Cassazione Penale, Sez. 4, 07 maggio 2020, n. 13876 - Caporalato: non obbligatoria la confisca di aziende agricole preesistenti rispetto allo sfruttamento


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: MENICHETTI CARLA
Data Udienza: 28/01/2020
 

Fatto




1. In data 11 luglio 2019, nel corso dell'indagine denominata "Libertate", un pool di Procuratori della Repubblica presso il Tribunale di Matera avanzava richiesta di sequestro preventivo ai sensi dell'art.321, commi 1 e 2, cod.proc.pen., nei confronti di V.P. G.M., G.A. e M.C. in relazione al reato ex artt.603-bis, co.I n.2 e III, n.1, 2, 3, 4, IV n.1 con l'aggravante ad effetto speciale prevista dall'art.4 della legge 146/2006 (transnazionalità, essendo lo sfruttamento dei lavoratori perpetrato da un sodalizio criminoso operante tra la Romania e l'Italia), contestato al capo C) della imputazione provvisoria.
Gli inquirenti, esposto il resoconto delle indagini e l'inquadramento giuridico del delitto in parola, motivavano il periculum in mora con l'evidenza che la libera disponibilità delle aziende da parte degli indagati avrebbe potuto agevolare la continuazione della condotta criminosa ovvero la commissione di altri reati o comunque aggravare le conseguenze dannose del reato.
Ritenevano poi sussistenti i presupposti per procedere al sequestro preventivo in base al combinato disposto degli artt.321 cod.proc.pen. e 603-bis2 in relazione all'art.603-bis cod.pen. In particolare, reputavano applicabile la misura del sequestro di beni soggetti a confisca obbligatoria ex art.603-bis2 cod.pen., e, dopo essersi soffermati sulla definizione di prodotto, profitto e prezzo, consideravano ricomprese tra le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato anche le aziende agricole utilizzate dagli imprenditori per la commissione del delitto di cui all'art.603-bis cod.pen. Nel caso di specie ai sensi dell'art.603-bis2 era possibile procedere alla confisca per equivalente e pertanto la sottrazione al soggetto attivo del reato del vantaggio economico da esso conseguito attraverso la sua condotta criminale poteva avvenire già durante la fase delle indagini preliminari attraverso lo strumento del sequestro preventivo ex art.321 cod.proc.pen., comma 2, del denaro od utilità conseguite, per poi, all'esito del giudizio, tradursi nella sua confisca.

2. Con decreto in data 29 luglio 2019 il GIP di Matera - "letta la richiesta dei P.M. di sequestro preventivo ai fini di confisca ai sensi dell'art.603-bis2 cod.pen. nei confronti di V.P. G.M., G.A. e ai sensi del combinato disposto degli artt.603-bis2 ultima parte e 321, co.2, cod.proc.pen. nei confronti di M.C., nonché per tutti ai sensi dell'art.321 co.1 c.p.p." - così provvedeva:
- ai sensi degli artt.603-bis2, prima parte, cod.pen. e 321, co.2, cod.proc.pen, disponeva il sequestro preventivo delle aziende e dei beni aziendali e conti intestati a V.P. G.A. e G.M., come indicati in atti e oggetto di accertamento;

- rigettava la richiesta di sequestro formulata ai sensi dell'art.603-bis2, ultima parte, cod.proc.pen. delle aziende e rapporti finanziari aziendali nella disponibilità indiretta dell'indagato M.C.;
- ai sensi dell'art.321, co.1, cod.proc.pen., disponeva il sequestro degli stessi beni aziendali intestati o nella disponibilità di V.P. G.A. e G.M. e M.C..
- nominava infine un amministratore giudiziario ex art. 104-bis disp.att.cod.proc.pen.
2.1. Il GIP si soffermava in primo luogo sulla genesi della vicenda che aveva portato alla richiesta di misura cautelare reale e sul contenuto di un precedente provvedimento applicativo di misure cautelari personali, ed aderiva alla prospettazione dei Pubblici Ministeri quanto ai concetti di prodotto, profitto, prezzo e possibilità di confisca per equivalente. Nel merito, osservava che mancando una consulenza di parte sul reale profitto (costituito da quanto dovuto ai lavoratori in base agli accordi di categoria e quanto effettivamente corrisposto), non poteva essere accolta la richiesta di sequestro per equivalente finalizzato alla confisca (art.603-bis2, ultima parte, cod.proc.pen. in riferimento all'art.321, co.2, cod.proc.pen.) nei confronti di M.C., mentre diversa decisione era apprestabile con riferimento alla richiesta di sequestro preventivo ai sensi dell'art.321, co.l, cod.proc.pen. Riteneva sussistere il fumus commissi delicti in base all'attività captativa ed ai racconti e descrizioni rese nel corso delle testimonianze dalle vittime dello sfruttamento. In ordine al pericolo di prosecuzione dell'attività di sfruttamento nell'attività lavorativa, considerava indubitabile che la libera disponibilità delle aziende potesse agevolare la prosecuzione dell'attività illecita, la realizzazione di analoghi reati e aggravarne le conseguenze ai danni dei lavoratori impiegati e già sfruttati. Reputava esistente il nesso di strumentalità necessaria tra le aziende e i beni aziendali indicati e l'attività di sfruttamento dell'opera dei braccianti (Sez.6, n.5845 del 20/1/2017). Pertanto disponeva il sequestro preventivo delle suddette aziende agricole e beni aziendali tutti dettagliatamente indicati nel provvedimento cautelare e riconducibili direttamente o indirettamente agli indagati predetti V.P. G.A. e G.M. e M.C. ai sensi dell'art.321, co.l, cod.proc.pen. ricorrendone i presupposti descritti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, atteso che attraverso gli stessi gli imprenditori indagati avrebbero potuto reiterare le loro condotte criminose continuando ad assumere lavoratori agricoli con le stesse modalità nel dispregio delle leggi. Al sequestro dei beni indicati seguiva - come già detto - la necessaria nomina di un amministratore giudiziario.

3. Con ordinanza del Tribunale di Matera in data 4 settembre 2019 venivano decisi i riesami proposti nell'interesse di V.P. (oltre che di omissis), G.A. e G.M., M.C. e M.F.
I giudici del riesame esaminavano alcune eccezioni preliminari.

Limitando l'analisi a l'unica eccezione che viene riproposta con gli odierni ricorsi, con la quale si contestava l'emissione di decreto di sequestro ex art.321, co.1, cod.proc.pen. da parte dell'ufficio GIP nonostante la mancanza di una specifica richiesta del P.M., il Collegio di Matera riteneva non fondata la censura, escludendo ogni vizio di ultrapetizione, perché l'accusa aveva avanzato istanza cautelare anzitutto in ragione della confisca obbligatoria ex art.603-bis2 cod.pen. e 321, co.2, cod.proc.pen. ma anche, sia pure in via subordinata, ex art.321, co.1, cod.proc.pen.
Quanto alle doglianze relative al fumus commissi delicti, esponeva che le difese in realtà discutevano sui gravi indizi di colpevolezza già cristallizzati nelle ordinanze applicative di misure cautelari personali, elementi la cui verifica era estranea all'adozione della misura cautelare reale (Cass.45908/2013) e richiamava i plurimi elementi di riscontro del reato ex art.603-bis cod.pen.
Discostandosi dalla decisione del GIP, osservava che le aziende agricole dei ricorrenti non potessero essere suscettibili nel loro complesso di confisca obbligatoria, sul rilievo che le stesse, certamente preesistenti rispetto alle condotte delittuose contestate, non erano state costituite per commettere il reato oggetto di indagine, essendo piuttosto le condotte di sfruttamento dei braccianti agricoli state perpetrate solo per migliorare la produttività delle aziende stesse. Difettava quindi il nesso strumentale tra le aziende agricole ed il reato contestato (Cass.n.17763/2018, dep.29.4.2019).
In ordine poi al sequestro preventivo disposto ai sensi dell'art.321, co.1, cod.proc.pen. nei confronti di M.C., posto il fumus commissi delicti, l'ampio periodo temporale in cui si era perpetrata l'attività di sfruttamento di manodopera agricola (pari a oltre 4 anni), il numero dei braccianti coinvolti nel fenomeno illecito e le modalità spesso cruente con cui i braccianti erano stati costretti a subire condizioni di lavoro assai poco dignitose, apparivano elementi tutti concretamente significativi del pericolo di protrazione della condotta delittuosa e di aggravamento delle relative conseguenze. Le misure cautelari personali non avevano del resto sottratto la disponibilità delle aziende agricole ai ricorrenti, con conseguente possibilità per costoro di continuare a utilizzare prestazioni lavorative degradanti ed a condizioni fuori mercato per ottenere maggiori utili ed ingiusti profitti (in tal senso le intercettazioni telefoniche richiamate nel provvedimento). Tali condotte rendevano quindi quanto mai concreto ed attuale il pericolo di protrazione del delitto e di aggravamento delle relative conseguenze (Cass.n.9149/2015 sul concetto di "pertinenza"). Per tale ragione le aziende agricole dovevano essere annoverate tra le cose pertinenti al reato di cui all'art.603-bis cod.pen. e come tali suscettibili di sequestro preventivo ex art.321, co.1, cod.proc.pen.
Confermava, infine, il Collegio di Matera, la nomina di un amministratore giudiziario
per assicurare la continuità aziendale e comunque riteneva tale nomina non impugnabile, riguardando la fase esecutiva della misura (Cass.n.946/2018)., ed escludeva ogni riferimento all'art.3 L.n.199/2016 che pone come alternativo al sequestro il controllo giudiziario dell'azienda presso cui è stato commesso il reato.
Definendo quindi la fase del riesame cautelate, il Tribunale annullava il decreto di sequestro preventivo disposto ex art.603-bis cod.pen. e 321, co.2, cod.proc.pen.; annullava il decreto di sequestro preventivo disposto ex art.321, co.1, cod.proc.pen. limitatamente a due autocarri, mancando il rapporto di strumentalità; confermava per il resto il decreto impugnato.

4. Avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame hanno proposto ricorso per cassazione i Pubblici Ministeri titolari dell'indagine e gli indagati, questi ultimi tramite i difensori di fiducia.

5. Il ricorso dei Procuratori della Repubblica è affidato ad un unico motivo, con il quale si deducono violazione dell'art.606, comma 1 lett.b) ed e) c.p.p., in relazione agli artt.603-bis 2 cod.pen. e 321, co.2, cod.proc.pen., inosservanza ed erronea applicazione dell'ipotesi di confisca obbligatoria introdotta dall'art.2 della L.29/10/2016 n.199 con riferimento ai delitti previsti dall'art.603-bis cod.pen., manifesta illogicità della motivazione.
Questo, in sintesi, il contenuto dell'atto impugnatorio. La novella legislativa introdotta dall'art.2 della L.n.199/2016 tende all'ablazione della "res" impiegata nel reato perché indispensabile alla sua realizzazione. Trattasi di un'ipotesi particolare di confisca introdotta dal legislatore per contrastare la diffusione del fenomeno del c.d. caporalato; è strutturata secondo il modello della confisca obbligatoria anche quando i beni confiscabili sono riconducibili alle categorie degli strumenti ovvero del profitto o del prodotto del reato; la specificità della previsione esclude l'applicazione delle norme generali contenute nell'art.240 cod.pen., costituendo una regolamentazione in deroga. Il Tribunale ha invece erroneamente richiamato i principi in tema di confisca facoltativa, senza rilevare che - se così fosse - la disposizione dell'art.603-bis2 cod.pen. non potrebbe mai trovare applicazione perché l'azienda agricola è necessariamente preesistente alla condotta di caporalato posta in essere. In ogni caso, con riferimento alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, se è vero che la pericolosità implica un nesso
strumentale e non occasionale tra l'illecito ed il bene, è anche vero che tale nesso va accertato in concreto sia in relazione al ruolo effettivamente rivestito dalla cosa nella realizzazione del fatto e sia in relazione alle modalità di realizzazione del fatto stesso. E' illogico quindi ritenere che le condotte delittuose ascritte agli indagati (caporali e titolari di aziende agricole) potessero essere ugualmente consumate a prescindere dall'impiego dei lavoratori, in condizioni di sfruttamento, sui terreni di proprietà delle predette aziende, costituenti lo strumento finalizzato al reato.

6. I ricorsi congiunti di M.F., in proprio e nella duplice veste di rappresentante legale p.t. della Società Agricola F.lli M. S.r.l. e della Soc. Coop. Contea Agricola a r.l. e di M.C. in proprio, constano di un unico motivo, ampiamente sviluppato, con il quale si lamentano violazione ed omessa applicazione degli artt.325, co.1, cod.proc.pen. in relazione agli artt.111, co.6, Cost., 125, 546 e 606 lett.c) cod.proc.pen.; inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità; motivazione apparente e/o difetto assoluto di motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato; inosservanza e/o erronea applicazione dell'art.603-bis2 cod.pen.; insussistenza dei presupposti per disporsi il sequestro preventivo impeditivo ex art.321, co.1, cod.proc.pen.
Ad avviso dei ricorrenti si configura nel caso di specie l'ipotesi della mera apparenza della motivazione in punto sia di fumus commissi delicti che di periculum in mora. Il reclutamento dei braccianti agricoli alle dipendenze delle aziende facenti capo ai fratelli M. e la determinazione del loro trattamento retributivo è sempre avvenuta conformemente a legge, e ciò ha imposto l'indeclinabile adempimento dei correlativi obblighi contributivi, previdenziali ed assicurativi. Mai la manodopera è stata fornita dalla coppia di "caporali" rumeni Omissis. A fronte delle sommarie informazioni testimoniali degli operai denuncianti - i quali hanno dichiarato che anche nel periodo trascorso a lavorare alle dipendenze del M. le condizioni di ingaggio erano del pari estremamente disagevoli, precarie ed usuranti - non è stata in alcun modo presa in esame la documentazione a discarico offerta dai ricorrenti, comprovante l'intervenuto acquisto o noleggio dei bagni chimici, la fornitura degli indumenti da lavoro conformi alle previsioni di legge, l'esborso di decine di migliaia di euro per compensare i medici incaricati di sottoporre a visita i lavoratori, ecc. I braccianti agricoli assertivamente sfruttati erano tutti ed indistintamente muniti di documento di identità, passaporto, conto corrente bancario e/o postale, e quasi tutti risiedevano in Italia da molti anni prima che lavorassero alle dipendenze dei M.C.. Sempre sotto il profilo del fumus commissi delicti va poi ricordato che la legittimità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente (e a fortiori della confisca stessa) di un bene di proprietà di un terzo estraneo alle indagini può essere giustificata solamente nel caso in cui la titolarità dello stesso in capo al terzo sia fittizia o solamente formale e sia l'indagato a carico del quale il sequestro è disposto a godere della piena disponibilità del bene stesso, tramite l'interposizione fittizia del terzo. Tutte le disposizioni normative che contemplano il sequestro per equivalente, rimandando alla disciplina dell'art.322-ter cod.pen., richiedono la verifica della disponibilità attuale del bene da aggredire con l'adozione della dizione "confisca dei beni di cui il reo ha la disponibilità". Inoltre va considerato che il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è stato introdotto nel codice penale dal d.l.n.138/2011, conv. con modif. nella l.n.148/2011, per garantire una tutela più efficace alla posizione del lavoratore da forme di sfruttamento di natura economica,

ma anche rispetto a trattamenti degradanti tesi a svilirne la dignità allo scopo di massimizzarne la redditività. La norma è stata riformulata con la l.n.199/2016, entrata in vigore il 4.11.2016, prevedendo anche la punibilità del datore di lavoro che abusi delle prestazioni lavorative dei propri dipendenti. Avuto riguardo al tempus commissi delicti indicato nell'imputazione provvisoria ed al tempo a cui risalirebbe l'ultima frazione dell'attività delittuosa contestata al M., la condotta sarebbe stata in larga misura posta in essere all'epoca in cui non era stata ancora sancita la punibilità, in termini di autonoma fattispecie di reato, del datore di lavoro, ai sensi dell'art.603-bis cod.pen., con tutte le conseguenze che tale circostanza riverbera in punto di elemento soggettivo del reato associativo contestato.

7. G.A. affida il proprio ricorso a sei distinti motivi.
I) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione dell'art.125 cod.proc.pen., dell'art.546, comma 1, lett.e) cod.proc.pen., dell' art . 127 cod.proc.pen., dell'art.192 cod.pro c.pen .; dell'art.321 cod.proc.pen.; dell'art.273, commi 1 e 1-bis cod.proc.pen.; dell'art.603-bis, ca.I, II, III, n.l, 2, 3 e 4, ca.IV n.l cod.pen .; illegittimità della motivazione in ordine alla sussistenza del fumus boni iuris riguardo ad un elemento costitutivo del reato di cui all'art.603-bis cod.pen. (esistenza dello stato di bisogno dei lavoratori).
Il Tribunale di Matera ha illegittimamente identificato lo "stato di bisogno" con il "bisogno di lavorare", ha parlato assertivamente di "penose condizioni personali dei lavoratori", senza alcuna specificazione, e non ha tenuto conto di quanto dimostrato dalla difesa, circa l'utilizzazione di appartamenti dotati di certificati di abitabilità ed energetico, con collocamento di due lavoratori per ogni stanza. Ha fatto poi, a titolo esemplificativo, riferimento alle sommarie informazioni testimoniali della F., la quale non ha mai lavorato alle dipendenze di G.A..
II) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione delle medesime norme per mancanza di motivazione in ordine al fumus dell'approfittamento dello stato di bisogno di cui al reato ex art.603-bis c.p.
Il Tribunale ha totalmente omesso di motivare la consapevolezza da parte dell'indagato dello stato di bisogno e quindi l'approfittamento dello stesso. Al contrario, tale consapevolezza andava esclusa, posto che i lavoratori non avevano rapporti diretti con i datori di lavoro ma soltanto con la coppia Omissis e parlavano esclusivamente la lingua rumena, circostanza che impediva ogni loro comunicazione con i datori medesimi.
III) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione delle medesime norme per illegittima motivazione del fumus di un elemento costitutivo del reato di cui all'art.603-bis cod.pen. (condotte di sfruttamento dei lavoratori).

Il Tribunale ha omesso totalmente di esaminare le rilevanti dichiarazioni rese da tutti lavoratori durante l'incidente probatorio, che escludono condotte di sfruttamento da parte del datore di lavoro G.A., e che riferiscono che questi "si comportava
bene".
IV) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione delle medesime norme per illegittima motivazione del principio di pertinenza (e di "non occasionalità" del reato).
Il Tribunale è incorso in una grave violazione di legge laddove ha affermato che le condotte di sfruttamento sarebbero state "durature per alcuni anni", senza considerare che i lavoratori sentiti in sede di informazioni testimoniali e durante l'incidente probatorio erano stati assunti dal G.A. solo per la raccolta delle fragole nell'anno 2018 e dunque per pochi mesi. Ulteriore violazione di legge sta nell'aver omesso di motivare specificamente sul rapporto di pertinenza di ogni singolo bene aziendale con il reato contestato, limitandosi l'ordinanza impugnata frettolosamente a considerare sussistente tale rapporto nel fatto che il reato avrebbe migliorato la produttività aziendale: in particolare il Tribunale ha omesso di motivare il nesso strumentale con il fabbricato aziendale destinato solo ed esclusivamente ad abitazione dell'indagato e della sua famiglia; con la trattrice agricola mai utilizzata dai lavoratori durante la raccolta delle fragole, ma solo dal G.A. per trasportare le pedane sui camion; come pure con l'appezzamento di terreno che, in quanto preesistente rispetto alle condotte delittuose contestate non poteva avere un'intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso.
V) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed
erronea applicazione delle medesime norme e dell'art.275 cod.proc.pen. per violazione del principio di proporzionalità, adeguatezza e gradualità della misura.
Il Tribunale materano non ha motivato sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri e meno invasivi strumenti cautelari, quali, ad esempio, una misura interdittiva all'esercizio dell'attività di imprenditore agricolo.
VI) Violazione dell'art.606, comma 1, lett.c) cod.proc.pen. per inosservanza ed erronea applicazione dell'art.3 L.n.199/2016 e dell'art.104-bis disp.att.cod.proc.pen. per omessa motivazione della necessità di continuare la gestione e della relativa necessità di nomina di un amministratore giudiziario.
La nomina di un amministratore giudiziario è una scelta discrezionale del GIP che, in quanto tale, deve essere motivata: nel caso in esame manca ogni motivazione di tale scelta così come della sussistenza del presupposto di cui all'art.3 della L.n.199/2016 costituito dalle "ripercussioni negative sui livelli occupazionali o sul valore economico del compendio aziendale", circostanza peraltro da escludere posto che notoriamente alla data di emissione del decreto (29.7.2019) la raccolta delle fragole era ormai ultimata.

8. La difesa di G.M. ha sviluppato motivi sostanzialmente sovrapponibili a quelli di G.A. - ai quali pertanto si fa rinvio per necessaria sintesi espositiva - ma nel motivo sub IV) non ha indicato nessun bene particolare, quale la casa di abitazione, trattore, terreno o altro.

9. Il ricorso di V.P. consta di tre motivi.
I) Violazione dell'art.606, lett.b), cod.proc.pen. in relazione all'errata applicazione dell'art.321, comma 1, cod.proc.pen. in luogo del combinato disposto di cui agli artt.321, comma 2, cod.proc.pen. e 603-bis2 cod.pen.; ultrapetizione; motivazione contraddittoria per come si evince dal testo dell'ordinanza impugnata.
Il P.M. nella propria richiesta di sequestro aveva ravvisato come unica finalità quella contemplata dall'art.321, comma 2, cod.proc.pen. e dall'art.603-bis2 cod.pen. ed aveva fatto richiamo al periculum in mora solo a titolo di apparente sussistenza di un presupposto, utilizzato, in realtà, al fine di legittimare l'istanza di sequestro preventivo. Sia da parte del GIP, sia da parte del Tribunale del Riesame, è stato invece illegittimamente applicato l'art.321, comma 1, cod.proc.pen. in funzione dell'esigenza di evitare la protrazione della condotta criminosa.
11) Violazione ed errata applicazione dell'art.275 cod.proc.pen. in relazione ai principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità. Violazione e falsa applicazione dell'art.606, lett.e) cod.proc.pen. per apparente motivazione in ordine alla sussistenza del periculum in mora, come evincibile dallo stesso testo.
La misura cautelare è stata disposta in maniera totalitaria, senza motivazione alcuna in ordine all'impossibilità di sortire lo stesso risultato attraverso una misura meno invasiva quale poteva essere quella interdittiva. Il Tribunale non offre alcuna valutazione circa l'ineludibilità della misura applicata, al fine di evitare una esasperata compressione del diritto di proprietà, ignorando, altresì, il valore dei beni oggetto del sequestro, certamente non adeguato e proporzionato al prezzo e al profitto del reato. Tra il reato e l'azienda agricola di V.P. non vi è nessun nesso di pertinenza se non in termini di occasionalità, in quanto il ritenuto sfruttamento di braccianti agricoli era finalizzato solo al miglioramento della produttività dell'azienda stessa. Nel caso che ci occupa nessun bene aziendale è stato utilizzato per la consumazione del reato. Quanto al pericolo di aggravamento o protrazione delle conseguenze del reato, il Tribunale conferma solo una astratta prognosi di commissione di nuovi reati e non motiva in ordine alla concretezza ed attualità del pericolo di prosecuzione o agevolazione dell'attività illecita. Alle circostanze fattuali indicate dal Tribunale per dimostrare la sussistenza del periculum è agevole replicare che il periodo indicato in anni quattro è in realtà di due anni perché solo con la legge n.199/2016 è stata estesa la punibilità ai datori di lavoro; il numero di braccianti utilizzato dal V.P. è stato sporadico trattandosi di piccola azienda a conduzione familiare; le modalità cruente di comportamento sono estranee al V.P.;

dopo l'applicazione delle misure cautelari personali agli imprenditori (16.1.2019) non si è registrata alcuna condotta del V.P. astrattamente deviante.
IV) Violazione ed erronea applicazione del combinato disposto di cui agli artt.3, L.n.199/2016 e 321, comma 1, cod.proc.pen. in riferimento alla nomina dell'amministratore giudiziario.
Il Collegio ha ritenuto che la specifica doglianza costituisce questione riconducibile alle modalità esecutive ed attuative della misura, non autonomamente impugnabili (Cass.n.946/2018). In realtà, nel caso del V.P., il Tribunale avrebbe dovuto verificare la necessità della nomina, trattandosi di un'azienda a conduzione familiare, in stato di decozione, non in grado di fare fronte alle spese dell'amministratore.

 

Diritto



1. Il Collegio da atto preliminarmente che la richiesta di rinvio della udienza per adesione all'astensione proclamata dalla Unione Camere Penali per il giorno 28 gennaio 2020, formulata dal difensore presente, non è stata accolta - come da ordinanza a verbale - alla luce di univoca e consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui "In tema di astensione dalle udienza da parte del difensore che aderisca ad una protesta di categoria, l'art.4 del Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, secondo cui l'astensione non può riguardare le udienze penali afferenti misure cautelari, è riferibile anche ai provvedimenti cautelari reali, in quanto l'esigenza di cui all'art.321 cod.proc.pen. condivide con quella personale la medesima finalità preventiva" (in tal senso, Sez.3, n.38852 del 04/12/2017, Rv.273702; Sez.2, n.50339 del 03/12/2015, Rv.265527; Sez.6, n.39871 del 12/07/2013, Rv.256444).

2. Va ancora, in via preliminare, rammentato che "Il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo e probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi ricomprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice" (S.U., n.25932 del 29/05/2008, Rv.239692 e successive pronunce delle Sezioni semplici, tra cui Sez.2, n.18951 del 14/03/2017, Rv.269656).
Sul tema, si è ulteriormente precisato che il ricorso per violazione di legge, a norma dell'art.325, comma primo, cod.proc.pen. può essere proposto solo per mancanza fisica della motivazione o per la presenza di motivazione apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità manifesta, che può denunciarsi in sede di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di cui all'art.606, comma primo, lett.e), cod.proc.pen. (così Sez.2, n.5807 del 18/01/2017, Rv.269119; Sez.5, n.35532 del 25/06/2010, Rv.248129; Sez.6, n.7472 del 21/01/2009, Rv.242916).

3. Tanto premesso in diritto, il ricorso dei Pubblici Ministeri non può dirsi fondato.
Rileva il Collegio che il discrimine tra l'art.603-bis2 cod.pen. e l'art.240 cod.pen. (per quanto qui interessa) sta nel fatto che, mentre l'art.240 attribuisce al giudice la facoltà di ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto (comma primo) e prevede la confisca obbligatoria solo delle cose che costituiscono il prezzo del reato (comma secondo), l'art.603-bis 2 impone in tutti i suddetti casi la confisca obbligatoria.
Il Tribunale, nell'escludere che le aziende agricole dei ricorrenti potessero essere suscettibili, nel loro complesso, di confisca obbligatoria, ha richiamato la sentenza della Sez.6, n.17763 del 13/12/2018, Rv.275886 (resa in fattispecie del tutto differente da quella in esame) secondo cui "In tema di confisca di cose servite per la commissione del reato, è necessaria la sussistenza di un nesso di specifica, non occasionale e non mediata strumentalità tra il bene e la condotta criminosa, da valutare anche verificando la corrispondenza della misura cautelare adottata ai principi di adeguatezza e proporzionalità rispetto alla finalità della stessa".
Nell'escludere il nesso di strumentalità ha quindi argomentato che le aziende in parola, preesistenti rispetto alle condotte delittuose contestate, non furono certo costituite al fine di commettere il reato ex art. 603-bis cod.pen. quanto piuttosto lo sfruttamento dei braccianti venne utilizzato per migliorarne la produttività.
Si tratta di una motivazione non apparente né manifestamente illogica, che, seppure non condivisa dai Pubblici Ministeri ricorrenti, rimane immune dal prospettato vizio di legittimità.

4. I ricorsi degli indagati impongono le considerazioni che seguono e possono essere trattati per argomenti comuni, salvo esaminare anche i motivi specifici di ciascuna impugnazione.

5. Discutendosi unicamente di sequestro preventivo ex art.321, comma 1, cod.proc.pen., la prima questione da affrontare attiene al vizio di "ultrapetizione" prospettato dal solo V.P. sul presupposto di una mancata richiesta dei Pubblici Ministeri.
La doglianza è priva di fondamento.

Come già osservato dal Tribunale del Riesame, nella intestazione della richiesta di misura cautelare dei Procuratori della Repubblica di Matera si fa espresso riferimento anche all'art.321, comma 1, cod.proc.pen. e nel corpo dell'atto, come pure nell'ordinanza del GIP, si svolgono considerazioni sul pericolo di protrazione della condotta criminosa e sulla necessità del sequestro impeditivo.
Il Tribunale richiama correttamente il principio secondo cui "In tema di misure cautelari reali, non incorre nel vizio di ultrapetizione il provvedimento con il quale il giudice accoglie la richiesta di applicazione di sequestro preventivo, sulla base di una delle plurime finalità rappresentate dal P.M. nella domanda cautelare" (Sez.l., n.1313 del 4/11/2015, Rv.265720). Del resto la questione attiene alla salvaguardia dei diritti difensivi e del contraddittorio, che sul punto è stato garantito proprio dalla richiesta dei Pubblici Ministeri, contenente esplicito richiamo alla disposizione di cui al comma 1 dell'art.321 cod.proc.pen., tanto che sul vincolo di pertinenzialità e sul periculum in mora le difese si sono ampiamente soffermate (argomenta anche dal Sez.4, n.20862 del 16/4/2019, Rv.275876).

6. Del pari infondati sono motivi riguardanti, sotto vari profili, il fumus commissi delicti.
Richiamati i limiti di ricorribilità dei provvedimenti in materia di cautela reale, si osserva che l'ordinanza impugnata, pur nella sua sinteticità, contiene espressi richiami all'ordinanza genetica, in cui l'analisi delle singole posizioni degli indagati è sviluppata adeguatamente, nel rispetto del principio secondo cui "Il Tribunale del Riesame, in sede di controllo dei presupposti per l'adozione di una misura cautelare reale, deve verificare non solo l'astratta configurabilità del reato, ma anche, in modo puntuale e coerente, tutte le risultanze processuali e, quindi, sia gli elementi probatori offerti dalla pubblica accusa, sia le confutazione e gli elementi offerti dagli indagati che possano avere influenza sulla configurabilità e sulla sussistenza del "fumus" del reato contestato" (Sez.3, n.58008 del 11/10/2018, Rv.274693).
In particolare, il "fumus" del reato per cui si procede è stato ritenuto sussistente sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese dai denuncianti, I. e F., e dai vari braccianti agricoli, sentiti sia in sede di sommarie informazioni sia in incidente probatorio, costretti tutti a lavorare in condizioni di sfruttamento, delle intercettazioni e dei tabulati telefonici acquisiti, della documentazione in possesso dei due "caporali" M. e P. (documenti di identità dei lavoratori, carte bancomat/postepay, libretti smart, codici pin, schede i presenza, buste paga ed altro), nonché delle valutazioni espresse nelle ordinanze applicative di misure cautelari personali richiamate nel decreto di sequestro preventivo impugnato.

Il Tribunale si è soffermato sulle penose condizioni personali e di lavoro subite dai braccianti agricoli, sulla minima paga oraria, sull'orario lavorativo giornaliero (sino a 18- 20 ore senza riposo settimanale e con una pausa di appena 30 minuti), sulla carenza di servizi igienici nei campi, sulle minacce ed aggressioni subite dai "caporali" in caso di prestazioni lavorative non soddisfacenti, sull'estrema miseria delle baracche adibite ad abitazioni, sui canoni di locazione trattenuti direttamente dalle buste paga, sul divieto di portare con sé telefoni cellulari, elementi tutti che connotano lo sfruttamento dei braccianti, il cui evidente stato di bisogno li ha indotti ad accettare condizioni di vita e di lavoro ben lontane da quelle normativamente garantite ed anzi ai limiti della disumanità.
Si tratta dunque, anche sotto questo profilo, di una motivazione approfondita e congrua, in linea con il principio di diritto, richiamato nell'impugnata ordinanza, secondo cui "Il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall'accertamento della presenza dei gravi indizi di colpevolezza o dell'elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all'adozione della misura cautelare reale" (Sez.6, n.45908 del 16/10/2013, Rv.257383; Sez.6, n.10619 del 23/02/2010, Rv.246415; Sez.l, n.15298 del 04/04/2006, Rv.234212).
Non omette poi il Tribunale di evidenziare le migliaia di contatti telefonici tra le utenze dei "caporali" e quelle degli odierni ricorrenti per circa un biennio e la denuncia dei datori di lavoro all'Inps di un orario di lavoro ben inferiore a quello effettivo, elementi che corroborano, sempre sotto il profilo del "fumus", l'ascrivibilità del reato anche ai titolari, imprenditori di diritto e di fatto, delle aziende agricole interessate.
In conclusione, il provvedimento impugnato è completo e del tutto autosufficiente, nel senso che contiene le ragioni esplicative dei fatti costitutivi della pretesa cautelare, attraverso un'analisi critica degli stessi, anche alla luce degli elementi forniti dalla difesa - rimandandone un esame più approfondito alla fase dibattimentale a ciò riservata - avendo verificato ex novo, in modo puntuale e coerente, il "fumus" del reato configurato.

7. Ulteriore motivo sviluppato dai ricorrenti attiene al vincolo di pertinenzialità ed alla concretezza ed attualità del pericolo.
Sul vincolo di pertinenzialità tra le aziende sequestrate ed il reato oggetto di indagine il Tribunale motiva richiamando gli elementi di fatto acquisiti nel corso delle indagini e prestando corretta adesione alle pronunce di legittimità, secondo cui "Ai fini dell'adozione della misura cautelare del sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato finalizzato ad evitare la protrazione del reato, non è necessario accertare, a differenza di quanto richiesto per il sequestro ai fini di confisca, l'esistenza di un collegamento strutturale fra il bene da sequestrare e il reato commesso, in quanto la pertinenza richiesta dal primo comma dell'art.321 cod.proc.pen. comprende non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il

prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa" (Sez.3, n.9149 del 17/11/2015, Rv.266454); e che "L'espressione cose pertinenti al reato, cui fa riferimento l'art.321 cod.proc.pen., seppur più ampia di quella di corpo del reato, come definita dall'art.253 cod.proc.pen., comprendendo non solo le cose sulle quali o a mezzo delle quali il reato fu commesso o che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, ma anche quelle legate solo indirettamente alla fattispecie criminosa, non si estende sino al punto di attribuire rilevanza a rapporti meramente occasionali con la rese l'illecito penale" (Sez.2, n.28306 del 16/04/2019, Rv.276660).
Sotto il secondo aspetto, si osserva che "Il periculum in mora deve presentare i requisiti della concretezza e attualità e richiede che sia dimostrato un legame funzionale essenziale, e non meramente occasionale, fra il bene e la possibile commissione di ulteriori reati o l'aggravamento o la prosecuzione di quello per cui si procede" (Sez.3, n.42129 del 8/4/2019, Rv.277173).
Orbene, il Tribunale non ha omesso di motivare sul punto, avendo ineccepibilmente affermato che l'ampio periodo temporale in cui si è protratta l'attività di sfruttamento di manodopera agricola, il numero di braccianti coinvolti nel fenomeno illecito e le modalità spesso cruente con le quali questi sono stati costretti a subire condizioni di lavoro assai degradanti, costituiscono elementi concretamente significativi del pericolo di protrazione della condotta delittuosa e di aggravamento delle relative conseguenze, mentre la disponibilità delle aziende in mano ai ricorrenti consente loro di continuare ad utilizzare manodopera agricola in condizioni così indecorose e mortificanti per ottenere maggiori utili ed ingiusti profitti.
Non si tratta - come sostengono i ricorrenti - di considerazioni meramente astratte e prive di concreti riscontr, ma di valutazioni supportate da obiettivi dati fattuali, costituiti in particolare dal contenuto delle conversazioni telefoniche captate ( richiamate a pag.10 dell'ordinanza) dalle quali emerge che dopo l'arresto dei "caporali" gli odierni ricorrenti si erano adoperati, sia personalmente, sia avvalendosi dell'apporto di M. - altra indagata che poi avrebbe assunto la gestione diretta della medesima attività illecita
- per contattare, impiegare e gestire quella parte di lavoratori rumeni che erano rimasti nel territorio del metapontino, il tutto al fine di continuare, evidentemente, ad ottenere ingiusti profitti mediante lo sfruttamento delle prestazioni lavorative dei braccianti agricoli.

8. I ricorrenti, ad eccezione dei fratelli M., deducono ancora violazione dell'art.275 cod.proc.pen. con riferimento all'adeguatezza e proporzionalità della misura.
La censura è priva di pregio.
Questa Corte Suprema ha già statuito nel senso che "I principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, dettati dall'art.275 cod.proc.pen. per le misure cautelari personali, sono applicabili anche al sequestro preventivo ed impongono al giudice di motivare adeguatamente sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata" (Sez.2, n.29687 del 28/5/2019, Rv.276979; Sez.3, n.27840 del 23/03/2016, Rv.267055; Sez.3, n.21271 del 7/5/2014, Rv.261509).
Nel caso di specie, si impongono le seguenti considerazioni.
Fermo restando quanto già correttamente argomentato dal Tribunale sul vincolo di pertinenzialità, si osserva innanzi tutto che i ricorrenti parlano in maniera assolutamente generica di possibili misure interdittive alternative al sequestro, senza citare la fonte normativa che ne consentirebbe l'applicazione in relazione alla fattispecie criminosa in esame. In secondo luogo i ricorsi sono privi sul punto della necessaria specificità, anche laddove si contesta che il vincolo cautelare ricadrebbe su beni aziendali ma non destinati all'attività agricola (quali le case di abitazione, mezzi agricoli non utilizzati dai braccianti), senza fornire alcun dettagliato elemento di individuazione sui beni di riferimento, fermo restando che il Tribunale ha già escluso dal vincolo cautelare due autocarri estranei all'azienda di V.P. avendo evidentemente l'interessato in sede di riesame offerto elementi a sé favorevoli.
Peraltro, il sequestro preventivo non implica lo spossessamento dell'attuale utilizzatore degli immobili, o dei beni mobili, e dunque non provoca un sacrificio inutile dei diritti il cui esercizio non pregiudica le finalità cautelari perseguite attraverso l'apposizione del vincolo, né priva i ricorrenti della disponibilità delle case di abitazione, qualora costituiscano beni aziendali.
Si tratta dunque di motivi generici, aspecifici e manifestamente infondati, anche in considerazione della prosecuzione delle attività aziendali attraverso la nomina dell'amministratore giudiziario.

9. Le doglianze relative alla nomina dell'amministratore giudiziario non sono prospettabili in sede di legittimità.
Giova ricordare infatti che "In tema di sequestro preventivo, i provvedimenti del giudice in ordine alla nomina e all'operato dell'amministratore giudiziario, non attenendo a/l'applicazione o alla modifica del vincolo cautelare, ma alle modalità esecutive ed attuative della misura, non sono autonomamente impugnabili, essendo consentita la sola opposizione dinanzi al giudice dell'esecuzione, al quale compete il controllo di legittimità delle modalità di esecuzione della misura" (Sez.2, n.946 del 21/11/2018, Rv.274723; Sez.6, ord.n.22843 del 26/4/2018, Rv.273391).
Quanto all'art.3 della legge n.199/2016 - che, nei procedimenti concernenti il reato di cui all'art.603-bis cod.pen., consente al giudice, in presenza dei presupposti indicati dall'art.321, comma 1, cod.proc.pen., di disporre il luogo del sequestro dell'azienda presso cui è stato commesso il reato, il controllo giudiziario dell'azienda stessa, qualora l'interruzione dell'attività imprenditoriale possa comportate ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale - il Tribunale motiva sul fatto che non è stato disposto il controllo giudiziario dell'azienda perché dalle indagini non ne sono emerse le condizioni, e quindi il richiamo a tale norma da parte dei ricorrenti è del tutto inconferente.

10. Ne deriva il rigetto dei ricorsi e la condanna degli indagati ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.




Rigetta il ricorso del P.M. Rigetta gli altri ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 28 gennaio 2020