Cassazione Penale, Sez. 2, 28 settembre 2020, n. 26957 - Atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. nei confronti di due colleghi




REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMMINO Matilde - Presidente -
Dott. MESSINI D’AGOSTINI Piero - Consigliere -
Dott. BORSELLINO Maria - Consigliere -
Dott. SGADARI G. - est. Consigliere -
Dott. TUTINELLI V. - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA


sul ricorso proposto da:
C.D., nato A (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 28/10/2019;
sentita la relazione del consigliere Dr. Giuseppe Sgadari;
lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona del sostituto procuratore generale Dr. Marinelli Felicetta, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso;
lette le conclusioni scritte del difensore dell'imputato, avv. Fabio Federico, con le quali ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
 

 

Fatto


1.Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Appello di Roma, parzialmente riformando la sentenza del Tribunale di Roma del 9 aprile 2018, confermava la responsabilità del ricorrente per i reati di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), commessi nei confronti di due diverse persone offese, suoi colleghi appartenenti alla Polizia Penitenziaria distaccata presso il Ministero della Giustizia, che reiteratamente disturbava e minacciava con vari comportamenti (telefonate e lettere anonime, danneggiamenti, scritte sui muri), provocandone uno stato di ansia e paura che si era esteso anche al nucleo familiare delle vittime (capi 1 e 2), nonchè per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato, per avere percepito somme per attività lavorativa non espletata, allontanandosi più volte dal luogo di lavoro (il Ministero di Giustizia) senza timbrare il cartellino ed al fine di effettuare alcune delle tante telefonate moleste alla persona offesa D.G. (capo 3).
2. Ricorre per cassazione C.D., deducendo:
1) vizio della motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità per il reato di atti persecutori di cui al capo 1), commesso nei confronti di D.G.G..
Secondo il ricorrente la Corte di Appello avrebbe travisato le prove d'accusa.
In particolare, dall'analisi dei dati del GPS del telefono cellulare dell'imputato, era emerso che soltanto in qualche occasione (appena cinque su sessantotto) egli si sarebbe trovato in luoghi compatibili con quelli dai quali erano partite le telefonate anonime da cabine pubbliche di Roma dirette alla persona offesa.
Tale dato avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a ritenere che il ricorrente non fosse stato l'artefice della maggior parte delle telefonate moleste secondo quanto contestatogli.
Ai fgg. 5 e 6 del ricorso, si sottolineano alcune chiamate registrate in giorni determinati, che escluderebbero in radice la stessa possibilità di attribuirle all'imputato.
Tali rilievi, evidenziati nell'atto di appello, sarebbero stati del tutto pretermessi dalla Corte di merito;
2) vizio della motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità sempre con riguardo al reato di cui al capo 1).
La Corte di Appello non avrebbe fornito alcuna risposta neanche alla deduzione difensiva secondo la quale la lettera ricevuta dalla moglie della persona offesa, così come la telefonata anonima che l'aveva preceduta, non sarebbero state opera del ricorrente, ma di una donna che informava il coniuge della vittima del fatto che il marito avesse una amante. La voce al telefono, infatti, sarebbe stata quella di una donna, circostanza del tutto trascurata dalla Corte di Appello.
Inoltre, la Corte avrebbe erroneamente attribuito carattere minaccioso ad altra lettera ricevuta dalla vittima e contenente una offerta di acquisto di sedia a rotelle ed altro materiale ortopedico, senza tenere conto che nell'atto di appello si era evidenziato come la persona offesa, nel periodo di riferimento, avesse subito un intervento chirurgico di natura ortopedica;
3) violazione di legge in ordine alla stessa configurabilità del reato di cui al capo 1), dal momento che le telefonate mute all'utenza della vittima, quand'anche numerose, protratte nel tempo ed effettuate in orario anche notturno, avrebbero potuto semmai integrare il reato di molestie di cui all'art. 660 c.p., secondo gli insegnamenti giurisprudenziali indicati in ricorso.
Il ricorrente evidenzia, sul punto e più in generale, che la Corte avrebbe operato una indebita commistione tra gli elementi di prova relativi al reato di cui al capo 1), e quelli inerenti al reato sub capo 2), relativo alla diversa vicenda avente come persona offesa P.M., anch'egli vittima di atti persecutori (fg. 14 del ricorso);
4) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità per il reato di atti persecutori di cui al capo 2), commesso nei confronti di P.M., nonchè in ordine al rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento in appello finalizzata ad effettuare una perizia sulla riconducibilità al ricorrente delle scritte apposte sui muri prospicienti l'abitazione della vittima.
Nel contrasto tra quanto affermato in proposito dal consulente difensivo e dai consulenti del Pubblico Ministero, la Corte non avrebbe potuto esimersi dal disporre la perizia di tipo grafologico richiesta con l'atto di appello ed avente ad oggetto l'unica condotta contestata all'imputato al capo 2).
Peraltro, neanche le consulenti del PM avrebbero affermato con certezza la riconducibilità alla mano del ricorrente delle scritte murarie, piuttosto riferendosi alla grafia delle missive di cui al capo 1), con un giudizio che non avrebbe dovuto essere valorizzato per la prova del reato di cui al capo 2);
5) violazione di legge in ordine alla affermazione di responsabilità per tale ultimo reato, tenuto conto che la condotta consistita nella apposizione, in un'unica circostanza temporale, delle scritte murarie di fronte all'abitazione della vittima l'unico fatto indicato nel capo di imputazione al quale occorre fare riferimento senza violare il principio di correlazione tra accusa contestata e sentenza - non avrebbe potuto integrare il reato di cui all'art. 612-bis c.p., ma, semmai, il delitto di minaccia, mancando l'elemento costitutivo della reiterazione abituale del comportamento illecito. Anche in questa circostanza, la Corte avrebbe valorizzato indebitamenti fatti relativi al reato di cui al capo 1);
6) violazione di legge quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di truffa ai danni dello Stato di cui al capo 3).
Secondo il ricorrente, mancherebbe, dal punto di vista oggettivo, un danno economicamente apprezzabile per la vittima, posto che il breve allontanamento dell'imputato dal luogo di lavoro, aveva procurato allo Stato un pregiudizio di soli 13,75 Euro (secondo l'imputazione), penalmente irrilevante per mancanza di offensività della condotta; dal punto di vista soggettivo, inoltre, la condotta non sarebbe stata assistita dal dolo, in quanto il fine del ricorrente non era quello di commettere una truffa ma di effettuare la telefonata alla persona offesa D.G.;
7) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
 

Diritto


Il ricorso è manifestamente infondato.
Il ricorrente è stato condannato in entrambi i giudizi di merito con motivazione conforme.
La pacifica giurisprudenza di legittimità ritiene che, in tal caso, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrino a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello, come nel caso in esame, abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicchè le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., sez. 2, n. 1309 del 22 novembre 1993, dep. 4 febbraio 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250; sez. 3, n. 13926 del 1 dicembre 2011, dep. 12 aprile 2012, Valerio, rv. 252615).
Si osserva, ancora, che la doppia conformità della decisione di condanna dell'imputato ha decisivo rilievo con riguardo ai limiti della deducibilità in cassazione del vizio di travisamento della prova lamentato dal ricorrente.
E' pacifico, infatti, nella giurisprudenza di legittimità, che tale vizio può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta doppia conforme, sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (cosa non verificatasi nella specie), sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi; Sez.4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine).
1.Fatta questa premessa in diritto, con riguardo ai primi tre motivi di ricorso, che investono il giudizio di responsabilità per il reato di atti persecutori di cui al capo 1), le conformi motivazioni delle sentenze di merito non rivelano alcun vizio di travisamento della prova.
Il ricorrente, nel censurare la sentenza impugnata, omette di confrontarsi adeguatamente con l'intera motivazione, nella parte in cui ha fatto riferimento alla circostanza che la sicura riferibilità all'imputato delle numerosissime telefonate anonime ricevute dalla persona offesa (non sempre mute ma in alcune circostanze contenenti minacce di morte, cfr. fgg. 3 e 4 della sentenza di primo grado) avesse ricevuto un avallo decisivo dal fatto che il ricorrente era stato colto da appartenenti alla polizia giudiziaria, in una specifica occasione, nell'atto di telefonare alla vittima senza alcuna plausibile giustificazione, adottando lo stesso metodo della telefonata muta con battiti della cornetta utilizzati in altre precedenti telefonate, secondo quanto riferito dalla persona offesa.
Inoltre, dalla cabina telefonica all'interno della quale l'imputato era stato scoperto - che si trovava a poca distanza dal Ministero della Giustizia ove egli prestava servizio - si era accertato che fossero partite alcune chiamate precedenti.
Ancora, la vittima era stata raggiunta da due lettere anonime attribuite all'imputato sulla base di un accertamento grafologico che neanche il ricorso contesta, la richiesta di rinnovazione dibattimentale attenendo alle sole scritte murarie di cui al capo 2).
Il fatto che la telefonata anonima che aveva preceduto una lettera fosse stata effettuata da una donna, secondo quanto si sostiene in ricorso, non esclude, come ritenuto implicitamente dal Tribunale, che il ricorrente potesse anche essersi avvalso di complici in singole circostanze.
Ancora, in alcune occasioni (almeno otto secondo lo stesso atto di appello, mentre in ricorso si dice che fossero state cinque) l'analisi dei dati del GPS aveva rilevato come effettivamente l'imputato si trovasse in luoghi pubblici compatibili con quello nel quale si trovava la cabina telefonica di volta in volta utilizzata per effettuare la chiamata anonima.
In nessun passaggio delle sentenze di merito emerge che il GPS fosse stato installato dalla polizia giudiziaria per seguire l'imputato fin dall'inizio delle indagini, essendo pervenute alla vittima delle chiamate anonime per oltre un anno.
Tali elementi, già ampiamente idonei a supportare il giudizio di responsabilità per il reato di cui al capo 1), superando le obiezioni difensive, risultano definitivamente confermati dalla puntuale e logica ricostruzione di tutta la vicenda processuale effettuata dalla Corte di Appello e dal Tribunale, che hanno cementato le diverse risultanze relative agli atti di stalking di cui ai capi 1) e 2), all'interno di una medesima cornice, avente un unico movente volto a colpire due colleghi di lavoro del ricorrente ritenuti da costui colpevoli di condotte negative nei suoi confronti relative all'ambito sindacale.
In questo senso, la Corte ha messo in rilievo non solo il legame che intercorreva tra le vittime e l'imputato, ma anche le rilevanti analogie dei comportamenti illeciti di quest'ultimo ed il fatto che gli atti persecutori fossero stati commessi in uno stesso contesto temporale, nel quale, anche formalmente, l'imputato aveva mosso ai colleghi delle pressanti critiche per mezzo della compagine sindacale della quale egli faceva parte.
La Corte, ad esempio, ha segnalato che la telefonata anonima alla persona offesa del capo 1) - quella che aveva permesso di cogliere il ricorrente in flagranza - era stata effettuata tre giorni dopo la spedizione della lettera alla persona offesa di cui al capo 2), che l'imputato non ha negato.
Ne consegue che, la sentenza impugnata, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, non ha effettuato una indebita commistione di dati processuali relativi a due distinte vicende fattuali racchiuse in due distinte imputazioni, ma ha raccolto gli elementi di prova ad esse relativi fondendoli nella individuazione del movente delle condotte, elemento sicuramente idoneo ad arricchire la decisione di condanna e confermato da intercettazioni telefoniche sulle quali si è soffermata con più dettaglio la sentenza di primo grado (fgg. 10 e 11), rivelative del fatto che il ricorrente nutrisse un potente malanimo nei confronti delle vittime, come confermato dalla Corte di merito.
Di tutta questa opera ricostruttiva, volta a spiegare le ragioni della condotta illecita, dopo la individuazione dei singoli segmenti dell'azione, il ricorso non fa menzione, dimostrando la sua genericità e la mancanza di valenza dimostrativa delle specifiche censure su presunte mancate risposte a singole deduzioni dell'atto di appello, che rimangono ininfluenti ed ampiamente assorbite da quella parte della motivazione della sentenza impugnata con la quale il ricorso non si confronta. Infine, l'estensione della condotta del ricorrente non soltanto a telefonate "mute", ma a telefonate minacciose, ad SMS anche minacciosi, a lettere anch'esse contenenti velate minacce (come quella relativa alla necessità di una sedia a rotelle per la vittima, secondo la valutazione di merito effettuata dalla Corte con giudizio non rivedibile) giustificano la decisione della Corte di Appello, in uno alla durata della condotta per oltre un anno ed al movente di essa, di ritenere sussistente il reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p. e non altre fattispecie meno gravi.
La Corte ha infatti in luce che la condotta del ricorrente, avente connotati di abitualità, aveva provocato un effettivo danno alla vittima, consistente in un rilevante stato di ansia, suo e dei suoi familiari (come specificato dalle sentenze a proposito dei comportamenti del figlio adolescente della persona offesa, cfr. fg. 4 della sentenza di primo grado), secondo quanto richiesto dalla norma incriminatrice contestata e a differenza della contravvenzione di cui all'art. 660 c.p. od anche del reato di minaccia (in questo senso, Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015, G., Rv. 262517; N. 23485 del 2014, Rv. 260083).
2. In ordine al quarto ed al quinto motivo di ricorso, con i quali si censura il giudizio di responsabilità per il reato di atti persecutori di cui al capo 2), deve rilevarsi che la condotta abusiva commessa dal ricorrente nei confronti della vittima P.M., secondo la completa ricostruzione delle conformi sentenze di merito, non era consistita soltanto nella apposizione di scritte murarie offensive e minacciose su pareti prospicenti all'abitazione della persona offesa, ma anche nel recapitare buste a casa bianche, nell'inviare SMS al cellulare e in un rilevante danneggiamento dell'autovettura della vittima.
Il ricorso, riferendosi alle sole scritte murarie, mostra di essere del tutto generico, non soltanto in ordine alla qualificazione giuridica del fatto (tenuto in conto, anche in questo caso, che il ben più ampio raggio delle condotte abusive del ricorrente aveva portato la vittima addirittura ad assumere un servizio di vigilanza notturna della sua abitazione, a documentare lo stato di preoccupazione sua e del nucleo familiare), ma anche in relazione alla rilevanza attribuita al rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale finalizzata all'approfondimento dell'analisi grafologica delle predette scritte, posto che, in una visione di insieme delle condotte commesse (sulla quale il ricorso glissa del tutto), tale aspetto non assumeva, nel giudizio della Corte esente da vizi logici, alcun carattere decisivo, anche in considerazione di quanto prima si è detto a proposito dell'unitario movente delle condotte, che nella vicenda in esame, come sostengono le sentenze di merito, assumeva connotati risolutivi.
Si ricordi, in proposito, che in tema di ricorso per cassazione può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione di determinate prove in appello (da ultimo, Sez, 6, n. 1440 del 22/10/2014, dep.2015, PR).
Sotto altro verso, solo con il ricorso per cassazione il ricorrente adombra una presunta mancata correlazione tra accusa contestata e sentenza - in ordine all'esatto perimetro delle condotte contestate al capo 2) - che non aveva formato oggetto dell'atto di appello e che, inerendo ad una questione formale ex artt. 521 e 522 c.p.p., non è proponibile per la prima volta in sede di legittimità (sul punto e da ultimo Sez. 4, n. 19043 del 29/03/2017, Privitera, Rv. 269886).
3. Quanto al sesto motivo di ricorso, che attiene alla sussistenza del reato di truffa, non è contestata la circostanza che il ricorrente avesse evitato di registrare con il badge" il suo allontanamento dall'ufficio, avvenuto non soltanto nella occasione della telefonata del 25 giugno del 2012 in cui egli era stato scoperto, ma anche in altre occasioni, ancorchè brevi, come contestatogli nella imputazione sub capo 2). Che l'intento fosse stato quello di minacciare la vittima non esclude che consapevolmente, secondo quanto precisato dalla sentenza del Tribunale, l'imputato avesse omesso di registrare l'uscita non per mera disattenzione, percependo emolumenti non dovuti (a fg. 7 della sentenza di primo grado, sono state specificamente confutate e ritenute del tutto inverosimili le giustificazioni offerte dal ricorrente, che il ricorso reitera addentrandosi in una questione attinente al merito del giudizio).
Inoltre, nella valutazione del danno arrecato allo Stato, come correttamente ha accennato la Corte di Appello, non occorre rapportarsi al solo elemento squisitamente economico (invero esiguo nella specie. ma pur sempre presente) ma agli effetti sulla organizzazione dell'ente e sul rapporto fiduciario con il dipendente, che ne esce fortemente leso dalla condotta commessa (Sez. 2, n. 3262 del 30/11/2018, dep. 2019, Rv. 274895).
Ne consegue la manifesta infondatezza anche di questo motivo di ricorso.
7. Infine, la Corte ha negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con argomenti di merito volti a delineare la gravità del fatto, per essere connotato da reiterate condotte assai lesive della serenità delle vittime.
Si è fatto espresso riferimento, quindi, ad uno dei parametri di cui all'art. 133 c.p., dovendosi rammentare che ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche è sufficiente che il giudice di merito prenda in esame quello, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno la concessione del beneficio; ed anche un solo elemento che attiene alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti medesime. (Cass. Sez. 2 sent. n. 4790 del 16.1.1996 dep. 10.5.1996 rv 204768).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle Ammende, commisurata all'effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità.
 

P.Q.M.
 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili D.G.G. e P.M. nel presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4000,00 oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Così deciso in Roma, nella Udienza pubblica, il 7 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020