consapevole scelta di non comunicare dati allarmanti sullo stato del sito alle autorità preposte.

15. Coi motivi di ricorso dal diciannovesimo al venticinquesimo il C. (avv. Bolognesi) rileva l'insussistenza dell'elemento soggettivo del reato per mancata conoscenza da parte del proprio assistito dello stato di contaminazione del sito; col terzo e col quarto motivo di ricorso, il CA. deduce di aver ignorato la criticità della situazione e di aver manifestato l'intento di voler risolvere le problematiche della contaminazione della falda superficiale sottostante allo stabilimento e i rischi di una sua estensione nelle aree esterne.
La Corte torinese, con una valutazione dei fatti coerente, argomentata ed aderente alle risultanze probatorie, ha affermato, con un giudizio insindacabile in questa sede, la sussistenza dell'elemento soggettivo in capo al C. in base alla circostanza che l'azienda Solvay a Spinetta Marengo si esprimeva ed agiva a mezzo di lui e degli altri suoi rappresentanti CA. e G.. Ciò emergeva dalla presumibile completa conoscenza delle notizie fornite dalla Ausimont; in caso contrario, la presenza del C. per seguire il sito non sarebbe stata necessaria. Al riguardo, il giudice a quo ha rilevato che, in tal caso, persino il CA. "memoria storica del sito" avrebbe dovuto nascondere le condizioni dello stabilimento di Spinetta Marengo.
Il C., peraltro, partecipava alle riunioni con gli enti e coi consulenti dell'azienda. Egli, oltre al primo Piano di Caratterizzazione del 2001, conosceva i dati delle analisi chimiche sull'inquinamento anche della seconda falda (dai trenta ai settanta metri) e, grazie alla propria elevata competenza, era in grado di interpretarli e di comprendere anche la circostanza della mancata completa separazione delle falde. La Corte di assise di appello ha sottolineato che il primo Piano di Caratterizzazione completo, trasmesso agli enti nel 2009, dopo l'inizio dell'indagine di cui al presente processo, si fondava sulle analisi chimiche dell'azienda risalenti agli anni 2004, 2005 e 2007, per cui il C. era evidentemente pienamente consapevole della grave contaminazione del sito e della zona limitrofa ed aveva omesso di proporre o di effettuare interventi utili idonei a contenere o a ridurre l'inquinamento.
Nella sentenza impugnata è stato chiarito che, nel colloquio intercettato del 29 maggio 2008, il C. discuteva con C.M., responsabile del personale Solvay dell'esigenza di affidare al CA., indagato per lo scandalo di Bussi sul Tirino, un nuovo ruolo più defilato, per evitare di compromettere l'immagine dell'azienda; nonostante la provenienza del CA. dalla Ausimont, egli non era criticato dal C. per non averlo informato dello stato del sito.
Nella conference call del 30 luglio 2008, col C., con l'ing. S.B., direttore di stabilimento succeduto al G. il 1° aprile 2008, e con tali Do. e P., il C. chiariva di conoscere i dati della falda acquifera, ma decideva che, prima di comunicarli alle autorità, occorreva svolgere ulteriori accertamenti nonostante il diverso disposto di cui al decreto Ronchi ed alla normativa ambientale; si comprendeva dal colloquio che il C. aveva dettato la linea difensiva della Solvay, al fine di difendersi dalle accuse di ritardi provenienti dall'Arpa nelle attività di decontaminazione, evidenziando cosa si «dovesse dire» per giustificarsi (ad esempio, che occorreva sostenere di essere convinti dell'efficacia della barriera idraulica attuale).
Come riferito dal B. ed emerso in tale ultima conversazione, il C. aveva ricevuto notizia del documento Environ. Il dr. Aldo T. chiariva di non aver inserito i dati di superamento di DDT, DDE, DDD, arsenico e della falda superficiale, perché il C. e il CA. lo avevano invitato a non riportarli.
Il CA. lasciava proseguire la contaminazione di acque e terreni; ammetteva di non aver ufficializzato dati di rilievo circa l'inquinamento del sito, che, in ragione del suo ruolo dirigenziale, di alto profilo all'interno del sito, e dei compiti di rilievo esterno per la società di appartenenza (vedi la rappresentanza esterna conferitagli dalla Solvay per partecipare alle Conferenze di Servizi) avrebbe dovuto esternare.
Tali risultanze trovavano conferma nelle deposizioni testimoniali: all'udienza del 27 maggio 2013, la dr.ssa C. spiegava di interloquire con maggiore frequenza col CA. e col C. e che, in particolare, il CA. presidiava tutto lo stabilimento, ma il C. probabilmente assumeva le decisioni finali; all'udienza del 3 giugno 2013, il suo superiore D.P.S. dichiarava di aver ricevuto quali principali riferimenti aziendali il CA. e il C. e, sia pur con qualche iniziale difficoltà, chiariva che la parola di quest'ultimo aveva un «peso maggiore».
In base a tali elementi, la Corte territoriale, con motivazione immune da vizi logici o giuridici, ha compiutamente accertato la colpa del C., avendo dimostrato la violazione delle regole cautelari da parte del medesimo e la rilevanza della loro inosservanza ai fini della produzione dell'evento di disastro.
La tesi difensiva, secondo cui la presunta conoscenza del C. e del CA. del reale stato del sito derivava da congetture va del tutto disattesa, poiché la motivazione del provvedimento impugnato è congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell'iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum.
Al contrario, le difese del C. e del CA. non articolano argomentazioni, pro­spettabili in sede di legittimità, idonee a confutare il quadro probatorio rappresentato dalla Corte territoriale.
I limiti che presenta nel giudizio di legittimità il sindacato sulla motivazione, infatti, si riflettono anche sul controllo in ordine alla valutazione della prova, poiché, diversamente, anziché verificare la correttezza del percorso decisionale dei giudici di merito, alla Corte di Cassazione sarebbe riservato un compito di rivoluzione delle acquisizioni probatorie, sostituendo, in ipotesi, all'apprezzamento motivatamente svolto nella sentenza impugnata, una nuova e alternativa valutazione delle risultanze processuali che ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio. Di qui il consolidato insegnamento (Sez. 5 n. 44914 del 06/10/2009, Basile, Rv. 245103; Sez. 6 n. 10951 del 10/03/2006, Rv 2337908) in forza del quale, alla luce dei precisi confini che circoscrivono, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen , il controllo del vizio di motivazione, la Corte non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi, sulla base del testo del provvedimento impugnato, a valutare se la giustificazione propugnata sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Non è, dunque, sindacabile in sede di legittimità, se la motivazione rispetta i canoni della coerenza della logica, la valutazione del giudice di merito al quale spetta il giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità delle fonti di prova, circa i contrasti dichiarativi o la scelta tra diverse versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 2, n. 29480 del 07/02/2017, Cammarata, Rv. 270519; Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623).
I vizi di motivazione evidenziati in ricorso si risolvono, quindi, in richieste, al giudice di legittimità, di effettuare una nuova valutazione del risultato della prova e di sostituirla a quella effettuata dal giudice di merito, analisi, quest'ultima, che invece si sottrae al sindacato di legittimità, se condotta nel rispetto dei canoni della logica e della completezza.
In tema di sindacato del vizio di motivazione, d'altronde, il compito del giudice di legittimità non consiste nel sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dal giudice di merito in ordine alle risultanze procedimentali, bensì di stabilire se, come nel caso in disamina, il giudicante abbia esaminato tutti gli elementi a sua disposizione, se abbia fornito una corretta interpretazione di loro, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbia esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Cass., Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203428).

16. Col ventottesimo motivo di ricorso il C. (avv. Bolognesi) rileva che le perdite idriche dalle reti sotterranee erano state contenute sin dagli anni precedenti al 2008, come era rilevabile in base alle dichiarazioni rese dagli stessi CA. e C., dai testi ing. B. ing. A.C., G.P. e G.F. nonché dal tecnico ing. Francesco ME., le quali erano state tutte travisate o non valutate dalla Corte territoriale.
Dalla lettura delle predette dichiarazioni, allegate dal ricorrente ai fini dell'autosufficienza, non emerge l'esecuzione di opere significative idonee ad eliminare le perdite in epoca anteriore all'inizio delle indagini.
La Corte alessandrina - con argomentazioni recepite dalla Corte di assise di appello - aveva evidenziato minuziosamente che le fatture acquisite agli atti concernevano spese per acquisti di materiali, di attività di manutenzione e di interventi di revisione di pompe dei pezzi industriali, i quali, stante la protrazione inalterata delle perdite idriche fino al 2008, evidentemente non avevano sortito nessun effetto o dovevano riguardare problematiche di natura diversa, escludendo i presunti travisamenti lamentati dal C..
Il CA. e il C., a specifica domanda, si limitavano a riferire di attività prodromiche dirette all'accertamento delle cause e non indicavano quali eventuali opere dirette ad eliminare le perdite idriche sarebbero state effettuate in epoca pregressa; essi riferivano solo di interventi per ridurre l'alto piezometrico del 60/70% effettuati nel 2008 o in seguito.
I lavori indicati dall'ing. A.C. - responsabile della manutenzione dello stabilimento di Spinetta Marengo dal 1989 al 2008 - concernevano perdite di acqua industriale, dell'antincendio e dei pozzi; egli chiariva che, a parte qualche intervento alle tubazioni (non documentato), attività significative volte ad eliminare le perdite erano eseguite solo dal 2008 in poi.
L'ing. S.B., direttore di stabilimento subentrato al G., sosteneva che ogni tipo di intervento svolto prima del 2008 era del tutto insufficiente per l'esistenza di problematiche di ragioni strutturali e per le difficoltà derivanti dal dispiegamento della rete di tubature per svariati chilometri; non riferiva di pregresse significativi interventi tecnici per rimediare alla problematica insorta.
Le dichiarazioni dell'ing. Francesco ME., consulente del C., erano ritenute troppo vaghe e generiche circa la tipologia degli interventi effettuati per essere ritenute rilevanti e comunque escludeva il compimento di interventi operativi specifici. La Corte di primo grado, peraltro, ha indicato in dettaglio le ragioni delle rettifiche dei calcoli da lui effettuati in ordine agli ordini di spesa per acquisti, escludendo per la maggior parte che si trattasse di danaro impiegato per le attività di ricerca delle ragioni delle perdite idriche.
Non emerge nessun travisamento delle dichiarazioni di G.P., direttore dei servizi ausiliari alla produzione (SAP) tra il 1994 e il 1999, e di G.F., direttore dal 1979 al 1996 dell'impianto di Algofrene, le cui dichiarazioni erano state riportate, previa indicazione dei rispettivi periodi di svolgimento dell'attività lavorativa, solo per evidenziare l'epoca vetusta dell'impianto idrico e l'esigenza di immediate riparazioni.
Anche l'interpretazione della Corte di primo grado circa il significato delle indicazioni dell'ing. E.M., impiegato dal 1989 al 2008, sull'assenza di lavori di manutenzione appare corretta: era riportato integralmente il contenuto delle sue dichiarazioni, nella parte in cui riferiva che le opere straordinarie, comportanti veri e propri investimenti, non erano di sua competenza, ma si dava atto che comunque egli non ricordava della loro esecuzione. E ciò ovviamente è stato ritenuto significativo, perché logicamente egli non poteva non accorgersene.

Al riguardo, peraltro, va osservato che la carenza di manutenzione della rete idrica era correttamente desunta: a) dalle remote segnalazioni di Cosimo C. - dipendente del reparto trattamento - risalenti al 23 e al 28 settembre 2005, in cui riferiva a vari dirigenti, tra i quali il CA., di perdite sistematiche di cloroformio e di interventi in extremis, per evitare che uno sversamento di ossido ferico colorasse di rosso la Bormida; b) dalle mail del 14 marzo e del 21 maggio 2007 di Stefano A. - capo reparto trattamento effluenti - che lanciava un grido di allarme a vari dirigenti, tra i quali il CA. e il G., circa le maggiori difficoltà conseguenti alla scarsità delle risorse messe a disposizione per l'esecuzione dei lavori, le tre perdite macroscopiche di acque industriali, che facevano innalzare il livello della falda, nonché il mancato funzionamento di quasi tutte le valvole di intercettazione (con foto allegate dalle quali emergeva il sottosuolo saturo di acqua a poche decine di centimetri dalla superficie); e dalle mail del 22 e del 27 dicembre 2005, contenenti dettagli su due punti in cui perdeva la linea trattamenti effluenti (definita «bucata»); c) dalle mail del 2 agosto 2002, del 12 ottobre 2006 e del 26 marzo 2008 dell'ing. Stefano C. - dirigente responsabile dell'impianto di Montomeri - in cui rispettivamente informava della manutenzione necessaria e non più indifferibile di alcune linee di scarico presso il reparto termossidatori, del pessimo stato di manutenzione di alcuni impianti e di una perdita «aggiustata» col nastro isolante, che continuava a trafilare e non era mai seriamente riparata; d) dalle decine di mail inerenti alla pessima situazione manutentiva sito emerse dalle caselle di posta di Giovanni G., A.C., Paolo R., Luigi L. e Carlo C..

17. Col tredicesimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria nell'interesse del C. deduce l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche (n. 40 del 29 maggio 2008, n. 281 del 9 giugno 2008 e n. 214 del 30 luglio 2008), non sussistendo elementi per mutare l'originaria imputazione contravvenzionale nel delitto di disastro innominato colposo, alla luce della non veridicità del contenuto della relazione dell'Arpa del 20 maggio 2008, epoca in cui non erano stati ancora acquisiti i dati sul superamento dei limiti di potabilità e, pertanto, non sussistevano i gravi indizi di colpevolezza del reato di disastro innominato colposo.
Va premesso che, sin dagli inizi degli anni settanta, la Corte costituzionale precisava che il decreto con cui il giudice autorizza l'intercettazione telefonica deve contenere un'adeguata e specifica motivazione, a concreta dimostrazione del corretto uso del potere dal giudice esercitato (Corte Cost., sent. n. 34 del 04/04/1973) con la conseguenza che, in una materia incidente sui diritti fondamentali della persona, un provvedimento giurisdizionale privo di motivazione in senso grafico o con motivazione apparente configura una sorta di "antigiuridicità processuale" della prova, dalla quale inevitabilmente scaturisce l'inutilizzabilità dei risultati conseguiti attraverso l'inosservanza delle disposizioni richieste dalla legge per la corretta formazione del procedimento probatorio.
Ciò posto, la motivazione non può essere ritenuta apparente, essendo possibile dedurre dalla lettura dei provvedimenti autorizzativi l'iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice per la delibazione della richiesta: l'apparato argomentativo dimostra che il giudice aveva preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni della richiesta e le aveva meditate e ritenute coerenti con la sua decisione.
Da ciò consegue la piena utilizzabilità dei risultati probatori conseguiti con le intercettazioni disposte.
Appare rispettato il principio espresso da questa Corte, secondo cui la motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l'intercettazione di una determinata utenza telefonica, facente capo ad una specifica persona, indicando il collegamento tra l'indagine in corso e le persone intercettate, in modo da poter verificare il contenuto informativo ed argomentativo del provvedimento e la sua adeguatezza rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall'art. 15, comma secondo, Cost. (Sez. 5, n. 1407 del 17/11/2016, dep. 2017, Nascetti, Rv. 268900; Sez. 6, n. 12722 del 12/02/2009, Lombardi Stronati, Rv. 243241). La motivazione risulta del tutto congrua rispetto al provvedimento e non affetta da vizi che rendano non puntuale la giustificazione (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216665).
Il giudice per le indagini preliminari, con provvedimento completo ed esauriente, non meramente ripetitivo della richiesta del pubblico ministero, ha dato atto che dalla segnalazione dell'Arpa di Alessandria del 20 maggio 2008 e dall'allegata relazione tecnica emergeva nel complesso chimico una vasta zona con terreno e falda inquinati, contaminata da cromo VI, cromo totale, bromoformio, cloroformio, dibromoclorometano ed altro, in zona sottostante al c.d. ex zuccherificio e in prossimità del fiume Bormida; inoltre, dava atto dell'inquinamento dell'acqua somministrata a molte utenze della frazione di Spinetta Marengo e dell'acqua della falda profonda, per cui era ragionevole ipotizzare l'inidoneità della barriera idraulica collocata all'interno del perimetro dello stabilimento a svolgere efficacemente la funzione di drenaggio delle acque inquinate e il conseguente verificarsi di un fenomeno di dilavamento dei rifiuti stoccati nell'area del polo chimico.
L'intercettazione delle utenze telefoniche di alcuni dirigenti della Solvay Solexis era logicamente ritenuta necessaria per l'imponente entità del fenomeno di inquinamento, per la persistenza della contaminazione e per la mancata segnalazione formale da parte loro di tali dati allarmanti alle pubbliche autorità.
La gravità del quadro indiziario, quindi, era sufficientemente acclarata, non rilevando la mancanza degli esiti delle analisi delle acque sotterranee svolte dall'Arpa, occorrendo porsi nell'ottica della sussistenza della gravità indiziaria all'epoca delle intercettazioni, indipendentemente dalla circostanza che gli indizi si siano successivamente trasformati o meno in prova. La relazione in questione non riportava dati ancora sconosciuti o altri elementi non veritieri, bensì illustrava elementi indicativi della probabile fondatezza dell'ipotesi accusatoria, concludendo nei seguenti termini:
«Alla luce di queste considerazioni, se venisse confermata dagli approfondimenti idrogeologici la direzione di deflusso SE-NW, potrebbe essere plausibile una correlazione tra la presenza di cromo e solventi clorurati rilevati nel sito industriale di Solvay Solexis e la situazione di inquinamento riscontrata nell'area dell'ex zuccherificio. Parallelamente a questa interpretazione, si potrebbe avanzare come ipotesi la presenza di una fonte di bicromato interna o prossima all'ex zuccherificio che abbia generato una situazione di inquinamento localizzato, provocato ad esempio dall'utilizzo puntuale di terreno contaminato a scopo riempimento, che ha ulteriormente peggiorato lo stato qualitativo ambientale di una zona già altamente degradata».
In tema di intercettazione di conversazioni o comunicazioni, infatti, il presupposto della sussistenza dei gravi indizi di reato, non va inteso in senso probatorio (ossia come valutazione del fondamento dell'accusa), ma come vaglio di particolare serietà delle ipotesi delittuose configurate, che non devono risultare meramente ipotetiche (Sez. 3, n. 14954 del 02/12/2014, dep. 2015, Carrara, Rv. 263044). Si richiede una ricognizione sommaria degli elementi dai quali sia dato desumere la probabilità dell'avvenuta consumazione di un reato e non un'esposizione analitica, né tanto meno l'evidenziazione di un esame critico degli stessi (Sez. 6, n. 42178 del 07/11/2006, Froncillo, Rv. 235318).

18. Col ventinovesimo e col trentesimo motivo di ricorso il C. e col quinto il CA. osservano che era maturato il termine di prescrizione.
Alla luce di quanto esposto ai paragrafi precedenti in ordine alla condotta e all'evento del reato di disastro innominato, deve rilevarsi che nella fattispecie erano ravvisabili attività di inquinamento continuo e mai interrotto, omissioni di interventi impeditivi del medesimo nonché la protrazione dell'evento fino all'ultima contaminazione delle falde acquifere e che per ciascun imputato la data di consumazione doveva essere individuata in quella di cessazione dalla propria carica.
Trattandosi di reato permanente, il reato doveva essere considerato unico e valeva la data ultima di consumazione, apparendo irrilevante che la parte iniziale della condotta risalisse ad epoca anteriore all'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.
Non potendosi anticipare la data di consumazione a quella indicata dagli imputati, ne consegue che il termine di prescrizione non è maturato.

19. Con l'unico motivo di ricorso la Procura generale presso la Corte di appello di Torino censura il riconoscimento delle circostanze di cui all'art. 62 bis cod. pen..
Va premesso che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 7, Ord. n. 39396 del 27/05/2016, Jebali, Rv. 268475; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
Nel rispetto dei suindicati principi sopra richiamati, con motivazione non manifestamente illogica, la Corte territoriale ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche in considerazione dello stato di incensuratezza degli imputati, della natura lavorativa e non personale delle motivazioni a delinquere e dell'età avanzata.
La Corte torinese, pertanto, ha indicato plurimi fattori favorevoli agli imputati ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, legittimamente pretermettendo i pur significativi aspetti considerati dalla Procura ricorrente (le proporzioni straordinarie dell'evento distruttivo; l'estrema difficoltà di reversibilità della situazione ambientale; l'impressionante sforamento dei limiti di legge delle sostanze tossiche e/o cancerogene; l'inquinamento di masse enormi di terreno; le condotte ingannatorie degli imputati nei confronti degli enti preposti ai controlli; l'esistenza di depositi incontrollati e non autorizzati di rifiuti derivanti dalle lavorazioni industriali; la mancata impermeabilizzazione del terreno sottostante; l'omessa protezione delle sostanze dalle intemperie e dal rischio di percolamento; la presenza di cinque discariche di stoccaggio di rifiuti tossico-nocivi prive delle cautele dovute; la presenza dell'alto piziometrico, fenomeno in grado di alterare, in ragione delle sue imponenti dimensioni, il moto ordinario della falda; l'adozione di una doppia documentazione relativamente alle risultanze delle analisi chimiche; i ruoli apicali ricoperti dal CA., dal C. e dal G. nel settore del controllo ambientale).

20. Col trentunesimo motivo di ricorso l'avv. Bolognesi nell'interesse del C. e col sesto motivo di ricorso il CA. contestano l'entità eccessiva della pena applicata. Va rilevato che la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell'ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato intuitivamente e globalmente gli elementi indicati nell'art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).
Il giudice del merito esercita la discrezionalità che la legge gli conferisce, attraverso l'enunciazione, anche sintetica, della eseguita valutazione di uno (o più) dei criteri indicati nell'art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, dep. 2017, S., Rv. 269196; Sez. 2, n. 12749 del 19/03/2008, Gasparri, Rv. 239754).
Il sindacato di legittimità sussiste solo quando la quantificazione costituisca il frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico.
Tanto premesso sui principi operanti in materia, la commisurazione della pena è stata correttamente giustificata in riferimento alla massima gravità delle omissioni ascrivibili agli imputati, al disastro ambientale in corso ed allo sprezzo assoluto dell'incolumità pubblica.
Nella fattispecie, peraltro, la pena applicata non eccede la media edittale, e in relazione ad essa non era dunque affatto necessaria un'argomentazione più dettagliata da parte del giudice (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949).

21. Col primo motivo di ricorso la responsabile civile Solvay Specialty Polimers s.p.a. rileva che la Corte di assise appello si è limitata a confermare le statuizioni civili disposte nella sentenza di primo grado, reiterando le medesime argomentazioni ivi contenute.
Dalla lettura della sentenza impugnata, tuttavia, oltre ad una parziale ripetizioni delle argomentazioni esposte dal giudice di primo grado, la Corte di assise di appello ha diffusamente sviluppato una compiuta indicazione degli elementi prospettati dalla società responsabile civile, vagliandoli criticamente e rielaborandoli anche sotto i pro­fili letterale e logico.
In sostanza, la sentenza impugnata contiene un approfondito giudizio critico sulle ragioni giustificative della conferma delle statuizioni civili con motivazione indicativa di reale esercizio della giurisdizione, nei termini meglio specificati nei paragrafi seguenti.

22. Coi motivi di ricorso dal secondo al sesto la responsabile civile Solvay deduce che l'azione civile proposta dal Ministero dell'Ambiente era stata basata su fonti normative errate ed articolata su criteri risarcitori del danno ambientale non corrispondenti a quelli previsti dalle legge, i quali escludono del tutto ogni forma di risarcimento per equivalente pecuniario; inoltre, il danno ambientale, il danno non patrimoniale e il danno morale non erano stati dimostrati e non erano state rispettate le linee-guida stabilite dalla Corte di assise di Alessandria circa le statuizioni relative alle singole persone risarcite. Col quinto motivo di ricorso il B. sostiene che, mancando un suo apporto all'aggravamento della situazione ambientale, non v'era ragione a sostegno dell'esercizio dell'azione civile promossa dal Ministero dell'Ambiente nei suoi confronti, in quanto nel periodo di svolgimento del suo incarico i valori di contaminazione in falda erano diminuiti; il Ministero, inoltre, non avendo dimostrato lo stato delle risorse anteriormente all'evento dannoso, non aveva neanche potuto provare la produzione di un deterioramento ulteriore.
La Corte territoriale, con motivazione lineare e coerente, ha dichiarato l'ammissibilità della richiesta risarcitoria del Ministero dell'Ambiente, essendosi verificato un danno ambientale quale quello definito dall'art. 300 D. Lgs. n. 152 del 2006, relativo a «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima»; ha disatteso i rilievi difensivi, concernenti le modalità della liquidazione, ritenendo dimostrata l'esistenza di un danno ambientale imputabile ai soggetti condannati; ha considerato l'inquinamento un fatto non istantaneo, bensì realizzatosi giorno per giorno, per cui la mancata misurazione del danno in ragione dei rispettivi periodi in cui gli imputati avevano rivestito posizioni di garanzia costituiva la ragione per rimettere le parti dinanzi al giudice civile ai fini del risarcimento in forma specifica; ha ritenuto provato il danno anche alla luce degli interventi eseguiti dalla Solvay per rimediare alle contaminazioni pro­ dotte; ha individuato nell'art. 311 D. Lgs. n. 152 del 2006, quale norma applicabile alla fattispecie, anche se riferiti a fatti anteriori alla data di applicabilità della direttiva comunitaria recepita da tale legge.
Ebbene, una volta accertata la responsabilità degli imputati, consegue automaticamente la condanna al risarcimento del danno alle costituite parti civili, la cui quantificazione la Corte torinese ha rimesso al giudice civile.
La Corte di assise di appello ha accertato il fatto di cui all'art. 449 cod. pen., rilevante ai fini delle richieste formulate dalle costituita parte civile, mentre le circostanze dedotte dalla società ricorrente per escludere il danno, a ben vedere, attengono alla sua quantificazione che il giudice civile può anche assumere pari a zero, all'esito dell'istruttoria.
Va ribadito sul punto l'orientamento di questa Corte secondo cui la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio dì semplice probabilità di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015, Bertini, Rv. 265637).
Il compito di questa Corte è circoscritto alla verifica della «potenziale capacità lesiva del fatto dannoso», mentre le questioni prospettate dalla società ricorrente, come la distinzione tra danno evento e danno conseguenza oppure la verifica della risarcibilità delle voci di danno morale, non patrimoniale e/o da metus vanno prospettate dinanzi al giudice civile.
Relativamente alla posizione del B., va disatteso il rilievo difensivo, secondo cui non poteva aver cagionato un danno ambientale, perché la zona circostante all'insediamento industriale era già compromessa all'epoca dell'assunzione della posizione di garanzia. Al riguardo, invece, si è evidenziato come l'inquinamento disastroso della falda costituiva un fatto permanente, verificatosi giorno per giorno, principalmente tramite la progressiva solubilizzazione/lasciviazione delle sostanze inquinanti con implemento dello stato di compromissione dell'ambiente. Inoltre, la mancata quantificazione del danno non costituiva causa di inammissibilità della domanda, bensì la ragione per rimettere le parti dinanzi al giudice civile per il risarcimento in forma specifica.
22.1. In relazione ai danni lamentati dalle parti civili soggetti privati, la Corte territoriale ha incluso nel diritto costituzionale alla salute e al benessere fisico e psichico di ciascuna persona il grave perturbamento, manifestatosi sotto forma di un comprensibile profondo timore, di un cambiamento delle abitudini di vita, a fronte di una conclamata, diffusa e grave contaminazione delle falde acquifere, che aveva comportato plurimi interventi delle autorità pubbliche (in particolare, tramite le ordinanze sindacali).
Secondo la Corte torinese, non occorreva una vera e propria lesione all'integrità fisica della persona, essendo sufficiente, per configurare un pregiudizio risarcibile un'evidente sofferenza o preoccupazione ed una fondata paura di conseguenze nefaste per la propria salute, determinata principalmente dalla contaminazione delle acque con sostanze tossico-nocive e/o cancerogene. In particolare, nella sentenza impugnata sono stati richiamati i concreti e reali fattori, che per ciascun soggetto privato avevano comportato il risarcimento, quali: a) l'esigenza di bere molta acqua per i dipendenti costretti a lavorare in zone della fabbrica ad elevata temperatura; b) la costante utilizzazione di acqua del pozzo per innaffiare le piante da parte dei proprie­tari terrieri; c) la nutrizione medianti prodotti dell'orto irrigato mediante l'acqua del pozzo. Le parti civili, risiedendo in prossimità del sito o avendovi lavorato, utilizzavano a scopi alimentari l'acqua emunta dalla falda avvelenata. I giudici di merito hanno dato atto del grave perturbamento psichico causato dal pericolo di esposizione a sostanze inquinanti e dall'obbligo di modificare le proprie abitudini di vita per effetto degli obblighi di bere esclusivamente acqua minerale e di non coltivare l'orto per paura di ammalarsi.
Per quanto attiene al B., il dato dell'emissione delle ordinanze sindacali in epoca in cui aveva cessato da tempo il suo ruolo era priva di pregio, in quanto esse trovavano il loro fondamento nell'inquinamento delle falde acquifere e, cioè, nel disastro ambientale al quale aveva contribuito.
La Corte di assise di appello, quindi, ha adempiuto all'obbligo motivazionale, verificando l'eventuale alterazione dell'equilibrio della vita persona per persona, applicando correttamente i principi espressi da questa Corte in materia di legittimazione del soggetto privato a costituirsi parte civile.
In tema di danno ambientale, infatti, è legittimato a costituirsi parte civile il cittadino che non si dolga del degrado dell'ambiente ma faccia valere una specifica pretesa in relazione a determinati beni, quali cespiti, attività e diritti soggettivi individuali (come quello alla salute), in conformità alla regola generale posta dall'art. 2043 cod. civ. (Sez. 3, n. 34789 del 22/06/2011, Verna, Rv. 250864, in fattispecie di scarico senza autorizzazione di acque reflue industriali comportante effluvi molesti e maleodoranti; Sez. 3, n. 33887 del 07/04/2006, Strizzolo, Rv. 235047, in tema di inquinamento ambientale provocato attraverso la emissione nell'aria di polveri sottili per alcuni mesi e di danno morale risarcibile per i soggetti abitanti nei pressi dell'impianto, stante il pregiudizio arrecato alla vita quotidiana ed il perturbamento psicologico risentito in relazione alle possibili conseguenze nocive per la salute; Sez. 1, n. 31477 del 28/05/2013, Laudicina, Rv. 256784, in tema di getto pericoloso di cose e di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone e di danno morale risarcibile per i soggetti abitanti nelle zone circostanti, per l'emissione di rumori e polveri sottili da parte di un impianto industriale, stante il pregiudizio arrecato alla vita quotidiana delle persone ed il perturbamento psicologico risentito in relazione alle possibili conseguenze nocive per la salute).
Non occorreva indefettibilmente, pertanto, la sussistenza di un rapporto lavorativo con la società proprietaria del sito per ottenere un danno risarcibile. Il danno non è stato riconosciuto in base alla mera residenza del richiedente nel luogo dove si era verificato il fatto, ma è scaturito dall'uso di acqua non potabile nell'ampia definizione sopra riportata.

23. Col settimo motivo di ricorso, la responsabile civile Solvay rileva che la Corte di assise di appello non ha esaminato o ha travisato gli specifici motivi di appello relativi all'azione civile proposta dal DB. e dal V. in ragione della loro qualità di comproprietari dei fondi rustici con annessi fabbricati rurali costituenti l'azienda agricola denominata «Cascina Granera», i quali avrebbero dovuto fornire evidenza delle analisi condotte su campioni d'acqua prelevati dal pozzo del fondo "Stivardi" di loro proprietà. Trattandosi di pozzo che emungeva acqua a profondità inferiore a quaranta metri, in base all'ordinanza del Comune di Alessandria n. 147 del 2008 vigeva il divieto di utilizzo delle acque emunte per usi potabili, irrigui e destinati all'alimentazione animale, salvo il possesso da parte dei proprietari di documentazione comprovante il rispetto dei limiti normativi di cui al D. lgs. n. 31 del 2001.
I giudici di merito hanno riconosciuto il diritto dei comproprietari del pozzo DB./V. al risarcimento del danno in forma generica, ritenendo credibile la loro dichiarazione con cui riferivano della presenza nel pozzo di livelli molto elevati di cromo esavalente (indicazione non contestata secondo la sentenza di primo grado); hanno ritenuto inverosimile che i proprietari avessero lasciato seccare il fondo per mancanza di irrigazione, pur non essendo il pozzo contaminato.
Ogni questione attinente alla regolarità amministrativa sull'utilizzabilità del pozzo attiene alla cognizione del giudice civile.

24. Con l'ottavo motivo di ricorso, la responsabile civile Solvay osserva che il Comune di Alessandria, le associazioni ambientaliste e gli enti esponenziali non erano legittimati a costituirsi parti civili, in quanto non avevano subito danni diretti e specifici rispetto a quello generico di natura pubblica della lesione dell'ambiente; gli enti non avevano dimostrato un contributo rilevante e concreto alla tutela della posizione giuridica ritenuta lesa e i danni asseritamente subiti; l'interesse non risultava perseguito prima del fatto illecito e correlato ad una situazione storicamente circostanziata; le associazioni non avevano dimostrato il nesso eziologico tra l'illecito penale contestato e il danno patrimoniale; si sostiene che i vari enti costituitisi parti civili non avevano provato, la lesione di un diritto soggettivo proprio dell'ente, un danno autonomo e direttamente risarcibile e/o un interesse relativo ad una situazione storica circostanziata. Col trentaduesimo motivo di ricorso l'avv. Bolognesi e col quattordicesimo e col quindicesimo l'avv. Santa Maria, entrambi nell'interesse del C., e col settimo motivo di ricorso il CA. deducono che il Comune di Alessandria non era legittimato a chiedere il risarcimento del danno per lesione all'immagine. Col quinto motivo di ricorso, oltre alle doglianze già riportate supra, il B. sostiene la tesi dell'insussistenza dei presupposti per il risarcimento del danno al Comune, alle associazioni ambientaliste e alle organizzazioni sindacali; nonostante il riconoscimento dell'inesistenza del c.d. danno da esposizione, la Corte territoriale ha illogica­ mente ritenuto le parti civili titolari di una meritevole situazione di protezione autonomamente risarcibile.
24.1. Va premesso che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per i reati ambientali spetta non soltanto al Ministero dell'Ambiente, ai sensi del D.Igs. 152 del 2006, artt. 311, comma 1, ma anche all'ente pubblico territoriale ed ai soggetti privati, precisando però che per costoro siffatta legittimazione deve ritenersi limitata ai casi in cui per effetto della condotta illecita essi abbiano subito ordinari danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., patrimoniali e non patrimoniali, ulteriori e concreti, conseguenti alla lesione di diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico alla tutela dell'ambiente, pur se derivanti dalla stessa condotta lesiva (Sez. 1, n. 44528 del 25/09/2018, dep. 2019, Abulahia Mohamed Sai, Rv. 277148; Sez. 3, n. 24677 del 09/07/2014, dep. 2015, Busolin, Rv. 264114; vedi anche Corte Cost. sent. n. 126 del 01/06/2016, che ha ribadito la configurabilità di un interesse differenziato in capo agli enti locali a seguito di un evento di inquinamento qualificabile come danno ambientale).
In altri termini, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico alla integrità e alla salubrità dell'ambiente, è previsto e disciplinato soltanto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 311, sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale tipo di danno è esclusivamente lo Stato, in persona del Ministro dell'ambiente; tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti pubblici territoriali e le Regioni, possono invece agire, in forza dell'art. 2043 cod. civ., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbia dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale, così come possono agire per il risarcimento del danno non patrimoniale avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica (Sez. 3, n. 6727 del 22/11/2017, dep. 2018, Serra, non massimata; Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, Miotti, Rv. 252909).
La legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali, quindi, spetta non soltanto al Ministro dell'Ambiente per il risarcimento del danno ambientale ma anche agli enti locali territoriali, i quali deducano di avere subito, per effetto della condotta illecita, un danno diverso da quello ambientale, avente natura anche non patrimoniale (Sez. 4, n. 24619 del 27/05/2014, Salute, Rv. 259153, in cui, in applicazione del principio, la Corte ha confermato la decisione con la quale era stato riconosciuto al Comune ed alla Regione il risarcimento per danno all'immagine; Sez. 2, n. 13244 del 07/03/2014, Lazzaro, Rv. 259560).
Si è sottolineato altresì - sia pur in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'attuale legislazione - che, in materia ambientale, la liquidazione del danno in favore dell'ente territoriale costituitosi parte civile, e nel cui ambito il danno ambientale ha avuto luogo, presuppone necessariamente la verificazione di un concreto danno all'ambiente che arrechi un pregiudizio alla qualità della vita della collettività di riferimento (Sez. 3, n. 1145 del 30/10/2001, dep. 2002, Cucchiara, Rv. 221010). Nell'occasione la Corte ha inoltre affermato la risarcibilità del danno all'immagine dell'ente territoriale qualora sia stato concretamente accertato il suddetto danno ambientale, al quale si collega come aspetto non patrimoniale la menomazione del rilievo istituzionale dell'ente. Peraltro, la stessa lesione dell'immagine dell'ente, il quale, dalla commissione di reati vede compromesso il prestigio derivante dall'affidamento di compiti di controllo o gestione, costituisce danno non risarcibile autonomamente (Sez. 3, n. 6297 del 19/03/1992, Barigazzi, Rv. 190778).
24.2. In ordine alla rappresentanza dell'ente esponenziale, la legittimazione degli enti e delle associazioni esponenziali deriva dal danno che essi hanno ricevuto ad un interesse proprio, sempreché tale l'interesse coincida con un diritto reale o comunque con un diritto soggettivo del sodalizio, e quindi anche se offeso sia l'interesse perseguito in riferimento a una situazione storicamente circostanziata, da esso sodalizio preso a cuore e assunto nello statuto a ragione stessa della propria esistenza e azione, come tale oggetto di un diritto assoluto ed essenziale dell'ente; ciò a causa dell'immedesimazione fra l'ente stesso e l'interesse perseguito nonché dell'incorporazione fra i soci ed il sodalizio medesimo, sicché questo, per l'affectio societatis verso l'interesse prescelto e per il pregiudizio a questo arrecato, patisce un'offesa e perciò anche un danno non patrimoniale dal reato (Sez. 6, n. 59 del 01/06/1989, Monticelli, Rv. 182947).
Tale principio è stato successivamente ribadito (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglieri, Rv, 248848; Sez. 3, n. 38290 del 03/10/2007, Abdoulaye, Rv. 238103). In proposito, le Sezioni Unite di questa Corte, partendo dal presupposto della riconosciuta tutelabilità degli interessi collettivi, senza la necessità di individuare l'esistenza di una norma di protezione, ma sulla scorta della diretta assunzione da parte dell'ente dell'interesse in questione, divenuto scopo specifico dell'associazione, hanno operato una ricognizione dei passaggi giurisprudenziali che ne hanno fatto applicazione (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261110).
Si è così riconosciuta la legittimazione: degli enti pubblici territoriali quali organismi esponenziali di una comunità gravemente turbata dallo sterminio di gran parte della popolazione di un comune (Sez. 6, n. 21677 del 05/12/2003, Agate, Rv. 229393); di un ordine professionale nel procedimento a carico di soggetto imputato di esercizio abusivo della professione (Sez. 4, n. 22144 del 06/02/2008, Dodi, Rv. 240017); delle associazioni ecologiste (Sez. 3, n. 22539 del 05/04/2002, Kiss Ghun­ ter H.L., Rv. 221881, in cui si è affermato che la costituzione di parte civile delle associazioni di protezione ambientale è ammissibile allorché l'interesse diffuso alla tutela dell'ambiente si concretizza in una determinata realtà storica ed è divenuto la ragione e conseguentemente elemento costitutivo del sodalizio e dal reato sia derivata una lesione di un diritto soggettivo inerente allo scopo specifico perseguito, atteso che il danno ambientale non consiste soltanto in una compromissione dell'ambiente susseguente alla violazione delle leggi ambientali, ma anche in una offesa della persona nella sua dimensione individuale e sociale, come lesione del diritto fondamentale ed a rilevanza costituzionale ad un ambiente salubre; Sez. 3, n. 46746 del 21/10/2004, Morra, Rv. 231306; Sez. 3, n. 35393 del 21/05/2008, Pregnolato, Rv. 240788); del sindacato unitario dei lavoratori di polizia in relazione all'appartenenza a tale organismo della vittima di violenza sessuale subita sul luogo di lavoro (Sez. 4, n. 8132 del 31/01/2019, Martellone, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 12738 del 07/02/2008, Pinzone, Rv. 239409; Sez. 4, n. 22558 del 18/01/2010, Ferraro, Rv. 247814 - in tale ultima pronuncia si è ritenuta ammissibile, indipendentemente dall'iscrizione del lavoratore al sindacato, la costituzione di parte civile delle associazioni sindacali nei procedimenti per reati di omicidio o lesioni colpose, commessi con violazione della normativa antinfortunistica, quando l'inosservanza di tale normativa possa cagionare un danno autonomo e diretto, patrimoniale o non patrimoniale, alle associazioni sindacali, per la perdita di credibilità dell'azione di tutela delle condizioni di lavoro dalle stesse svolta con riferimento alla sicurezza dei luoghi di lavoro e alla prevenzione delle malattie professionali).
Si è altresì riconosciuta la legittimazione alla costituzione di parte civile dell'ente territoriale che invoca un danno alla propria immagine anche in riferimento ad un reato commesso da privati in danno di privati (nella specie lesioni personali aggravate e minaccia), ma il riconoscimento del diritto al ristoro risarcitorio è comunque subordinato alla dimostrazione da parte dell'ente, secondo le ordinarie regole civilistiche, dell'effettiva esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale, subìto in concreto, derivante dall'illecito contestato (Sez. 5, n. 1819 del 27/10/2016, dep. 2017, Montefameglio, Rv. 269124)
24.3. Orbene, nel procedere all'accertamento in punto di responsabilità risarcitoria, la Corte torinese risulta aver puntualmente risposto alle censure contenute nell'atto di gravame, indicando l'essenza del lamentato pregiudizio potenziale all'attività istituzionale svolta dal Comune di Alessandria e dalle associazioni per la valorizzazione e la tutela del territorio in conseguenza del fatto lesivo, sia pure nei limiti dell'apprezzamento che caratterizza una pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale.
La condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015, Bertini, Rv. 265637).
Lo scrutinio circa la sussistenza dei presupposti fattuali ai quali è stata ancorata la legittimazione del Comune di Alessandria e degli altri enti appare esauriente ed adeguato, avendo la Corte di assise di appello espressamente evidenziato i loro obiettivi, strettamente collegati al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice e all'obiettivo di perseguire scopi di tutela dell'ambiente, della salute pubblica e della salute dei lavoratori.
In linea coi predetti principi, infatti, nella sentenza impugnata si è evidenziata l'inesistenza di disposizioni normative o principi giurisprudenziali, in base ai quali la pubblica amministrazione potrebbe chiedere in giudizio il risarcimento del danno all'immagine esclusivamente nei confronti dell'imputato dipendente. La Corte torinese ha illustrato i presupposti per la liquidazione del danno non patrimoniale e la lesione al prestigio e alla reputazione nei confronti della collettività, strettamente connessa all'efficacia dell'azione ad esso demandata di custodia e di valorizzazione di beni ambientali di particolare rilievo, sottolineando l'incidenza del disastro ambientale sulla considerazione dei cittadini nei confronti dell'ente territoriale a loro più prossimo, tanto da pregiudicarne gravemente l'immagine e la reputazione complessiva, non solo del settore dedicato all'ambiente. Si è chiarito che l'ente collettivo si costituisce parte civile in nome e per conto della comunità, di cui è esponente, rappresentandone gli interessi, i bisogni e i valori di civile convivenza, per cui le disfunzioni organizzative o il comportamento di dipendenti o funzionari inerti o infedeli non rendono demeritato il risarcimento.
24.4. La Corte torinese, con motivazione articolata ed esauriente, ha altresì osservato che gli enti esponenziali, quali il WWF Italia, la Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta Onlus, l'associazione I Due Fiumi E.R.I.C.A. - Pro natura - Alessandria, la Medicina Democratica - Movimento di Lotta per la Salute soc. coop. a r.l.» e la C.G.I.L. - Camera del Lavoro Territoriale di Alessandria si erano costituiti dando atto dei loro fini - di tutela ambientale, della salute dei cittadini e dei lavoratori - e delle attività compiute per i loro scopi in modo dettagliato e documentato; ha considerato tali scopi frustrati per la scoperta di un così grave disastro ambientale, perdurante da anni e non eliminabile prima dell'anno 2029; ha ritenuto rispettati i canoni interpretativi formulati in materia, sotto il profilo dello scopo, delle attività nonché della prossimità territoriale e temporale degli enti, i quali avevano anticipato, sotto tutti gli aspetti, ciò che era stato scoperto e accertato dopo l'inizio delle indagini nel sito di Spinetta Marengo.
La Corte di assise di appello ha richiamato sul punto le argomentazioni lineari e coerenti della Corte di assise di Alessandria, che ha evidenziato quanto segue:
A) Il «WWF Italia, riconosciuto dall'art. 13 L. n. 349 del 1986, ai sensi dell'art. 5 dello Statuto Associativo, persegue istituzionalmente la conservazione della natura e dei processi ecologici e la tutela dell'ambiente, mediante il promovimento di azioni giudiziarie e proposte di normative sulla tematica in questione; è radicato sul territorio ed ha sedi regionale in Torino e provinciale in Alessandria ed aveva effettuato nel 2006 una serie di studi nel territorio della Fraschetta, a causa degli stabilimenti chimici ivi presenti, procedendo all'individuazione dei siti inquinati e concorrendo ad elaborare con Medicina Democratica un dossier sugli inquinamenti, sfociato in vari esposti alla magistratura; il progetto in questione si era occupato anche della problematica del rio Livassino e si era posto l'obiettivo di approfondire l'impatto conseguente alle immissioni di sostanze inquinanti nell'ambiente, comprese le matrici superficiali degli acquiferi e dei terreni; proprio il polo chimico aveva formato oggetto di attenzione.
B) La Legambiente Piemonte e Valle d'Aosta Onlus, nata nel 1980, è la più diffusa sul territorio ed opera per la valorizzazione, tra l'altro, dell'ambiente, della salute collettiva e delle specie animali e vegetali attraverso attività di vigilanza per il rispetto delle leggi e delle norme in materia ed il disinquinamento di zone agricole ed industriali; aveva anche svolto iniziative per il sito di Spinetta Marengo, consistenti in comunicati, promozioni di incontri e presentazione di richieste di bonifica agli enti pubblici della zona della Fraschetta, compromessa dall'attività chimica del polo industriale.
C) L'Associazione «I Due Fiumi E.R.I.C.A. - Pro natura - Alessandria persegue gli scopi di agire nel campo della salvaguardia dell'ambiente in tutte le sue forme, dei bacini fluviali in particolare e di svolgere una funzione di stimolo, collaborazione e dialogo con le istituzioni preposte alla salvaguardia e al recupero degli ecosistemi fluviali e, più in generale, delle componenti che rendono l'ambiente più vivibile; la circostanza che il nome dell'associazione evocasse i fiumi Tanaro e Bormida e che si fosse costituita all'indomani dell'alluvione del 1984 per raccogliere dati sulla messa in sicurezza delle predette aree non escludeva l'orizzonte diretto alla salvaguardia degli ecosistemi fluviali e della purezza della falde acquifere destinate a sfociare nei fiumi; emergeva, quindi, uno stretto collegamento con le tematiche in esame.
D) «Medicina Democratica ha tra le sue finalità la tutela della salute e dell'ambiente nei luoghi di lavoro, la promozione e la tutela di beni ambientali e l'assistenza legale ai lavoratori e ai cittadini in genere bisognosi di tutela per il loro diritto alla salute; a decorrere dal 1994 nei numeri della rivista dell'associazione erano trattati i temi della tossicità e della cancerogenicità di diverse sostanze, compresi i metalli, i composti inorganici e i composti alifatici clorurati, del tipo di quelli rinvenuti nell'area di Spinetta Marengo. Era ritenuto privo di pregio il rilievo secondo cui l'associazione in esame non aveva sollevato la questione ambientale relativa all'area in questione prima del 2008 e, pertanto, l'interesse perseguito non era riferito ad una situazione storicamente circostanziata: tale requisito richiesto dalla giurisprudenza, infatti, doveva intendersi come natura lesiva di tale situazione, altrimenti verrebbe inibita la costituzione di parte civile ad enti, che non vengano a conoscenza della notizia di reato prima degli organi giudiziari. Inoltre, l'associazione in esame contribuiva al dossier sugli inquinamenti menzionato supra sub lett. A).
E) La CGIL - Camera del Lavoro Territoriale di Alessandria consiste in un'associazione rappresentativa dei lavoratori per la tutela della loro salute. Si tratta di uno strumento attivo per la realizzazione del diritto alla salubrità dei posti e degli ambienti di lavoro, indipendentemente dall'iscrizione o meno dei lavoratori alla confederazione. Il sindacato aveva partecipato alla tavola rotonda del 1997, contenente il punto della situazione sul problema ambientale della Fraschetta. Un articolo conteneva uno specifico riferimento al monitoraggio delle varie componenti ambientali all'interno dello stabilimento e nelle sue immediate vicinanze. Un comunicato del 2005 chiedeva analisi sulla potabilità dell'acqua e sull'eventuale presenza di contaminanti dovuta alle sostanze usate nello stabilimento.
La Corte alessandrina aveva già fornito un'esauriente e completa risposta alle censure della Solvay sostanzialmente reiterate nella presente sede, per cui la Corte torinese si è legittimamente riportata, per i singoli enti, al contenuto della sentenza di primo grado.

25. Col nono motivo di ricorso la responsabile civile Solvay rileva che le parti civili non avevano dimostrato l'entità del danno né avevano indicato criteri di calcolo idonei e che la valutazione equitativa non era consentita in caso di mera difficoltà di prova e di quantificazione. Col sedicesimo e col diciassettesimo motivo di ricorso l'avv. Santa Maria per il C. deduce la violazione dei criteri di applicazione in via equitativa del danno in favore del Comune di Alessandria e la mancata applicazione dei criteri di liquidazione sostitutiva del danno. Col settimo motivo di ricorso il CA. (oltre a quanto già riportato al paragrafo precedente) deduce l'assenza di motivazione in ordine all'entità dell'importo liquidato al Comune di Alessandria ed alle parti civili a titolo di risarcimento.
La Corte di assise di appello, con motivazione immune da censure, ha rilevato la difficoltà di quantificare il danno morale e l'inesistenza di indicatori al di fuori dell'equità; lo ha calcolato alla luce della gravità del disastro ambientale di amplissime proporzioni, del grado di sofferenza, del fondato timore e del perturbamento indotto in ciascuna delle parti civili da ristorare. Per tali ragioni, non essendo agevole stabilire il grado, l'intensità e la profondità della sofferenza indotta, ha escluso di poter stilare un'impropria graduatoria interna tra le parti civili.
La liquidazione del risarcimento del danno per il pregiudizio morale, attesa la sua natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l'obbligo motivazionale mediante l'indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l'ammontare del risarcimento (Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018, B., Rv. 274229; Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015, Lucchelli, Rv. 263450).
D'altronde, la valutazione del giudice in ordine alla liquidazione del danno morale, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258170).

26. Col decimo motivo di ricorso la responsabile Solvay e col sesto motivo di ricorso il G. chiedono l'annullamento delle statuizioni relative alle spese processuali, in conseguenza dell'accoglimento dei rispettivi ulteriori motivi di ricorso.
Tenuto conto della natura consequenziale a tutti gli ulteriori motivi di ricorso ritenuti non meritevoli di accoglimento da parte di questa Corte, tali motivi di ricorso vanno automaticamente respinti.

27. Per tali ragioni il ricorso proposto dalla Procura generale presso la Corte di appello di Torino va rigettato.
Devono essere altresì rigettati i ricorsi proposti dagli imputati e dalla responsabile civile, con conseguente condanna dei medesimi al pagamento delle spese processuali. Gli imputati e la società responsabile civile vanno altresì condannati, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili. Tenuto conto della complessità del presente procedimento, tali spese vanno liquidate con gli importi meglio specificati in dispositivo.


 

P. Q. M.



Rigetta il ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Torino; rigetta i ricorsi di B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C.
Giorgio e CA. Giorgio e del responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; Legambiente; Medicina Democratica Movimento di Lotta per la Salute Soc. coop.; C.G.I.L.;
Associazione Due Fiumi; WWF Italia; Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro alla rifusione delle spese sostenute in favore del Comune di Alessandria;
condanna B. e CA. Giorgio, in solido fra loro e il secondo anche in solido con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers ltaly S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers ltaly S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers ltaly S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi due con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco e CA. Giorgio, in solido fra loro alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna CA. Giorgio alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco e CA. Giorgio, in solido fra loro e quest'ultimo con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna CA. Giorgio alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile eredi di Omissis;
condanna CA. Giorgio alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers ltaly S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco e CA. Giorgio, in solido fra loro alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile Omissis;
condanna B. Salvatore Francesco, G. Luigi, C. Giorgio e CA. Giorgio, in solido fra loro e per gli ultimi tre con il responsabile civile Solvay Speciality Polymers Italy S.p.A., alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Bergonzi Raffaella, Lenaz Alice Claudia; Tardiolo Salvina Gaetana;
condanna CA. Giorgio alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili Omissis.
Liquida le spese di lite nei seguenti termini:
quanto all'Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, in ragione di € 3.500,00, oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Laura Mara in ragione di€ 7.700,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge, con distrazione in favore della stessa;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Giovanni Barbieri in ragione di € 6.300,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Vittorio Spallasse in ragione di € 7.700,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Giuseppe Lanzavecchia in ragione di€ 6.300,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Laura Pianezza in ragione di € 8.400,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alla parte civile patrocinata dall'avv. Cristina Carola Giordano in ragione di€ 3.500,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alla parte civile patrocinata dall'avv. Mario Volante in ragione di € 3.500,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge;
quanto alle parti civili patrocinate dall'avv. Gianluca Volante in ragione di € 4.200,00 oltre rimborso forfetario, CPA e IVA come per legge.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2019.